a cura di Francesco Dotta1, Anna Solini2
1U.O.C. Diabetologia, Azienda Ospedaliera Universitaria Senese, Università degli Studi di Siena; 2Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Pisa
Una persona “bene educata”
Chiara Pascucci, Patrizia Cioli, Anna Marinelli Andreoli, Geremia B. Bolli, Francesca Porcellati
Dipartimento di Medicina, Sezione di Endocrinologia e Metabolismo, Università di Perugia
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C.V., giungeva per la prima volta alla nostra osservazione nel 2012, successivamente all’occorrenza di un episodio di ipoglicemia severa, che aveva necessitato l’ospedalizzazione. A quell’epoca C. aveva 37 anni, con alle spalle già una lunga durata di diabete mellito tipo 1, insorto a 14 anni, e trattato con terapia insulinica multiniettiva dall’esordio, inizialmente con insuline umane non-modificate, successivamente con analoghi ad azione rapida e ritardo. Secondo quanto raccolto dalla storia anamnestica, i primi 10 anni di malattia di C. sarebbero stati caratterizzati da un discreto controllo glicemico, con valori di emoglobina glicosilata tra 6.5 e 7.5%, ed accettabile frequenza di ipoglicemia (2-3 episodi di lieve gravità per settimana). Negativo lo screening longitudinale per patologie autoimmuni organo-specifiche associate al diabete tipo 1, così come l’evidenza di complicanze microangiopatiche. A 18 anni, il follow-up della malattia diabetica era passato al centro di diabetologia dell’adulto.
Dai 25 anni in poi, con l’inizio dell’attività professionale, le visite di C. al CAD si erano rese più sporadiche. Poco attento il ricorso all’automonitoraggio glicemico, sempre meno utilizzato per mettere in atto autonomamente comportamenti correttivi. C. tendeva a somministrarsi l’insulina mantenendo una dose fissa senza alcuna modulazione in relazione al valore glicemico, composizione del pasto o attività fisica. Gli episodi ipoglicemici erano aumentati nella loro frequenza e gravità, verificandosi imprevedibilmente sia nel periodo notturno che postprandiale. L’emoglobina glicosilata si era comunque mantenuta su valori “buoni”, sempre inferiori al 7%. L’escrezione urinaria di albumina e l’esplorazione del fondo oculare, controllati ogni 2-3 anni, avevano confermato l’assenza nel tempo di malattia microangiopatica.
Negli anni immediatamente antecedenti il ricovero, le visite di C. al CAD si erano diradate ulteriormente, fino a presentarsi solo alla scadenza annuale del rinnovo dei presidi. C. ricorda molto bene che l’andamento glicemico in quel periodo, era caratterizzato dalla elevata frequenza di ipoglicemia. Gli episodi si ripetevano quotidianamente, tuttavia riconosciuti e percepiti sempre più difficilmente. I sintomi non solo si erano modificati nella loro intensità, ma comparivano a valori glicemici inferiori rispetto al passato. Spesso più che tremore e cardiopalmo era la difficoltà di concentrazione, piuttosto che la cefalea o la sonnolenza a suggerire l’ipoglicemia. Le ipoglicemie instauravano peraltro un pericoloso ciclo di ipoglicemia-iperglicemia e successiva ipoglicemia perché la fame spasmodica durante l’episodio e il timore di una correzione non sufficiente, inducevano C. ad introdurre una eccessiva quota di carboidrati, che si traduceva inevitabilmente, in spiccata iperglicemia che condizionava una incauta correzione estemporanea di insulina. Pochi mesi prima del ricovero, C aveva presentato una prima ipoglicemia grave al risveglio, risoltasi con il soccorso di un familiare, al contrario di quella condizionante l’ospedalizzazione, verificatasi dopo il pasto serale. C. descrive così l’episodio “…la crisi ipoglicemica è arrivata con una velocità che mi ha travolto, non lasciandomi neanche il tempo di capire cosa stesse accadendo. Mi sentivo perfettamente bene, e pochi istanti dopo ero privo di conoscenza”.
1° QUESITO
Qual è lo stato attuale relativo alla definizione ed all’epidemiologia dell’ipoglicemia grave nel diabete tipo 1?
Per ipoglicemia di grado grave, o severa, viene comunemente definita quella condizione in cui l’individuo presenta uno stato di coscienza alterato tale da necessitare dell’aiuto o della cura di terzi per risolvere l’ipoglicemia (1). Del tutto recente è la proposta di espandere la classificazione della definizione di ipoglicemia grave a tutte quelle condizioni in cui la glicemia risulti <50 mg/dl, (2) senza la richiesta di assistenza da parte di terzi (requisito necessario attualmente per la definizione di ipoglicemia grave). Nel caso in cui dovesse essere recepita dalle società scientifiche e enti regolatori, quest’ultima proposta costituirebbe un secondo criterio di definizione di ipoglicemia grave.
L’ipoglicemia severa è attualmente responsabile di un maggior ricorso all’ospedalizzazione rispetto a quanto osservato per le complicanze iperglicemiche acute (3).
Gli studi osservazionali riportano un tasso di ipoglicemia severa ben superiore a quanto osservato dai trial randomizzati controllati, che generalmente escludono dall’arruolamento persone con fattori di rischio per ipoglicemia grave. Ad esempio il gruppo di studio dell’ipoglicemia nel Regno Unito, riporta un tasso di ipoglicemia grave da 1,1 a 3,2 episodi/anno-paziente in base alla durata del trattamento con insulina (<15 anni e >15 anni, rispettivamente) (4), dato sostanzialmente più alto di quanto riportato nello studio DCCT, ove la frequenza di ipoglicemia grave era di 0,6 episodi/anno-paziente (5).
I dati dello studio HYPOS-1 evidenziano un’incidenza di ipoglicemia grave nel nostro paese inferiore rispetto a quanto riportato dalla letteratura internazionale (0,49 episodi/anno per paziente), sottolineando, in linea con osservazioni già riportate in letteratura, come la distribuzione degli episodi di ipoglicemia interessi la popolazione in maniera non uniforme. Pertanto è una parte minoritaria dei pazienti ad andare incontro a uno o più episodi di ipoglicemia sia grave che sintomatica (6).
In persone adulte affette da diabete tipo 1 di lunga durata, l’ipoglicemia severa risulta associarsi alla presenza di hypoglycemia unawareness e ad una maggiore variabilità glicemica, ma non a bassi livelli di emoglobina glicosilata, indicando come in questa popolazione il controllo glicemico stringente non debba necessariamente condizionare il rischio di ipoglicemia severa (7).
2° QUESITO
Quali sono le più recenti evidenze relativamente ad epidemiologia, meccanismi fisiopatologici e trattamento dell’hypoglycemia unawareness?
La sindrome della perdita dei sintomi all’ipoglicemia, meglio nota come hypoglycemia unawareness è la complicanza più frequente dell’ipoglicemia, ed uno dei più importanti fattori di rischio in grado di condizionare frequenza e gravità dell’ipoglicemia. Si configura infatti come una condizione estremamente pericolosa in quanto l’ipoglicemia, manifestandosi senza sintomi autonomici di allarme, non condiziona una tempestiva e adeguata correzione alimentare da parte del paziente, e può pertanto esordire bruscamente e drammaticamente con i segni e sintomi di una grave disfunzione cerebrale. Qualora presente, questa sindrome espone il soggetto a un rischio stimato di ipoglicemia grave iatrogena aumentato di circa 6 volte nel diabete di tipo 1 (8).
Si stima che nel 17-36% delle persone con diabete di tipo 1 la capacità di avvertire i sintomi di allarme dell’ipoglicemia sia compromessa, in maniera relativa od assoluta. Generalmente, questo fenomeno tende ad aumentare con la durata del diabete e con la cronica esposizione a livelli glicemici bassi (5).
È noto come l’esposizione di individui sani a due episodi di ipoglicemia insulinica consecutivi, di moderata entità e breve durata nelle ultime 24 ore, oppure a un singolo episodio di ipoglicemia notturna, sia in grado di attenuare le risposte ormonali e dei sintomi ad un successivo episodio indotto il giorno seguente. Risultati simili sono stati ottenuti nel DMT1 con lunga durata di malattia (9). Queste osservazioni, unitamente all’evidenza della reversibilità dell’hypoglycemia unawareess attraverso la meticolosa prevenzione dell’ipoglicemia (10), hanno portato ad individuare l’ipoglicemia ricorrente coma causa primaria sia del deficit delle risposte ormonali, che della ridotta percezione dei sintomi all’ipoglicemia (11).
I meccanismi implicati nella patogenesi del deficit delle risposte ormonali e della ridotta percezione dei sintomi all’ipoglicemia, cosiddetta sindrome di Cryer, non sono stati pienamente definiti. Tra le varie ipotesi vi è quella secondo cui l’ipoglicemia ricorrente sia in grado di attivare differentemente le aree cerebrali coinvolte nella modulazione della risposta simpato-adrenergica alla successiva ipoglicemia normalmente promossa dai glucosensori ipotalamici. Di fatto l’ipoglicemia aumenta l’attività sinaptica in aree cerebrali interconnesse che comprendono la corteccia prefrontale mediale, la corteccia laterale prefrontale orbitale, il talamo e il globo pallido (12-13). Per esempio, utilizzando la PET è stato dimostrato in persone con diabete di tipo 1, con e senza hypoglycemia unawareess e deficit della controregolazione, che l’ipoglicemia moderata si associava a una captazione cerebrale attenuata del [(18F)]-fluorodesossiglucosio nell’amigdala e nella corteccia occipitale (14). Considerando che l’amigdala è notoriamente l’area cerebrale da cui dipende la messa in atto e la finalizzazione di comportamenti volti a fronteggiare situazioni di pericolo o nocive per la salute dell’individuo (come l’ipoglicemia) attivando la risposta autonomica e endocrina allo stress, gli autori interpretano la ridotta attivazione dell’amigdala in soggetti con hypoglycemia unawareess come la premessa meccanicistica per una ridotta attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e diminuita risposta controregolatoria all’ipoglicemia in questo gruppo (14).
L’hypoglicemia unawereness rappresenta un ostacolo al raggiungimento di un buon controllo glicemico. Le ipoglicemie ricorrenti creano sentimenti di ansia e timore nel paziente e nel diabetologo, che si possono facilmente tradurre in atteggiamenti terapeutici conservativi. È al contrario, necessario strutturare un percorso educativo, personalizzato, che si snodi a più livelli e sia finalizzato alla prevenzione sistematica delle ipoglicemie, anche degli episodi più lievi, mirando a valori di glicemia a digiuno, prima dei pasti e durante la notte di 30-50 mg al di sopra dell’obiettivo glicemico più ambizioso. La prevenzione dell’ipoglicemia per un periodo di 2-3 settimane rigenera ampiamente la percezione all’ipoglicemia nella maggior parte dei soggetti (10). Questo approccio è entrato nella pratica clinica (1) come un modo efficace per correggere la condizione di hypoglycemia unawareness e per ridurre il rischio di ulteriori episodi di ipoglicemia.
C.V. venne quindi in visita presso le nostre strutture ambulatoriali, pochi giorni dopo l’ospedalizzazione per l’occorrenza di un’ipoglicemia severa. In occasione della visita venivano rilevati i seguenti parametri: peso 77 Kg, Altezza 178 cm, BMI 24 kg/m2, PA 120/70 mmHg, emoglobina glicata 6.7%. Profilo lipidico nella norma, escrezione urinaria di albumina nel range della normoalbuminuria. L’esplorazione del fondo oculare non mostrava segni di retinopatia diabetica e l’esecuzione dei test cardiovascolari per la presenza di neuropatia autonomica, aveva dato risultati normali in rapporto all’età.
L’obiettività clinica si dimostrava negativa ad eccezione per la presenza di aree di lipoipertrofia in sede periombelicale. C. utilizzava per la somministrazione insulinica aghi della lunghezza di 8 mm, spesso riutilizzati per più di una somministrazione, e non variava adeguatamente il sito di iniezione.
Si eseguì pertanto counseling sulla corretta tecnica di somministrazione insulinica e si iniziò un percorso educativo allo scopo di permettere il recupero dei sintomi all’ipoglicemia e favorire la corretta autogestione della malattia. In particolare, si consigliarono obiettivi glicemici più elevati e si suggerì l’adozione di un algoritmo di dose insulinica, sulla base del fattore di insulino-sensibilità (FSI), mantenendo fissa la quota di carboidrati (Fig. 1). Consensualmente si fornirono indicazioni sulla corretta modalità di correzione dell’ipoglicemia identificando le potenziali situazioni a rischio e/o fattori precipitanti.
C. venne seguito longitudinalmente, con valutazioni ogni 15 giorni, per verificare lo schema terapeutico, e guidare la corretta interpretazione dell’autocontrollo glicemico. Nel corso delle settimane successive la frequenza di ipoglicemia si ridusse ed i sintomi di allarme all’ipoglicemia si ripristinarono nell’arco di un mese. Permaneva una discreta variabilità glicemica, in parte anche legata all’attività lavorativa di C. (geometra nel campo dell’edilizia privata) che vedeva il succedersi di giornate caratterizzate da importante attività fisica, ad altre che richiedevano la sedentarietà davanti al pc.
Successivo passo del programma educativo fu l’inserimento di C., nel percorso del “counting dei carboidrati”. Nel nostro centro il percorso si articola in 6 incontri di gruppo, a cadenza settimanale, l’ultimo dei quali prevede l’addestramento al “bolus calculator”, preimpostato secondo valori individuali di FSI e di rapporto insulina carboidrati. A questo punto gli obiettivi glicemici di C., dovevano necessariamente tornare ad essere più ambiziosi, in quanto il controllo dell’emoglobina glicosilata mostrava un valore non soddisfacente (7.6 %).
Nel corso dei mesi successivi la capacità di autogestione della malattia da parte di C., aumentava progressivamente. C. acquisiva le competenze necessarie per la corretta prevenzione e gestione dell’ipoglicemia e dell’iperglicemia, l’emoglobina glicosilata si riduceva, migliorava la variabilità glicemica, la sua qualità di vita tornava ad essere soddisfacente. Permanevano tuttavia episodi ipoglicemici in particolare al risveglio e nella prima parte della giornata. A nulla giovò la riduzione della posologia dell’insulina basale, in quanto “scopriva” la seconda parte della giornata. Anche l’attenta modulazione dell’analogo ad azione rapida al momento della prima colazione non venne d’aiuto. C. aveva peraltro ridotto sensibilmente il fabbisogno insulinico sia basale che prandiale e la modulazione della dose risultava sempre più complessa, in relazione alla sua elevata insulino-sensibilità.
Si decise di comune accordo di posizionare il sistema di monitoraggio in continuum del glucosio interstiziale (CGM) in modalità retrospettiva, sulla cui base valutare l’andamento glicemico giornaliero (Fig. 2), nell’eventualità di intraprendere il training al trattamento con microinfusore insulinico, cosa che avvenne nel 2014.
Anche in questo caso C., venne seguito sistematicamente dalle nostre strutture ambulatoriali, in “team multidisciplinare”, acquisendo le competenze necessarie per gestire le differenti funzioni avanzate consentite dal microinfusore insulinico.
La terapia con CSII proiettò C., verso un ulteriore grado di “intensità assistenziale”, cui tuttavia non si sottrasse, anzi ne divenne protagonista centrale e consapevole. Le ipoglicemie si ridussero grandemente, senza compromettere il controllo glicemico, l’emoglobina glicosilata nel corso degli ultimi anni non ha mai superato il 6.5%.
La vera svolta nel trattamento si è avuta tuttavia con l’integrazione del microinfusore al monitoraggio del glucosio interstiziale in modalità “real time”. La SAP (Sensor Augmented Pump) therapy con le funzioni avanzate LGS (Low Glucose Suspend), in grado di sospendere automaticamente l’infusione di insulina basale per 2 ore in caso di ipoglicemia e, più recentemente dotata di algoritmo predittivo, in grado di prevedere l’ipoglicemia con 30 minuti di anticipo (Fig. 3).
C., attualmente utilizza il CGM per l’80-90% del tempo, il controllo glicemico risulta buono (ultima emoglobina glicosilata valutata nel mese di novembre 2017 pari a 6,2%), minima variabilità glicemica, ben poche ipoglicemie, e ottima qualità di vita.
COMMENTO
Il nostro caso descrive una situazione che si incontra frequentemente nella pratica clinica quando la persona con diabete tipo 1, non viene posta al centro di un percorso educativo strutturato. La chiave del successo non è stata l’utilizzo della tecnologia ma l’avere “investito” sul paziente, la vera risorsa nella cura della patologia cronica, al contrario sicuramente quella meno utilizzata. L’educazione all’autogestione è momento centrale di qualsiasi strategia terapeutica efficace.
Una recente revisione sistematica e meta-analisi che ha valutato gli interventi educativi, farmacologici e tecnologici volti a ripristinare la corretta percezione all’ipoglicemia negli adulti con diabete di tipo 1 affetti da hypoglycemia unawareness, ha mostrato l’efficacia di un approccio a gradini, iniziando con un programma di educazione strutturata, rivolto ai diversi aspetti della patologia, e che possibilmente comprenda interventi psicoterapeutici e comportamentali, accompagnando successivamente il paziente all’utilizzo della tecnologia (15).
Sempre su questa linea è bene richiamare l’attenzione su quanto raccomandato da una recente osservazione, relativamente alla gestione del paziente con diabete tipo 1 affetto dalla complicanza dell’ipoglicemia ricorrente (16). Ancora una volta si sottolinea il ruolo dell’educazione strutturata, che rappresenta la “spina dorsale” del percorso di cura. Il paziente, secondo tale approccio, viene seguito inizialmente in terapia insulinica multi-iniettiva, rafforzandone i principi ed intensificando lo sforzo educativo, successivamente gli viene offerta l’opportunità del CSII con automonitoraggio glicemico capillare, di seguito l’associazione CSII-CGM senza funzioni avanzate, per poi passare alla SAP con funzioni LGS, in un percorso a gradini con continuità educativa senza compromessi (16). Questo è stato in effetti il percorso seguito dal paziente del nostro caso clinico.
Purtroppo troppo spesso oggi è la carenza di tempo e risorse che guida la strategia terapeutica. Ecco allora che l’educazione viene a rivestire un ruolo di secondo piano, al contrario punto di forza della cura nella patologia cronica, di cui il diabete ne è paradigma.
La ricerca negli ultimi decenni ha enormemente ampliato la conoscenza delle cause, dei rischi e delle conseguenze dell’ipoglicemia. I progressi dell’industria farmaceutica e della tecnologia hanno consegnato alla pratica clinica, preparazioni insuliniche e devices che hanno permesso la riduzione del rischio di ipoglicemia permettendo ai pazienti di ottimizzare il controllo glicemico e migliorare la qualità di vita. Tuttavia, l’educazione si conferma come unico, vero, essenziale strumento terapeutico, insostituibile e imprescindibile in una patologia cronica il cui obiettivo finale rimane l’autogestione consapevole della persona con diabete.
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