a cura di Anna Solini1, Agostino Consoli2
1Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Pisa; 2Dipartimento di Medicina e Scienze dell’Invecchiamento, Università degli Studi di Chieti-Pescara “G. D’Annunzio”
In questo numero, con un approccio che – ancora una volta – non è sterilmente polemico, come forse il titolo della rubrica potrebbe far intendere, bensì integrato e ragionato, Rosalba Giacco ed Ester Vitacolonna analizzano in modo obiettivo ed esauriente il ruolo della terapia medica nutrizionale nel diabete tipo 2. Prendono in considerazione l’efficacia dei diversi regimi dietetici nella prevenzione della malattia e nella induzione del calo ponderale, oltre a discutere, relativamente a queste strategie, gli effetti metabolici e quelli sul profilo infiammatorio, nonché le evidenze che documentano la efficacia di alcune di esse nei riguardi della protezione cardiovascolare. Di particolare attualità, anche per la grande rilevanza mediatica del tema, appaiono le considerazioni sulle diete vegetariane e vegane e sui regimi iperproteici, oggi seguite in modo maniacale, e non sempre con le dovute attenzioni, da molte persone. Uno spazio importante è riservato, ovviamente, alla analisi delle caratteristiche e delle proprietà della dieta Mediterranea.
Le considerazioni finali evidenziano anche la necessità di un approccio combinato che definiremmo “clinico-educativo”, che potrebbe avvalersi con intelligenza e misura anche delle moderne tecnologie di comunicazione. La discussione sottolinea infine come una migliore consapevolezza ed una motivata adesione alle regole che stanno alla base della corretta alimentazione possa consentire al paziente diabetico non solo di mettere in atto una difesa fondamentale contro l’evoluzione della patologia, ma anche di svolgere un ruolo attivo nella gestione della propria malattia, del tutto compatibile anche con i piaceri della buona tavola e, di conseguenza, con una buona qualità della vita. Buona Lettura!
DISCUSSANT Rosalba Giacco1, Ester Vitacolonna2
1Istituto di Scienze dell’Alimentazione, CNR, Avellino;
2Dipartimento di Medicina e Scienze dell’Invecchiamento, Università degli Studi di Chieti-Pescara “G. D’Annunzio”
Premessa
La Terapia Medica Nutrizionale (TMN) rappresenta un momento essenziale di provata efficacia nella prevenzione e cura del diabete mellito.
La grande maggioranza dei soggetti affetti da diabete di tipo 2 (DM2) è in sovrappeso o obeso: per questi pazienti la perdita di peso, rappresenta l’aspetto prioritario della terapia dietetica.
Esiste, infatti, una correlazione diretta tra Indice di Massa Corporea (IMC) e patologie correlate all’obesità, tra cui il DM2; inoltre, come noto, il sovrappeso e l’obesità peggiorano la sensibilità insulinica ed il controllo del diabete. La distribuzione del grasso di tipo viscerale, con aumento della circonferenza addominale, si associa ad un aumento dell’insulino resistenza. È noto anche, pena l’insuccesso terapeutico, che la TMN debba essere supportata da un adeguato intervento educativo e motivazionale (1).
La riduzione del peso corporeo comporta un miglioramento della glicemia e di tutti i fattori di rischio cardiovascolare (CV) presenti nei pazienti diabetici, in particolare iperlipidemia ed ipertensione arteriosa, ed una notevole riduzione dell’uso di terapie ipoglicemizzanti (2-4). La letteratura ci ha mostrato quanto modifiche “intensive” dello stile di vita, che producano un pur modesto decremento ponderale, siano essenziali per prevenire il DM2 in soggetti ad alto rischio (Impaired Glucose Tolerance, IGT). Nel Finnish Diabetes Prevention Study (FDPS) (2) è stato dimostrato che un intervento che prevedeva sane abitudini alimentari ed esercizio fisico (almeno 30 minuti al giorno di intensità moderata) riduceva del 58% il rischio di DM2 in soggetti con IGT. Nello studio sono stati inclusi 522 soggetti con IGT, in sovrappeso o obesi randomizzati in due gruppi: 1) Gruppo di intervento sottoposto a modifica dello stile di vita individualizzato con 10 visite in due anni; 2) Gruppo di controllo: raccomandazioni senza programmi individualizzati (1 visita/anno). Gli obiettivi del programma nel gruppo di intervento erano: 1) una riduzione ponderale di almeno il 5%; 2) grassi nella dieta non superiori al 30% delle calorie totali; 3) grassi saturi non superiori al 10%; 4) presenza di almeno 15 g di fibre/1000 cal; 5) attività fisica: almeno 30 min al dì (cammino, jogging, nuoto, sci ecc.). La riduzione ponderale media nei due gruppi era rispettivamente: -4,2 Kg nel primo anno nel gruppo di intervento, -3,5 Kg nel secondo anno nel gruppo di intervento, rispetto a -0,8Kg nel primo anno nel gruppo di controllo e a -0,8Kg nel secondo anno nel gruppo di controllo.
Analoghi risultati sono stati ottenuti nel Diabetes Prevention Program (DPP), (5) che ha visto coinvolti 3234 soggetti sovrappeso o obesi con IGT assegnati a tre tipi di trattamento: a) intervento intensivo sullo stile di vita, che si proponeva l’obiettivo di raggiungere e mantenere un decremento ponderale di almeno il 7% rispetto al peso corporeo iniziale con una dieta salutare (analoga a quella utilizzata nel FDPS) ed esercizio fisico di moderata intensità (minimo 150 min a settimana); b) trattamento con metformina; c) placebo. Lo studio dimostrava che l’intervento intensivo sullo stile di vita riduceva l’insorgenza di diabete del 58%, mentre nel gruppo trattato con metformina e informazioni standard la riduzione del rischio era solo del 31%.
Il Nurses’ Health Study (6), condotto per 16 anni in 84.941 infermiere senza diabete né IGT, malattie cardiovascolari o neoplasie all’ingresso dello studio, ha dimostrato che il rischio di sviluppare un DM2 era ridotto del 90% nei soggetti: 1) che mantenevano un BMI <25 Kg/m2; 2) che praticavano attività fisica; 3) che assumevano una alimentazione ad alto contenuto in fibre da cereali, ad alto contenuto in grassi insaturi, a basso contenuto in grassi saturi, a basso contenuto in glicidi. Dati recenti con un follow-up di 26 anni del Nurses’ Health Study (7) hanno dimostrato una stretta correlazione tra consumo di carni rosse e latticini ricchi di acidi grassi saturi e rischio di malattia coronarica; al contrario, un dieta caratterizzata da alto contenuto di cibi come pesce, pollame e nocciole, risultava correlata ad un basso rischio.
Analogamente al FDPS e al DPP lo studio Da Qing (8) aveva coinvolto 577 soggetti con IGT normopeso, sovrappeso o obesi in quattro gruppi: tre di intervento (solo dieta, solo esercizio fisico, dieta + esercizio fisico) e uno di controllo, per studiare l’insorgenza di DM2 in 6 anni. Nei gruppi di intervento, la riduzione del rischio di sviluppare la malattia era risultata pari a 31%, 46% e 42% in relazione ai tre tipi di terapia ed in modo indipendente rispetto all’obesità. La dieta prevedeva l’aumento della verdura, la riduzione di alcool e di carboidrati.
Recenti analisi del FDPS (9) hanno altresì dimostrato che, in maniera indipendente rispetto all’esercizio fisico, nei soggetti che seguivano una dieta a basso contenuto di lipidi ed elevato contenuto di fibre si otteneva un maggior decremento ponderale rispetto a coloro che assumevano una dieta ricca in grassi e povera in fibre. Negli studi FDPS (2) e Da Qing (8) è stato dimostrato che l’effetto protettivo dell’intervento persisteva anche diversi anni dopo la fine dello studio. Si può dire quindi che una dieta ricca in fibre con alimenti a basso Indice Glicemico (IG), povera di lipidi, in particolare acidi grassi saturi, sia efficace nel prevenire il DM2 e nel mantenere a lungo termine gli effetti positivi sul peso corporeo.
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- Quale dieta per il decremento ponderale nel diabete tipo 2?
Dieta ad elevato contenuto di carboidrati vs dieta ad elevato contenuto di lipidi
Da tempo i ricercatori ed i clinici dibattono per verificare i vantaggi e gli svantaggi di una dieta ricca in carboidrati, ovvero in proteine, o ancora in lipidi per perseguire e mantenere nel tempo un successo terapeutico che garantisca la prevenzione del diabete, un ottimale controllo metabolico, la prevenzione del rischio CV ma anche una buona qualità di vita, indispensabile per l’adesione a lungo termine.
Da più parti vengono invocate diete che vedano basso contenuto di carboidrati le cosiddette “low carbs” ed è lecito quindi chiedersi quali possano essere i vantaggi per la prevenzione e cura del diabete delle diete che prevedano, appunto, un basso contenuto di carboidrati.
Come noto i carboidrati sono componenti fondamentali della dieta, determinanti importanti della glicemia, in particolare nello stato post-assorbitivo e la loro introduzione è il cardine nella regolazione del metabolismo nella persona con diabete.Molte controversie nascono dal fatto che spesso non si tiene conto del fatto che i carboidrati sono una classe estremamente eterogenea di nutrienti con ampie differenze nella digestione, nell’assorbimento e negli effetti metabolici che determinano (10). L’effetto metabolico dei carboidrati è in relazione alla quantità ed alla qualità di essi, alla loro struttura fisica, alle modifiche che subiscono con la cottura, alla assunzione in combinazione con altri alimenti/ nutrienti in un pasto misto (fibre, proteine, lipidi) (10). Le raccomandazioni nutrizionali (11-12) forniscono le seguenti indicazioni ottimali per il contenuto dei macronutrienti nella dieta per il paziente diabetico: carboidrati: 45-60% delle kcal totali, proteine 15-20 % delle kcal totali, lipidi 25-35 % delle kcal totali.
Come è noto, una dieta moderatamente ipocalorica, con un basso contenuto di lipidi (in particolare acidi grassi saturi) e ricca in carboidrati è raccomandata nei soggetti affetti da DM2 in sovrappeso o obesi. Come già ricordato, i carboidrati sono i più potenti determinanti della glicemia post prandiale e, per questo motivo, alcuni studi di intervento sono stati disegnati precipuamente per comprendere l’efficacia e gli effetti sul peso corporeo di diete ad alto contenuto di carboidrati/ basso contenuto di lipidi vs diete a basso contenuto di carboidrati/ elevato contenuto di lipidi. I risultati suggeriscono che, nel breve periodo (6 mesi), la dieta a basso contenuto di carboidrati/elevato contenuto di lipidi produce un migliore effetto sul peso corporeo; dopo un anno, invece, effetti positivi analoghi sul peso corporeo si raggiungono con la dieta con alto contenuto di carboidrati/basso contenuto di lipidi (10, 13-14).
Alcuni studi hanno valutato l’efficacia a medio/lungo termine di vari tipi di diete rispettivamente con basso ed alto contenuto di carboidrati. Davis e coll. (15) hanno confrontato una dieta a basso contenuto di carboidrati ed alto contenuto di proteine e lipidi moderatamente ipocalorica, con una dieta a basso contenuto di lipidi analoga alla dieta utilizzata nel DPP (5) e nel FDPS (2): moderatamente ipocalorica, equilibrata in nutrienti, comunemente consigliata per il DM2. Lo studio dimostrava che, dopo un anno, la restrizione di carboidrati (meno del 20% dell’apporto calorico quotidiano sotto forma di carboidrati) non comportava un effetto maggiore sul peso corporeo rispetto alla dieta con basso contenuto di lipidi: in entrambi i gruppi il decremento ponderale era in media del 3,4% rispetto al peso iniziale. Un altro interessante studio (16) ha confrontato l’effetto di una dieta a basso contenuto di carboidrati (20% CHO delle calorie totali, 50% di lipidi) vs una dieta a basso contenuto di lipidi (55-60% di carboidrati e 30% di lipidi) in soggetti con DM2 per un periodo di 2 anni; al termine, non vi erano differenze di modifiche sul peso corporeo tra i due tipi di dieta. Si sottolinea che la compliance era stata soddisfacente per entrambi i tipi di dieta. Una metanalisi (17) condotta al fine di confrontare gli effetti sul peso corporeo e sui valori di circonferenza vita di diete a basso contenuto di carboidrati (<45% CHO) vs diete a basso contenuto di lipidi (<30% di lipidi), mostra come non vi sia differenza di efficacia tra le due diete né sui fattori di rischio metabolici, né sul decremento ponderale. Non risultano differenze sul decremento ponderale né della qualità della vita tra soggetti con DM2 che assumono una dieta ad alto contenuto di carboidrati (55-60% della calorie totali)/basso contenuto di lipidi e coloro che introducono una dieta a basso contenuto di carboidrati (20%)/alto contenuto di lipidi (18). Una recente metanalisi mostra la maggiore efficacia anche in termini di decremento ponderale della dieta Mediterranea rispetto ad una dieta a basso contenuto di lipidi (19).
Indice Glicemico e Carico Glicemico e peso corporeo
Parlando di macronutrienti ed in particolare di carboidrati, si rischia, però di essere riduttivi e/o omittenti se, come si sottolineava precedentemente, non si tiene conto della eterogeneità della classe e del differente potenziale impatto sul metabolismo glicidico dei cibi contenenti carboidrati (10, 20). Come noto nel 1981 Jenkins (21) introdusse il concetto di Indice Glicemico (IG). Poiché l’IG non tiene conto dell’effetto della quantità di CHO sulla risposta glicemica, per considerare sia la quantità che la qualità dei CHO, è stato introdotto il concetto di Carico Glicemico (CG).
La tematica è così cogente che è stata oggetto di una recente Consensus (22). Il Comitato, composto dai più autorevoli esperti internazionali, raccomanda l’inclusione nelle linee guida dell’IG e del CG e gli Autori, tra gli altri, affrontano anche il tema degli effetti dell’IG e del CG sulla sazietà e sul peso corporeo. L’impatto glicemico dei cibi sembra essere un fattore che influenza la sazietà e potrebbe, quindi, influenzare l’assunzione di cibo. Il consumo di alimenti a basso CG dovrebbe comportare un minor aumento postprandiale di insulina (23) alterando così la disponibilità di substrati dopo un pasto (24-25).
L’introduzione di un pasto con alto IG e alto CG determina un’impennata dei livelli di glicemia e, conseguentemente, dei livelli di insulinemia maggiore rispetto a quanto accade in seguito all’introduzione di un pasto con basso IG basso e basso CG: l’effetto conduce ad una stimolazione di assorbimento dei nutrienti a livello cellulare, all’inibizione della produzione epatica di glucosio e alla soppressione della lipolisi. Il successivo abbassamento della glicemia indotta dalla relativa/transitoria iperinsulinemia che si verifica con una dieta ad alto indice glicemico comporta un eccessivo senso di fame cui consegue, quindi, iperalimentazione (22).
Diversi studi condotti negli adulti, nei bambini e negli adolescenti hanno dimostrato, in condizioni acute, una diminuzione del senso di fame, un aumento della sazietà, e una diminuita assunzione volontaria di cibo in risposta a basso IG e CG del pasto stesso. Studi di trattamento a breve termine hanno descritto effetti benefici di diete con IG basso o diete a basso CG sul peso e sulla composizione corporea (22).
Cibi ad alto contenuto di carboidrati possono vedere modulato il loro impatto sui valori glicemici e, quindi, il loro IG, in presenza di un congruo contenuto di fibre nel pasto stesso: queste, oltre agli effetti metabolici diretti ed indiretti, comportano un aumentato senso di sazietà (10, 20, 22).
Diete ad alto contenuto di proteine e a basso contenuto di carboidrati
In alternativa alle diete che tengano conto del contenuto di carboidrati e dei lipidi (alto o basso, rispettivamente), sempre più frequentemente assistiamo a proposte di terapie nutrizionali basate su diete iperproteiche e, recentemente, queste sono state studiate anche nel paziente diabetico: esse si propongono, ovviamente, sia la riduzione che il controllo del peso corporeo, sia di trarre possibili vantaggi metabolici delle proteine (26-28).
Tali diete si basano sull’introduzione di proteine in sostituzione di carboidrati e/o lipidi: esse determinano un minor incremento post-prandiale dell’insulinemia, aumentano il dispendio energetico e possono associarsi, nel breve periodo, ad alcuni effetti metabolici potenzialmente positivi. Risultati derivanti da alcuni interessanti studi hanno dimostrato che, a breve termine, le diete contenenti alto contenuto di proteine/ basso contenuto di carboidrati possono influenzare positivamente il calo ponderale rispetto a diete a basso contenuto di grassi/alto contenuto di carboidrati: tali risultati sono da attribuirsi al fatto che le proteine aumentano la termogenesi e preservano la massa magra, aumentano il senso di sazietà e, la chetogenesi da esse indotta sopprime il senso di fame (29-31).
Al fine di indagare l’efficacia in termini di decremento ponderale sono stati condotti studi molto interessanti rispettivamente della durata di 1 e di 2 anni (32-33) volti a confrontare l’effetto sul peso corporeo in soggetti sovrappeso/obesi con DM2 di diete ad alto contenuto di proteine (30% delle calorie totali giornaliere/basso contenuto di lipidi) vs diete ad alto contenuto di carboidrati/basso contenuto di lipidi. Tali studi hanno dimostrato che, alla fine dell’intervento, la dieta ad alto contenuto di proteine non presentava vantaggi rispetto alla dieta di controllo sul decremento ponderale. Si sottolinea, invece, la presenza di un’alta percentuale di drop out a lungo termine nei soggetti che assumevano una dieta ad alto contenuto di proteine/basso contenuto di lipidi rispetto alla dieta ad alto contenuto di carboidrati/ basso contenuto di lipidi.
Una recente metanalisi (31), condotta al fine di verificare l’efficacia in termini di decremento ponderale e di riduzione del rischio CV di diete a basso contenuto di carboidrati/alto contenuto di proteine e/o lipidi rispetto a diete bilanciate, mostra che le diete a basso contenuto in CHO/alto contenuto in proteine e/o grassi, nel lungo periodo, non sono più efficaci delle diete bilanciate quando l’obiettivo è raggiungere un discreto calo ponderale e mantenerlo nel tempo. Di seguito Le caratteristiche di diete a basso contenuto in CHO/ alto contenuto in proteine e/o lipidi sono riportate in Tab. 1.
La dieta “Atkins” è una dieta ad alto contenuto proteico ed a bassissimo contenuto di carboidrati, con un’introduzione di lipidi “naturali” anche di origine animale consentita “ad libitum”.
Tale dieta, data la minima quantità di carboidrati, comporta deplezione dei depositi di glicogeno, escrezione di acqua, stimolazione della chetogenesi (anche per l’elevato contenuto di grassi) e soppressione del senso di fame. L’elevata introduzione di proteine influenza il senso di sazietà riducendo l’introito di cibo e di alimenti calorici, inclusi i lipidi: queste diete, nonostante non siano esplicitamente ipocaloriche, finiscono per essere tali, e particolarmente sbilanciate a favore delle proteine.
La dieta “Zona” prevede una moderata restrizione di carboidrati (40% delle calorie totali), ed una rigorosa ripartizione dei nutrienti, da mantenere ad ogni pasto, nella quale i carboidrati devono rappresentare circa il 40% delle calorie, le proteine il 30%, ed i lipidi il 30%. Anche questa dieta, nonostante non sia dichiaratamente ipocalorica, vede la riduzione calorica come conseguenza di una estrema restrizione di cereali e amidi e dell’effetto saziante delle proteine.
Nel DM2 una dieta iperproteica (30% delle calorie) moderatamente ipoglucidica (40% delle calorie), confrontata con una dieta isocalorica normo/ipoproteica (15% delle calorie da proteine), e normo-iperglucidica (55%), con il 30% delle calorie totali come lipidi, non sembra vantaggiosa in termini di decremento ponderale e di controllo metabolico, che risultano simili nei due tipi di dieta (33).
Un recente trial randomizzato controllato (34), condotto in 88 soggetti obesi al fine di confrontare l’efficacia a lungo termine sul decremento ponderale, sui fattori di rischio CV e su fattori psicologici di una dieta ipocalorica ad alto contenuto di proteine vs una dieta ipocalorica ad alto contenuto di carboidrati in associazione con un trattamento cognitivo comportamentale, mostra come non vi sia differenza sugli endpoints tra i due approcci dietetici e che essi, se combinati appunto ad un approccio educativo intensivo, non mostrano differenze in termini di abbandono del programma.
È da sottolineare, inoltre, che nel paziente diabetico la terapia dietetica non può avere come unico obiettivo la riduzione ponderale, ma deve anche essere in grado di controllare le altre anomalie metaboliche associate al diabete che espongono questo tipo di paziente ad un maggior rischio di eventi e mortalità CV rispetto alla popolazione generale. Essa, inoltre, deve tener conto della presenza di eventuali complicanze, come ad esempio la presenza di una nefropatia incipiente che può essere accelerata e aggravata dall’adozione di regimi dietetici iperproteici.
Diete vegetariane e vegane ed effetti sul peso corporeo
Le diete vegetariane e vegane possono essere ascritte tra le diete ad alto contenuto di carboidrati, con basso IG/basso contenuto di lipidi. Grande interesse proviene dai risultati di studi condotti per valutare l’efficacia di diete vegetariane e vegane (35-36). Nel primo trial randomizzato controllato (35) vi è dimostrazione che la dieta vegana (circa il 10% di calorie totali sotto forma di lipidi, 15% di proteine, 75% di carboidrati) è efficace in termini di decremento ponderale a lungo termine (74 settimane) analogamente ad una dieta basata sulle raccomandazioni ADA. Il decremento ponderale al termine dello studio, pur non mostrando differenze significative tra i due gruppi, era in media di 4,4 kg nei vegani e di 3 kg nel gruppo di controllo. Il decremento ponderale era raggiunto con un esplicito deficit calorico nel gruppo in terapia convenzionale; nella dieta low-fat vegana si raggiungeva un interessante decremento ponderale in assenza di un esplicito deficit calorico: fenomeno collegato, inevitabilmente, alla riduzione di cibi ad alta densità calorica (lipidi) ed all’incremento di cibi con alto contenuto di fibre.
La dieta vegetariana mostrava, dopo 24 settimane, di essere più efficace rispetto alla terapia con dieta convenzionale sul decremento ponderale: 6,2 kg nel gruppo di intervento vs 3,2 kg nel gruppo di controllo (36). Recenti metanalisi confermano questi risultati: importante sottolineare che sia la dieta vegana che la vegetariana prevedono l’introduzione di cibi ad alto contenuto di carboidrati ma a basso IG, cioè provenienti da frutta e verdura, cereali integrali, legumi (37-38).
- Quale modello alimentare per la prevenzione del diabete tipo 2 e del rischio cardiovascolare?
Dieta Mediterranea e rischio di diabete tipo 2
Nelle ultime tre decadi, numerosi studi hanno cercato di chiarire la relazione esistente tra consumo di alimenti, pattern alimentari e rischio di sviluppare DM2. In particolare, due importanti studi osservazionali hanno fornito informazioni sul ruolo del consumo di alimenti o della dieta Mediterranea su tale rischio. Il primo, lo studio EPIC-Potsdam, condotto su una grande coorte di individui sani, durante un follow-up di 8 anni, ha confermato, in linea con altri studi precedenti, che un consumo elevato di cereali integrali, frutta, verdura e caffè è inversamente associato al rischio di sviluppare DM2 (39). Viceversa un alto consumo di carne rossa, burro, insaccati e derivati del latte si associa ad un incremento del rischio di DM2.
Il secondo, lo studio InterAct, condotto su una grande coorte di individui sani appartenenti sia a paesi mediterranei che non mediterranei, ha mostrato come una maggiore aderenza al pattern alimentare mediterraneo riduca del 12% il rischio di DM2 rispetto agli individui che non adottano questo modello alimentare (40). Il ruolo dei pattern alimentari, in particolare della dieta Mediterranea, sulla riduzione del rischio di sviluppo del DM2 è stato rafforzato dai risultati dello studio PREDIMED, che ha valutato gli effetti di due diversi tipi di dieta Mediterranea, una supplementata con olio extra vergine d’oliva e l’altra con una miscela di nuts, rispetto ad una dieta di controllo a basso contenuto in grassi sull’incidenza di DM2 in individui di mezza età, aventi almeno tre fattori di rischio CV (41). Dopo un periodo di follow-up di 4 anni (mediana) il rischio di sviluppare DM2 era del 50% più basso nei partecipanti assegnati alle due diete mediterranee rispetto a quelli assegnati alla dieta controllo. Inoltre, in tutti i bracci dello studio, la maggiore adesione alla dieta Mediterranea era inversamente associata al rischio di diabete. È da sottolineare, inoltre, che in questo studio la riduzione del rischio di DM2 è stata osservata in assenza di cambiamenti significativi a carico del peso corporeo o dell’attività fisica, suggerendo che i meccanismi coinvolti nella riduzione del rischio sono indipendenti dalla perdita del peso e potrebbero essere legati ad altri meccanismi quali un miglioramento della funzione della β-cellula e una riduzione dello stress ossidativo e dell’infiammazione. A tal proposito un contributo è stato fornito dai risultati del recente studio di Koloverou et al., che ha esaminato la relazione tra dieta Mediterranea e incidenza di DM2 durante un periodo di follow-up di 10 anni su un campione di popolazione greca, e ha anche tentato di identificare i potenziali mediatori di questa relazione (42). I risultati dello studio hanno confermato che l’adesione al modello alimentare mediterraneo – valutata mediante il MedDietScore – si associava ad una riduzione del rischio di DM2 (riduzione che era tanto più alta quanto maggiore era l’adesione alla dieta), che la maggiore protezione era dovuta al consumo di cereali integrali, frutta e legumi, e che il ridotto rischio era associato ad un minor stress ossidativo e un grado ridotto di infiammazione subclinica. Infatti, i soggetti che aderivano di più alla dieta Mediterranea presentavano una capacità antiossidante plasmatica totale più alta e livelli sierici di PCR, TNF-α, IL-6, omocisteina e fibrinogeno più bassi rispetto a quelli con un’adesione bassa.
La dieta Mediterranea tradizionale è un modello nutrizionale ispirato alle tradizioni alimentari delle popolazioni che vivevano nei paesi bagnati dal mar Mediterraneo. La sua principale caratteristica è l’alto consumo di olio d’oliva, legumi, cereali integrali, frutta, verdura, nuts, pollame, pesce e derivati del latte a basso contenuto in grassi, un consumo moderato di vino in corrispondenza dei pasti principali, e un ridotto consumo di carne rossa, insaccati e prodotti a base di cereali raffinati. Al modello alimentare mediterraneo si ispirano la dieta “Dietary Approach to Stop Hypertension” (DASH diet) e la dieta “Prudenziale (Tab. 2). Questi pattern nutrizionali, come la dieta Mediterranea, hanno mostrato di ridurre il rischio di DM2 negli individui che li adottano (43-44).
Anche l’adesione a diete semi-vegetariane o vegetariane, basate sul consumo di prodotti vegetali con l’esclusione parziale o completa di carne e/o di prodotti di origine animale, si associa ad un più basso rischio di DM2 (45).
Dieta Mediterranea e fattori di rischio cardiovascolare
Solide evidenze scientifiche indicano che il calo ponderale e la restrizione calorica della dieta sono importanti per raggiungere un buon controllo glicemico nel paziente con DM2. Più limitate sono, invece, le evidenze su quale sia l’approccio dietetico ottimale per controllare i fattori di rischio CV in questo tipo di paziente (46).
Gli studi d’intervento che hanno utilizzato il modello alimentare mediterraneo in pazienti affetti da DM2 hanno mostrato che i pazienti assegnati alla dieta Mediterranea rispetto a quelli assegnati ad altre diete presentavano una riduzione ponderale maggiore e un miglior controllo glicemico e della sensibilità insulinica (47). Anche nei pazienti affetti da DM2 di nuova diagnosi, l’intervento con la dieta Mediterranea riduceva il fabbisogno di ipoglicemizzanti orali rispetto a quello con la dieta ricca in carboidrati/povera in grassi (48). Inoltre, nello studio Dietary Intervention Randomized Controlled Trial (DIRECT), l’intervento con la dieta Mediterranea moderatamente ristretta in calorie, rispetto alla dieta ricca in carboidrati/povera in grassi, induceva una riduzione della glicemia e dell’insulinemia a digiuno a 2 anni dal follow-up in un gruppo di pazienti obesi affetti da DM2 (49). Nello studio PREDIMED, l’intervento con la dieta Mediterranea, sia quella supplementata con olio extravergine d’oliva o quella con nuts, in assenza di restrizione calorica, riduceva del 30% i principali eventi cardiovascolari a 4.8 anni di follow-up (mediana) nei partecipanti affetti da DM2 (50). Inoltre, una metanalisi di trials clinici, che ha comparato gli effetti della dieta Mediterranea rispetto alla dieta povera in grassi sui fattori di rischio CV in una popolazione di 2650 soggetti con e senza DM2, ha confermato che la dieta Mediterranea è più efficace nel ridurre il peso corporeo, la pressione arteriosa sistolica e diastolica, la glicemia e colesterolemia a digiuno e la proteina-C reattiva in un follow-up di 2 anni (51).
I benefici della dieta Mediterranea sul rischio CV sono probabilmente mediati da un miglioramento dello stress ossidativo e dell’infiammazione, due condizioni patofisiologiche coinvolte nello sviluppo del DM2 e delle malattie cardiovascolari. Le evidenze derivanti dagli studi epidemiologici e clinici mostrano che la composizione della dieta può influenzare lo stress ossidativo nel DM2 e il rischio di eventi cardiovascolari dei pazienti (52). In particolare, il consumo di frutta e verdura riduce il danno indotto dallo stress ossidativo, e questo effetto può essere mediato da diversi meccanismi, per esempio un miglioramento delle difese antiossidanti e degli enzimi che riparano il DNA, ed una minore ossidazione lipidica e aggregazione piastrinica che limitano la disfunzione endoteliale. La qualità del grasso della dieta è un altro fattore in grado di influenzare lo stress ossidativo: gli acidi grassi monoinsaturi (MUFA) – il principale tipo di grasso della dieta Mediterranea – hanno effetti benefici, mentre quelli saturi (SFA) hanno effetti dannosi. Più alti livelli plasmatici di lipoproteine ricche in SFA piuttosto che in MUFA potrebbero influenzare la responsività dei recettori nel fegato, inducendo un aumento dei livelli delle LDL e rendendole più suscettibili all’ossidazione, una condizione che incrementa la formazione delle placche aterosclerotiche a livello vascolare.
Per quanto riguarda l’infiammazione, la riduzione ponderale si associa ad un decremento dei livelli plasmatici della proteina C-reattiva (PCR) (53), mentre i risultati degli studi che hanno valutato gli effetti della qualità della dieta sull’infiammazione sono contrastanti.
Una dieta ricca in carboidrati/ricca in fibre/e a basso indice glicemico, oppure una dieta ricca in MUFA hanno mostrato effetti simili sui livelli plasmatici a digiuno della PCR, mentre un piccola ma significativa riduzione della PCR in fase postprandiale è stata osservata con la dieta ricca in MUFA (54). Le fibre e la loro origine potrebbero avere un ruolo critico nell’influenzare l’infiammazione; infatti, una dieta ricca in cereali integrali a base di frumento non ha evidenziato alcun effetto sui markers dell’infiammazione, mentre lo studio di de Mello et al. (55) mostrava che il consumo di pane di segale integrale riduceva i livelli di PCR.
Un accumulo di grasso a livello epatico si associa ad una riduzione della sensibilità insulinica a livello periferico ed epatico, che aggrava le alterazioni metaboliche presenti nel paziente diabetico (56). Una riduzione ponderale modesta, come quella osservata nello studio Look AHEAD (8% del peso iniziale) può ridurre in modo significativo il grasso epatico in pazienti con DM2 dopo 12 mesi dall’intervento sullo stile di vita (57). Tuttavia, la qualità della dieta può influenzare il grasso epatico anche indipendentemente dal calo ponderale; infatti è stato dimostrato che una dieta ricca in MUFA può ridurre il grasso epatico di almeno il 30% nei pazienti con DM2 in assenza della riduzione del peso corporeo (58).
Dieta Mediterranea e morbidità/mortalità cardiovascolare
È noto che circa il 70% della mortalità nei pazienti con DM2 è dovuta a malattie cardiovascolari. Numerosi studi epidemiologici hanno osservato che il consumo di una dieta sana (Mediterranea, DASH o prudenziale) riduce il rischio di malattia CV in individui sani; le evidenze nel paziente con DM2 sono, invece, inferiori (59-61).
La maggiore adesione ad un modello alimentare salutare, caratterizzato da un consumo elevato di frutta, verdura, cereali integrali, legumi, nuts e di pesce rispetto alla carne, al pollame e alle uova, si associa ad una riduzione di circa il 20% di eventi CV in una coorte di pazienti con storia pregressa di malattie CV e diabete. I risultati di questo studio mostrano che una dieta sana è importante non solo nella prevenzione primaria delle malattie CV ma anche in quella secondaria, e nei pazienti ad alto rischio CV (62).
Due studi d’intervento, randomizzati e controllati, hanno cercato di chiarire se un intervento sullo stile di vita o anche solo di tipo nutrizionale sia in grado di incidere sulla morbidità e mortalità CV di pazienti affetti da DM2. Il primo, lo studio Look AHEAD (4, 63) ha mostrato che un intervento intensivo sullo stile di vita, focalizzato a ridurre il peso corporeo, è in grado di migliorare i fattori di rischio CV ma non gli eventi e la mortalità CV rispetto al gruppo di controllo (64). Numerosi sono i motivi che possono spiegare l’assenza di effetto sugli eventi; tuttavia il basso potere statistico dello studio e un miglioramento dei fattori di rischio CV anche nel gruppo di controllo sembrano giocare un ruolo rilevante.
Il secondo, lo studio PREDIMED ha fornito, invece, risultati completamente diversi. Questo studio è stato terminato prima del tempo previsto sulla base dei chiari benefici mostrati dalle due diete mediterranee utilizzate. Infatti, le due diete Mediterranee (quella supplementata con olio extravergine d’oliva e l’altra con nuts) riducevano di circa il 30% l’incidenza degli eventi CV maggiori rispetto alla dieta di controllo nei soggetti ad alto rischio CV, incluso i pazienti con DM2 che rappresentavano circa il 50% della popolazione totale (65). Sebbene la chiusura precoce dello studio possa aver causato una sopravalutazione degli effetti del trattamento, i risultati suggeriscono che anche piccoli cambiamenti della composizione della dieta possono essere efficaci nella riduzione del rischio CV nei pazienti con DM2.
Gli effetti benefici della dieta Mediterranea sulla riduzione dei fattori di rischio e degli eventi CV nel paziente diabetico sono da attribuire alla sua equilibrata composizione in macro e micronutrienti. Infatti, il consumo di olio di oliva, il moderato apporto di formaggi e latticini e il basso consumo di carne fa sì che il contenuto totale in grassi di questa dieta vari dal 25% al 35% delle calorie; di esse solo l’8% o meno è rappresentato dai grassi saturi, e la gran parte dai MUFA (66). Inoltre, il consumo elevato di cereali integrali, legumi, frutta e verdura e basso di cereali raffinati, garantisce un apporto variabile di carboidrati e fibra vegetale a basso IG e CG.
La dieta Mediterranea è anche un’importante fonte di vitamine, minerali e polifenoli. I polifenoli, particolarmente i flavonoidi, le vitamine e alcuni minerali quali selenio e zinco posseggono spiccate proprietà antiossidanti e anti-infiammatorie; grazie a queste proprietà contribuiscono al miglioramento della sensibilità insulinica e possono contrastare i fattori di rischio CV del paziente con DM2. Probabilmente, i macro e micronutrienti agiscono con meccanismi diversi e in modo sinergico, massimizzando e potenziando gli effetti cardioprotettivi della dieta Mediterranea.
- Riflessioni conclusive, criticità e possibili sviluppi futuri
L’importanza dell’approccio educativo. Come noto, però, a prescindere dal contenuto in macro e micronutrienti, la sola dieta prescittiva non può essere efficace nel lungo periodo: per produrre modifiche durevoli delle abitudini di vita e per garantire l’aderenza a lungo termine la TMN deve essere considerata una vera e propria terapia del “cambiamento di comportamento”, con la sua complessità, in cui l’approccio educativo-motivazionale è determinante, come mostrano gli stessi risultati dello studio Look AHEAD (4, 63).
La “dieta Mediterranea” resta uno degli approcci più validi anche per la perdita di peso, come dimostrato dallo studio DIRECT (49). Dopo 24 mesi la perdita di peso era in media di 4,4 kg con la dieta Mediterranea, 4,7 kg con la dieta a basso contenuto di carboidrati e di 2,9 kg con la dieta a basso contenuto di grassi. Nei 36 soggetti con diabete la dieta Mediterranea si dimostrava più efficace nel migliorare i livelli di glicemia a digiuno. Nei pochi soggetti di sesso femminile inclusi nello studio, la dieta Mediterranea era più efficace in termini di decremento ponderale rispetto alle altre due terapie nutrizionali.
L’analisi esposta ci mostra risultati di autorevoli studi che, condotti in condizioni sperimentali, ci danno indicazioni preziosissime, ma è lecito chiedersi cosa possiamo trarne per dare indicazioni pratiche, concrete ed efficaci ai nostri pazienti.
Lo studio MIND-IT (66) ha mostrato, tra i tanti risultati di grande interesse, una grande criticità: la difficoltà per il diabetologo di utilizzare strategie educative per mancanza di tempo e per mancanza di personale formato. Tale criticità pone l’attenzione sulla necessità di migliorare l’approccio educazionale sulla dieta e sulle modifiche dello stile di vita nella maggioranza delle strutture diabetologiche italiane, ottimizzando strategie e tempi. Gli stessi studi DPS e FDPS hanno dimostrato come un intervento educativo strutturato sia in grado di indurre modifiche durature del comportamento anche al di fuori delle condizioni sperimentali. Alcuni esempi virtuosi italiani (67) mostrano come anche nella “vita reale” sia possibile praticare un approccio educativo volto all’implementazione della terapia medica nutrizionale nel diabete ed alla promozione di uno stile di vita non sedentario. Probabilmente l’utilizzo del web ed il superamento della necessità di compresenza fisica, in associazione a modelli tradizionali di terapia educativa, potrebbero portare vantaggi. Esperienze preliminari mediante l’uso di un Web Game educativo sono state riportate recentemente in ambito preventivo, al fine di promuovere uno stile di vita salutare e prevenire la diabesità in adolescenti (68).
Ma quale può essere un approccio nutrizionale da considerarsi “ideale”? Un approccio ideale può essere considerato quello che, con piccole modifiche, abbia effetti favorevoli sui diversi fattori (anche su quelli psico-sociali) e porti, quindi, ad una sostanziale riduzione del rischio di sviluppare patologie. Nel concetto di “idealità” rientra anche il concetto di gradevolezza: infatti una alimentazione gradevole è certamente ideale per favorire l’adesione ed essere seguita nel tempo.
Per cercare di individuare tale tipo di dieta “ideale”, occorre considerare vari aspetti: 1) l’apporto calorico; 2) i diversi nutrienti (grassi, carboidrati ecc.), di cui deve essere valutato l’effetto protettivo non solo in relazione alla quantità ma anche alla loro diversa qualità; 3) la relazione tra alimenti e particolari modelli alimentari; 4) la gradevolezza; 5) la sostenibilità.
Analizzando i grandi studi che si sono occupati di dieta nella prevenzione del diabete, si evidenzia che la già richiamata “dieta ideale” presenta le seguenti caratteristiche: innanzitutto una moderata restrizione calorica nel paziente in sovrappeso, con l’obiettivo di una perdita di peso del 5-7%, la riduzione dei grassi totali (<30% delle calorie totali), la riduzione dei grassi saturi (<10% delle calorie totali), la riduzione degli acidi grassi trans, l’aumento delle fibre vegetali (aumento di legumi, vegetali, cereali integrali, frutta).
I risultati dei trials clinici indicano che il calo ponderale e la restrizione calorica della dieta sono importanti per raggiungere un buon controllo glicemico nel paziente con DM2, che nel breve termine la perdita di peso è dovuta alla restrizione calorica piuttosto che alla composizione in macronutrienti della dieta, e che la composizione della dieta è importante per il mantenimento del calo ponderale a lungo termine. Regimi dietetici particolarmente ristretti in uno dei macronutrienti non sono sostenibili a lungo, mentre migliori risultati si osservano con l’utilizzo di approcci dietetici realistici che hanno un background culturale, offrono un’ampia flessibilità nella scelta degli alimenti, rispettano le tradizioni culinarie e le necessità metaboliche di ciascuno paziente senza compromettere la qualità globale della dieta.
Infine, le informazioni relative all’effetto di interventi nutrizionali sull’incidenza degli eventi CV e della mortalità CV nel paziente con DM2 sono molto scarse. L’unico studio d’intervento che ha valutato gli eventi CV, anche in un numero rilevante di pazienti diabetici, mostra un chiaro e significativo beneficio della dieta Mediterranea, indipendente dalle variazioni del peso corporeo. L’altro studio, il Look AHEAD che pure ha investigato l’effetto sul rischio di eventi CV di un intervento intensivo sullo stile di vita, focalizzato sulla riduzione ponderale, non ha invece mostrato alcun beneficio sugli eventi CV. L’assenza di effetti osservati in questo studio certamente non minimizza l’importanza della dieta e dell’attività fisica nel trattamento del DM2, perché i cambiamenti indotti sono utili a ridurre il peso corporeo, la quantità di farmaci e il loro costo, gli eventi di apnea durante il sonno, a migliorare la qualità della vita e, in alcuni casi, a raggiungere la remissione della malattia. Per poter meglio comprendere come è possibile ridurre la morbilità e mortalità CV nel paziente con diabete è necessario effettuare altri studi d’intervento a lungo termine che non siano mirati solo alla riduzione ponderale, ma che valutino anche l’effetto delle modifiche della composizione della dieta sul rischio di eventi.
In conclusione, i risultati degli studi disponibili rafforzano i principi su cui sono basate le attuali raccomandazioni nutrizionali per il paziente con diabete, e sottolineano l’importanza di adottare modelli alimentari salutari che più si adattano alle esigenze metaboliche e culturali del paziente.
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