Vitamina D e diabete

Luigi Gennari

Dipartimento di Scienze Mediche, Chirurgiche e Neuroscienze, Università di Siena;

Policlinico Santa Maria alle Scotte, Siena

Introduzione

La vitamina D, nella forma del suo metabolita attivo 1,25(OH)2 vitamina D [1,25(OH)2D] o calcitriolo, è un ormone essenziale per il metabolismo del calcio e per l’omeostasi scheletrica. Agisce principalmente a livello intestinale, regolando l’assorbimento di calcio e consentendo quindi una adeguata mineralizzazione della matrice ossea (1-2). È prodotta in larga parte a livello cutaneo, a partire dal 7-deidrocolesterolo, sotto lo stimolo delle radiazioni solari ma in misura minore può essere introdotta con la dieta (quasi esclusivamente nei grassi animali) e viene idrossilata a livello epatico in 25OH-vitamina D (25OHD) ad opera dell’enzima 25-idrossilasi e, successivamente, a livello renale in 1,25(OH)2D per opera della 1α-idrossilasi (2). Quest’ultimo enzima è comunque espresso in altri tessuti tra cui le paratiroidi e la componente insulare del pancreas, che sono quindi in grado di formare il metabolita attivo localmente (3).

Lo stato vitaminico D viene essenzialmente determinato dalla misurazione dei livelli circolanti di 25OHD, che è il principale metabolita circolante e rappresenta la forma di accumulo di vitamina D (con emivita di circa 2-3 settimane): valori al di sotto di 20 ng/ml (50 nmol/l) sono considerati indicativi di uno stato di insufficienza mentre valori compresi tra 20 e 30 ng/ml (50-75 nmol/l) sono espressione di una condizione di carenza (1, 4-5). L’ipovitaminosi D è un problema molto diffuso a livello mondiale, soprattutto negli anziani e nei soggetti istituzionalizzati, con particolare rilievo in Asia e nel Medio Oriente, dove si stima che circa il 75% della popolazione abbia una carenza o uno stato di insufficienza (5-6). Una carenza cronica e grave di vitamina D (con livelli serici di 25OHD spesso al di solito di 10 ng/ml) causa un difetto della mineralizzazione ossea chiamato osteomalacia nell’adulto, mentre se insorge in fase di accrescimento determina il rachitismo (1).

Biochimicamente l’osteomalacia è caratterizzata da concentrazioni normali o basse di calcio e fosfato, e una maggiore attività della fosfatasi alcalina. Le principali cause di carenza vitaminica D sono una scarsa esposizione alla luce solare, un declino nella sintesi cutanea, una scorretta alimentazione, ed una ridotta idrossilazione renale (1, 5). Un deficit meno marcato di vitamina D di quello indicativo dello stato di carenza è molto comune alle nostre latitudini e particolarmente durante l’invecchiamento. Questa condizione, che è stata definita con il termine di insufficienza vitaminica D, è considerata come un’entità patologica scheletrica distinta dall’osteomalacia (7), caratterizzata da normocalcemia e normale mineralizzazione ossea, con un aumento relativo dei livelli di ormone paratiroideo (PTH) circolante. In presenza di osteoporosi, l’insufficienza di vitamina D può aggravare la perdita di massa ossea e aumentare di conseguenza il rischio di frattura. Ne consegue che a qualsiasi età, ma soprattutto in postmenopausa e negli anziani, un adeguato apporto di calcio e vitamina D, sia estremamente importante per la conservazione della massa ossea e la prevenzione dell’osteoporosi (1, 7).

Al di là dei ben riconosciuti effetti scheletrici, la vitamina D può agire in numerosi tessuti (dato che il suo recettore, VDR, è espresso da molte linee cellulari) tanto che numerose evidenze suggeriscono un suo possibile ruolo nella prevenzione della sarcopenia, nella regolazione del sistema immunitario e nella riduzione del rischio di molte patologie comuni, incluso il diabete mellito (8).

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VITAMINA D E DIABETE TIPO 2

Evidenze Epidemiologiche ed Osservazionali

Numerose evidenze epidemiologiche suggeriscono un’associazione tra deficit vitaminico D, intolleranza glicemica e patologia diabetica, verosimilmente legata sia a meccanismi diretti (mediati dal VDR a livello delle cellule pancreatiche) che indiretti (legati alla riduzione dei livelli di calcio e/o dagli effetti sulle cellule del sistema immunitario). In particolare una correlazione inversa tra livelli circolanti di 25OHD e prevalenza del diabete di tipo 2 è stata descritta in ampie casistiche come quelle del “European Prospective Investigation into Cancer (EPIC)-Norfolk Study”, del “National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES)” e del “Medical Research Council Ely Study” (9-11), così come in recenti meta-analisi dei principali studi osservazionali (12-14). In molti di questi studi una riduzione dei livelli di 25OHD è stata anche associata ad incrementi della glicemia, insulino-resistenza e disfunzione beta-cellulare (15-16). Analogamente, esistono chiare correlazione tra stato di carenza vitaminica D e diabete gestazionale (17), condizione che di per se rappresenta un importante fattore di predisposizione per il successivo sviluppo di diabete di tipo 2. Sempre dal punto di vista epidemiologico è interessante notare che, proprio per il documentato effetto dell’irradiazione solare sulla sintesi cutanea di vitamina D, la prevalenza di ipovitaminosi D incrementa progressivamente con la latitudine e che un analoga tendenza si osserva anche per la prevalenza del diabete (sia di tipo 1 che di tipo 2) (6).

Nonostante la maggior parte delle evidenze epidemiologiche sembri confermare la relazione tra ipovitaminosi D e rischio di diabete di tipo 2, tale correlazione non è sempre univoca e sembra essere almeno in parte condizionata dal peso corporeo (18-19), visto che i livelli di 25OHD sono più frequentemente ridotti nei soggetti obesi e che buona parte dei pazienti con diabete di tipo 2 presenta un incremento del peso corporeo. Tale evidenza spiegherebbe anche la frequente associazione tra carenza vitaminica D e sindrome metabolica (6). Per tale motivo, recenti indagini epidemiologiche suggerirebbero che l’effetto protettivo degli elevati livelli di vitamina D sull’incidenza di diabete di tipo 2 sia in larga parte legato all’effetto del peso corporeo, tanto che l’associazione inversa tra incidenza di diabete e livelli di vitamina D si attenua notevolmente qualora i dati vengano normalizzati per il BMI (20). Altri studi prospettici, inoltre, non sono stati in grado di evidenziare alcuna associazione tra valori di vitamina D e rischio di sviluppare il diabete di tipo 2 in soggetti anziani (21). I meccanismi alla base della riduzione dei livelli circolanti di 25OHD nell’obesità non sono del tutto conosciuti e potrebbero essere legati a diversi fattori tra cui: a) inadeguato apporto dietetico e/o ridotta sintesi cutanea legati ad uno stile di vita non corretto; b) inefficace sintesi di 25OHD a livello epatico; c) sequestro di vitamina D da parte delle cellule adipose e d) “diluizione volumetrica” conseguente all’incremento della massa corporea (16).

Numerose evidenze suggerirebbero infine che l’ipovitaminosi D si associ ad un maggior rischio ed una maggiore severità delle complicanze cardiovascolari della patologia diabetica, nonché ad un incremento del rischio di caduta e di frattura (22-25).

Evidenze Sperimentali

Parallelamente alle evidenze epidemiologiche, numerosi studi su modelli cellulari e animali suggeriscono un ruolo protettivo della vitamina D sulla beta-cellula con effetti antagonisti su molti dei meccanismi patogenetici alla base dell’insorgenza del diabete di tipo 2 (Fig. 1).

28_4_Rassegna_3_Fig.1

Innanzitutto, il VDR è espresso sia a livello della beta-cellula pancreatica che dei principali tessuti bersaglio dell’insulina, ed in particolar modo nel tessuto muscolare (26). Inoltre, una condizione di intolleranza al glucosio per disfunzione beta-cellulare è stata una delle prime manifestazioni extrascheletriche descritte in conseguenza alla carenza vitamina D in modelli animali (27-29). In particolare, in corso di infusione con glucosio ed arginina, il pancreas di ratti con deficit di vitamina D manifesta una ridotta secrezione insulinica che può essere normalizzata con il ripristino di normali livelli di vitamina D (27). Al contrario, la carenza vitaminica D non sembra influenzare la secrezione pancreatica di glucagone. Successivamente, altre osservazioni sperimentali hanno dimostrato che la terapia con vitamina D migliora il compenso glicemico in modelli murini di diabete di tipo 2 (30). A livello cellulare, il metabolita attivo della vitamina D, la 1,25(OH)2D si lega al suo recettore, presente nella beta-cellula, andando a stimolare positivamente l’espressione del recettore insulinico e promuovendo il trasporto di glucosio insulino-mediato (31). Inoltre, sempre a livello della beta-cellula, la vitamina D promuove l’espressione di geni coinvolti nella crescita cellulare, nell’organizzazione del citoscheletro, nel traffico intracellulare, nella formazione di giunzioni intercellulari ed infine nella secrezione insulinica (31). Parallelamente agli effetti pancreatici, la vitamina D potrebbe anche attenuare lo stato cronico infiamatorio frequentemente osservato nei pazienti obesi con diabete di tipo 2 riducendo la secrezione delle citochine infiammatorie da parte dei macrofagi attivati e limitando quindi i danni sulla beta-cellula e sulla insulino sensibilità mediati dall’infiammazione (32). Infine, alcuni studi avrebbero evidenziato un effetto diretto inibitorio della vitamina D sul sistema renina-angiotensina, attenuando pertanto gli effetti negativi dell’attivazione di tale sistema a livello pancreatico sulla funzione beta-cellulare e sulla sensibilità all’insulina (33-34). Infatti, i topi knockout per il recettore della vitamina D hanno un’iperattivazione del sistema renina-angiotensina a livello delle insule pancreatiche analogamente a quanto osservato nelle insule di topi normali, incubate ex vivo in condizioni di elevato carico glucidico. Tale iperattivazione può essere prevenuta, nelle insule di topi normali, mediante trattamento con calcitriolo, che determina anche un incremento della capacita secretoria della beta- cellula (33).

Oltre ai possibili effetti diretti della vitamina D sulla secrezione e la sensibilità insulinica, vi sono anche le implicazioni mediate dalla variazione dei livelli di calcio, conseguente all’ipovitaminosi D. È infatti noto che il calcio svolge un ruolo chiave sui meccanismi di secrezione e di azione dell’insulina, che vengono generalmente compromessi sia in condizioni di ipercalcemia che di ipocalcemia (35). A sostegno dell’importanza di tale meccanismo, ulteriori dati sperimentali dimostrano che sia la funzione beta-cellulare che il compenso glicemico del topo knockout per il recettore della vitamina D possono essere migliorati dal ripristino di normali valori di calcemia (36).

Evidenze cliniche su base prospettica

Nonostante le convincenti premesse emerse dai dati epidemiologici e soprattutto dalle osservazioni sperimentali, ad oggi, le evidenze provenienti da trials clinici prospettici a favore di un effetto benefico dell’utilizzo della vitamina D sulla prevenzione del diabete mellito tipo 2 e sul miglioramento del compenso glicemico nel paziente diabetico sono limitate e contrastanti.

Iniziali indagini su piccole casistiche hanno suggerito che, in particolari condizioni di carenza vitaminica D e nei pazienti dializzati, la supplementazione con elevate dosi di vitamina D sarebbe in grado di migliorare il compenso glicemico (37-39). Ad esempio, in uno studio neozelandese condotto su donne di razza asiatica con insulino-resistenza e livelli di 25OHD al di sotto di 20 ng/mL, il trattamento giornaliero con 4000 IU di vitamina D3 per 6 mesi ha determinato un miglioramento dei parametri di insulino-sensibilità ed insulino-resistenza calcolati mediante HOMA index, senza modificazioni nella secrezione insulinica rispetto al placebo, particolarmente in coloro che avevano raggiunto livelli di 25OHD al di sopra di 32 ng/mL (39). Analoghe ricerche in casistiche di pazienti con diabete gestazionale sembrerebbero confermare il beneficio della terapia con vitamina D sulla sensibilità insulinica e sul compenso glicemico (40).

Al contrario, i risultati dei principali studi randomizzati, a doppio cieco, hanno in gran parte messo in discussione il ruolo della supplementazione con vitamina D nel diabete di tipo 2 (41-42). Una revisione dei dati del Women Health Initiative ha concluso che il trattamento con composti a base di calcio e vitamina D (1000 mg di calcio + 400 IU di vitamina D3 al die) per 7 anni non è efficace nel ridurre l’incidenza di diabete nella donna in menopausa (41), suggerendo comunque che dosaggi più elevati potrebbero essere necessari per evidenziare gli effetti del trattamento sul compenso glicemico. In un successivo studio su un esiguo numero di soggetti con prediabete ed ipovitaminosi D il trattamento con dosi di vitamina D sufficienti a raggiungere normali livelli di 25OHD per 1 anno non ha comportato modificazioni delle glicemie a digiuno e postprandiali, della secrezione insulinica e dei parametri di insulino-resistenza, così come della percentuale di soggetti che hanno sviluppato diabete di tipo 2 rispetto al gruppo placebo (42). Simili conclusioni sono state raggiunte in una più recente revisione dei principali trials clinici con vitamina D nel diabete di tipo 2 (43). In particolare, una metanalisi su 35 trials clinici randomizzati pubblicati tra il 1984 ed il 2013 non ha evidenziato effetti significativi della terapia con vitamina D sui parametri di insulino-resistenza (HOMA-IR), sulla secrezione insulinica (HOMA-B), sui livelli di HbA1c rispetto al placebo. Inoltre, in 4 di questi studi non è emerso nessun beneficio dell’utilizzo della vitamina D sulla prevalenza di nuovi casi di diabete (OR=1.02; 95% CI 0.94-1.10). A tale riguardo bisogna comunque sottolineare che, con l’eccezione di 4 trials, che peraltro non erano specificamente disegnati per studiare gli effetti del trattamento sul diabete (con dosaggi giornalieri relativamente bassi di vitamina D, compresi tra 400 e 800 UI), tutti gli altri studi avevano una durata inferiore od uguale a 12 mesi (Tab. 1). Un’analoga considerazione può essere fatta per tutti gli studi successivi a tale metanalisi, pubblicati ad oggi (44-50).

28_4_Rassegna_3_Tab.1

VITAMINA D E DIABETE TIPO 1

Analogamente a quanto osservato per il diabete di tipo 2, gran parte delle evidenze epidemiologiche e dei dati sperimentali suggerirebbero una associazione tra carenza di vitamina D e diabete di tipo 1. Dal punto di vista delle possibili implicazioni eziopatogenetiche è interessante sottolineare che, oltre ai riportati effetti sulla beta-cellula pancreatica, la vitamina D svolge anche un importante ruolo immunomodulatorio e potrebbe pertanto intervenire positivamente limitando i danni legati all’insulto autoimmunitario sul tessuto pancreatico. Oltre alla ben nota aumentata prevalenza della patologia diabetica in relazione all’incremento della latitudine esistono anche numerose evidenze che dimostrerebbero l’esistenza di variazioni stagionale nell’incidenza del diabete di tipo 1, che sarebbe più frequente nei mesi invernali, quando i livelli di vitamina D sono più tipicamente ridotti (51-52). Inoltre, numerose indagini epidemiologiche hanno dimostrato una relazione tra la carenza vitaminica D ed insorgenza di diabete di tipo 1 (53-56). In particolare, una analisi su un ampia coorte di neonati finlandesi avrebbe dimostrato che l’utilizzo di supplementi a base di vitamina D durante il primo anno di vita sarebbe in grado di ridurre significativamente l’incidenza di diabete di tipo 1 (RR=0.12, 95% CI 0.03-0.51) (53). Inoltre, sempre in tale studio, i bambini con segni di rachitismo dimostravano un rischio di sviluppare diabete tre volte superiore a quello del resto della popolazione (RR=3.0, 95% CI 1.0-9.0). Altri studi prevalentemente a carattere retrospettivo hanno confermato che la supplementazione con vitamina D in età infantile possa ridurre il rischio di sviluppare il diabete di tipo 1 (57-58). Alcune revisioni ed indagini metanalitiche suggeriscono che tale effetto sia dose-dipendente e che siano probabilmente necessari dosaggi elevati (superiori ai 600-800 UI/die delle attuali RDA) per una significativa azione preventiva (16, 58).

I risultati di diverse indagini genetiche rafforzano ulteriormente l’ipotesi di un legame tra sistema della vitamina D e patologia diabetica. Infatti, varianti polimorfiche di geni coinvolti nel metabolismo e nel trasporto della vitamina D, così come i polimorfismi del gene VDR sono state spesso associate ad una aumentata suscettibilità a sviluppare il diabete di tipo 1 (59-61). Al di là delle possibili implicazioni genetiche, il VDR è comunque espresso in gran parte delle cellule del sistema immunitario. I metaboliti attivi della vitamina D sarebbero quindi in grado di inibire la differenziazione delle cellule dendritiche e l’attivazione della risposta immunitaria riducendo l’espressione superficiale del complesso del MHC di classe II e la produzione di citochine pro infiammatorie quali l’interleuchina 12 e l’interleuchina 23 (62). Questo causerebbe un inversione nella polarizzazione dei linfociti T da un fenotipo T helper Th1/Th17 ad un fenotipo Th2, favorendo lo sviluppo di cellule T regolatorie (T-reg) (62-63). Inoltre altri studi avrebbero dimostrato che la 1,25(OH)2 vitamina D può agire direttamente sui linfociti T riducendo le risposte Th1/Th9/Th17 a favore della risposta Th2 e promuovere lo sviluppo di un profilo T-reg in soggetti adulti sani (63-65). A supporto di tali osservazioni, studi su modelli murini di diabete tipo 1, come ad esempio il topo NOD, hanno rilevato che la somministrazione di 1,25(OH)2-vitamina D attenua l’insulite e ritarda l’insorgenza della patologia diabetica (67-69). Tale effetto si associa ad un inversione della risposta Th1 in Th2 a livello del pancreas murino e dei suoi linfonodi satelliti, con un decremento dell’infiltrato linfocitario Th1 ed un aumento delle cellule CD4+CD25+ T-reg nei linfonodi pancreatici (68-69).

Così come per il diabete tipo 2, anche per il diabete di tipo 1 esistono pochi studi che abbiano analizzato in modo prospettico e randomizzato l’efficacia preventiva della terapie a base di vitamina D. I dati disponibili sono controversi, relativi a piccole casistiche, di breve durata e spesso con dosi sub-ottimali (70-71). Uno dei principali ostacoli nel design di tali studi è inoltre rappresentato dal fatto che i dosaggi di vitamina D necessari per un effetto immunomodulatorio sembrano essere superiori a quelli richiesti per l’omeostasi scheletrica, e quindi potenzialmente associati al rischio di effetti collaterali quali l’ipercalcemia e l’ipercalciuria. Lo sviluppo di nuovi composti, analoghi alla vitamina D, che mantengano la stessa attività immunomodulatoria ma privi di effetto calcemico potrebbe facilitare il superamento di questo problema e consentire la sperimentazione di approcci più efficaci per la prevenzione e la cura del diabete di tipo 1.

Conclusioni

La carenza vitaminica D è un problema largamente diffuso, soprattutto nelle popolazioni anziane, che può avere conseguenze negative sullo stato di salute sia a livello scheletrico che extrascheletrico. Ad oggi, le evidenze a favore di una implicazione negativa dell’ipovitaminosi D sul compenso glicemico e sulla patogenesi del diabete mellito di tipo 1 e di tipo 2 sono essenzialmente basate su dati sperimentali e studi osservazionali. I dati relativi ad indagini prospettiche a carattere randomizzato sono limitati e non sembrano invece confermare un significativo effetto della supplementazione con composti a base di vitamina D sia sulla prevenzione che sulla cura della patologia diabetica. Tuttavia, tali osservazioni derivano prevalentemente da studi di breve durata, su casistiche tra loro eterogenee (soprattutto in relazione ai fattori di rischio, alla dieta e ai livelli basali di 25OHD) e con dosaggi e modalità di somministrazione differenti (associati o meno alla supplementazione con calcio), sottolineando quindi la necessità di ulteriori conferme in trials di lunga durata effettuati in ampie e ben caratterizzate casistiche di pazienti. I dati disponibili hanno comunque escluso particolari controindicazioni al trattamento con vitamina D in relazione alla patologia diabetica. In attesa di più precise informazioni è pertanto raccomandabile che i pazienti diabetici ed i soggetti a maggior rischio di sviluppare il diabete mellito mantengano un adeguato apporto di vitamina D.

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