Riflessioni sulla fisiopatologia dell’iperglicemia e delle complicanze vascolari nel diabete mellito di tipo 2 Ove si narra d’un Fegato straripante, d’un Endotelio sofferente e degli affanni per porvi rimedio

Agostino Consoli
Dipartimento di Medicina Interna e Scienze dell’Invecchiamento e Centro Scienze
dell’Invecchiamento e Medicina Traslazionale, Università d’Annunzio di Chieti-Pescara

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LETTURA PREMIO ARETEO 2017

GENESI DELL’IPERGLICEMIA

Nello stato post-assorbitivo (dopo 10-14 ore di digiuno) l’omeostasi glicemica è mantenuta grazie al fatto che la quantità di glucosio che viene costantemente utilizzata dall’organismo (circa 2 mg /kg di peso al minuto) è rimpiazzata da una identica quantità di glucosio che viene immessa in circolo dal fegato. Il fegato è infatti l’unico organo, insieme al rene, che possiede il corredo enzimatico necessario per defosforilare il glucosio-6-fosfato e liberare così glucosio in circolo: tuttavia, ai fini pratici, il contributo del rene al glucosio circolante, ancorché recentemente oggetto di numerosi studi, è modesto, ed il fegato rappresenta l’organo cruciale per la immissione di glucosio in circolo. Di conseguenza, anche se studi recentissimi avrebbero dimostrato espressione del gene dell’enzima glucosio-6-fosfatasi anche nel sistema nervoso centrale (1), la regolazione della produzione epatica di glucosio è il processo cardine per il mantenimento della omeostasi glicemica ed alterazioni di essa avranno un ruolo di primo piano nella fisiopatologia degli stati di alterato metabolismo glucidico e del diabete mellito di tipo 2.

I meccanismi omeostatici che permettono alle concentrazioni plasmatiche di glucosio di risultare relativamente costanti nello stato post-assorbitivo e nella fase inter-prandiale possono essere assimilati al livello dell’acqua in una vasca che venga costantemente alimentata da un rubinetto e dalla quale altrettanto costantemente l’acqua esca attraverso uno scarico. Lo scarico, in questo caso, è rappresentato dalla captazione di glucosio da parte dei tessuti periferici e, quando i valori di glicemia superino la soglia renale, dal glucosio perso attraverso l’emuntorio renale. Il rubinetto, come ricordato sopra, può essere invece identificato nel fegato. Un aumento pericoloso del livello dell’acqua nella vasca (iperglicemia) potrà quindi realizzarsi o per una eccessiva immissione di acqua (glucosio) nel sistema, o per una difetto nella capacità del sistema di eliminare l’acqua (ridotta captazione di glucosio nei tessuti periferici). Numerose evidenze sperimentali indicano nella difettosa regolazione della produzione epatica di glucosio, che aumenta in maniera incontrollata, il principale meccanismo patogenetico dell’iperglicemia nel diabete mellito di tipo 2 (2). Nello stato post-assorbitivo, infatti, è stato largamente dimostrato che il livello di iperglicemia è direttamente proporzionale alla produzione epatica di glucosio (3) e vi sono sufficienti evidenze sperimentali che permettono di affermare come anche nella fase post-prandiale una inefficace soppressione della produzione epatica di glucosio sia uno dei principali meccanismi responsabili della iperglicemia post-prandiale e della intolleranza ai carboidrati (2).

Per quello che riguarda le vie metaboliche che determinano un aumento della produzione di glucosio, le evidenze disponibili indicano che è un aumento del tasso di gluconeogenesi il meccanismo che conduce all’aumentata produzione di glucosio nel diabete di tipo 2. Ciò è stato evidenziato sia da studi che hanno adoperato tecniche radioisotopiche (4), sia da studi che hanno adoperato tecniche di risonanza magnetica nucleare e spettroscopia (5), sia da studi che hanno adoperato la somministrazione di acqua deuterata66-[2H]glucose per misurare la gluconeogenesi in soggetti con diabete di tipo 2. Questi studi hanno dimostrato che in soggetti con diabete di tipo 2 la gluconeogenesi è aumentata di circa 3 volte, che rappresenta tra il 65 e l’85 % della produzione epatica di glucosio totale e che esiste una correlazione diretta tra tasso di gluconeogenesi e glicemia a digiuno nei soggetti diabetici di tipo 2. Questo aumento del tasso di gluconeogenesi potrebbe essere indotto, nel diabete di tipo 2, anche dal fatto che, in questa condizione clinica, si riscontra in genere un aumento delle concentrazioni circolanti di lattato e di glicerolo (7-8) nonché di acidi grassi liberi (8): aumentano quindi sia i precursori della gluconeogenesi che alcuni stimolatori della gluconeogenesi, come gli acidi grassi liberi. È stato osservato infatti che sia il lattato, che il glicerolo, che gli acidi grassi liberi, somministrati in infusione acuta nell’uomo o nell’animale hanno la capacità di indurre un aumento della gluconeogenesi: un meccanismo simile, se operativo nel diabete di tipo 2, potrebbe contribuire in parte all’aumento della gluconeogenesi. Nel soggetto non diabetico, tuttavia, a questo aumento della gluconeogenesi indotto da substrati non corrisponde un aumento della produzione epatica di glucosio, in virtù di probabilmente di un meccanismo di regolazione centrale che vede coinvolto l’ipotalamo ed aree dei nuclei della base. È verosimile che nel soggetto diabetico di tipo 2 via sia una alterata funzione di questi meccanismi di regolazione, mediati magari anche da una insulino-resistenza a livello ipotalamico: questo fa sì che non venga esercitato un “freno inibitorio” sulla G-6-Pasi con il conseguente rilascio in circolo della maggior quota di glucosio prodotta attraverso la gluconeogenesi indotta dall’aumento dei substrati. È stato in effetti dimostrato che la somministrazione intraventricolare di diazossido o di insulina (entrambi in grado di attivare i canali del potassio a livello del nucleo arcuato dell’ipotalamo) è in grado di sopprimere la produzione epatica di glucosio, e che questo effetto viene abolito dalla resezione dell’innervazione vagale sul fegato (9). Anche in vivo, nell’uomo è stato dimostrato un effetto del diazossido nella soppressione della produzione epatica di glucosio. In soggetti diabetici di tipo 2, tuttavia, questo meccanismo appare deficitario, e la somministrazione di diazossido non è seguita da una riduzione della produzione epatica di glucosio di entità pari a quella che si osserva nei soggetti non diabetici (10).

Appare dunque che, nel diabete mellito di tipo 2, una disregolazione della produzione epatica di glucosio, che si traduce in un incontrollato aumento della gluconeogenesi, determina l’instaurarsi della iperglicemia.

EFFETTI DELL’IPERGLICEMIA SULL PARETE VASCOLARE

Che la iperglicemia di per se stessa costituisca un importante fattore di danno vascolare è un fatto oramai accertato. Sono anche stati proposti, ed in larga parte dimostrati, una serie di meccanismi molecolari attraverso i quali la iperglicemia potrebbe essere in grado di provocare danno vascolare. Un sorta si ipotesi “unificante” è quella proposta da Brownlee (11), secondo la quale l’iperglicemia determina un aumento del Diacilglicerolo intracellulare, che a sua volta attiva PKC. Questo sarebbe in grado di generare un aumento dello stress ossidativo, con multiple conseguenze a valle; un aumento della espressione di NF-kB, con conseguente aumento dello stato infiammatorio; un aumento della sintesi e dell’attività di PAI-1, con conseguente diminuzione della fibrinolisi e determinazione di uno stato protrombotico; un aumento del TGF-beta, con conseguente aumentata deposizione di collagene e fibronectina e tendenza alla occlusione vasale; un aumento del VEGF, con aumentata permeabilità capillare e tendenza alla neo-angiogenesi; ed infine una alterazione dell’equilibrio tra produzione di ossido nitrico e sintesi di endotelina -1, con uno spostamento verso la vasocostrizione dell’equilibrio endoteliale.

Tra i diversi meccanismi proposti, noi stessi abbiamo dimostrato che l’esposizione ad alte concentrazioni di glucosio di cellule della muscolatura liscia della parete del vaso in cultura (ottenute in questo caso da cordoni ombelicali umani) risultava in un aumento della espressione e del rilascio nel mezzo di cultura di PAI-1. Anche l’attività del PAI-1 nel mezzo di cultura era aumentata in questo modello, suggerendo, in queste cellule, l’induzione da parte della iperglicemia di uno stato pro-trombotico12. Un effetto della iperglicemia sull’equilibrio trombogenesi/fibrinolisi veniva anche testimoniato dal riscontro, in arterie mammarie di soggetti diabetici di tipo 2 studiate ex-vivo, di una aumentata espressione del PAI-1 (immunoistochimica) a livello della parete vascolare (13) . Nello studio in questione, i campioni di arteria mammaria erano tutti prelevati da soggetti che andavano incontro a by-pass aorto coronarico (e quindi già decisamente affetti da cardiopatia ischemica), ma i soggetti diabetici e non diabetici erano matched per livelli di insulinemia, pressione arteriosa e profilo lipidico, indicando quindi nella differenza tra i valori glicemici un possibile “colpevole” per il documentato aumento di PAI-1 a livello vascolare.

È comunque verosimilmente a livello endoteliale che l’iperglicemia è maggiormente in grado di provocare gli effetti più pericolosi per la salute vascolare. Una delle conseguenze della iperglicemia a livello endoteliale è la alterazione dell’equilibrio tra produzione di NO (molecola con proprietà vasodilatatrici) e sintesi di Endotelina-1 (un potente vasocostrittore) che ha come conseguenza una tendenza alla vasocostrizione. Ci si potrebbe aspettare, quindi, come osservato in alcuni modelli di cellule endoteliali non umane (14), che l’esposizione a concentrazioni elevate di glucosio possa portare ad una diminuzione della espressione e/o della attività di eNOS, l’enzima costitutivo che catalizza la reazione di sintesi dell’ NO dall’arginina. È stato osservato, tuttavia, che l’esposizione di cellule endoteliali umane (HUVEC) ad alte concentrazioni di glucosio si traduceva non in una riduzione, bensì in un aumento della espressione di eNOS (15). Questo dato era confermato dallo studio in situ della localizzazione di eNOS in preparati di cordone ombelicale di campioni prelevati, al parto, da donne affette da diabete gestazionale durante la gravidanza (16). In questi preparati si osservava, rispetto ai preparati di cordone ombelicale prelevati, al parto, da donne non diabetiche, una più intensa localizzazione di eNOS a livello endoteliale. A livello endoteliale, tuttavia, si osservava anche, nei campioni prelevati dalle donne diabetiche, una più intensa localizzazione di nitrotirosine. Queste ultime sono molecole particolarmente rappressentate in cellule esposte ad un marcato stress ossidativo e che nascono dalla interazione della tirosina con i nitroperossidi (specie ad alto potenziale ossidante derivanti dalla reazione di NO ed O). Quando poi venivano studiate in vitro le cellule endoteliali ottenute da cordoni ombelicali di donne diabetica e messe in cultura, si riscontrava che anche in questo modello la espressione e la attività di eNOS erano aumentate, così come era aumentato il contenuto in nitro tirosine (16). In questo modello, tuttavia, era anche possibile quantificare la produzione di O, indice diretto del livello di stress ossidativo, e la generazione di GMP ciclico. Mentre la produzione di O risultava aumentata nelle cellule da cordoni di donne diabetiche rispetto al controllo, la generazione di GMP ciclico non aumentava, a testimonianza del fatto che l’NO prodotto in eccesso in virtù della maggiore espressione ed attività di eNOS non aveva in realtà effetto biologico, probabilmente perché rapidamente trasformato, in ambiente pro-ossidante, in nitroperossido. L’osservazione più interessante era tuttavia quella relativa al fatto che, nelle cellule da cordoni di gestanti diabetiche, le alterazioni nella sintesi e nella biodisponibilità di NO restavano presenti anche dopo numerosi passaggi in cultura. È possibile quindi ipotizzare che l’esposizione ad iperglicemia cronica (in questo caso “in vivo” durante la gestazione) possa indurre nelle cellule endoteliali delle modificazioni epigenetiche in grado di dare effetti negativi per la salute della parete vascolare anche dopo il ripristino di fisiologiche concentrazioni di glucosio. Lo studio di queste possibili modificazioni potrebbe aprire la strada alla comprensione dei meccanismi molecolari sottesi al fenomeno della “memoria metabolica”, ovvero quel fenomeno per il quale l’esposizione ad un periodo di cattivo controllo metabolico condiziona un aumento del rischio di complicanze vascolari anche dopo che il controllo metabolico venga ottimizzato. Ovviamente, tuttavia, l’iperglicemia non è l’unico meccanismo che conduce al danneggiamento della parete vascolare nel diabete. Oltre infatti agli altri fattori di rischio, quali ipertensione e dislipidemia, sicuramente più prevalenti nei soggetti diabetici che nella popolazione generale, anche l’insulino resistenza gioca verosimilmente un ruolo importante nel determinismo delle complicanze vascolari nel diabete mellito di tipo 2, come sarà discusso nel prossimo paragrafo.

EFFETTI DELLA INSULINO RESISTENZA SULLA PARETE VASCOLARE

I soggetti con diabete mellito di tipo 2 presentano nella grande maggioranza dei casi insulino-resistenza, seppur con diversi gradi di severità (17). Fino ad alcuni anni fa l’insulino resistenza “metabolica” (riduzione della clearance del glucosio da parte dei tessuti nei quali l’azione insulinica potenzia la captazione di glucosio, in primis il muscolo scheletrico ed il tessuto adiposo) era stata considerata il principale fattore responsabile della patogenesi del diabete mellito di tipo 2 (18). Attualmente si ritiene che il progressivo deficit della funzione beta cellulare sia il difetto chiave per la patogenesi della malattia (19). Tuttavia, le azioni dell’insulina non sono limitate al mero controllo del metabolismo del glucosio. Numerosi organi e tessuti possiedono infatti i recettori per l’insulina e diversi sono i processi controllati dall’ormone. Oltre alle azioni sul fegato, sul muscolo scheletrico e sul tessuto adiposo, l’insulina è in grado di modulare la risposta infiammatoria agendo sui macrofagi, è verosimilmente coinvolta nel “sensing” dei nutrienti a livello del sistema nervoso centrale ed ha una serie di azioni sull’endotelio (20). Proprio riguardo all’endotelio, una condizione di insulino-resistenza può avere importanti implicazioni relativamente al danno vascolare.

Occorre tener presente che la trasduzione del segnale insulinico a livello delle cellule endoteliali avviene attraverso almeno due vie di signalling (21). La prima passa per l’attivazione di IRS-1 ed IRS-2, attivazione di PI-3-Kinasi ed infine la fosforilazione di Akt. La attivazione di questa via di signalling risulta nella stimolazione della espressione e della attività di eNOS, con conseguente aumento del rilascio di NO e vasodilatazione. L’attivazione di questa via di segnale è quindi potenzialmente anti-aterogena ed anti-trombigena (tra l’altro l’aumento dei livelli di NO nelle piastrine ne diminuisce la aggregabilità). Per contro, l’attivazione dell’altra via di segnale, che passa per il complesso SHC-GRB2 con successiva attivazione di MAP-K, determina aumento della mitogenesi delle cellule muscolari lisce, rilascio di endotelina-1 ed aumento della espressione di molecole di adesione leucocitaria e di PAI-1. L’attivazione di questa via di segnale è quindi potenzialmente aterogena e pro-trombotica. È stato inoltre proposto (22) che la via di segnale che passa per PI-3-Kinasi possa esercitare una azione tonica di inibizione della via di segnale che passa per MAP-K.

Una situazione di resistenza insulinica che selettivamente colpisse la via di segnale “anti-aterogena” potrebbe quindi avere importanti effetti negativi sulla salute vascolare. Non solo, infatti, le azioni potenzialmente anti-aterogene dell’insulina risulterebbero alterate, ma, venendo meno la tonica inibizione sull’altra via di segnale, gli effetti potenzialmente “pro-aterogeni” di quest’ultima ne potrebbero risultare amplificati. Questo è in realtà quello che è stato verificato in una serie di esperimenti condotti su cellule endoteliali portatrici di difetti genetici determinanti insulino-resistenza o in fibroblasti umani ottenuti da soggetti insulino resistenti. In cellule endoteliali portatrici della variante G972R del gene dell’IRS-1, ad esempio, alla ridotta capacità dell’insulina di attivare PI-3-Kinasi corrispondeva una riduzione della capacità dell’ormone di indurre la fosforilazione attivante di eNOS in Ser 1177, mentre aumentava la fosforilazione inibente della stessa proteina in Thr 495. A questo corrispondeva ovviamente una riduzione della capacità dell’insulina in queste cellule di stimolare la produzione di NO. Per contro, la stimolazione da parte dell’insulina della attivazione di MAP-K non solo non appariva compromessa, ma risultava addirittura aumentata (23).

Un discorso analogo può essere fatto per cellule endoteliali portatrici della variante R84 “gain of function” di TRIB3 (24).TRIB3 è una proteina capace di legare Akt, inibendone le fosforilazione da parte di PI-3-Kinasi e quindi di fatto modulando in negativo la sensibilità insulinica. La variante R84 rende la molecola TRIB3 capace di legare più avidamente Akt, inducendo quindi di fatto una insulino-resistenza selettiva per la via di segnale dipendente dalla attivazione di Akt. In cellule portatrici di R84 TRIB3 la capacità dell’insulina di indurre sintesi di NO appariva ridotta, mentre anche in questo caso l’attivazione di MAP-K in risposta all’ormone non solo non era ridotta ma appariva aumentata rispetto alle cellule Wild Type (25-26).

I risultati appena descritti in cellule endoteliali insulino-resistenti perché portatrici di specifiche varianti sono stati osservati anche in fibroblasti ottenuti da biopsie cutanee di soggetti nei quali la presenza di insulino-resistenza non era da mettere in relazione alla documentata presenza di precise varianti genetiche, ma era stata clinicamente documentata attraverso la esecuzione di un clamp euglicemico (13). Anche in queste cellule, a confronto con fibroblasti ottenuti da soggetti risultati insulino sensibili al clamp euglicemico, la fosforilazione di Akt, la fosforilazione in Ser 1177 di eNOS, la attivazione di eNOS e la produzione di NO in risposta all’insulina apparivano ridotte, mentre la induzione della attivazione di MAP-K e della produzione di PAI-1 da parte dell’insulina risultavano conservate o addirittura aumentate.

Una legittima domanda è se a queste alterazioni della risposta endoteliale all’insulina descritte in vitro corrispondano quadri di patologia vascolare in vivo. A questo proposito è interessante notare che in soggetti portatori della variante G972R del gene di IRS-1 è stata osservata una diminuzione della risposta endoteliale alla Acetilcolina (27). Inoltre, in una casistica pubblicata da Baroni et al. (28) il genotipo GR del gene in questione era presente in circa il 19% di soggetti affetti da malattia cardiovascolare ed in meno del 7% di soggetti di controllo. Infine, in una serie di quasi 200 soggetti, la presenza della variante R84 di TRIB3 associava significativamente con un aumento dello spessore intima-media rilevato all’ecografia (29).

FARMACI ANTI-DIABETE E “MITIGAZIONE” DEL DANNO VASCOLARE

Come abbiamo visto, esistono tutti i presupposti molecolari per affermare che iperglicemia ed insulino-resistenza contribuiscono direttamente al danno vascolare nel diabete. Del resto, nel diabete mellito di tipo 2, il controllo della iperglicemia ha il precipuo scopo di migliorare la salute della parete vascolare e di contribuire alla riduzione del rischio cardiovascolare (30-31). Per questo è assolutamente necessario che i farmaci usati nel trattamento della iperglicemia nel diabete non abbiano il benché minimo effetto avverso sull’apparato cardiovascolare: sarebbe invece estremamente importante che i farmaci usati per contrastare l’iperglicemia avessero anche un effetto “diretto” di protezione sulla parete vascolare.

Tra i farmaci introdotti negli ultimi 10 anni nell’armamentario del clinico per il trattamento del diabete ci sono gli agonisti del recettore del GLP-1, o GLP-1 RA (32). La stimolazione del recettore del GLP-1 attiva una serie di meccanismi che possono portare, per via diretta o indiretta, a protezione cardiovascolare (33). Da un lato, infatti, la terapia con GLP-1 RA mitiga diversi fattori di rischio per malattia cardiovascolare, quali l’ipertensione, l’obesità, la dislipidemia e, ovviamente, la iperglicemia. Dall’altro, direttamente a livello della parete vascolare, il GLP-1 sembrerebbe in grado di migliorare la disfunzione endoteliale, di diminuire l’infiammazione e di migliorare la funzione della parete vascolare in genere.

Per quello che riguarda i potenziali effetti indiretti sulla protezione cardiovascolare, il trattamento con GLP-1 RA, oltre ad essere associato a calo ponderale (34), potrebbe avere impatto sulla distribuzione del tessuto adiposo e sulle sue caratteristiche secretive. Nonostante il fatto che studi recenti sembrerebbero dimostrare che il trattamento con GLP-1 RA non migliora la disfunzione del tessuto adiposo sottocutaneo in soggetti obesi (35), dati preliminari del nostro gruppo (36) mostrano che in soggetti obesi con alterazione del metabolismo dei carboidrati studiati prima e dopo aver perso il 7% del peso corporeo attraverso lifestyle counseling o attraverso terapia con liraglutide, la perdita di peso indotta dal trattamento con liraglutide era associata ad una maggiore perdita di grasso viscerale, determinata mediante Risonanza Magnetica Nucleare.

Per quello che riguarda i potenziali meccanismi diretti di protezione vascolare legata all’impiego di GLP-1 RA, il trattamento in vivo con liraglutide si è dimostrato capace di ridurre lo sviluppo delle lesioni aterosclerotiche in topi transgenici APO E ko (37) e di favorire la produzione di NO e di avere effetto anti-infiammatorio in cellule endoteliali in cultura (38). Il nostro gruppo ha recentemente studiato l’effetto di liraglutide in culture di cellule endoteliali ottenute da vasi di cordone ombelicale di donne con diabete gestazionale (e quindi esposte ad iperglicemia in vitro) (39). Queste cellule, rispetto a cellule di controllo, mostrano, in risposta a stimolazione con TNFalfa, una maggiore espressione di molecole di adesione leucocitaria. La pre-incubazione con liraglutide mitiga gli effetti su queste cellule della esposizione a TNFalfa.

Tuttavia, al di là dei dimostrati effetti sui fattori di rischio CV, dei dati degli studi preclinici che individuano una serie di possibili meccanismi molecolari diretti attraverso i quali i GLP-1 RA potrebbero esercitare effetti protettivi, al di là delle meta-analisi dei dati degli studi registrativi che suggeriscono un effetto protettivo (40), un effetto sulla protezione CV di molecole della classe dei GLP-1 RA deve essere dimostrato in trial a questo scopo disegnati. In realtà, a conforto di una protezione cardiovascolare legata all’impiego di queste molecole, in 2 ampi studi di sicurezza cardiovascolare condotti con liraglutide (41) e con semaglutide (42) nei pazienti esposti a GLP-1 RA si riscontrava una significativa riduzione (del 13% e del 26% rispettivamente) dell’end-point primario composto dai 3 classici eventi cardiovascolari maggiori (Infarto non fatale, Ictus non fatale e Morte Cardiovascolare). Il disegno degli studi (trial di sicurezza e non di efficacia), il maggior impiego nel braccio di controllo di altri farmaci anti-diabete (tra cui le sulfoniluree), la popolazione in studio, composta per oltre l’80% di soggetti in prevenzione secondaria, non consentono ancora di affermare in maniera definitiva che molecole della classe dei GLP-1 RA abbiano in generale un effetto diretto di protezione cardiovascolare. Tuttavia, considerando gli studi pre-clinici, gli studi di fisiopatologia in vivo ed i trial clinici ad oggi disponibili è ragionevole pensare che questa classe di farmaci possa rappresentare un valido aiuto nella protezione delle strutture vascolari verso il danno che la disregolazione del metabolismo dei carboidrati, con la conseguente iperglicemia, e la resistenza della parete vascolare all’azione dell’insulina possono causare nel diabete mellito di tipo 2.

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