Paolo Tessari1, Renato Millioni1, Giorgio Arrigoni2
Dipartimento di Medicina DIMED1; Dipartimento di Scienze Biomediche, Università degli Studi di Padova2
Proteomica e “omiche”
La “Proteomica” appartiene ad un gruppo di metodologie, le “-omiche”, che comprendono misurazioni estese di analiti (vedi genomica per i geni, trascrittomica per i trascritti dei geni, cioè gli mRNA, metabolomica, per le analisi di metaboliti, lipidomica, ecc.). Le “-omiche” hanno l’ambizione di misurare la totalità degli analiti di un certo gruppo presenti in un determinato campione. Tali misurazioni sono rese possibili da metodologie sviluppate e perfezionate negli anni più recenti, e presuppongono quindi procedure e piattaforme di analisi capaci, in teoria, di identificare (quali- e quantitativamente) tutti gli analiti presenti nel campione.
Le “omiche” (definite anche indagini “wide-search”, o “unbiased”) rappresentano quindi un approccio differente da quello della biochimica classica, in cui si parte da una definita ipotesi sperimentale, per provare la quale si disegnano esperimenti specifici e mirati. Nelle “omiche” invece, si ambisce a misurare la totalità degli analiti di un campione, spesso senza alcuna ipotesi sperimentale “a priori”, verificando eventuali differenze tra casi e controlli, o tra diverse condizioni sperimentali, in base alle quali vengono poi derivate ipotesi, costruiti meccanismi, predisposti ulteriori esperimenti per lo studio di relazioni causa-effetto, ecc.
Naturalmente, i due approcci possono (anzi, dovrebbero) essere complementari. Un’ipotesi sperimentale ben definita può infatti avvalersi di un’analisi di tipo “omico” per ottenere conferme, o esplorare prospettive più ampie su cui basare ulteriori ricerche. Al contrario, il rinvenire differenze tra campioni in corso di un’indagine “wide search” può stimolare la progettazione di esperimenti specifici per provare relazioni causa-effetto ecc.
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La Proteomica come misura “end-point” della trascrizione del DNA
La recente descrizione del codice genetico dell’uomo ha portato alla identificazione delle sequenze aminoacidiche di tutte le proteine possibili nella specie. Posto che il gene sia “il segmento del genoma suscettibile di essere trascritto che occupa una posizione fissa, o locus, sul cromosoma”; ovvero “la minima sequenza di DNA che codifica per una proteina”, a fronte di circa 20,000 geni riscontrati nel DNA umano (1), si stima che gli mRNA siano in un numero notevolmente superiore (>100,000), e quello delle proteine possibili ancora maggiore (da 10 a 50 volte i trascritti).
Perciò, anche se l’identificazione dei geni è alla base di numerose indagini, ad esempio sulla predisposizione ereditaria alle malattie, essa non evidenzia come le informazioni contenute nel DNA siano poi effettivamente trascritte e tradotte in proteine, ovvero come esse possano essere associate ai meccanismi di insorgenza e/o progressione delle patologie. Inoltre, l’identificazione e la quantificazione in cellule o tessuti non solo degli mRNA trascritti, ma anche di tutte le proteine ivi effettivamente espresse, possibile con la “Proteomica”, è fondamentale anche perché esiste una disparità tra l’espressione degli mRNA e quella delle corrispondenti proteine (2-3).
Il campione, nel nostro caso “biologico”, nel quale effettuare analisi di tipo “proteomico”, può essere rappresentato da liquidi organici (sangue, plasma, urine, trasudati o essudati, saliva ecc.), cellule (ad. es. linfociti, o derivare da colture primarie o da linee cellulari), componenti subcellulari, tessuti, o altro. La Proteomica è una scienza più complessa della genomica, anche per la molteplicità delle molecole proteiche che possono originare dall’espressione di un singolo gene. Tale molteplicità può derivare da differente splicing dell’RNA messaggero, e/o dalla presenza/assenza di modifiche post-traduzionali (PTM). Infatti, isoforme e prodotti di modificazione post-sintetica non sono rilevabili con la sola informazione genomica. Inoltre, come è noto esistono proteine complesse costituite da numerose subunità, il che aumenta la loro numerosità. La complessa catena di trasmissione dell’informazione, dal codice genetico alle proteine (e cataboliti) effettori è rappresentata nella figura 1.
Un’altra caratteristica del “Proteoma” è il suo dinamismo, che dipende dal fatto che l’eterogeneo contenuto proteico di una cellula cambia a seconda delle condizioni in cui essa si trova (ciclo cellulare, stress, trattamento farmacologico, presenza di patologie, ecc.).
Il confronto fra un tessuto sano ed uno malato può evidenziare un gran numero di proteine alterate e può permettere al ricercatore di generare nuove ipotesi. Attraverso l’identificazione delle proteine e della loro funzione è possibile comprendere il complesso meccanismo d’insorgenza e di progressione di una malattia. L’approccio di tipo “Proteomico” è quindi molto ambizioso, di difficile realizzazione ed interpretazione, ma ci può aiutare nella comprensione della realtà senza trascurarne la complessità, che è parte di tutti i fenomeni biologici che caratterizzano la vita.
Il grande e recente sviluppo della Proteomica è dovuto essenzialmente ad innovazioni tecnologiche nel frazionamento delle proteine, nell’analisi delle stesse mediante spettrometri di massa ad alta efficienza, e nella loro identificazione mediante banche dati accoppiate a strumenti bioinformatici indispensabili per l’analisi di enormi quantità di dati. L’ultimo decennio ha visto un aumento costante di pubblicazioni di proteomica in ambito biomedico (Fig. 2).
Tipicamente, la Proteomica genera lunghe liste di proteine identificate in uno specifico campione, e permette di individuare proteine con alterata espressione rispetto al controllo. Tuttavia, il diretto confronto tra elenchi descrittivi di proteine generati in differenti laboratori o in differenti condizioni sperimentali, è spesso difficile, perché vi sono numerose variabili confondenti, quali metodi differenti nella estrazione e pre-separazione del campione (inclusi procedimenti di arricchimento o deplezione delle proteine), differenze negli spettrometri di massa utilizzati, mancanza di standardizzazione nella definizione delle proteine ad “alterata espressione” (inclusi i metodi di validazione statistica), e difficoltà ed incertezze legate agli strumenti bioinformatici.
Anche per tali ragioni, spesso non si valorizza il solo dato di espressione di singole proteine, ma quello di gruppi di proteine, tra di loro associate in vie metaboliche o di regolazione che abbiano un significato funzionale.
Metodologie e Strumentazioni
Il successo di un’indagine Proteomica è quindi necessariamente dipendente dalle tecnologie utilizzate per separazione, identificazione e quantificazione delle proteine. Possiamo introdurre una prima distinzione tra approcci tecnologici di Proteomica di prima e di seconda generazione.
La Proteomica di prima generazione, definita anche “gel-based proteomics”, è fondamentalmente basata sulla tecnica della elettroforesi bidimensionale (2-DE). Questa tecnica consente di separare centinaia di proteine, rappresentate sia da prodotti genici primari che da polipeptidi modificati post-traduzionalmente, contemporaneamente su di un unico gel tramite due processi elettroforetici sequenziali associati tra loro ortogonalmente: l’isoelettrofocusing, cioè una separazione basata sul pI delle proteine; e l’SDS-PAGE, tecnica separativa basata sulla massa delle proteine. L’elettroforesi 2-DE è stata ideata circa quarant’anni fa (4), prima ancora dello sviluppo della genomica, e inizialmente è stata poco utilizzata. La progressione della 2-DE a tecnica leader della ricerca in Proteomica, avvenuto alla fine degli anni novanta, fu favorito sia dalla commercializzazione dei primi Spettrometri di Massa (MS) con sorgenti cosiddette “soft” (MALDI – Matrix Assisted Laser Desorption Ionization e ESI – Electro Spray Ionization), che dall’arricchimento dei database di sequenze proteiche basata su dati genomici. Così, la sinergia tra le capacità separative della 2-DE, la misura accurata e sensibile della massa tramite MS e lo sviluppo di software specifici, ha portato a sviluppare nel 1993 il “Peptide Mass Fingerprinting” (PMF) (5-7), strategia che può essere considerata la prima metodologia di tipo Proteomico ad elevato rendimento (throughput). La tecnica PMF è basata sul concetto che una proteina digerita da un enzima con specificità nota produce un pool di peptidi caratteristici di quella proteina, che possono essere utilizzati come “markers” per la sua identificazione. L’analisi di massa produce uno spettro, peculiare per ogni proteina, che misura la massa accurata di tutti i peptidi prodotti dalla digestione della proteina. Questo dato viene confrontato con quelli generati in silico dalla digestione virtuale (ad opera dello stesso enzima) di tutte le sequenze di proteine presenti nel database (generalmente genomico) di riferimento. I risultati sono poi analizzati statisticamente alla ricerca della migliore corrispondenza tra il valore riscontrato e quello teorico.
Nel corso degli ultimi dieci anni i progressi tecnologici hanno portato a modifiche sostanziali dei materiali utilizzati e delle metodiche applicate alla “gel-based proteomics”. I risultati migliori sono stati raggiunti con la tecnologia DIGE (Differential In Gel Electrophoresis) (8). La tecnica DIGE sfrutta la marcatura diretta delle proteine con molecole fluorescenti, le cianine, con il vantaggio di poter marcare indipendentemente due o più campioni con molecole fluorescenti diverse, mescolarli e analizzarli contemporaneamente in un unico gel. Utilizzando scanner a fluorescenza, si acquisiscono così immagini distinte per ogni singolo campione dallo stesso gel, semplificando così la sovrapposizione degli spot proteici e ottimizzando l’accuratezza delle misure quantitative.
Più recentemente, è stata sviluppata una nuova strategia Proteomica, comunemente nota come Proteomica di seconda generazione, o “MS-based proteomics”, o “shotgun proteomics”. Dalla letteratura, risulta che l’approccio “MS-based” è progressivamente diventato il metodo d’elezione per gli studi di Proteomica (Fig. 2), soprattutto in seguito alla diffusione di spettrometri di massa “tandem” e ad alta risoluzione, capaci cioè di frammentare gli analiti e di analizzarne i frammenti (MS/MS), permettendo così di ottenere importanti informazioni strutturali. L’approccio shotgun consiste nella digestione enzimatica di estratti proteici totali, senza cioè il preventivo isolamento e purificazione delle singole proteine. Teoricamente infatti, tutte le proteine presenti in un campione complesso possono essere identificate attraverso il sequenziamento (ottenuto tramite tandem MS) dei peptidi generati dalla loro digestione, superando così alcune limitazioni tipiche della tecnica 2-DE con la quale, ad esempio, proteine altamente idrofobiche sono difficilmente analizzabili a causa della loro scarsa solubilità. Tuttavia, le miscele di peptidi così ottenuti sono generalmente troppo complesse per essere direttamente analizzate in MS (9), e ciò ha spinto i ricercatori a sviluppare tecniche di cromatografia multidimensionale da eseguire a monte dell’analisi in MS, allo scopo di semplificare il campione e rendere concretamente possibile quest’approccio. Il metodo più comune è il MudPIT, acronimo di “Multidimensional Protein Identification Technology”, che utilizza la cromatografia a scambio ionico, seguita dalla cromatografia liquida a fase inversa (RP-LC) accoppiata alla spettrometria di massa tandem. Il limite principale dell’approccio MudPIT è la ridotta capacità di distinguere tra le diverse isoforme della stessa proteina. Infatti, l’identificazione di una proteina è generalmente validata dal sequenziamento di un numero anche molto basso di peptidi (di solito 2), spesso non sufficienti a distinguere eventuali isoforme. Questo limite può essere superato tramite l’utilizzo di protocolli di arricchimento, che permettano di isolare le proteine che presentano la modificazione di interesse e facilitarne quindi la successiva analisi (10). Complessivamente, tali approcci permettono di identificare le proteine del campione, ma non di determinarne la quantità e/o la concentrazione.
Per eseguire analisi proteomiche tramite MS che siano al tempo stesso sia qualitative che quantitative, esistono diversi approcci, che si basano sulla marcatura metabolica o chimica di proteine/peptidi con isotopi stabili [“stable isotope labeling strategies” quali ad esempio SILAC (11), ICAT (12), iTRAQ (13), TMT (14), o tecniche simili]. Tutte queste tecnologie permettono di confrontare tra loro campioni proteici molto complessi e di identificare le proteine che risultano espresse in modo significativamente diverso nei vari campioni. Accanto a queste strategie che si basano sull’utilizzo di isotopi stabili (distinguibili quindi tramite spettrometria di massa), sono state messe a punto metodiche che non prevedono l’utilizzo di marcatori isotopici, le cosiddette tecniche “label-free”. Questi approcci permettono di ottenere una quantificazione relativa tra campioni diversi, basandosi sul numero di peptidi identificati (spectral counts) (15) oppure sul confronto tra le intensità dei segnali strumentali (approcci “feature-based” o “intensity-based”) (16). Più recentemente soprattutto grazie all’introduzione di tecniche di analisi definite “targeted”, è stato possibile passare da una quantificazione relativa di proteine tra due o più campioni, ad una quantificazione assoluta (17).
Proteomica e modificazioni post-trascrizionali
Le funzioni cellulari sono controllate sia da meccanismi di regolazione genica che dalla presenza di modificazioni post-trascrizionali (PTM) nelle proteine che, per poter essere rivelate, richiedono specifici metodi di analisi. I metodi di preparazione dei campioni utilizzati per l’analisi delle PTM sono in genere gli stessi che si usano nell’approccio “shotgun”, con l’eccezione di specifici passaggi di “arricchimento” di proteine o peptidi con determinate PTM, e con la rigorosa costrizione di inattivare gli enzimi responsabili dell’aggiunta o della rimozione della/e PTM di interesse. In ogni caso, a prescindere alla modificazione in oggetto, è importante ricordare che, rispetto alle analisi del Proteoma globale, per la determinazione delle PTM è generalmente necessaria una quantità di materiale molto maggiore (di circa 100 volte). Per quanto riguarda la fosforilazione, che è la PTM più studiata, esistono protocolli di arricchimento con specificità molto elevata, come ad esempio cromatografie per affinità basate su biossido di titanio -e / o anticorpi anti-fosfotirosina (18).
Per la maggior parte delle PTM, tuttavia, strategie di arricchimento efficaci non esistono, e ciò rende molto difficile questo tipo di analisi (19).
Dai markers singoli a quelli “proteomici”
La Proteomica clinica rappresenta l’applicazione delle tecniche di Proteomica allo studio e al confronto dei Proteomi di tessuti, cellule o liquidi biologi tra soggetti sani e malati. Lo scopo è quello di individuare proteine possibili markers precoci di malattia, o markers prognostici, che possano cioè predire ad esempio la risposta a una specifica terapia o la probabilità della ricaduta dopo un trattamento. La Proteomica clinica intende aprire la strada alla comprensione di meccanismi biologici a livello molecolare, con la prospettiva di sviluppare strumenti diagnostici più efficaci e selettivi, terapie calibrate su gruppi molto ristretti di pazienti o, addirittura, su singoli individui. Bisogna infatti tener presente che la diagnosi basata su marcatori singoli è ormai concordemente riconosciuta come non risolutiva, poiché la maggior parte delle malattie deriva probabilmente da alterazioni poligeniche (20-21). Studi retrospettivi hanno infatti dimostrato ad esempio che la diagnosi di specifiche neoplasie può essere resa molto più accurata combinando markers tumorali preesistenti in modelli predittivi multivariati (22).
Queste considerazioni dovrebbero incrementare l’interesse nei confronti dell’approccio proteomico, per permettere di identificare cluster proteici diagnostici con livelli di specificità e sensibilità più elevati di qualunque altro marcatore singolo.
Proteomica e diabete
Il diabete mellito, soprattutto di tipo 2, è una malattia cronica multifattoriale, derivando da complesse interazioni tra predisposizione genetica e fattori ambientali. Essendo inoltre il diabete mellito una patologia che si esprime in vari fenotipi, tutti comunque convergenti in un’alterazione comune, l’iperglicemia, le interazioni presenti tra i vari fattori (genetici, epigenetici ed ambientali) sono molteplici e si prestano quindi ad essere analizzate con un approccio di tipo “omico”.
Perciò, la Proteomica può rappresentare un utile complemento ad altre indagini più tradizionali per indagare i vari aspetti della malattia. Essa è stata utilizzata sia in studi nel diabete di tipo 1 che di tipo 2, e si inserisce in un approccio coordinato che prevede una accurata caratterizzazione di soggetti ad un livello sia “omico” che clinico ed ambientale, per il maggior numero possibile in fattori, e operando l’integrazione tra di essi (23). Gli aspetti della malattia diabetica nei quali sono state applicate indagini di Proteomica sono numerosi, ad esempio l’eziopatogenesi, la fisiopatologia (in primis l’insulino-resistenza), i markers di complicanza (soprattutto la nefropatia), ecc. Per necessità di concisione e limiti di spazio, in questa rassegna ci occuperemo solo dell’applicazione della Proteomica alla nefropatia diabetica.
Proteoma renale ed urinario
L’esplorazione del Proteoma renale può avvalersi di indagini condotte sia su tessuto renale che nelle urine. L’urina rappresenta un campione di facile accesso che quindi ben si presta ad indagini proteomiche. Essa contiene una grande varietà di proteine e peptidi, ad es. proteine plasmatiche filtrate e secrete, proteine secrete dall’epitelio tubulare renale, peptidi prodotti dalla degradazione di proteine della matrice extracellulare, proteine derivate dalle cellule dislocate lungo tutto il tratto urinario, ecc. Circa il ~70% delle proteine presenti nelle urine deriva da tessuti renali (24) ed esse rappresentano quindi utili markers di fisiopatologia renale.
Il Proteoma urinario umano è stato analizzato utilizzando una varietà di metodi di Spettrometria di Massa, associati o meno a pre-separazioni mediante gel-elettroforesi. In alcuni studi è stata utilizzata la combinazione dell’elettroforesi capillare con la spettrometria di massa (CE-MS), che appare l’approccio ideale per lo studio di proteine con basso peso molecolare quali quelle presenti nelle urine (<20 kDa) (25). Sono state pubblicare numerose rassegne di tipo metodologico sull’utilizzo delle urine come campione per indagini di Proteomica (24, 26-27). Esistono anche numerosi “database” di Proteomica dei tessuti renali normali e delle urine normali, derivati da indagini basate su 2-DE e LC-MS/MS. Per il primo gruppo, esistono descrizioni del proteoma anche in compartimenti anatomici del rene, quali la corteccia renale (28-29) le cellule glomerulari(30), e le cellule epiteliali tubulari (31-32). Per le proteine urinarie, sono state identificate più di 1,500 proteine, per alcune delle quali è stato ricercato il possibile significato di “marker” di malattia renale (33-37). Si ritiene infatti che circa i due terzi delle proteine urinarie rappresentino utili biomarkers della funzionalità renale (24, 38). Sono state così generate ricche liste di proteine identificate nei vari campioni tissutali. Il numero e gli aspetti quali-quantitativi delle proteine identificate in tali indagini dipendono tuttavia da una serie di variabili sperimentali, come anticipato sopra, quali la caratteristica del campione tissutale (intero o frazionato, ad es. glomeruli o tubuli), i procedimenti di estrazione delle proteine precedenti l’analisi in MS, il tipo di spettrometro di massa utilizzato, ecc. L’enorme massa di dati così generata deve inoltre essere integrata utilizzando modalità bioinformatiche standardizzate in sistemi ordinati che permettano di descrivere la funzione d’organo.
Nefropatia diabetica: markers presenti e futuri
Da più di 30 anni l’albuminuria è considerata ed utilizzata quale marker principale di nefropatia diabetica. Poiché essa riflette la filtrazione dell’albumina a livello del glomerulo, è ritenuta indice di danno glomerulare, e ciò implica di per sé una visione “glomerulocentrica” della fisiopatologia della nefropatia diabetica.
Tale visione può tuttavia essere limitata e portare a dei bias interpretativi e di inquadramento fisiopatologico. Il significato della microalbuminuria come indice di presenza e di progressione di nefropatia diabetica, e quindi anche il suo utilizzo quale “endpoint clinico”, sono stati recentemente posti in dubbio (38-42). Inizialmente si riteneva che l’80% dei pazienti con microalbuminuria progredisse entro dieci anni circa ad albuminuria manifesta. Tuttavia, dati più recenti mettono in dubbio il valore predittivo di nefropatia avanzata rappresentato della microalbuminuria. Infatti: 1) solo una limitata percentuale di soggetti microalbuminurici progredisce verso la proteinuria franca; 2) molti pazienti microalbuminurici ritornano alla condizione di normoalbuminuria; 3) un danno renale avanzato è già presente in circa il 30% dei pazienti che progrediscono dalla normo- alla microalbuminuria (43-44); 4) nel T2DM, circa il 20% dei pazienti può sviluppare nefropatia avanzata nonostante una persistente microalbuminuria.
Si ritiene pertanto che siano necessari nuovi markers della presenza o del rischio di sviluppo di nefropatia avanzata, non basati solo sulle alterazioni istopatologiche renali e/o sulla misura dell’albuminuria, ma che si avvalgano di indagini più estese anche di tipo sistematico, quali genomica, trascrittomica, proteomica, metabolomica ecc., tra di loro opportunamente integrate. Le indagini a livello urinario rimangono comunque essenziali, sia per la loro facilità di raccolta e di trattamento pre-analitico, che per la loro stabilità (38).
La causa principale del danno renale nel diabete è considerata l’iperglicemia. Il “Diabetes Control and Complication Trial” (DCCT) ha dimostrato che nel T1DM il grado di controllo metabolico è strettamente associato allo sviluppo della nefropatia (45). Anche nel T2DM, un buon controllo metabolico riduce il rischio di sviluppo sia di microalbuminuria che di macroalbuminuria, anche se non pare modificare la progressione dell’insufficienza renale misurata in base al raddoppiamento dei livelli di creatinina serica (46). Tali studi epidemiologici tuttavia, per loro stessa natura, non permettono di individuare i meccanismi fisiopatologici della nefropatia, ma solo gli effetti dei trattamenti volti al controllo della glicemia. Classicamente, tra i fattori causali di danno renale si includono: un aumento della pressione intraglomerulare e della glicazione di proteine plasmatiche e tissutali con formazione di AGE (47); l’attivazione della via dei polioli (48), della fosfochinasi C (PKC) (49) e della glucosamina (50). Sono stati proposti vari markers di danno renale che possano riflettere ciascuno dei suddetti meccanismi, tuttavia con una visione nel complesso “riduzionistica”. Anche se sono stati individuati punti di intersecazione tra le varie ipotesi patogenetiche, manca forse una visione di insieme della patogenesi del danno renale associato al diabete (51-52).
Un dato che riflette la complessità del problema è anche quello legato all’incidenza della nefropatia diabetica. Nel T1DM, essa cresce progressivamente nei primi 15-20 anni di malattia per poi ridursi successivamente, ed indipendentemente dal controllo metabolico. Nel T2DM, l’andamento effettivo dell’incidenza è mascherato dalla difficoltà di collocare precisamente nella storia clinica del paziente l’inizio del danno renale. La storia naturale della nefropatia nel T1DM comunque suggerisce l’esistenza di una suscettibilità individuale (verosimilmente genetica) al danno renale, sulla quale probabilmente agiscono vari fattori, in primis l’iperglicemia, ma anche cause extraglicemiche.
La presenza di una suscettibilità genetica può estrinsecarsi in alterazioni nell’espressione proteica analizzabili con metodi proteomici. L’analisi della letteratura rivela che negli ultimi dieci anni sono stati condotti molti studi di Proteomica applicati alla nefropatia diabetica (circa 170) (vedi Fig. 3A). In particolare, circa metà di questi studi sono stati condotti su urine umane. Dei restanti studi, il 30% è stato condotto su campioni di biopsie renali da modelli animali, mentre il 20% include studi su plasma, siero e fibroblasti cutanei.
Proteoma nella nefropatia diabetica
Vi sono numerosi dati di Proteomica riguardanti sia il diabete sperimentale che la condizione clinica umana.
Studi nel diabete sperimentale
Nel topo transgenico “OVE26”, modello sperimentale di diabete di tipo 1, sono state identificate alcune decine di proteine con alterata regolazione (53-55)(Tab. 1). Raggruppando le proteine per funzione, sono state evidenziate nel rene in toto aumentate espressioni di inibitori di proteasi, di proteine legate all’apoptosi, di proteine leganti il calcio, e di proteine adattative allo stress ossidativo (ad es. la ferritina) (56).
Utilizzando l’immunoistochimica in tessuti renali di topo ed umani, è stata dimostrata un’aumentata espressione di elastina a livello tubulare, ma non glomerulare (56). Altri ricercatori hanno identificato, in preparati di tubuli renali del topo OVE26, un grande numero di proteine iper- o ipo-espresse (476 in totale, tra le quali proteine implicate nella via di segnale del TGF-β, nello stress ossidativo, nel metabolismo del glucosio e nella regolazione delle giunzioni cellulari) (56). In tale modello sperimentale, la proteina GRAP (Grb2-related adaptor protein) è stata per la prima volta identificata come effettore/regolatore del segnale del TGF-β in cellule tubulari renali.
Utilizzando il topo db/db come modello di diabete di tipo 2, e la separazione delle proteine glomerulari mediante 2-DE, è stata riscontrata un’aumentata espressione di 40 su 105 spots proteici totali (57), tra di essi enzimi coinvolti nella glicazione e alcuni enzimi antiossidanti (perossiredossina 1 e 3, glutatione perossidasi 1, SOD-1, e gliossalasi 1) che indicano probabilmente risposte adattative allo stress ossidativo, anche se l’attività della glutatione perossidasi e della SOD sono risultate invariate. Tuttavia, l’aumentata espressione della gliossalasi, il cui cofattore è il glutatione, risultato ridotto, può essere interpretata come un meccanismo adattativo ma tuttavia insufficiente alla protezione da stress ossidativo, in quanto l’attività della gliossalasi era diminuita (57).
Combinando la separazione 2-DE con la tecnica del Western blot, utilizzando anticorpi per residui di glicazione avanzata, e successiva caratterizzazione mediante Spettrometria di Massa, in estratti di rene da ratti resi diabetici da streptozotocina sono state identificate un grande numero di proteine con alterata espressione, tra di esse proteine glicate e proteine coinvolte in varie vie metaboliche (dello stress ossidativo, e di segnale e trasporto intracellulare) (58).
Gli studi negli animali sono perciò utili all’identificazione di nuove proteine potenziali markers di nefropatia diabetica; tuttavia, alcune discrepanze tra i risultati di differenti studi, pur condotti nello stesso modello animale e con metodi di Proteomica, sottolineano la difficoltà di paragonare tra di loro questi tipi di studi.
Studi nell’uomo
Esistono numerosi studi sul proteoma urinario di soggetti con nefropatia diabetica (59-61). La maggior parte di questi studi ha in realtà avuto come obiettivo l’identificazione di biomarkers, e non la descrizione del proteoma renale in condizioni fisiopatologiche. In ogni caso, sono stati proposti alcuni markers di danno renale, di infiammazione e di stress ossidativo, che potrebbero essere utilizzati come indici precoci o predittivi di DN. Biomarkers di danno glomerulare sono considerati il collagene di tipo IV e la transferrina, mentre quelli di danno tubulare NAG e KIM-1, di infiammazione il TNF-α, e di stress ossidativo l’8-OHdG (42). Complessivamente, tali biomarkers si associano a meccanismi noti di sviluppo e di prognosi di nefropatia.
Nell’ipotesi patogenetica di un ruolo dell’infiammazione tubulointerstiziale nella progressione della DN, sono state ricercate nelle urine chemochine e citochine. Nel “First Joslin Study of the Natural History of Microalbuminuria in Type 1 Diabetes” (condotto tra 1991 ed il 2005) (62) sono stati utilizzati cinque markers infiammatori (IL-6, IL-8, MCP-1, la “interferon gamma-inducible protein, IP-10, e la “macrophage inflammatory protein -1δ), per monitorare la progressione della nefropatia diabetica in pazienti T1DM. Tali indici sono stati tuttavia determinati con una metodologia di “protein array” (quindi non strettamente di tipo “proteomico”). Lo studio è stato condotto in soggetti T1DM con: 1) microalbuminuria e funzione renale stabile; 2) microalbuminuria e un iniziale declino della funzione renale; o 3) normoalbuminuria e funzione renale stabile. I cinque markers infiammatori risultavano più elevati nei soggetti con declino della funzione renale, e la presenza di più di due markers elevati comportava un rischio 5 volte superiore di declino precoce della funzione renale.
In un altro studio nel T1DM con microalbuminuria, i pazienti che evidenziavano un deterioramento precoce della funzione renale presentavano aumentati livelli di tre proteine (IPP2K, ZO-3, e della “cadherin-like protein FAT tumor suppressor-2), mentre tre peptidi risultavano diminuiti (collagene α-1 IV e α-1 V, e della tenascina-X) (63).
Markers genetici di nefropatia diabetica nell’uomo
Esistono numerosi studi su possibili markers genetici utili all’identificazione precoce di soggetti diabetici di tipo 1 a rischio di nefropatia, e alla comprensione dei relativi meccanismi patogenetici. Tali ricerche sono finora risultate nel complesso deludenti. Un assunto delle ricerche di markers genetici è che essi sono evidenziabili in tutte le cellule dell’organismo, indipendentemente dal possibile ruolo esercitato da “fattori ambientali” (come controllo metabolico, durata di malattia, presenza di ipertensione). Tra le cellule possibili, i fibroblasti umani rappresentano un modello cellulare sperimentale ideale, in quanto facilmente accessibile.
Il nostro gruppo ha condotto diversi studi di analisi di tipo proteomico comparativo in fibroblasti cutanei derivati da pazienti T1DM con e senza DN, e da controlli sani (64-68)(Fig. 3). In tali studi, è stato specificamente indagato il possibile ruolo genetico (o “costitutivo”, ereditario) nel determinare differenti profili di espressione. L’ipotesi sperimentale di partenza è stata che, in soggetti con diabete di tipo 1, appaiati per età, sesso, durata di malattia, e controllo metabolico, la presenza o meno di nefropatia dovrebbe associarsi a fattori “costitutivi” piuttosto che ambientali, e rilevabili da un approccio Proteomico. A tal fine, in fibroblasti cutanei derivati dai singoli pazienti, e mantenuti in coltura per 7-8 passaggi allo scopo di minimizzare l’eventuale effetto di fattori ambientali presenti al momento del prelievo, abbiamo sistematicamente utilizzato la separazione delle proteine mediante 2-DE e la spettrometria di massa per la loro identificazione. La presenza di DN è stata associata con alterazioni quali-quantitative di alcune proteine ad attività “chaperonica”, coinvolte nel turnover/folding proteico e nella risposta allo stress (65) e di proteine del citoscheletro (66) con la diminuzione di ß-actina e di tre isoforme di ß-2 tubulina, mentre è stato osservato un aumento di due isoforme della ß-4 tubulina. L’analisi mediante “western blot” della ß-tubulina ha tuttavia dimostrato che l’espressione globale di questa proteina non è differente tra i diversi gruppi, suggerendo così che le alterazioni osservate nelle analisi mediante pre-separazione con 2-DE sono dovute a PTM, piuttosto che a una diversa regolazione genetica.
In accordo con alcuni dei cambiamenti strutturali osservati nella nefropatia diabetica, quali l’accumulo di matrice mesangiale e la fibrosi interstiziale, abbiamo riscontrato un’alterata espressione di una decina di proteine del citoscheletro, tra cui l’α-actina e la vimentina (66). Peraltro, anche da osservazioni riportate in letteratura, il disassemblamento dei filamenti d’actina e una marcata riduzione della ß-tubulina rappresentano importanti caratteristiche di nefropatia diabetica (69-71), anche se in questi ultimi studi tuttavia non erano state esaminate le possibili isoforme di tali proteine.
È stato dimostrato che i pazienti con DN sono più insulino-resistenti rispetto a pazienti appaiati per età e durata del diabete (72). Dal momento che l’insulina stessa svolge un ruolo regolatore tonico nel controllo della rete di microfilamenti di actina (73) e dei microtubuli (74), è anche possibile che la resistenza all’insulina giochi un ruolo nelle alterazioni del citoscheletro associate alla DN. Tra le proteine associate al citoscheletro abbiamo osservato un aumento di espressione della moesina (Membrane-Organizing Extension Spike Protein) nei pazienti diabetici con DN. La moesina è un recettore di AGE (RAGE) (75), la cui espressione è fortemente legata all’iperglicemia e si associa allo sviluppo delle complicanze micro- e macrovascolari del diabete (76-77). L’interazione tra AGE e RAGE induce l’NADPH ossidasi e la conseguente produzione cellulare di ROS (78), che rappresentano eventi chiave nella attivazione di vie metaboliche implicate nello sviluppo delle complicanze del diabete. In colture di fibroblasti cutanei da T1DM con DN, abbiamo anche osservato alterazioni degli enzimi coinvolti nel metabolismo del glucosio che possono anch’esse essere associate all’insulino-resistenza (67), quali un’alterazione quantitativa in tre isoforme della piruvato chinasi ed una riduzione dell’attività totale dell’enzima.
Potenzialità degli esosomi urinari come matrici per indagini di Proteomica
Gli esosomi (vescicole di origine cellulare presenti in numerosi liquidi biologici, incluse le urine), possono rappresentare fonti molto ricche di materiale di significato diagnostico di patologie renali. Tuttavia, la presenza di proteinuria clinica può contaminare la frazione esosomiale che co-precipita con la albumina abbondantemente presente, e richiede quindi procedure complesse di purificazione. Applicando tali procedure e analizzando le frazioni proteiche esosomiali mediante LC-MS/MS, sono state individuate tre proteine (l’AMBP: alpha-1-microglobulin/bikunin precursor; la MLL3, Isoform 1 of histone-lysine N-methyltransferase MLL3; e la VDAC1: Voltage-dependent anion-selective channel protein 1) differenzialmente espresse nella urine di pazienti con nefropatia diabetica (79). La AMBP è una glicoproteina di membrana con attività di inibizione delle serine proteasi. In precedenza, era stata riportata la sua riduzione nelle urine di pazienti con T2DM (80), mentre il dato di segno contrario riportato nella frazione esosomiale sottolinea l’importanza di caratterizzare con cura il campione di origine. La causa dell’aumento della AMBP esosomiale può essere o un’aumentata produzione epatica della proteina che viene successivamente filtrata dai reni, o un’aumentata sintesi locale indotta dalla malattia, ambedue le ipotesi condividendo comunque un’aumentata incorporazione della proteina negli esosomi. La MLL3, (histone methyltransferase metilante la “Lys-4” dell’istone H3), è un bersaglio specifico di attivazione trascrizionale epigenetica, e appartiene alla stessa famiglia di MLL1 e MLL4, proteine che regolano l’espressione genica. MML3 appare implicata nella comunicazione intercellulare ed è essenziale per l’adipogenesi dipendente dall’attivazione del PPARγ (peroxisome proliferator-activated receptor-γ). L’espressione di MLL3 era aumentata a livello di trascrizione in leucociti di pazienti con nefropatia diabetica (81). La proteina “VDAC1” funge da canale trans membrana mitocondriale esterna e della membrana plasmatica. Possiede un’attività reduttasica NADH: ferricyanide-dipendente, e regola crescita e morte cellulare (82), regolando l’apoptosi mediata dai mitocondri.
Conclusioni
La Proteomica può rappresentare una metodica innovativa, seppur complessa, nella ricerca di markers precoci (sia di tipo genetico che non) anche di nefropatia diabetica, e può contribuire ad una più precisa definizione della storia clinica della malattia e della sua eziopatogenesi. Per la sua complessità, tuttavia, richiede standardizzazione di metodiche e personale competente nell’analisi sperimentale e nell’elaborazione bioinformatica dei dati. La costante verifica e condivisione dei dati da parte dei ricercatori dovrebbe inoltre rappresentare una irrinunciabile metodologia per rendere plausibili e applicabili le evidenze sperimentali.
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