Maria Grazia Dalfrà, Silvia Burlina, Annunziata Lapolla
DPT Medicina Università degli Studi di Padova-UO Diabetologia ULSS Euganea Padova
DOI: 10.30682/ildia1902b
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L’aumentata prevalenza delle donne affette da diabete tipo 2 in età fertile pone il problema dell’utilizzo dei farmaci antidiabetici orali in corso di gravidanza (1). Il diabete tipo 2 in gravidanza comprende sia il diabete preesistente alla gravidanza, sia “l’overt diabetes” il diabete manifesto, misconosciuto prima della gravidanza (2). Tali condizioni devono essere trattate precocemente ed in maniera intensiva al fine di ridurre le complicanze materne e fetali determinate dalla iperglicemia nel primo trimestre di gravidanza, periodo cruciale per l’organogenesi (3-4); nel diabete tipo 2 preesistente alla gravidanza, inoltre, il trattamento intensivo deve cominciare già in programmazione della stessa. Perciò in tale delicato periodo della gravidanza l’utilizzo di farmaci necessita di un attento esame in termini di possibili effetti dannosi sul prodotto del concepimento (5).
Biguanidi
La metformina principio attivo appartenente alla categoria delle biguanidi attraverso il torrente circolatorio raggiunge i tessuti sensibili, soprattutto muscoli e fegato, dove, mediante l’attivazione della protein chinasi AMP-dipendente, regola l’espressione di differenti geni coinvolti nella regolazione del metabolismo glucidico (non promuovendo la secrezione di insulina pancreatica). In particolare la metformina agisce al livello epatico inibendo la gluconeogenesi e glicogenolisi, aumentando l’ossidazione degli acidi grassi e riducendo la sintesi di acidi grassi non esterificati e lipoproteine probabilmente coinvolti nella desensibilizzazione del recettore insulinico. A livello muscolare invece, grazie anche all’aumento dell’espressione dei recettori per il glucosio, questo principio attivo è in grado di incrementare l’uptake di glucosio, riducendo quindi la glicemia. La metformina è considerata il farmaco di prima scelta nel trattamento del diabete tipo 2 ed il suo utilizzo in gravidanza potrebbe portare a numerosi benefici quali assicurare la stabilità del controllo glicemico in donne già trattate con tale farmaco prima della gravidanza ed in buon controllo glicemico; la modifica della terapia nel primo trimestre di gravidanza può determinare infatti instabilità nel controllo glicemico che potrebbe incidere negativamente sulla organogenesi (3). Le pazienti diabetiche e obese in gravidanza trattate con metformina in associazione ad uno schema di terapia insulinica richiedono dosaggi minori di insulina rispetto a quelle trattate con sola insulina e questo potrebbe costituire un vantaggio in termini di minor incremento ponderale e rischio di ipoglicemia correlata all’utilizzo intensivo della terapia insulinica. L’accettabilità di una terapia orale inoltre è superiore rispetto a quella di una terapia insulinica intensiva, e infine il basso costo della metformina rende tale trattamento più conveniente nei paesi “poveri”.
In questo contesto è utile però sottolineare che la metformina passa la placenta e raggiunge nel feto concentrazioni simili a quelle materne (6). Durante le prime fasi della gestazione l’embrione ha pochi mitocondri relativamente immaturi e ciò è determinato dal basso tasso del metabolismo aerobico rispetto a quello anaerobico (7); studi recenti, condotti su animali, hanno evidenziato che la metformina inibisce il complesso I della catena di trasporto degli elettroni determinando una riduzione della produzione di ATP e un aumentato rapporto AMP/ATP, ciò potrebbe determinare una riduzione della attività mitocondriale e una alterazione della funzione della crescita e della differenziazione dei tessuti fetali e della placenta (8). L’aumento del rapporto AMP/ATP stimola la AMP-protein chinasi attivata che a sua volta inibisce la via mTOR con conseguente riduzione della sintesi e della proliferazione cellulare ed incremento dell’apoptosi (8). La via mTOR è il principale meccanismo di rilevamento dei nutrienti a livello placentare, perciò la metformina potrebbe ridurre l’afflusso di nutrienti quali glucosio ed aminoacidi al feto condizionandone la normale crescita intrauterina: è ben noto, infatti, che la restrizione di nutrienti durante lo sviluppo fetale può determinare nella vita adulta diabete tipo 2, obesità e malattia cardiovascolare (9-10). La metformina inibisce la produzione di acidi tricarbossilici e il trasporto della tiamina necessaria per l’attività dei mitocondri ed anche questa alterazione potrebbe determinare una restrizione della crescita fetale. È noto che trattamenti prolungati con metformina determinano deficit di vitamina B12, tale deficit se occorre durante l’organogenesi può causare insulino resistenza e obesità nei bambini (11). La metformina modifica il microbiota intestinale ciò potrebbe causare modifiche dei livelli di serotonina, della sintesi acidi grassi e dello sviluppo neurologico (12). Tali ipotesi sono state suffragate da una serie di studi condotti su animali, ma vi sono evidenze cliniche a supporto di questi studi di un reale danno fetale determinato dall’utilizzo della metformina nelle fasi cruciali della organogenesi? Una risposta al primo quesito viene dal follow-up del MiG trial (Metformina nel Diabete Gestazionale), che ha evidenziato come donne affette da GDM, randomizzate a metformina (il 46% delle quali ha comunque necessitato di aggiunta della terapia insulinica per raggiungere i target glicemici ottimali), rispetto alle donne con GDM trattate con sola terapia insulinica avevano un minor incremento ponderale in corso di gravidanza e di ipertensione gestazionale. I nati da madri trattate con metformina a due anni mostravano un incremento della massa grassa sottocutanea; inoltre nel follow-up a più lungo termine (9 anni), nel sottogruppo Auckland del trial, anche se alla nascita non vi era nessuna differenza in termini di frequenza di bimbi grandi per età gestazionale (LGA) tra madri trattate con metformina e madri trattate con insulina i nati dalle prime pesavano di più, avevano un BMI maggiore, una più elevata circonferenza addominale con aumento del grasso addominale, un aumento dello spessore delle pliche sottocutanee (13). Inoltre, studi che hanno esaminato i nati da madri con sindrome dell’ovaio policistico (PCOS), trattate con metformina prima e durante la gravidanza, hanno evidenziato, in un follow-up a 8 anni di età, che i bimbi avevano più elevati livelli di glicemia a digiuno e di PAO rispetto ai bimbi delle madri non trattate (14). Engen Hanem et al., inoltre, hanno evidenziato che a 4 anni di età i nati da madri con PCOS trattate con metformina erano più in sovrappeso e/o obesi rispetto ai nati da madri non trattate (15). Tali studi, anche se relativi a casistiche di non elevata numerosità, fanno pensare che la metformina, nei nati da madri trattate con tale farmaco in corso di gravidanza, potrebbe alterare la programmazione fetale, determinando un maggior rischio di malattie metaboliche. La risposta al secondo quesito risulta problematica perché gli studi relativi in letteratura sono controversi. Studi osservazionali suggeriscono che l’utilizzo della metformina nel primo trimestre di gravidanza determina un incremento della mortalità perinatale e della preeclampsia (16-17); tali studi tuttavia hanno una serie di limiti: sono retrospettivi, in alcuni non vi è un gruppo di controllo, le donne trattate erano in non buon controllo glicemico, spesso obese e a rischio di preeclampsia, tutti fattori correlati ad outcome materni e fetali avversi (3-4). D’altra parte, Coetze e Jackson hanno valutato l’effetto dell’utilizzo di metformina nel primo trimestre di gravidanza in gravide con diabete tipo 2 trattate con metformina rispetto a quelle trattate con insulina, e non è emersa nessuna differenza in termini di outcome materno fetale a parità di controllo glicemico (18). Pochi sono poi gli studi randomizzati controllati sull’utilizzo di metformina nel diabete tipo 2. Ainuddin e coll., in uno studio randomizzato, controllato, in aperto, hanno comparato l’outcome di gravide con diabete tipo 2 trattate con metformina rispetto a quelle trattate con insulina (206 donne) ed arruolate entro la 10 settimana di gestazione (s.g). Da sottolineare che 84% delle donne randomizzate in terapia con metformina ha richiesto l’aggiunta di insulina per raggiungere i target glicemici. Comparando i 3 gruppi di trattamento (metformina, metformina ed insulina, insulina), con profili glicemici comparabili, nessuna differenza è emersa nella frequenza di mortalità perinatale; l’ipoglicemia neonatale, il ricovero in Unità di Cura Intensiva e l’ipertensione in gravidanza sono risultati inferiori nel gruppo in metformina, ma in questo gruppo era maggiore la frequenza di bimbi piccoli per età gestazionale (SGA) (19). Refuerzo e coll. (20) hanno comparato 8 pazienti con diabete tipo 2 in gravidanza trattate con metformina con 11 pazienti trattate con insulina, in controllo metabolico accettabile e non differente al concepimento (HbA1c <7%). Nessuna differenza è emersa tra i due gruppi in termini di outcome materno e fetale. Hickman e coll. hanno valutato 28 donne 15 delle quali affette da diabete tipo 2 in terapia con metformina al concepimento e comparate a gravide con diabete tipo 2 di controllo: nessuna differenza è emersa nel controllo metabolico (glicemia, HbA1c), anche se il 43% delle gravide in terapia con metformina ha richiesto insulina per ottenere il buon controllo glicemico. Nessuna differenza significativa è emersa tra i due gruppi in termini di età gestazionale del parto, peso fetale ed outcome neonatale avverso (21). Una meta analisi condotta da Gutzin e collaboratori, che ha preso in considerazione 10 studi (22), ha evidenziato che l’utilizzo di metformina nel diabete tipo 2 in gravidanza non determina aumento della frequenza di malformazioni fetali; gli autori tuttavia commentano che gli studi sono eterogenei perciò i risultati andrebbero interpretati con cautela. Recentemente, inoltre, è stata pubblicata una Cochrane (23) che ha valutato l’effetto degli antidiabetici orali sulla mortalità materna e fetale in donne con diabete tipo 2, IGT e pregresso diabete gestazionale in programmazione di gravidanza. Dei 7 studi randomizzati controllati solo 3 sono risultati eleggibili per la valutazione. L’analisi dei lavori suggerisce che il taglio cesareo, l’ipertensione indotta dalla gravidanza e l’ipoglicemia neonatale siano meno frequenti nelle donne trattate con metformina rispetto alle non trattate, non vi sono invece chiare evidenze riguardo la frequenza di preeclampsia, di bimbi LGA, di parto indotto. Gli autori concludono che poiché gli studi disponibili mostrano una bassa qualità sarebbe auspicabile venissero intrapresi studi randomizzati controllati che valutino l’outcome materno e fetale in donne con diabete tipo 2 trattate con metformina. Attualmente è in corso uno studio multicentrico, randomizzato, controllato che valuterà l’outcome materno e fetale in donne con diabete tipo 2 randomizzate in placebo o in metformina (1000 gr per due al giorno), tra la 6 e la 22 settimana di gravidanza (MiTy Trial).
I sostenitori dell’utilizzo della metformina in gravidanza sottolineano come la terapia con metformina a dosi di 2500 mg/ die ha mostrato, rispetto ai controlli non trattati, migliori i valori di glicemia post prandiale, comparabili valori di glicemie a digiuno e di HbA1c, minor incremento ponderale, maggiore perdita di peso post parto e migliore soddisfazione al trattamento. È comunque da sottolineare che tali dati sono stati estrapolati dai risultati del MIG trial che ha arruolato donne con diabete gestazionale (13). In molti lavori il raggiungimento del buon controllo glicemico è stato ottenuto con l’aggiunta di insulina alla terapia con metformina, inoltre non bisogna tralasciare la frequenza di eventi avversi quali dolori addominali, nausea, diarrea che occorrono circa in un quarto delle pazienti trattate. Dagli studi esaminati, infine, emerge che essi hanno una serie di limiti importanti quali l’essere in aperto, il non essere stati ben disegnati in termini di numerosità così da poter evidenziare differenze significative tra i trattamenti e di essere spesso privi di un appropriato gruppo di controllo; questo non permette quindi di trarre considerazioni definitive sulla sicurezza dell’utilizzo della metformina nel trattamento delle gravide con diabete tipo 2.
Sulfoniluree
La gliburide è classificata dalla FDA farmaco in categoria C per il suo utilizzo in gravidanza; nonostante ciò già nel 2013 l’ACOG raccomanda: “quando è indicato un trattamento farmacologico per le pazienti affette da GDM l’insulina e gli ipoglicemizzanti orali sono equivalenti in efficacia perciò ambedue possono essere considerati farmaci di prima scelta”. Lavori di farmacocinetica sulla gliburide hanno evidenziato che dopo l’ingestione orale la concentrazione del farmaco aumenta tra 30-60 min, ha un picco alla 2-3 h e ritorna alla concentrazione basale entro 8 ore dalla ingestione. Studi eseguiti in gravide mostrano che la clearance della gliburide dal plasma è circa doppia rispetto alle non gravide e ciò determina concentrazioni plasmatiche di farmaco più basse: questo suggerisce che le dosi di farmaco consigliate nel paziente diabetico possono essere non sufficienti nelle diabetiche gravide (24). D’altra parte la necessità di ricorrere in tali pazienti a dosi più elevate, soprattutto se somministrate al mattino e non in corrispondenza dei pasti principali, rende le pazienti più a rischio di sviluppare ipoglicemie. Ma il dato che è importante prendere in considerazione è che studi recenti, che hanno utilizzato una metodica molto sensibile di spettrometria di massa (HPLC MS), hanno evidenziato come la gliburide passi la placenta con un rapporto medio sangue cordone/sangue materno di 0.7, relazione che persiste varie ore dopo la ingestione dello stesso (24). Il trasporto transplacentare della gliburide ha un’importante variabilità individuale con presenza anche di un trasporto inverso feto/madre (25); inoltre uno studio condotto su placente di madri con diabete gestazionale trattate con gliburide ha evidenziato un aumento della espressione di GLUT 1, aumento correlato al peso dei nati, facendo ipotizzare che tale aumentata espressione determini un aumento di glucosio transplacentare con conseguente iperglicemia, iperinsulinemia e macrosomia (26). Questi risultati sono discordanti da quelli pubblicati da Langher e coll. (27) che non ha evidenziato livelli misurabili di gliburride nel sangue del cordone di madri GDM trattate con il farmaco, e sono molto probabilmente ascrivibili a differenze in termini di sensibilità e specificità nelle metodologie utilizzate. Se consideriamo le sulfoniluree di seconda generazione, la gliburide ha mostrato un trasporto transplacentare minimo, infatti studi in vitro, usando dosaggi 100 volte maggiori rispetto a quelli terapeutici, hanno evidenziato un trasporto placentare inferiore all’1% (28). La glipizide ha evidenziato un più elevato trasporto placentare (6.6%); non ci sono dati sulla glimepiride ma, considerando il suo peso molecolare (<500DA) è prevedibile che abbia un trasporto superiore a quello della gliburide (28).
Pochi sono i lavori che hanno valutato l’effetto delle sulfoniluree nella gravidanza complicata da diabete tipo 2: uno studio prospettico in 302 donne con diabete tipo 2 ha valutato l’impatto sull’outcome fetale dell’utilizzo di tali molecole nelle prime 8 settimane di gravidanza. Sono state confrontate pazienti in sola terapia dietetica, pazienti trattate con dieta ed insulina e pazienti trattate con dieta e sulfaniluree (clorpropamide o gliburride o glipizide): nessuna differenza è emersa in questi tre gruppi nella frequenza di malformazioni fetali; le variabili associate allo sviluppo di malformazioni congenite sono risultate i valori di HbA1c al concepimento e l’età materna alla diagnosi di diabete (relazione inversa) (29). Uno studio retrospettivo ha valutato l’outcome materno e fetale in pazienti con diabete tipo 2 in gravidanza, trattate con insulina o glibenclamide o metformina; anche in questo caso non è emersa alcuna differenza significativa tra i tre gruppi nella frequenza di malformazioni congenite, anche in questo studio le variabili associate alle malformazioni erano i livelli di HbA1c al concepimento. I nati da madri trattate con glibenclamide hanno mostrato però un aumento della mortalità perinatale le cui variabili associate sono risultate l’ultima valutazione della HbA1c e la presenza di malformazioni; tali risultati enfatizzano l’importanza del buon controllo glicemico non solo al concepimento ma durante tutta gravidanza ai fini della riduzione degli outcome avversi correlati al diabete in gravidanza (30). Una metaanalisi che ha incluso 10 lavori che hanno valutato donne con diabete tipo 2 in terapia con ipoglicemizzanti orali nelle prime settimane di gravidanza, non ha mostrato differenze significative nella frequenza di malformazioni maggiori e di mortalità neonatale tra le donne esposte e le non esposte, gli autori tuttavia commentano che gli studi sono eterogenei perciò i risultati vanno interpretati con cautela (22). Per quanto riguarda gli altri outcomes materni e fetali nelle gravide che hanno utilizzato le sulfoniluree essi sono deducibili dai lavori condotti su gravide affette da diabete gestazionale. In questo contesto gli studi sono contrastanti, alcuni infatti evidenziano riduzione delle ipoglicemie materne e minore ricovero dei nati in Unità di Cure Intensive nelle donne trattate con gliburide, altri un aumento delle ipoglicemie materne e neonatali, della macrosomia. Inoltre è utile ricordare che in tali studi la frequenza di ricorso alla terapia insulinica per ottenere il controllo glicemico auspicabile varia dal 4% al 46% (31). Infine, tenendo conto della farmacocinetica del farmaco, per ottenere l’effetto adeguato nella paziente diabetica gravida bisognerebbe aumentare la dose, questo potrebbe aumentare la frequenza di alcune complicanze ad esso correlate.
Repaglinide
Uno studio che ha valutato il passaggio transplacentare di repaniglide, utilizzando esperimenti di perfusione placentare ex vivo, ha evidenziato che il passaggio madre feto è basso (32). I lavori che hanno analizzato l’outcome materno e fetale di gravide con diabete tipo 2 trattate con tale farmaco sono scarsi. Mollar-Puchades riporta un caso di una diabetica tipo 2 in cui il farmaco è stato sospeso alla 16 s.g. e sostituito con insulina e nella quale la gravidanza è stata portata a termine senza complicanze (33). Napoli e coll. riportano due casi di pazienti con diabete tipo 2 che hanno concepito in buon controllo glicemico ed in terapia con repaglinide, il farmaco è stato sospeso e sostituito con insulina alla 6 settimana di gestazione; anche in questi casi non sono stati riscontrati outcomes materni e fetali avversi ed in particolare malformazioni (34).
Acarbosio
L’acarbosio, inibitore della alfaglucosidasi, ha un assorbimento intestinale che è inferiore al 2% ed una emivita di 2 ore perciò è prevedibile che non ci sia un trasporto transplacentare. Non ci sono studi in letteratura che hanno valutato l’outcome materno e fetale in gravide con diabete tipo 2, quelli disponibili sono relativi a pazienti con diabete gestazionale in cui non sono riportati outcomes avversi, è da sottolineare comunque che la frequenza di fallimento terapeutico nelle pazienti trattate è del 42% (35).
Glitazoni
Per quanto riguarda i glitazoni, poiché hanno un basso peso molecolare è verosimile che ci sia un trasporto transplacentare. Dati su animali hanno evidenziato come sia il rosiglitazone sia il pioglitazone, a dosi 15 volte superiori alle dosi terapeutiche, siano associati a ridotta crescita fetale e mortalità fetale (36). Il pioglitazone è stato anche associato ad una ridotta frequenza di impianto dell’embrione. Gli studi su pazienti con diabete tipo 2 in gravidanza sino ad ora disponibili sono relativi all’utilizzo del rosiglitazone in un piccolo numero di pazienti (5) e non mostrano eventi avversi materni e fetali; il farmaco comunque non è più in commercio. Non ci sono studi o case reports relativi all’utilizzo del pioglitazone.
Nuovi ipoglicemizzanti orali
Non ci sono lavori relativi all’utilizzo degli analoghi del GLP-1 in gravidanza. Studi su animali hanno evidenziato come tali farmaci a dosaggi 10 volte superiore al range terapeutico determinino anomalie fetali (37).
I DPP-4 inibitori non sono raccomandati in gravidanza; poiché hanno un basso peso molecolare il loro trasporto transplacentare è presumibile, dati su animali hanno evidenziato anomalie fetali a dosi 60 volte superiori a quelle terapeutiche (37). Non ci sono studi relativi a pazienti con diabete tipo 2 in gravidanza.
Gli SGLT2 inibitori non sono raccomandati in gravidanza. Studi condotti su ratti hanno evidenziato alterazioni dello sviluppo renale; è plausibile che anche questi farmaci passino la placenta visto il basso peso molecolare (38-39). Non ci sono dati o case report sull’utilizzo di tali farmaci in gravidanza.
Conclusioni
Il trattamento precoce ed intensivo del diabete tipo 2 in gravidanza è imperativo se si vogliono ridurre le complicanze materne e fetali correlate a questa patologia (3-4). Gli studi relativi alla sicurezza ed efficacia degli ipoglicemizzanti orali nella gravida con diabete tipo 2 sono eterogenei e contrastanti (Tab. 1).
Questo si riflette anche sulle raccomandazioni delle società scientifiche: ADA raccomanda in queste pazienti la terapia insulinica perché non passa la placenta e perché gli ipoglicemizzanti orali sono inefficaci nel ridurre l’insulino resistenza tipica del diabete tipo 2 in gravidanza (40). Le NICE specificano che la metformina può essere utilizzata in aggiunta o in alternativa all’insulina nella fase preconcezionale e durante la gravidanza quando i benefici si rivelano superiori ai possibili effetti dannosi, gli altri ipoglicemizzanti orali devono essere sospesi (41). Gli Standard Italiani raccomandano l’utilizzo dell’insulina (42). La terapia insulinica rimane quindi il “gold standard” per il trattamento del diabete tipo 2 in gravidanza. Sono quindi necessari studi randomizzati, controllati, ben disegnati in termini di numerosità così da poter evidenziare differenze significative tra i trattamenti, condotti su ampie popolazioni che valutino la sicurezza ed efficacia degli ipoglicemizzanti orali in gravidanza e sul feto “later in life”.
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