Luigi Uccioli1, Laura Giurato1, Alberto Piaggesi2 1Unità Piede Diabetico, Dipartimento di Medicina Interna, Policlinico Universitario Tor Vergata, Roma; 2Sezione Dipartimentale Piede Diabetico, Dipartimento di Area Medica, Azienda Ospedaliera Universitaria di Pisa Introduzione
Le infezioni del piede diabetico rappresentano un problema di grande rilevanza per l’evidente difficoltà di gestione sia diagnostica che terapeutica. I processi infettivi del piede sono i principali responsabili della maggior parte degli eventi di amputazione maggiore degli arti inferiori e le infezioni, di fatto, precedono gli interventi amputativi in oltre i due-terzi dei casi (1-4).
Il paziente con diabete ha un rischio 10 volte maggiore di essere ospedalizzato per un’infezione dei tessuti molli o dell’osso, rispetto ad un individuo non affetto da diabete (5).
Le infezioni del piede complicano il decorso di una lesione ulcerativa sia essa legata alla neuropatia periferica e/o alla vasculopatia degli arti inferiori. L’arteriopatia periferica è sicuramente il fattore che più di tutti, in presenza di un processo infettivo, condiziona l’evoluzione del quadro clinico.
Pertanto in presenza di un quadro infettivo del piede oltre a definire il tipo di infezione bisogna verificare la presenza o meno di una condizione di deficit vascolare e, se associata, è sempre necessario quantificare la sua entità. Tutte le soluzioni di continuo della cute sono colonizzate da differenti microrganismi ma non tutte sono infette. È infatti essenziale che sia fatta una diagnosi clinica di infezione e non una diagnosi esclusivamente microbiologica. Mentre la colonizzazione è usualmente presente solo sulla superficie cutanea, l’infezione si caratterizza per una invasione di batteri attraverso i tessuti.
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Di fronte ad un processo infettivo del piede, sia esso dei tessuti molli e/o dell’osso, è necessario caratterizzare la severità del processo mediante un’attenta valutazione dell’estensione dell’infezione considerando determinati aspetti clinici come sede, profondità dei tessuti interessati (fascia, muscoli, tendini, articolazioni o osso), e l’eventuale presenza di una condizione di ischemia che si manifesta con quadri di necrosi e gangrena.
Una volta effettuata la diagnosi clinica, diventa fondamentale isolare il o i microrganismi responsabili del quadro infettivo al fine di avviare un trattamento terapeutico più mirato possibile.
Le ospedalizzazioni, le procedure chirurgiche ed i prolungati trattamenti antibiotici, predispongono i pazienti diabetici con lesioni del piede a processi di colonizzazione o infezione da parte di microrganismi multiresistenti agli antibiotici (MDRO) o da parte dello Staphylococcus aureus meticillino-resistente (MRSA) (6-8). Il fenomeno della resistenza alle terapie antibiotiche sta diventando sempre più frequente nella popolazione diabetica, e l’alta prevalenza di microrganismi multiresistenti nelle ulcere infette del paziente diabetico potrebbe riflettere l’aumentata prevalenza degli stessi non solo negli ambienti ospedalieri ma anche nella comunità.
L’osteomielite è una delle manifestazioni infettive più comuni del piede diabetico, essendo presente nel 10-15% delle infezioni definite moderate e nel 50% di quelle severe (9).
Le infezioni del piede diabetico coinvolgono l’osso nel 20-66% dei casi e, le lesioni ulcerative complicate da osteomielite necessitano di trattamenti chirurgici anche demolitivi e di lunghi periodi di terapie antibiotiche (10-12). L’osteomielite del piede è causa di mancata guarigione e si associa ad aumentato rischio di amputazione maggiore (13-15).
Condizione indispensabile perché si verifichi un processo osteomielitico è la presenza di una lesione ulcerativa complicata da un’infezione che inizialmente interessa i tessuti molli e successivamente si estende all’interno della cavità midollare.
L’eventuale coinvolgimento dell’osso deve essere sospettato in tutti quei pazienti diabetici con ulcere neuropatiche clinicamente infette o con ulcere croniche, caratterizzate cioè da lunghi tempi di guarigione o che una volta guarite tendono a recidivare, nonostante la messa in atto di opportuni presidi terapeutici come un adeguato scarico della lesione.
L’osteomielite può interessare qualsiasi osso del piede ma soprattutto coinvolge con maggiore frequenza le ossa dell’avampiede (90%), seguito dal mesopiede (5%) e dal retropiede (5%). L’osteomielite dell’avampiede si associa ad una prognosi migliore rispetto a quella del meso e retropiede. Il rischio di amputazione al di sopra della caviglia è significativamente più alto per il retropiede (50%), rispetto al mesopiede (18.5%) e rispetto all’avampiede (0.33%) (16-18).
Per una adeguata gestione dell’osteomielite è mandatorio avere un approccio che includa una diagnosi precoce ed un trattamento efficace (19-20).
I microrganismi patogeni implicati nello sviluppo delle infezioni del piede diabetico mostrano, un’epidemiologia estremamente variegata dipendente dalle caratteristiche cliniche e dai fattori di rischio del paziente, dalle condizioni della lesione (gravità ed estensione nei tessuti profondi), e dalle condizioni ambientali della comunità di provenienza.
L’epidemiologia microbica delle osteomieliti ricalca in parte quella riscontrata nelle sole lesioni dei tessuti molli, con infezioni dell’osso monomicrobiche o più frequentemente polimicrobiche. Gli isolati maggiormente in causa includono S. aureus (sino al 50% dei casi), seguito da S. epidermidis (circa 25%), Streptococchi (circa 30%) ed Enterobacteriaceae (sino al 40%) (21). Tra i Gram negativi, Escherichia Coli, Klebsiella pneumoniae e Proteus, sono le specie più frequentemente isolate, seguiti dallo Pseudomonas aeruginosa. La frequenza di isolamento degli anearobi è bassa, ma molto dipende dalla modalità di raccolta del campione (21). Anche per quanto riguarda l’osteomielite, così come per le infezioni dei tessuti molli, è in crescente aumento il riscontro di germi multi-resistenti agli antibiotici (22).
Diagnosi dell’osteomielite
In prima istanza la diagnosi clinica di osteomielite è una diagnosi di sospetto basata sulla presenza di sintomi e segni di flogosi locali indicativi della diffusione all’osso di un processo infettivo dei tessuti molli circostanti. Tale sospetto clinico deve essere sempre confermato da procedure diagnostiche di tipo strumentale capaci di mostrare il reale interessamento infettivo dell’osso.
È essenziale attuare le procedure diagnostiche più idonee al fine di effettuare una diagnosi di certezza il più precocemente possibile ed iniziare quanto prima un terapia adeguata.
Va sottolineato che la diagnosi di osteomielite è difficile soprattutto nella sua fase iniziale, e la certezza viene data da metodiche strumentali; la clinica rimane però il primo approccio soprattutto per formulare un sospetto.
I segni clinici locali, a livello di una lesione ulcerativa, indicativi di un processo infettivo sono principalmente rappresentati da tumefazione, eritema, secrezione siero-ematica o francamente ematica con o senza fuoriuscita di secrezione purulenta e /o frammenti di osso (14). Spesso è difficile differenziare se i segni di infiammazione locali siano dovuti alla cellulite o all’osteomielite.
Un criterio clinico di sospetta osteomielite, in presenza di una lesione ulcerativa con buon flusso di sangue, è la sua scarsa tendenza alla guarigione, dopo almeno sei settimane di appropriato trattamento di scarico, soprattutto se la lesione e’ localizzata in corrispondenza di prominenze ossee. Due segni clinici si sono dimostrati predittivi di osteomielite. Il primo è rappresentato dalla larghezza e dalla profondità della lesione: una lesione di diametro maggiore di 2 cm2 ha una sensibilità del 56% ed una specificità del 92% nella diagnosi di osteomielite. Allo stesso modo una lesione ulcerativa profonda più di 3mm si associa in modo significativo ad una sottostante osteomielite rispetto a una più superficiale (82% vs 33%) (23). Un secondo criterio diagnostico è rappresentato dalla possibilità di reperire l’osso alla base della lesione mediante uno specillo, il cosiddetto “Probe-to-bone test” (PTB). Uno studio condotto su 75 pazienti diabetici ha mostrato una sensibilità del 66%, specificità del 85% ed un valore predittivo positivo del 89% di tale procedura nella diagnosi di osteomielite del piede (24). Lo stesso test, valutato in un successivo studio prospettico su 1.666 pazienti diabetici e confrontato con la coltura dell’osso interessato, è risultato avere una sensibilità del 87%, una specificità del 91%, un valore predittivo positivo solo del 57% con però un valore predittivo negativo del 98% (25).
Pertanto in presenza di un’ulcera clinicamente infetta, un PTB test positivo è altamente suggestivo di un’osteomielite, ma un test negativo non la esclude. Al contrario in presenza di un’ulcera apparentemente non infetta, un test positivo può non essere specifico per osteomielite, ma se negativo potrebbe escludere una diagnosi di infezione ossea (26). Sintomi sistemici associati come febbre, malessere sono poco frequenti soprattutto in presenza di una osteomielite cronica.
Esami di laboratorio quali elevati globuli bianchi possono non essere presenti in caso di osteomielite, al contrario livelli di VES > 60 mm/h e/o una PCR >3,2 mg/dl in presenza di un’ulcera con profondità >3 mm sono significativi di verosimile osteomielite (27).
Al fine di formulare una corretta diagnosi di osteomielite è necessario associare alle indagini cliniche conferme radiologiche che possano meglio definire la presenza di un processo infettivo che ha coinvolto l’osso e, cosa importante, differenziare un’infezione dei tessuti molli da un’osteomielite.
La radiografia rimane sempre un’indagine di routine anche se di difficile interpretazione quando il processo infettivo dell’osso è in fase iniziale. Chiari segni di alterazione dell’osso correlati all’osteomielite sono generalmente non evidenti all’inizio dell’infezione, per i primi giorni, quando circa il 30%-50% dell’osso non è stato ancora riassorbito. Le alterazioni evidenti radiologicamente possono manifestarsi dopo 2-3 settimane. Le alterazioni all’RX altamente sospette di un processo osteomielitico già in atto sono rappresentate da immagini di distruzione ossea: osteopenia, erosione della corticale ossea, lisi della corticale, osteolisi, ispessimento periostale, sequestro osseo (28-29).
Le metodiche scintigrafiche sono più sensibili della radiografia specialmente nel formulare una diagnosi nella fase più iniziale del processo osteomielitico e nel follow-up terapeutico con normalizzazione all’avvenuta guarigione. Il limite maggiore però è legato alla bassa specificità dovuta alla difficoltà di differenziare anatomicamente un’infezione dei tessuti molli da quella dell’osso (30).
La risonanza magnetica (RMN) con gadolinio rappresenta un’indagine molto accurata (sensibilità 90-100%, specificità 85%) nella diagnosi di osteomielite del piede diabetico grazie all’elevato contrasto al livello tessutale che le consente di ben differenziare un’infezione dei tessuti molli da quella localizzata nell’osso in modo superiore alla TC ed alle indagini scintigrafiche. Le alterazioni tipiche a livello del midollo osseo indicative di un processo osteomielitico sono bassa intensità di segnale nelle sequenze T1 pesate ed alta intensità di segnale nelle sequenze T2 pesate. Tali alterazioni possono essere già evidenti a 3 giorni dalla comparsa del processo infettivo. Il maggiore limite di tale esame è la ridotta risoluzione a livello della corticale che non consente di evidenziare casi isolati di infezione come l’osteite responsabile di alcuni risultati falsi negativi, e di differenziare l’edema dell’osso da altre cause cliniche di edema della midollare come un’osteoartropatia di Charcot in fase acuta (31).
Il gold standard per la diagnosi definitiva dell’osteomielite è la biopsia ossea, che fornisce informazioni di tipo istologico e microbiologico (21-22).
Criteri istologici per formulare una diagnosi di osteomielite sono: erosione dell’osso, edema del midollo, fibrosi del midollo, aree di osso necrotico, presenza di sequestro, cellule dell’infiammazione sia in fase acuta che cronica.
L’importanza principale dell’esame colturale dell’osso è quella di identificare le specie microbiche responsabili del processo infettivo ed allo stesso tempo di determinare la suscettibilità ai vari antibiotici. L’osso può essere prelevato per via percutanea, attraverso una porzione di tessuto cutaneo non infetto, oppure in corso di procedura chirurgica come debridement o amputazione.
Le colture ossee hanno un’accuratezza microbiologica più efficace di quella delle colture ottenute da tamponi superficiali, la cui corrispondenza è solo del 38.2% dei casi (32). Anche se la biopsia ossea, meglio se eseguita dopo una sospensione di almeno 10 giorni di terapia antibiotica, rappresenta la metodica più accurata nell’identificare i germi patogeni, è in alcuni casi non sempre attuabile.
Uno studio recente ha evidenziato come il prelievo di tessuto profondo (ottenuto a diretto contatto con l’osso) abbia una capacità simile a quella della biopsia ossea nell’identificare i patogeni (74.3% vs 82.8%) (33).
Trattamento dell’osteomielite
Il trattamento dell’osteomielite rimane ancora un argomento molto dibattuto. Nel corso degli anni le teorie più spesso messe a confronto sono state il ruolo della terapia chirurgica come primo approccio e quello della terapia antibiotica nella gestione più efficace dell’osteomielite (Tab. 1).
Bisogna sottolineare però che tuttora il trattamento dell’osteomielite non è standardizzato. Non vi sono linee guida che definiscano in maniera conclusiva quando l’approccio chirurgico sia indicato oppure quando lo sia il trattamento antibiotico da solo o associato ad una chirurgia di minima.
Per motivi di chiarezza il termine debridement dovrebbe essere utilizzato esclusivamente per indicare la rimozione di cute o tessuti molli infetti, devitalizzati o necrotici. Ma quando ci si riferisce alla chirurgia effettuata sulle ossa si dovrebbero utilizzare termini più precisi in modo da avere la stessa modalità di paragone nei risultati dei differenti gruppi di lavoro.
La definizione di chirurgia conservativa proposta da alcuni autori si riferisce a quella procedura in cui solo l’osso infetto ed il tessuto molle non vitale sono rimossi senza amputazione di qualsiasi parte del piede. La chirurgia conservativa preserva la porzione più ampia possibile dei tessuti (16). La terapia dell’osteomielite è un argomento di grande interesse ed è stato, anche recentemente, oggetto di approfonditi studi. Alcuni autori hanno evidenziato come un approccio chirurgico aggressivo nella gestione dell’infezione con iniziale amputazione minore riduca la necessità di amputazione al di sopra della caviglia ed abbrevi i tempi di degenza ed i costi associati.
Questi autori hanno dimostrato che l’amputazione dell’avampiede, se messa a confronto con la terapia medica eseguita per i primi 3 giorni di trattamento, riduce il rischio di amputazione maggiore (34). Il maggior limite però di questo studio è che il trattamento antibiotico eseguito per soli 3 giorni, anche se per via endovenosa, non è efficace per curare infezioni profonde del piede ed in modo particolare l’osteomielite.
Piaggesi et al., in uno studio prospettico randomizzato, confrontando l’approccio chirurgico, consistente nell’ulcerectomia e asportazione dei tessuti ossei infetti, con la terapia medica nella gestione di lesioni neuropatiche plantari complicate da osteomielite metatarsale, hanno dimostrato come l’opzione chirurgica si associasse ad una maggior frequenza di guarigione e ad una riduzione dei tempi di guarigione (35). Anche se un approccio chirurgico aggressivo dell’osteomielite potrebbe essere giustificato in determinate condizioni cliniche più severe, studi retrospettivi hanno dimostrato come un iniziale trattamento di tipo conservativo associato a prolungate terapie antibiotiche sia efficace per ridurre il rischio di amputazione maggiore ed i tempi di guarigione dell’ulcera (16, 36-37).
Il lavoro di Ha Van confronta il trattamento chirurgico conservativo, definito come la resezione limitata alla parte di osso infetto (falange e/o testa MT) associato alla terapia antibiotica, verso terapia antibiotica da sola. Dai dati ottenuti la conclusione degli autori è che l’approccio chirurgico/conservativo sia più efficace in termini di guarigione dell’ulcera (78% vs 57%) ed in termini di tempo di guarigione (181 ± 30 vs 462 ± 98 giorni p<0.008) Allo stesso modo il tempo di terapia antibiotica era significativamente più ridotto nel gruppo a terapia chirurgica conservativa (111 ± 121 vs 246.9 ± 232 gg p < 0.007) (36).
La terapia antibiotica è stata largamente considerata come associazione alla terapia chirurgica, ma negli ultimi venti anni vari lavori hanno riportato casi di osteomielite del piede curati con antibiotici anche in assenza di resezioni chirurgiche. Questo ha portato alcuni autori a rivedere la convinzione che il trattamento chirurgico fosse quasi sempre necessario per trattare casi di osteomielite cronica (38-40).
Un recente studio clinico, prospettico, randomizzato, ha messo a confronto due gruppi di trattamento: chirurgia conservativa (rimozione dell’osso senza amputazione di alcuna parte del piede) e solo terapia antibiotica. Il gruppo chirurgico riceveva terapia antibiotica empirica post-chirurgia, con eventuale modifica dopo esito microbiologico per 10 giorni. Il gruppo con terapia antibiotica non era sottoposto a biopsia ossea, ma la terapia antibiotica veniva definita sulla base dell’esito di prelievi eseguiti a livello dei tessuti molli profondi in corrispondenza dell’osso e proseguita per 90 giorni. Risultati simili tra il gruppo chirurgico (22 pz) e quello antibiotico (24 pz), in termini di percentuale di guarigione delle lesioni (86.3% vs 75%) e nel tempo di guarigione (6 vs 7 settimane). Solo il 16.6% dei pz nel gruppo terapia antibiotica è stato sottoposto ad un successivo approccio chirurgico. Nessuno evento di amputazione maggiore. La durata del follow-up era di 12 mesi dopo la guarigione. In questo studio sono stati esclusi casi di infezione severa, pazienti con associata vasculopatia periferica e con severe co-morbilità. Inoltre il processo osteomielitico trattato era solo localizzato all’avampiede (41).
Per quanto riguarda la durata della terapia antibiotica nella gestione dell’osteomielite cronica, non ci sono ancora dati che consentono una chiara indicazione. In alcuni casi 4-6 settimane potrebbe essere sufficiente, in altri casi in cui non si esegue la rimozione completa dell’osso e residua una sua parte, la durata dovrebbe essere di almeno 3 mesi (21).
L’uso prolungato di terapie antibiotiche aumenta il rischio di resistenze batteriche, la comparsa di effetti collaterali e fa lievitare i costi di trattamento. Ridurre pertanto la durata della terapia antibiotica consentirebbe di limitare le conseguenze cliniche legate ai germi multi-resistenti che sempre di più si dimostrano essere uno dei problemi più rilevanti nella gestione delle infezioni del piede diabetico.
Uno studio prospettico, randomizzato, mette a confronto due gruppi di pazienti diabetici con ulcere localizzate all’avampiede complicate da sottostante osteomielite in assenza di vasculopatia periferica, trattati con terapia antibiotica per 6 oppure 12 settimane. L’antibiotico-terapia era inizialmente empirica, guidata poi dall’esito microbiologico. Dei 40 pz arruolati, 20 in terapia per 6 settimane e 20 per 12, il 66% ha ottenuto la remissione del processo osteomielitico senza differenza tra i due gruppi. Un maggior numero di effetti collaterali si è osservato nel gruppo trattato per 12 settimane (42).
Se la formulazione di una diagnosi iniziale di osteomielite riconosce determinate difficoltà e necessita di una valutazione clinica associata a quelle strumentali, ancora più difficoltosa risulta la definizione di guarigione definitiva del processo infettivo osseo.
L’osteomielite cronica è difficile da trattare e si associa ad alta percentuale di recidive dopo un trattamento che risulta di apparente successo. Dopo terapia antibiotica è stata riportata una percentuale di recidiva dell’infezione ossea intorno al 30% (28, 38). La ricomparsa dell’infezione potrebbe essere legata a germi persistenti all’interno del biofilm. Nei casi trattati chirurgicamente la ripresa di un processo osteomielitico nel tempo potrebbe essere legata alla non completa rimozione dell’osso infetto (43).
È essenziale pertanto seguire dei criteri di diagnosi di guarigione adeguati come ottenere la completa guarigione della lesione ulcerativa che si mantenga tale almeno per 12 mesi di follow-up. Altrettanto importante è la prevenzione di ulcerazioni recidivanti che possono rappresentare un fattore predisponente la ricomparsa di processi osteomielitici. Ad una valutazione clinica rimane fondamentale associare uno studio radiologico dell’andamento evolutivo del quadro osseo anche a distanza ed una valutazione nel tempo dei parametri di flogosi come la VES e la PCR.
Aspetti da considerare
La scelta dell’approccio terapeutico più adeguato nella gestione di un processo osteomielitico del piede è strettamente dipendente dalle singole condizioni cliniche e quindi dalla severità del processo infettivo. La scelta del trattamento, sia esso di tipo chirurgico o medico, è anche condizionata da vari fattori che influenzano la riuscita del trattamento stesso (Tab. 2).
La terapia chirurgica così come quella medica si associano a potenziali vantaggi ma anche a potenziali svantaggi. Tra i vantaggi della terapia chirurgica vi è la completa rimozione dell’osso infetto e quindi dei batteri che, se eseguita in modo adeguato, ridurrebbe i tempi di terapia antibiotica per ottenere la risoluzione del processo infettivo. Dall’altra parte c’è da considerare che un approccio aggressivo comporta una maggiore perdita di sostanza che può essere accettabile in pazienti con un buon afflusso di sangue e non in pazienti che presentano una condizione di ischemia persistente e non correggibile.
Rispetto al passato le nuove tecnologie a disposizione come i sostituti ossei antibiotati e la possibilità di impiego di cellule staminali e le tecniche di chirurgia conservativa con uso di fissatori esterni, hanno reso la terapia chirurgica dell’osteomielite molto meno distruttiva e più rispettosa dell’anatomia funzionale del piede (44-45).
Solo per fare un esempio: l’osteoartrite settica della prima articolazione metatarso-falangea, evenienza molto frequente a causa della elevata incidenza di ulcera plantare in quella sede, fino a pochi anni fa era una indicazione per l’amputazione di primo raggio, che a sua volta predisponeva alla amputazione trans-metatarsale, mentre adesso può essere gestita conservativamente con buoni risultati, utilizzando un filler antibiotato e un fissatore esterno dopo l’esecuzione di una osteo-artrectomia allargata con sesamoidectomia in anestesia loco-regionale, con un tempo complessivo di gestione di 60 giorni e con una terapia antibiotica sistemica di 15 giorni. La stessa condizione, gestita con terapia antibiotica sistemica, non solo ha una prognosi peggiore in termini di percentuale di guarigione, ma necessita di una somministrazione prolungata di antibiotici, che si può protrarre per mesi (46-47). Inoltre la gestione chirurgica tempestiva, nei casi associati di osteomielite associati a interessamento flogistico dei tessuti molli e delle strutture mucolo-tendinee, consente di ridurre i rischi di sindrome compartimentale, evenienza frequente e altamente rischiosa, in quanto associata ad una prognosi peggiore per il paziente. Faglia et al., in uno studio retrospettivo su un gruppo di pazienti trattato chirurgicamente entro le prime 24 ore dal riferimento del caso hanno dimostrato una riduzione delle amputazioni maggiori ed una distalizzazione delle amputazioni minori, rispetto ad un gruppo di controllo, con una patologia sovrapponibile ma in cui il trattamento chirurgico era stato ritardato (48).
Il trattamento chirurgico tuttavia può destabilizzare il piede. Infatti una parziale amputazione (come rimozione di un raggio o di una testa metatarsale), quando è pre-esistente una condizione di neuropatia periferica, può risultare in ulteriori modifiche della biomeccanica del piede e predisporre così a re-ulcerazioni o a nuove ulcerazioni in sedi differenti.
Armstrong e Lavery hanno dimostrato che il paziente diabetico con storia di amputazione a livello dell’avampiede (dito o raggio), secondaria a processi infettivi, manifesta una mobilità articolare più limitata ed una maggiore rigidità del piede con una pressione plantare 10 volte più alta rispetto ad un piede senza amputazione. Il picco di pressione e la limitata mobilità articolare sono strettamente connessi al più alto rischio di re-amputazione (49).
Molines-Barroso et al., hanno analizzato il rischio di re-ulcerazione causato in pazienti diabetici (tot 119) sottoposti a resezione delle teste MT per osteomielite. I processi di re-ulcerazione erano più frequenti in pazienti operati a livello della 1° e 3° testa (69%, 52%, rispettivamente) seguiti dalla 2°, 4° e 5° testa metatarsale (44%, 25% e 19% rispettivamente). La rimozione di più teste metatarsali si associava ad un rischio di re-ulcerazione del 50%. Il rischio di trasferimento della lesione è significativamente più alto per la 1° testa rispetto alle altre (p=0.004) (50).
Tuttavia gli stessi autori, in un altro lavoro relativo ad una serie di casi trattati chirurgicamente per osteomielite del piede hanno dimostrato una percentuale di recidiva di osteomielite solo nel 16.9% dei casi, concludendo che si trattava di una bassa incidenza (51). Una efficace soluzione per ridurre il rischio di recidiva ulcerativa nei pazienti con osteomielite delle teste metatarsali, è rappresentata dalla resezione pan-metatarsale, con eliminazione di tutte le teste metatarsali nella stessa procedura; Armstrong et al., in un gruppo di 92 pazienti trattati con questa tecnica hanno dimostrato una significativa riduzione delle recidive ulcerative (52).
Uno dei principali vantaggi della terapia medica dell’osteomielite, come approccio iniziale, è quello di evitare il trattamento chirurgico, di preservare la struttura del piede.
Le linee guida dell’IDSA (21) definiscono l’esistenza di almeno 4 situazioni in cui possa essere considerato il trattamento non chirurgico dell’osteomielite.
1. Non esiste un target chirurgico accettabile (esempio la cura radicale dell’infezione comporterebbe una inaccettabile perdita di funzione).
2. Il paziente ha un deficit vascolare non correggibile e quindi una ischemia critica e desidera evitare un’amputazione.
3. L’infezione è confinata all’avampiede con solo una minima perdita dei tessuti molli.
4. Il paziente ed i sanitari concordano con il fatto che una gestione chirurgica comporta un rischio eccessivo e quindi non è appropriata o desiderabile.
Nei casi in cui l’osteomielite complica lesioni ulcerative dell’avampiede di piccole dimensioni e senza esposizione ossea l’antibiotico terapia va senz’altro considerata come prima scelta.
I principali svantaggi della terapia medica potrebbero essere rappresentati dall’aumentato rischio di ricorrenze dell’infezione, dai più lunghi periodi di trattamento che possano predisporre a maggiori effetti collaterali ed alla comparsa di germi resistenti agli antibiotici (Tab. 3).
In conclusione la terapia dell’osteomielite deve essere individualizzata e strettamente correlata alla condizione locale e generale del paziente. Il vecchio assioma che poneva osteomielite = amputazione deve essere rivisto alla luce dei nuovi dati della letteratura che mostrano come in molti casi la semplice terapia antibiotica o la terapia antibiotica associata a rimozione di minima dell’osso infetto possano essere sufficienti per gestire la maggior parte dei quadri clinici.
L’approccio chirurgico demolitivo va riservato in ultima analisi a quelle condizioni in cui l’osteomielite tende a diffondere ed a coinvolgere le strutture ossee vicine.
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