Preservazione di massa e funzione beta-cellulare nel diabete tipo 1

Chiara Guglielmi, Rossella Del Toro, Chiara Di Emidio

Dipartimento di Endocrinologia e Diabetologia, Università Campus Bio Medico di Roma

Diabete di tipo 1

Il diabete di tipo 1 (T1D) si sviluppa come risultato di una cronica e progressiva distruzione delle beta-cellule pancreatiche. Questo danno dipende da una perdita selettiva di tolleranza immunitaria che porta ad una un’estesa infiltrazione delle isole pancreatiche da parte di linfociti T citotossici. Il meccanismo autoimmune è confermato dalla presenza in circolo di un pool di auto-anticorpi (Abs) ancor prima dell’insorgenza della malattia: anti decarbossilasi dell’acido glutammico (GAD), anti-tirosina fosfatasi (IA 2) e anti-insulina (IAA). Questo processo, una volta avviato porta all’insorgenza della malattia sul piano clinico (1). Oltre al meccanismo autoimmune esistono altri componenti patogenetici che partecipano allo sviluppo della malattia e dunque il T1D può essere considerato una tipica malattia multifattoriale autoimmune. Caratteristiche genetiche, aspetti immunologici e fattori ambientali hanno un peso diverso nel determinare l’insorgenza del T1D a seconda dell’età alla diagnosi. La suscettibilità genetica ricopre un peso importante nell’insorgenza del T1D; maggiore è il rischio e più precoce sarà la comparsa della malattia. Negli ultimi anni l’incidenza del T1D è aumentata progressivamente, in particolare nella popolazione pediatrica.

L’esordio clinico della patologia rappresenta la fase terminale di un progressivo esaurimento delle cellule beta pancreatiche funzionanti che spesso è preceduto da un periodo asintomatico che può durare addirittura per diversi anni (2-3). Al momento della diagnosi di T1D, il paziente presenta spesso una grave riduzione della massa beta-cellulare e solo il 15-20% delle beta-cellule è ancora in grado di produrre insulina (4).

Diversi sono i fattori che partecipano al processo che determina la disfunzione beta-cellulare e tale meccanismo una volta instauratosi conduce alle seguenti alterazioni: a) riduzione della massa beta-cellulare, b) alterata produzione di insulina, c) alterazioni nel processo di attivazione della proinsulina in insulina.

Preservare questo esiguo numero di cellule deve essere dunque l’obiettivo cruciale di ogni diabetologo che si trovi di fronte ad un paziente con una neodiagnosi di T1D.

Fino a qualche anno fa si riteneva che entro un anno dalla diagnosi di T1D la massa beta-cellulare fosse completamente esaurita. Le metodiche di laboratorio oggi disponibili, sempre più precise e sensibili, hanno invece dimostrato che il C-peptide è ancora dosabile anche in pazienti affetti da T1D di lunga durata (5) (Fig. 1).

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A conferma di questo dato e sicuramente di grande interesse sono i dati riguardanti il C-peptide raccolti dal Diabetes Joslin Medalist Study (6). Questo studio ha dimostrato che più del 60% dei pazienti affetti da T1D da più di cinquant’anni mostrava livelli di C-peptide >0.03 nM.

I fattori che favorivano una migliore conservazione del C-peptide erano: miglior controllo glicemico, età maggiore alla diagnosi di T1D e genotipo HLA DR3 (6).

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Le beta-cellule pancreatiche

La normale funzione beta-cellulare dipende essenzialmente dall’integrità dei meccanismi che regolano la sintesi e il rilascio dell’insulina, nonché dalla massa complessiva delle cellule beta. Il regolatore più importante della secrezione insulinica è il glucosio anche se numerosi altri nutrienti, così come vari ormoni, neurotrasmettitori e farmaci possono influenzare il rilascio di questo ormone (7-8). Per quanto riguarda la massa beta-cellulare, i principali meccanismi che la regolano sono: l’apoptosi, le dimensioni delle singole beta-cellule, la replicazione e la neogenesi (9-10) (Fig. 2).

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Il C-peptide è un frammento di 31 aminoacidi originato dalla trasformazione della proinsulina in insulina e rappresenta un indice dell’attività secretoria delle beta-cellule pancreatiche in quanto la secrezione di insulina e di C-peptide è equimolare (11). Tuttavia i livelli a digiuno del C-peptide sono 5-10 volte superiori a quelli di insulina, poiché l’emivita del C-peptide è molto più lunga (12). Il C-peptide non è metabolizzato dal fegato (13-14), è rimosso dalla circolazione e degradato nei reni, ha una clearance periferica costante e non varia in presenza di alterazioni della glicemia (15). Il dosaggio dei livelli di C-peptide in risposta ad uno stimolo è dunque, ad oggi, l’unico mezzo in grado di fornire una misurazione diretta della funzione beta-cellulare.

Fattori che influenzano la funzione beta-cellulare

Diversi fattori sono stati studiati come predittori della storia naturale della funzione beta-cellulare nel T1D. I principali fattori correlati alla funzione beta-cellulare residua sono riassunti nella seguente tabella.

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Età. Karjalainen et al. (16) hanno dimostrato che il T1D che esordisce in età adulta (20-55 anni) è caratterizzato da una fase preclinica asintomatica più lunga e da un miglior mantenimento della funzione beta-cellulare residua rispetto al T1D esordito nell’infanzia (1.3-18 anni). Analogamente, in uno studio prospettico condotto da Sherry et al. (17), è stato dimostrato che una maggiore riserva secretoria di insulina correla con un’età alla diagnosi più avanzata. Il Gruppo IMDIAB ha analizzato 553 soggetti consecutivi con recente diagnosi di T1D valutando il C-peptide basale e dopo stimolo e correlandolo con i parametri clinici. È stato dimostrato, in accordo con altri lavori in letteratura, che i livelli di C-peptide erano più alti nei soggetti in età puberale e in età giovane-adulta rispetto ai pazienti in età pre-puberale (18).

La correlazione inversa tra l’età e la maggiore perdita della riserva insulinica alla diagnosi può suggerire un andamento più aggressivo del T1D nei giovani. Comunque, è possibile che ciò dipenda anche da altre variabili come una minore risposta insulinica nei pazienti più giovani e/o una maggiore insulinoresistenza nei pazienti più anziani.

Disfunzione beta-cellulare. È stato ipotizzato che differenti pattern di disfunzione beta-cellulare possano identificare differenti gradi di progressione della malattia. Per esempio, è stato trovato che pazienti con un’insulinsecretory rate (IRS) ritardata in risposta al MMTT (38% dei T1D ma solo 5% dei soggetti di controllo) hanno una percentuale più bassa di perdita dell’ ISR nell’area sotto la curva dopo MMTT, rispetto a quelli che presentano una risposta precoce normale al pasto (19). Alcuni studi condotti in Scandinavia hanno inoltre dimostrato che un basso rapporto proinsulina/C-peptide si associa a una prolungata fase di remissione parziale (20).

Controllo glicemico. I primi studi sulla funzione beta-cellulare hanno dimostrato che uno stretto controllo glicemico migliora la risposta del C-peptide dopo stimolo ma che gli effetti sono di breve durata (21-22). La glucotossicità è stata proposta come uno dei principali stimoli dell’apoptosi, meccanismo coinvolto nel processo che conduce alla morte cellulare, alla perdita di massa beta-cellulare e conseguentemente al declino della secrezione insulinica (23-24). È stato infine ipotizzato che un più stretto controllo metabolico possa anche ridurre l’espressione di un autoantigene, l’insulina, intervenendo quindi nella modulazione della risposta immunitaria.

Altri fattori. Non ci sono evidenze consistenti sull’utilizzo di altri parametri come predittori della storia naturale della funzione beta-cellulare, sebbene diversi autori abbiano trovato una progressione più rapida di malattia nei soggetti con positività anticorpale. Bonfanti el al. (25) hanno riportato che la fase di remissione della patologia era più comune nei pazienti più anziani con anticorpi anti GAD negativi ma che il sesso, gli IA-2 e l’HLA-DR non erano associati indipendentemente con la secrezione di C-peptide o con il fabbisogno insulinico. Risultati simili sono stati riscontrati negli studi di Torn et al. (26) e Decochez et al. (27), in cui la giovane età alla diagnosi e l’alto titolo di ICA identificavano un gruppo di soggetti affetti da T1D a rischio per una più rapida perdita della funzione beta-cellulare residua. In alcuni studi, oltre agli autoanticorpi anche il sesso maschile è stato associato ad una più rapida progressione nel declino della funzione beta-cellulare (28).

Importanza clinica della funzione beta-cellulare residua

Numerosi studi condotti su un numero relativamente piccolo di pazienti hanno dimostrato che il mantenimento della funzione beta-cellulare nel T1D determina un miglior controllo metabolico con conseguente riduzione delle complicanze organo-specifiche, in particolar modo della retinopatia (29-30).

L’evidenza più stringente che il mantenimento della funzione beta-cellulare risulti in un miglior controllo metabolico e conseguentemente in una riduzione delle complicanze è stata fornita dal DCCT. Nel DCCT, una pietra miliare della ricerca epidemiologica in diabetologia, furono reclutati 1.441 pazienti affetti da T1D, con una durata di malattia variabile da 1 a 15 anni, randomizzati in due gruppi: uno in trattamento insulinico intensivo con l’obiettivo di mantenere livelli glicemici il più vicino possibile ai livelli normali, e uno ad un trattamento insulinico standard che mirava semplicemente al controllo dei sintomi di iperglicemia. Come è noto, la diversa modalità di trattamento nei due gruppi, seguiti in media per 6.5 anni, risultò associata a una differenza significativa nella media di HbA1c ed a una marcata riduzione nel rischio di comparsa e progressione delle complicanze microvascolari nel gruppo in trattamento insulinico intensivo. In un lavoro successivo (31), è stata invece valutata l’associazione tra i livelli di C-peptide al momento dello screening iniziale per la partecipazione allo studio, il controllo metabolico e il fabbisogno insulinico dei pazienti seguiti dai medici di medicina generale. I pazienti sono stati suddivisi in gruppi in base alla risposta del C-peptide al MMTT: <0.05, >0.05-0.10, >0.10-0.20, e >0.2 nM. I pazienti con C-peptide stimolato >0.02 nM presentavano glicemia a digiuno e HbA1c significativamente più bassi rispetto agli altri gruppi. Sulla base di queste osservazioni è stato implementato un sotto-studio del DCCT (DCCT C-peptide sub-study) mirato ad individuare eventuali outcomes associati al mantenimento della funzione beta-cellulare residua, definita come C-peptide >0.2 nM. Questo nuovo studio è stato limitato ai pazienti arruolati nel DCCT con una durata di malattia tra 1 e 5 anni (19). Dei 1441 pazienti arruolati con durata di malattia compresa tra 1 e 15 anni, 885 soggetti avevano una durata di malattia compresa tra 1 e 5 anni e presentavano, all’inizio dello studio, un C-peptide <0.5 nM. Di questi, 303 (138 in terapia insulinica intensiva e 165 in terapia insulinica convenzionale) avevano valori di C-peptide nel range 0.2-0.5 nM e sono stati classificati come “responders”; 552 (274 in terapia insulinica intensiva e 278 in terapia insulinica convenzionale) avevano un C-peptide stimolato <0.2 nM, soglia definita nella precedente analisi come non clinicamente significativa (31), e sono stati classificati come “non-responders”. Il DCCT ha dimostrato che, rispetto alla terapia convenzionale, la terapia insulinica intensiva riduce marcatamente il rischio di perdita della funzione beta-cellulare al di sotto di 0.2 nM (19).

HbA1c. Il DCCT ha dimostrato che, nel gruppo in terapia insulinica intensiva, la distribuzione annuale dell’HbA1c era significativamente più bassa nei “responders” rispetto ai “non responders” dal baseline fino alla fine del quarto anno di follow-up (23).

Fabbisogno insulinico. Nel gruppo in terapia insulinica intensiva i valori più bassi di HbA1c dei “responders” rispetto ai “non responders” erano ottenuti con dosi significativamente più basse di insulina.

Ipoglicemia. La persistenza di una modesta funzionalità beta-cellulare è associata con una riduzione del rischio di ipoglicemie gravi. Nel DCCT (23), all’interno del gruppo in terapia insulinica intensiva, i pazienti “responders” presentavano un’incidenza di ipoglicemie gravi di 6.6 per 100 soggetti per anno di follow-up rispetto ai “non responders” che presentavano un’incidenza di 17.3 per 100 soggetti per anno, con un rischio relativo di 0.38, ovvero una riduzione del rischio di ipoglicemie del 62%. La riduzione del rischio di ipoglicemia si manteneva significativamente maggiore anche dopo aggiustamento per i livelli di HbA1c.

Retinopatia e Nefropatia. Il DCCT (23) ha anche valutato, al baseline, il rischio di progressione di retinopatia e nefropatia dei “responders” rispetto ai “non responders”, indipendentemente dal tipo di trattamento. I dati sono stati aggiustati per i valori di HbA1c e per livelli di retinopatia e nefropatia presentati dai pazienti al baseline. Il rischio di progressione di retinopatia era ridotto significativamente del 58% fra i “responders” rispetto ai “non responders”. Anche il rischio di progressione di nefropatia era ridotto fra i “responders” rispetto ai “non responders” ma in maniera non significativa.

Il declino della funzione della beta-cellula correlato all’età

Nonostante sia ormai comprovata l’importanza del C-peptide per valutare la funzione beta-cellulare residua e questo sia riconosciuto come outcome primario dei trials di immuno-intervento, pochi dati sono noti sulla storia naturale del declino del C-peptide dopo la diagnosi di T1D.

Per tale motivo è stato condotto uno studio, multicentrico longitudinale su quasi 4000 pazienti affetti da T1D e reclutati in sette diversi centri Europei: Belgio (Belgian Diabetes Registry e Leuven), Ungheria, Spagna, Svezia, Germania e Italia (database IMDIAB) (32). Tale studio si è proposto di stimare il declino del C-peptide dopo l’esordio del diabete e di valutare come questo vari in relazione all’età d’esordio, ai valori di HbA1c e alla dose di insulina.

I partecipanti sono stati suddivisi in quattro gruppi in base all’età alla diagnosi: infanzia (≤5 anni), pre-pubere (>5 e ≤10 anni), età puberale (>10 e ≤18 anni) ed adulta (>18 anni). Per ogni gruppo sono stati calcolati i valori medi di C-peptide a digiuno e dopo stimolo alla diagnosi e a 1 e a 5 anni di malattia. Il declino del C-peptide nei 5 anni di follow-up è stato calcolato confrontando i valori medi di C-peptide alla diagnosi, dopo 1 anno e dopo 5 anni nei quattro gruppi in studio. Per determinare la velocità del declino del C-peptide nel tempo è stata calcolata la linea di pendenza tra i valori medi di C-peptide dalla diagnosi ad 1 anno, e da 1 anno a 5 anni. Un modello misto di regressione lineare è stato utilizzato per calcolare la velocità del declino del C-peptide nel tempo corretto per covariate come età, sesso e indice di massa corporea. Sono stati inseriti nel modello solo i soggetti di cui si avevano a disposizione i dati relativi al C-peptide sia alla diagnosi che ad uno e a 5 anni di malattia.

I dati sul C-peptide (nM) alla diagnosi erano disponibili per 3678 pazienti (Tab. 2) così suddivisi in base all’età di insorgenza:

Gruppo A (età d’esordio ≤5 anni): n= 344

Gruppo B (età d’esordio >5 e ≤10 anni): n= 688

Gruppo C (età d’esordio >10 e ≤18): n= 991

Gruppo D (età d’esordio >18 anni): n= 1655

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All’esordio clinico del diabete, i livelli di C-peptide erano significativamente più alti nei soggetti con età alla diagnosi maggiore (media ± DS: 0.15 nM ± 0.17 nel gruppo A, 0.19 nM ± 0.23 nel gruppo B, 0.28 nM ± 0.34 nel gruppo C e 0.30 nM ± 0.38 nel gruppo D; p=0.22). La percentuale di declino del C-peptide dal baseline a 1 e a 5 anni era rispettivamente: del 34% e 83.3% nel gruppo A; del 26.3% e 73.7% nel gruppo B; del 7.1% e 67.5% nel gruppo C; e del 33% e 46.7% nel gruppo D.

Il declino del C-peptide nei primi 5 anni dopo la diagnosi risultava significativamente ridotto con l’aumentare dell’età di insorgenza del diabete (p= 3.5×10-7) e mostrava un andamento lineare con un trend più rapido nel gruppo dei pazienti più giovani (p= 0.0001) (Fig. 3).

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I risultati dello studio dimostrano che a partire dall’esordio clinico di T1D e fino a 5 anni dalla diagnosi si verifica un declino lineare della funzione beta-cellulare, misurata in termini di C-peptide a digiuno. Tale declino è più rapido nei pazienti con età alla diagnosi minore e i fattori che lo influenzano differiscono nelle diverse fasce di età (32). Queste osservazioni hanno importanti implicazioni per i trials di immuno-intervento nel T1D nei quali l’endpoint primario è preservare la funzione beta-cellulare e quindi i livelli di C-peptide.

La predizione come presupposto alla prevenzione

L’acquisita capacità di identificare i soggetti durante la fase preclinica mediante screening genetico e autoanticorpale e di predirne con elevata accuratezza la possibile evoluzione a malattia rappresenta il maggiore avanzamento della ricerca sulla patogenesi del T1D degli ultimi anni. Da oltre 20 anni sappiamo che il T1D è una malattia cronica autoimmune che si sviluppa su un terreno di predisposizione genetica, caratterizzata da una lunga fase di incubazione e come tale, almeno in teoria, suscettibile di prevenzione. Le fondamentali e recenti acquisizioni sulla storia naturale del T1D hanno consentito di meglio definire e ottimizzare le strategie di screening per la predizione della malattia. Grazie a studi prospettici come il BABYDIAB (33), DPP (34) e DAISY (35), eseguiti in soggetti ad elevato rischio di sviluppare il T1D seguiti sin dalla nascita con prelievi di sangue ad intervalli regolari, oggi sappiamo che il processo di autoimmunità non è congenito, ma viene acquisito molto precocemente, nella maggioranza dei casi in età compresa tra 1 e 4 anni. Queste acquisizioni sulle fasi precoci del processo autoimmune, unitamente a quelle relative alla sua successiva maturazione, rappresentano i presupposti teorici per definire le strategie di prevenzione primaria, secondaria e terziaria.

Prevenzione nel diabete mellito tipo 1

Prevenzione primaria: per prevenzione primaria si intende quella da realizzarsi in epoca antecedente allo sviluppo del processo autoimmune, sostanzialmente in età neonatale o comunque non oltre il primo anno di vita. Qualunque genere di prevenzione primaria deve necessariamente fondarsi su uno screening genetico, rappresentato dalla familiarità per la malattia (ad esempio, figli di genitori con T1D) o dalla presenza di alleli HLA ad elevato rischio, come DR3 (DQB1-0302) e DR4 (DQB1-0201). Una prevenzione primaria efficace dovrebbe riconoscere e rimuovere i fattori ambientali responsabili dell’induzione della risposta autoimmune nei soggetti geneticamente a rischio. Questi fattori purtroppo continuano a rimanere non identificati, anche se alcune recenti osservazioni hanno fornito alcuni elementi utili al disegno di interventi di prevenzione (proteine del latte vaccino, glutine). Infatti, alcuni interventi recentemente avviati hanno tratto spunto dall’osservazione del possibile ruolo di alcuni antigeni alimentari, come quelli contenuti nel latte vaccino (36) o nei cereali, nell’induzione del processo di autoimmunità (37).

Prevenzione secondaria: la prevenzione secondaria è quella che interviene a processo autoimmune già avviato e si applica a soggetti positivi allo screening per autoanticorpi a specificità insulare. La capacità di predizione del T1D sulla base della misurazione combinata di questi marcatori e della successiva caratterizzazione metabolica mediante carico endovenoso di glucosio è oggi molto elevata consentendo una valutazione del rischio estremamente accurata.

Numerosi sono gli studi di intervento di prevenzione secondaria realizzati fino ad ora ottenendo, in alcuni casi, risultati interessanti come ad esempio mediante la rimozione del glutine dalla dieta (38); tuttavia la maggior parte di questi studi aveva come limitazione una inadeguata dimensione della popolazione in studio o un tempo insufficiente di follow-up. Al fine di ovviare a queste problematiche, si sono creati dei consorzi estesi a numerosi centri con l’obiettivo di creare la massa critica necessaria allo svolgimento di studi su base multicentrica in grado di rispondere ai quesiti di efficacia di un determinato intervento.

Prevenzione terziaria: la prevenzione terziaria si identifica nel mantenimento della funzione beta-cellulare residua ancora presente all’esordio della malattia e può realizzarsi mediante interventi, per lo più di immunosoppressione o immunomodulazione, a partire dal momento della diagnosi clinica di T1D.

Immunoterapia nel T1D

L’immunointervento alla diagnosi di T1D mira a prevenire o “bloccare” la malattia andando a preservare e/o ripristinare la massa beta-cellulare residua e può attuarsi attraverso meccanismi di immunosoppressione o di immunomodulazione. Nuovi studi clinici di immunointervento in pazienti affetti da T1D di recente insorgenza hanno dimostrato la possibilità di modulare l’autoimmunità preservando la perdita della secrezione insulinica (39). La funzione beta-cellulare residua, valutata attraverso i livelli di C-peptide basale e/o stimolato in pazienti affetti da T1D di recente insorgenza, viene utilizzata come parametro per stabilire il grado di distruzione delle beta-cellule. Questo parametro è considerato l’endpoint primario per valutare la fattibilità e l’efficacia di un immunointervento. È tuttavia importante tenere in considerazione che i livelli di C-peptide basale e/o stimolato possono essere molto diversi al momento della diagnosi di malattia, essendo più alti in soggetti giovani di età puberale rispetto ai soggetti pre-puberi. Anche il fattore età deve essere sempre preso in considerazione nel disegnare studi volti alla prevenzione della distruzione delle beta-cellule. Grande interesse hanno suscitato negli ultimi anni diversi trials clinici multicentrici rivolti a soggetti affetti da T1D di recente diagnosi. Tali studi si sono posti l’obiettivo di preservare la funzione beta-cellulare residua attraverso l’induzione della tolleranza immunologica (39).

Commento ai risultati degli studi di immuno-intervento nel T1D

Il T1D è una malattia eterogenea in termini di età di insorgenza, genotipo HLA, funzione beta-cellulare residua al momento della diagnosi, insulino-resistenza, fabbisogno insulinico e livelli di HbA1c. Esistono pertanto sottogruppi di pazienti che rispondono bene ad un immuno-intervento rispetto ad altri. Si è visto infatti che il trattamento con GAD è stato in grado di mostrare una efficacia significativa nei maschi rispetto alle femmine (40). Alcuni studi hanno suggerito che la distruzione delle beta-cellule può essere più pronunciata nelle donne rispetto agli uomini ed inoltre, le femmine hanno generalmente un titolo anticorpale più alto e sono più inclini a sviluppare altre malattie autoimmuni. Nel sopracitato studio europeo con GAD (40), il trattamento sembrava funzionare meglio nei pazienti non-nordici piuttosto che in quelli provenienti dal nord Europa, mentre nello studio del consorzio TrialNet con Teplizumab l’efficacia maggiore si è avuta nei pazienti degli USA (41) rispetto a pazienti indiani, suggerendo un effetto “etno-geografico” sulla risposta all’immunoterapia. Anche se i risultati dei recenti studi di fase III qui presentati potrebbero apparire deludenti, sono emersi interessanti elementi che dovranno essere necessariamente tenuti in considerazione nella pianificazione di futuri interventi, in particolare l’età alla diagnosi e la residua funzione beta-cellulare. Il T1D, dunque, si presenta oggi come una patologia molto più eterogenea di quanto si era precedentemente ritenuto.

Le analisi condotte nei sottogruppi di pazienti arruolati nei diversi trials suggeriscono che diversi fattori entrano in gioco nel determinare la risposta del paziente a diverse strategie immunoterapeutiche. L’identificazione di questi fattori e biomarcatori per predire la risposta sarà di fondamentale importanza e ausilio per stabilire la strada da scoprire per una migliore strategia terapeutica per il T1D (Fig. 4).

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Conclusioni

Nonostante le grandi aspettative i risultati dei diversi trials di immunointervento (42) sono stati piuttosto deludenti e solo alcuni di essi hanno dimostrato risultati positivi.

Proprio alla luce di questi risultati si è iniziato a proporre una nuova “modalità” di terapia per il T1D in cui non solo si promuova la protezione della beta-cellule ma si cerchi anche di favorire la rigenerazione delle stesse.

Al momento i farmaci che abbiamo a disposizione e che potrebbero risultare molto efficaci anche in pazienti affetti da T1D sono: 1) gli analoghi del GLP-1 come Exenatide, Liraglutide e Albiglutide, che agiscono favorendo non solo la secrezione insulinica ma anche la rigenerazione beta-cellulare; 2) gli inibitori del DPP-IV come Saxagliptin, Sitagliptin e Linagliptin che aumentano i livelli circolanti di incretine GLP-1 con conseguente incremento della secrezione insulinica.

Possibili nuovi candidati per una terapia rigenerativa sembrano essere infine gli inibitori di pompa protonica (PPI), che aumentano i livelli di gastrina, un ormone prodotto dallo stomaco, il quale oltre a regolare la secrezione gastrica, stimola la proliferazione delle cellule pancreatiche dei dotti (43).

In definitiva, è evidente che, una terapia di associazione che miri non solo a contrastare l’attacco autoimmune alle beta-cellule ma anche a favorirne la rigenerazione, sia la strategia che ad oggi offre le migliori possibilità di successo nel trattamento del T1D.

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