PREDIZIONE GENETICA DELLE FORME COMUNI DI DIABETE MELLITO E DELLE SUE COMPLICANZE CRONICHE

Raffaella Buzzetti1,2, Sabrina Prudente3, Massimiliano Copetti4, Marco Dauriz5, Simona Zampetti1,2, Monia Garofalo6, Giuseppe Penno6, Vincenzo Trischitta1,3,7

1Dipartimento di Medicina Sperimentale, “Sapienza” Università di Roma, Roma; 2UOC di Diabetologia, Polo Pontino, “Sapienza” Università di Roma, Roma; 3Laboratorio Mendel Laboratory, IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza, San Giovanni Rotondo; 4Unità di Biostatistica, IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza, San Giovanni Rotondo; 5Divisione di Endocrinologia, Diabete e Metabolismo, Dipartimento di Medicina, Università di Verona, Verona; 6U.O.C. di Malattie Metaboliche e Diabetologia Dipartimento di Malattie Metaboliche e Diabetologia, Università di Pisa e Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana, Pisa; 7Unità di Ricerca di Diabetologia ed Endocrinologia, IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza, San Giovanni Rotondo

 INTRODUZIONE

Il diabete mellito (DM) non è solo una delle principali cause di morte, ma anche un importante fattore di rischio per la malattia cardiovascolare, l’insufficienza renale, la cecità e le amputazioni (1). Non sorprende quindi che l’Organizzazione Mondiale della Sanità abbia attribuito al DM una delle massime priorità tra le malattie non trasmissibili. Poiché il DM sta raggiungendo proporzioni pandemiche, sono necessari con urgenza approcci efficaci per la sua predizione, la sua prevenzione e la sua cura, da implementare pienamente in contesti clinici reali.

Analogamente a molte altre malattie multifattoriali, il DM viene determinato dalla combinazione di diversi fattori, tra cui diversi fattori patogeni ambientali e un complesso background di suscettibilità genetica, che è stato in parte delucidato in questi ultimi anni, per lo più mediante studi di associazione genome-wide (GWAS) (2-3).

Un’efficace implementazione della medicina clinica individualizzata, nell’era della “medicina di precisione”, deve considerare quale priorità di massima importanza lo sviluppo di modelli di previsione affidabili e ben performanti. In questo contesto, è opportuno notare che la predisposizione genetica individuale alle malattie rimane tipicamente invariata nel tempo, mentre non si può dire lo stesso per modelli predittivi clinici derivati da misure antropometriche, tratti fenotipici e condizioni di rischio cliniche e ambientali. Questo determina la possibilità teorica di identificare gli individui ad alto rischio diversi decenni prima dell’insorgenza della malattia, che rappresenta un ottimo inizio per impostare programmi precoci di prevenzione. Non sorprende, quindi, che negli ultimi 6-7 anni, intercettando grandi aspettative sia da parte dei medici che dei pazienti, siano stati fatti diversi tentativi per commercializzare test genetici basati sui risultati ottenuti dai GWAS al fine di prevedere malattie multifattoriali, comprendenti il diabete di tipo 1 (DMT1), il diabete di tipo 2 (DMT2) e alcune delle devastanti complicanze croniche del diabete. Il presente documento si propone in primo luogo di fornire ai medici una revisione globale e aggiornata ad aprile 2016, dei dati disponibili per quanto riguarda l’impatto clinico delle informazioni genetiche nell’identificazione degli individui non diabetici a più alto rischio di sviluppare DM, o invece, tra i pazienti con DM conclamato, di identificare i soggetti a più alto rischio di sviluppare le complicanze croniche del DM.

Al giorno d’oggi, nell’era della “medicina di precisione”, alcune conoscenze di base sia relative agli aspetti metodologici che alle procedure statistiche sono essenziali per comprendere e applicare in maniera consapevole le novità provenienti dalla genetica e dalla tecnologia applicata alla cura del paziente. Anche se in qualche modo neglette, perché appartenenti ad un campo considerato super- specialistico, i medici non possono più trascurare la statistica e la metodologia ritenendole qualcosa di completamente estraneo ai loro interessi clinici. Pertanto, per prima cosa verranno fornite alcune informazioni generali sulle caratteristiche e le prestazioni degli strumenti attualmente esistenti per la previsione dei rischi di malattia. Poi, verrà discussa l’utilità clinica dei dati genetici per prevedere il DMT1, il DMT2 e le loro complicanze. Nel caso del DMT1 si metterà in evidenza che l’informazione genetica e la consulenza genetica possono essere di aiuto in alcune famiglie con una elevata presenza di individui affetti, ma non nella popolazione generale. Tuttavia, sarà anche sottolineato il concetto generale che perché la capacità predittiva di una malattia sia di una qualche utilità, è da considerarsi obbligatoria la possibilità di prevenirla; se questo prerequisito non è soddisfatto (come nel caso del T1DM), l’utilità di prevedere la futura insorgenza della malattia diventa per lo meno dubbia. Nel caso del T2DM verrà invece trattato e pesantemente messo in discussione il significato di aggiungere informazioni genetiche all’utilizzo di marcatori non genetici già di per sé ben informativi, facilmente reperibili e, soprattutto economici. Infine, sarà inoltre presentata e discussa anche la possibilità di utilizzare dati genetici per migliorare la nostra capacità di prevedere le complicanze del DM.

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 Misure di performance nella predizione

La costruzione di modelli di predizione è uno dei temi più importanti affrontati nella ricerca clinica e rispecchia l’obiettivo di perseguire una “medicina di precisione”. L’abilità prognostica di tali modelli è stata misurata mediante lo sviluppo di chiari criteri metodologici e solidi strumenti statistici. Dopo aver fissato un orizzonte temporale di interesse clinico, l’accuratezza nella predizione si riferisce alla capacità di un test (dicotomico: positivo/negativo) di discriminare tra i soggetti che svilupperanno o meno la malattia. Uno strumento in grado di fornire una previsione perfetta non esiste in natura e con i modelli a disposizione si è solo in grado di discriminare parzialmente tra i due possibili eventi. In pratica, la popolazione in oggetto di studio può essere suddivisa in quattro gruppi a seconda della concordanza tra lo sviluppo di malattia osservato e predetto (Fig. 1): veri positivi (TP, dall’inglese “true positive”) – soggetti che sono positivi al test di predizione e svilupperanno la malattia; falsi negativi (FN, “false negative”) – soggetti che sono negativi al test di predizione ma svilupperanno la malattia; falsi positivi (FP, “false positive”) – soggetti che sono positivi al test di predizione ma non svilupperanno la malattia; veri negativi (TN, “true negative”) – soggetti che sono negativi al test di predizione e non svilupperanno la malattia.

Analizzando questi quattro gruppi, la capacità di predizione del test può essere misurata dalla sensibilità e specificità (4), dai valori predittivi (5) e dai rapporti di verosimiglianza (6) (Fig. 1).

 29_1_Vita_8_Fig.1
  
La sensibilità è la probabilità di ottenere un risultato positivo del test in soggetti che svilupperanno la malattia. La specificità, misura complementare alla sensibilità, è la probabilità di ottenere un risultato negativo del test in un soggetto che non svilupperà la malattia.
Il valore predittivo positivo (VPP) definisce la probabilità di sviluppare la malattia in un soggetto con un risultato positivo del test. Il valore predittivo negativo (VPN) invece, definisce la probabilità di non sviluppare la malattia in un soggetto con un risultato negativo del test.
VN=veri negativi; FN=falsi negativi; FP=falsi positivi; VP=veri positivi

 

La sensibilità è la percentuale dei soggetti positivi al test che sviluppano la malattia ed è definita come la probabilità di ottenere un risultato positivo tra i soggetti che svilupperanno la malattia. Pertanto, la sensibilità descrive la capacità del test di identificare i soggetti che svilupperanno la malattia.

La specificità, complementare alla sensibilità, è la percentuale dei soggetti negativi al test che non svilupperanno la malattia ed è definita come la probabilità di ottenere un risultato negativo tra i soggetti che non svilupperanno la malattia. Pertanto, la specificità descrive la capacità del test di identificare i soggetti che non svilupperanno la malattia (Fig. 1).

Né la sensibilità né la specificità sono influenzati dalla incidenza della malattia, il che significa che i risultati di uno studio potrebbero essere facilmente generalizzabili in altre situazioni in cui l’incidenza della malattia può essere differente.

Il valore predittivo positivo (PPV) definisce la probabilità che la malattia si sviluppi in un soggetto che è risultato positivo al test. D’altro canto, il valore predittivo negativo (NPV) definisce la probabilità che la malattia non si sviluppi in un soggetto che è risultato negativo al test. A differenza della sensibilità e della specificità, i valori predittivi sono in gran parte influenzati dall’incidenza della malattia nella popolazione studiata. Pertanto i valori predittivi stimati in una data popolazione non possono essere confrontati con altre popolazioni in cui l’incidenza di malattia è differente.

Il rapporto di verosimiglianza (LR) è una misura di accuratezza della predizione utile, ed è definita come il rapporto tra il risultato atteso del test nei soggetti che svilupperanno la malattia ed il risultato atteso del test nei soggetti che non la svilupperanno. Valori positivi di LR (LR+) (sensibilità/(1-specificità)) suggeriscono quanto verosimilmente il risultato positivo del test si verifichi nei soggetti che svilupperanno la malattia rispetto a coloro che non la svilupperanno. LR+ assume di solito valori superiori a 1 in quanto è più probabile che il risultato positivo del test si verifichi in soggetti che svilupperanno la malattia rispetto a coloro che non la svilupperanno, e rappresenta il migliore indicatore per la ruling-in diagnosis. Quanto più alto è il valore di LR+ tanto più il test è indicativo di una malattia. D’altra parte, valori negativi di LR (LR-) ((1- sensibilità)/specificità) suggeriscono quanto meno verosimilmente il risultato negativo del test si verifichi nei soggetti che svilupperanno la malattia rispetto a coloro che non la svilupperanno. LR- assume di solito valori inferiori a 1 in quanto è meno probabile che il risultato negativo del test si verifichi in soggetti che svilupperanno la malattia rispetto a coloro che non la svilupperanno, e rappresenta il migliore indicatore per la ruling-out diagnosis. Poiché sia la specificità che la sensibilità vengono utilizzati per calcolare il rapporto di verosimiglianza, è chiaro che né LR+ né LR- dipendono l’incidenza della malattia nella popolazione esaminata.

Quando il test predizione è, invece, un marcatore continuo, l’analisi della curva Ricevitore-Operatore Caratteristica (ROC)(7) è fondamentale per poter determinare il valore soglia ottimale in grado di massimizzare le prestazioni del test (Fig. 2).Più grande è l’area sotto la curva ROC (AUC, area under the curve), migliore è la capacità del test nel discriminare tra soggetti che svilupperanno la malattia rispetto a quelli che non la svilupperanno, con valori convenzionalmente interpretabili come riportato in tabella 1

.29_1_Vita_8_Fig.2

La curva ROC è la rappresentazione grafica delle prestazioni del test, al variare dei possibili valori soglia. La curva è ottenuta tracciando i valori di 1-Specificità (o % di falsi positivi) rispetto ai valori della Sensibilità (o % di veri positivi) ai vari valori soglia. L’area sotto la curva ROC (AUC) varia tra 0,5 (discriminazione casuale) e 1,0 (discriminazione perfetta). La scelta del valore soglia ottimale è cruciale e sono disponibili diversi criteri: il più accettato è probabilmente quello che massimizza congiuntamente sensibilità e specificità ed il valore soglia che corrisponde al punto della curva ROC più vicino all’angolo superiore sinistro.
 
 

29_1_Vita_8_Tab.1

L’accuratezza di riclassificazione dovrebbe essere misurata quando un nuovo marcatore (ad esempio: marcatore genetico) viene incluso in un modello di predizione prestabilito e viene calcolata attraverso il confronto tra le probabilità di rischio stimate dai due modelli (con e senza il nuovo marcatore). Per i soggetti che hanno sviluppato l’evento, l’incremento o il decremento di tali probabilità di rischio, implicano rispettivamente una migliore o peggiore riclassificazione. L’interpretazione è opposta per i soggetti che non hanno sviluppato l’evento.

 

Quando il test di predizione è costruito mediante la stima di un modello multivariato (cioè con molti predittori) che prevede anche la valutazione del tempo necessario perché si sviluppi evento, la sua precisione è misurata dalla statistica di concordanza di sopravvivenza (C statistica) (8-9) definita come la probabilità che, per ogni coppia di casi e di controlli, il rischio predetto di evento è superiore per il “caso” e, per ogni coppia di casi, il rischio predetto di evento è maggiore tra coloro con tempi all’evento più brevi. Essa varia dallo 0,5 ad 1 e può essere interpretata come la AUC (Tab. 1).

La calibrazione (10) è un diverso aspetto dell’accuratezza di predizione: si riferisce alla concordanza tra i risultati predetti ed osservati rispetto ad un ampio intervallo di probabilità. Il grafico dei valori predetti ed osservati corrisponde all’illustrazione grafica del test di bontà di adattamento di Hosmer- Lemeshow (Fig. 3).

 29_1_Vita_8_Fig.3

La pendenza della curva di calibrazione rappresenta una stima delle differenze tra le frequenze predette ed osservate. Idealmente, se tali frequenze sono concordanti rispetto a tutti i valori delle probabilità, il grafico mostra una linea con un’inclinazione di 45° (con intercetta uguale a 0 e pendenza pari a 1). Quando questo non accade, intercettando l’asse Y con un valore positivo o negativo si ha una stima sistematicamente troppo elevata o troppo bassa delle probabilità predette.
 

La riclassificazione globale, definita come Net Riclassification Improvement (NRI) (11-12), è la somma delle proporzioni d’individui correttamente riclassificati meno la proporzione di coloro erroneamente riclassificati, tra gli individui che hanno sviluppato o meno l’evento.

L’NRI può essere calcolato utilizzando classi di rischio specifiche (determinate sulla base di valori soglia predefiniti delle probabilità di rischio). Un esempio pratico è mostrato in figura 4: un campione di 200 pazienti diabetici è stato arruolato in uno studio prospettico per lo studio degli eventi cardiovascolari. Un modello clinico che include le seguenti caratteristiche basali dei pazienti: età, sesso, abitudine al fumo e indice di massa corporea, è stato utilizzato per prevedere tali eventi. In una seconda fase, è stato valutato se l’inclusione di informazioni genetiche (polimorfismi genetici) abbia contribuito a migliorare le prestazioni del modello iniziale (vedi legenda delle figure per i dettagli su come interpretare i risultati ottenuti.

La scelta dei valori soglia per determinare le categorie di rischio è cruciale e può influenzare notevolmente la stima del NRI. Dovrebbero essere, infatti, prese in considerazione solo quelle categorie di rischio note dal punto di vista epidemiologico. Per ovviare parzialmente a questo problema, è stato proposto un indice che integra l’NRI rispetto a tutti i possibili valori soglia: l’Integrated Discrimination Improvement (IDI) (11). L’IDI può essere visto come la versione continua dell’NRI che utilizza le differenze tra le probabilità medie predette anziché le migrazioni tra le categorie di rischio.

Recentemente (13-14), l’NRI è stato ampiamente criticato in letteratura in quanto pare fornisca una stima considerata troppo ottimistica e liberale. Pertanto, l’NRI deve essere usato con cautela e deve essere sempre accompagnata anche da altre misure di precisione della predizione.

29_1_Vita_8_Fig.4

La riclassificazione dei soggetti che hanno sviluppato (pannello superiore) o non hanno sviluppato (pannello inferiore) l’esito di interesse (cioè in questo caso eventi cardiovascolari) durante il follow-up. Le celle in grigio chiaro rappresentano i soggetti che sono stati correttamente riclassificati dal nuovo modello (vale a dire che gli eventi migrano in una categoria superiore di rischio ed i non-eventi in una categoria inferiore); invece le celle in grigio scuro rappresentano soggetti che sono stati erroneamente riclassificati. Nel pannello superiore, il nuovo modello ha migliorato la classificazione del rischio in 23 soggetti ed ha invece peggiorato tale classificazione in due soggetti, con un guadagno netto di riclassificazione pari a 0,42 (21/50). Nel pannello inferiore, 60 soggetti sono stati riclassificati in modo corretto in categorie di rischio inferiori mentre 21 sono stati erroneamente riclassificati, con un guadagno netto di riclassificazione pari a 0,26 (39/150). Complessivamente, l’NRI stimato è pari a 0,68 (0,42 + 0,26), indicando che il nuovo modello, che include le informazioni genetiche, riclassifica correttamente il rischio nella corretta categoria per una ampia porzione di soggetti.

 Conclusioni

In questo capitolo viene fornito un sommario di tutte le misure prognostiche e viene descritto come interpretarle. Tali indici devono essere sempre accompagnati dai loro intervalli di confidenza al 95% come misura di precisione delle stime. Le decisioni dei medici, guidate dai modelli di predizione, dovrebbero essere basate sulla loro accuratezza. Infine, a seconda delle circostanze, i risultati falsi positivi e falsi negativi potrebbero avere un peso molto diverso nella medicina clinica; quindi è lasciato ai clinici il compito di decidere caso-per-caso come bilanciare i due possibili tipi di errore in cui si può incorrere.

 Utilizzo delle informazioni genetiche per la predizione del rischio di diabete mellito di tipo 1

Il rischio di sviluppare il diabete mellito di tipo 1 (DMT1) è determinato da una complessa interazione tra fattori genetici e ambientali. La presenza di una rilevante componente genetica nell’insorgenza della malattia è evidenziata dall’aumentato rischio osservato nei fratelli di pazienti con DMT1 (6%) rispetto a quello della popolazione generale (0,4%) (15). Inoltre, il rischio di insorgenza del DMT1 prima dell’età di 20 anni è pari al 5% nei bambini nati in una famiglia con un membro affetto e dello 0,3% per i bambini senza membri affetti in famiglia (16-17).

 IL COMPLESSO MAGGIORE DI ISTOCOMPATIBILITA’ (HLA): I GENI PIU’ IMPORTANTI 

La regione degli antigeni leucocitari umani (HLA), un gruppo di più di 200 geni situati all’interno del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) sul cromosoma 6p21, è responsabile per circa il 50% della suscettibilità genetica al DMT1(18). I geni dell’ HLA sono altamente polimorfici e gli alleli sono indicati dal nome del gene seguito da un asterisco (*) e generalmente da quattro cifre. Ad esempio nel caso HLA-DRB1*03 le prime due cifre definiscono l’allele, le due cifre successive definiscono il sottotipo dell’allele (HLA-DRB1*0301).

La funzione principale dei prodotti di tali geni è quella di presentare gli antigeni processati in peptidi ai recettori antigene-specifici presenti sui linfociti T CD4 + e CD8 + (19).

 a. Genotipi HLA di suscettibilità: rischio nella popolazione generale

Numerose evidenze mostrano come alcuni alleli dei geni HLA DQB1 e DRB1 presentino una forte associazione con l’insorgenza del DMT1, mentre altri possiedano una debole associazione o conferiscano protezione (20). Tuttavia, a causa del forte linkage disequilibrium fra questi due loci, è molto difficile valutare singolarmente l’effetto dei geni HLA-DQ o -DR, per tale ragione, la maggior parte dei dati disponibili si riferisce all’effetto degli aplotipi (diversi polimorfismi genetici su un dato cromosoma che sono ereditati insieme da un unico genitore).

I due aplotipi più frequenti che conferiscono il maggior rischio di sviluppare il DMT1 sono il DRB1*0301-DQB1*0201 e il DRB1*0401-DQB1*0302. Tali aplotipi sono presenti in oltre il 90% dei pazienti con il DMT1 ad insorgenza giovanile rispetto al 20% della popolazione europea generale (20).

Numerosi studi hanno evidenziato che il genotipo HLA di elevato rischio conferisce ai soggetti portatori un rischio 20 volte superiore di sviluppare il DMT1 rispetto ai non portatori (21) o alla popolazione generale (22). Il rischio è da 4-9 volte più elevato nei soggetti con genotipo HLA di rischio moderato (21). Il 5% dei bambini con i genotipi HLA ad elevato rischio svilupperanno l’autoimmunità pancreatica e il DMT1 prima dell’età di 15 anni, a fronte dello 0,3% della popolazione generale (2). I genotipi HLA di classe II ad alto rischio contribuiscono a circa il 30-50% della suscettibilità genetica al DMT1 (23).

Tra gli aplotipi o alleli che conferiscono protezione al DMT1, l’allele DQB1*0602, quello maggior mente protettivo, è presente nella maggior parte delle popolazioni studiate, nel 15% della popolazione generale e in meno dell’1% dei pazienti con DMT1 (2).

Alcuni loci dell’HLA di classe I, come l’HLA A24, B38 e B39, e di classe II, come il DP, inoltre possono contribuire all’insorgenza del DMT1, ma non sono ancora stati implementati nei modelli di predizione (24).

Poiché la prevalenza dei geni di suscettibilità HLA risulta relativamente elevata nella popolazione generale, il loro valore predittivo è notevolmente basso nello screening della popolazione generale rispetto a quello di famiglie in cui sono presenti uno o più membri affetti (25), come descritto nel prossimo paragrafo.

 b. Genotipi HLA di suscettibilità: rischio nelle famiglie

L’utilizzo dei loci HLA-DR e DQ nell’ambito di una storia familiare di DMT1 può migliorare la predizione della malattia. Se il rischio “a priori” determinato dalla storia familiare (ad esempio un fratello diabetico) è del 7%, tale probabilità può essere ulteriormente stratificata tra lo 0,3% al 30% considerando i genotipi HLA DR-DQ, variando cosi il rischio da molto protettivo a elevato (25). L’insorgenza del diabete può variare dallo <0,01%, nei neonati con storia familiare di DMT1 e con alleli HLA di protezione (DQB1*0602), fino al 50% in quelli positivi all’HLA DR3, DR4-DQB1*0302 e con geni identici per discendenza ai loro fratelli affetti. Nei neonati senza storia familiare e con i genotipi HLA DR3/DR4-DQB1*0302 o DR4/DR4-DQB1*0302 il rischio è rispettivamente del 5% e 3% (26), e pertanto risulta come un rischio intermedio rispetto alle due condizioni estreme.

Tra i neonati portatori dell’aplotipo HLA DR4-DQB1*0302, il rischio di contrarre il diabete è maggiore in quelli che hanno anche un parente di primo grado affetto (10% vs 0,9%). Nei gemelli monozigoti la probabilità del secondo gemello di sviluppare la malattia è approssimativamente intorno al 50-70%. Il rischio di DMT1 nei neonati con un genitore o un fratello affetto varia dal 4 al 7% (26) (Fig. 2).

Il rischio, invece, in un neonato con una storia familiare di DMT1 e con l’allele DQB1 protettivo, (HLA DQB1*0602), è di circa 100 volte inferiore rispetto a quello di un neonato con una storia familiare simile, ma con l’assenza di tale background genetico di protezione (27). È tuttavia da tener presente che per il singolo individuo il rischio di DMT1, anche se su base genetica, non è statico per tutta la vita. Infatti, in un neonato con una storia familiare di DMT1 alla nascita, il rischio aumenta rispettivamente da 10 a 100 volte in seguito all’insorgenza del DMT1 in un suo fratello o gemello monozigote (28).

GENI NON-HLA

Sono state individuate 40 regioni del genoma, al di fuori del sistema HLA, che conferiscono suscettibilità al DMT1 (29). I loci di suscettibilità non-HLA maggiormente caratterizzati sono: l’insulina (INS), il Cytotoxic T-Lymphocyte Antigen (CTLA-4) e il Protein Tyrosine Phosphatase Non Receptor 22 (PTN22). L’effetto congiunto di più loci di suscettibilità, nonostante conferisca un rischio molto elevato di sviluppare il DMT1, è applicabile soltanto ad una piccola percentuale della popolazione generale. Di conseguenza, l’aggiunta di loci non HLA ai genotipi di rischio elevato o moderato, incrementando la specificità ma riducendo la sensibilità, influisce soltanto marginalmente nella predizione del DMT1 (30).

L’avvento degli studi di associazione sull’intero genoma (GWAS) ha permesso la scoperta di ulteriori loci associati con il DMT1, ampliandone il numero a circa 60 (31).

Tuttavia è importante sottolineare che nonostante decenni di ricerca e migliaia di studi, l’HLA resta, al momento attuale, il maggior predittore genetico di rischio di DMT1 (32).

 STUDI DI PREDIZIONE

Sebbene la suscettibilità genetica sia uno dei principali determinanti per il rischio di DMT1, non è l’unico fattore (21), quindi i marcatori genetici da soli non hanno sufficiente sensibilità e specificità per la predire la malattia.

Lo screening anticorpale (insulina, GAD, IA-2 e ZnT8), soprattutto in presenza di un’unica positività anticorpale, se da un lato è utile nella valutazione del rischio di diabete tra i parenti di primo grado di soggetti con DMT1 (33-36), per contro ha una scarsa capacità predittiva nella popolazione generale, da cui provengono circa il 90% dei pazienti neo-diagnosticati (37). La presenza di uno solo di questi quattro autoanticorpi è associata ad un aumento marginale di rischio del DMT1 mentre la positività a due o più autoanticorpi ha un valore predittivo positivo relativamente più elevato (PVV >90%), indipendentemente per individui che presentino o meno una storia familiare di DMT1 (38).

La tipizzazione dei geni HLA, in combinazione con la storia familiare di malattia e la presenza di autoanticorpi, è attualmente il migliore approccio per la predizione del DMT1 (39).

L’American Diabetes Autoimmunity Study in Young (DAISY) negli Stati Uniti (40), lo studio BABYDIAB in Germania (41), e lo studio finlandese di predizione e prevenzione del diabete di tipo 1 (DIPP) (42), hanno sottolineato che la positività per gli autoanticorpi anti-insula precede di diversi anni la diagnosi di DMT1 e inoltre, i bambini portatori dei genotipi HLA ad alto rischio, sviluppano più precocemente e frequentemente tali autoanticorpi. La maggior parte dei bambini con suscettibilità genetica per il DMT1 e la positività ad anticorpi diabete specifici svilupperà la malattia nel corso dei successivi 15 anni (43).

Lo studio DIABFIN (21), un progetto multicentrico italiano, attraverso uno screening genetico in una coorte neonatale e successivo follow-up immunologico nei soggetti geneticamente a rischio, ha cercato di identificare nuove ed efficaci strategie predittive per il DMT1 da estendere a tutta la popolazione dell’Italia continentale in cui è presente una bassa incidenza della malattia.

I dati ottenuti hanno dimostrato che una prima fase di tipizzazione dei geni HLA e una seconda fase di dosaggio degli autoanticorpi, nei soggetti risultati a rischio elevato o moderato allo screening genetico, è l’approccio più efficace ed economico per predire il DMT1, rispetto al dosaggio degli autoanticorpi per tutta la popolazione (44). Lo svantaggio di utilizzare uno screening genetico iniziale è quello di escludere tutti i soggetti portatori di genotipi HLA di basso rischio ma che progrediranno al DMT1 i quali rappresentano il 5-15% dei pazienti neo diagnosticati; tale frequenza è anche più elevata nei soggetti diagnosticati dopo l’età di 20 anni (45).

Molto recentemente è stato sviluppato un genetic risk score (GRS), calcolato su polimorfismi genetici noti di suscettibilità al DMT1 e al DMT2, al fine di differenziare le due forme più comuni di diabete; un punteggio del GRS superiore a 0.28 ha mostrato una sensibilità del 50% e una specificità del 95% nell’identificare i pazienti con DMT1 (46).

CONCLUSIONE

La predizione genetica del DMT1 è efficace solo insieme al dosaggio degli autoanticorpi diabete specifici, nelle famiglie e, in maniera molto meno specifica, nella popolazione generale (47). Tuttavia, ad oggi non è stata ancora identificata nessuna strategia di successo per la prevenzione del DMT1, la questione chiave è quindi se allo stato attuale delle conoscenze gli studi di predizione di DMT1 siano veramente utili ed eticamente giustificati. Per quanto riguarda la consulenza genetica specifica del singolo individuo, la tipizzazione HLA potrebbe essere utile soltanto nei parenti di primo grado di pazienti con DMT1 permettendo una stima del rischio di comparsa degli autoanticorpi e, infine, quello dell’iperglicemia (48).

Infine, oltre che a fini predittivi, la genotipizzazione dell’HLA può essere utile per discriminare il DMT1 dalle altre forme di diabete (come MODY o diabete neonatale) nei pazienti negativi agli autoanticorpi e in cui l’iperglicemia sia di difficile inquadramento.

Utilizzo delle informazioni genetiche per la predizione del rischio di diabete mellito di tipo 2

La prevalenza e l’incidenza del diabete mellito di tipo 2 (DMT2) e di forme d’iperglicemia sub- diabetica sono in progressivo aumento a livello globale e stanno rapidamente raggiungendo proporzioni pandemiche. È pertanto quanto mai attuale la necessità di individuare urgenti misure per un approccio efficace alla prevenzione e al trattamento del DMT2 e delle complicanze croniche ad esso associate. Alla luce dei risultati ottenuti dal Diabetes Prevention Program e da altri trial (49-50), gli interventi comportamentali volti a modifiche terapeutiche degli stili di vita ora costituiscono il pilastro della terapia d’attacco del DMT2 e delle strategie di prevenzione primaria in soggetti ad alto rischio di diabete, indipendentemente dalla storia famigliare o dalla predisposizione genetica (51). L’identificazione di tali soggetti è tuttavia non semplice, dal momento che i meccanismi patogenetici alla base del fenotipo clinico del DMT2 sono per natura complessi e sono il risultato di una variabile interazione tra fattori di rischio genetici e ambientali (non genetici).

Tale complessità è particolarmente evidente nel momento in cui per la stima del rischio individuale si prende in considerazione la storia parentale di DMT2, ovvero l’occorrenza di DMT2 in uno o entrambi i genitori. Ad esempio, in un fondamentale studio di popolazione condotto su una coorte di gemelli è stato mostrato che i gemelli eterozigoti condividono una probabilità di sviluppare DMT2 pari al 20%, che raggiunge il ~70% in gemelli monozigoti (52). Inoltre, lo studio Botnia ha mostrato che la probabilità di sviluppare DMT2 era pari a circa il 40% nei figli di coppie in cui solo uno dei genitori era diabetico (o maggiore, nel caso il parente affetto fosse la madre), ma il rischio aumentava considerevolmente sino a circa il 70% nel caso entrambi i genitori fossero diabetici (53).

Tali evidenze sottolineano come il DMT2 sia una malattia caratterizzata da una forte componente genetica; cionondimeno, benché sia chiaro che la storia famigliare per DMT2 si associ ad una probabilità doppia di sviluppare la malattia nei parenti di primo grado, va sottolineato che, oltre al patrimonio genetico, i componenti del nucleo famigliare condividono anche norme sociali e abitudini di vita che potrebbero rendere conto, almeno in parte, della maggiore occorrenza di DMT2 in taluni alberi genealogici. Inoltre, l’architettura genetica del DMT2 è ancora in gran parte elusiva, nonostante i considerevoli risultati ottenuti dai recenti studi su larga scala del genoma (genome-wide association studies, GWAS) (3). Il numero delle varianti genetiche comuni individuate per essere associate al rischio di DMT2 è in costante aumento: attualmente, sono stati identificati nell’intero genoma umano 153 varianti (Tab. 2) associate ad un aumentato rischio di DMT2 (54).

29_1_Vita_8_Tab.2a

29_1_Vita_8_Tab.2b.

29_1_Vita_8_Tab.2c

Tuttavia, come recentemente mostrato (55), mentre il numero cumulativo dei loci di rischio per DMT2 è aumentato nel tempo, il rischio attribuibile a ciascuna singola variante allelica è progressivamente diminuito sino ad un odds-ratio che rasenta l’unità. Inoltre, l’insieme di tali varianti spiega solo una frazione limitata della ereditabilità del DMT2 (circa il 10-15%) (56), e la maggior parte si trova in regioni non codificanti, la cui caratterizzazione funzionale è attualmente nota in maniera imperfetta. È pertanto di importanza critica che le strategie di prevenzione/intervento (siano esse farmacologiche o comportamentali, o entrambi) siano applicate tempestivamente con una adeguata allocazione delle risorse economiche e umane e con il più basso rapporto costo/beneficio. Pertanto, l’identificazione di quei soggetti che potrebbero beneficiare al meglio di tali strategie rappresenta un interesse generale per la salute pubblica. In particolare, vi è attualmente un’attenzione crescente verso l’individuazione precoce del DMT2 nei suoi primi stadi di sviluppo e nella determinazione, idealmente sin dalla nascita, del rischio individuale di sviluppare diabete nel corso della vita (57). Tuttavia, tale sfida è particolarmente impegnativa poiché le regole sinora identificate per determinare il rischio di sviluppare DMT2 sono costituite da misure composite che includono variabili di tipo clinico, ambientale e, più recentemente, informazioni di tipo genetico, il cui contributo individuale al fenotipo diabetico è spesso non univocamente attribuibile.

Nel corso degli anni è stato sviluppato un gran numero di modelli non genetici per la predizione di nuovi casi di DMT2 (58). Nella maggior parte dei casi, le regole per tali strumenti derivano da semplici misure e informazioni cliniche ottenute di routine nella pratica clinica corrente, e includono, tra gli altri, età, sesso, etnia, adiposità, glicemia plasmatica, storia familiare di diabete e altre componenti della sindrome metabolica. Se si considera un ristretto ma rappresentativo numero di tali modelli potenzialmente utilizzabili nella pratica clinica (Tab. 2), la capacità predittiva complessiva del rischio di DMT2 è in tutti i modelli discretamente soddisfacente, con una statistica C (altrimenti definita come AUC ROC), compresa tra ~0.75 and 0.90 (59-65).

Nel recente passato, non molto tempo dopo l’inizio dell’era dei GWAS (66), una serie di gruppi di ricerca indipendenti ha cercato di utilizzare l’insieme delle varianti genetiche comuni associate a DMT2, per verificare se la predisposizione genetica a sviluppare DMT2 descritta da tali varianti – da sole, o in combinazione con consolidati modelli clinici – fosse in grado di identificare soggetti a maggiore rischio di DMT2 (67-78).

In linea di principio, la strategia di creare punteggi di rischio genetico (GRS, genetic risk score) sommando il numero degli alleli (eventualmente pesati per l’effetto individuale stimato nella coorte di originaria identificazione del rispettivo GWAS) nei loci di rischio per DMT2 identificati dai GWAS e rappresentati nel genoma di ciascun individuo, permette di superare le difficoltà potenzialmente connesse con l’utilizzo di un gran numero di varianti dal modesto effetto individuale.

Uno dei primi tentativi in tal senso è stato effettuato all’interno del Framingham Offspring Study (70), in cui l’insieme di 18 loci associati a DMT2 (GRS18), inclusi in aggregato in un modello di predizione di DMT2, ha significativamente migliorato (P=0.01) la statistica C da 0.534 (modello M1: sex-only) a 0.581 (modello M2: GRS18+sex). Tuttavia, aggiungendo a tale modello ulteriori variabili cliniche (C statistic=0.900), la capacità discriminativa del GRS18 non era più apprezzabile (C statistic=0.901, P=0.49). Dal momento che tali risultati avrebbero potuto essere dovuti in gran parte al basso numero di loci inclusi nello score, uno studio successivo, condotto nello stesso database (68), ha cercato di migliorare la capacità predittiva del GRS aumentando sino a 40 il numero dei loci compresi nello score, secondo l’ipotesi che un GRS maggiormente inclusivo dovrebbe descrivere una porzione più ampia dell’ereditabilità del DMT2. Come atteso, tale GRS40 “aggiornato” si dimostrava in grado di migliorare, seppur non marcatamente, la statistica C da 0.903 (modello clinico) a 0.906 (modello clinico + GRS40) nell’intera popolazione in studio (P=0.04). Curiosamente, tali risultati non si mantenevano una volta stratificati per età; tuttavia, nel sottogruppo di soggetti partecipanti allo studio con età inferiore ai 50 anni, il GRS40 era particolarmente efficace nel discriminare gli individui ad alto rischio, riclassificando correttamente il rischio individuale di sviluppare DMT2 una volta aggiunto al modello clinico, con un NRI (net reclassification index) pari a 10.2% (11). Ulteriori analisi effettuate in soggetti adulti di mezz’età arruolati nel Framingham Offspring Study e seguiti per un follow-up lungo 25 anni, hanno poi ulteriormente confermato che l’informazione genetica, rappresentata da uno score di rischio genetico più ampio e composto da 62 loci associati a DMT2, era in grado di fornire un contributo significativo alla capacità predittiva complessiva di nuovi casi di DMT2 quando aggiunta a variabili cliniche (75). Tuttavia, la statistica C non migliorava ulteriormente oltre la soglia di 0.906, ovvero il valore ottenuto con il precedente score GRS40, limitato a 40 loci di rischio per DMT2. È importante notare che, dal momento che il rischio genetico – diversamente dai comuni fattori clinici di rischio – rimane tipicamente immodificato durante tutto l’arco della vita, tali evidenze hanno portato ad ipotizzare che test genetici basati sul genotipo potrebbero essere particolarmente utili per identificare soggetti a più alto rischio di DMT2 nelle fasi precoci della vita. Tuttavia, uno studio realizzato in adolescenti inclusi nel Bogalusa Heart Study (74) ha mostrato che, nonostante uno score di rischio genetico composto da 38 loci associati a DMT2 fosse significativamente associato allo sviluppo di DMT2 nell’età adulta, l’informazione genetica non aggiungeva significativamente ulteriore valore predittivo agli usuali fattori clinici di rischio, inclusa la storia famigliare e l’adiposità.

In linea con questi risultati, altri studi prospettici di coorte, tra i quali il Malmö Preventive Project e gli studi Botnia (79), Whitehall II (73), CoLaus (71), EpiDREAM (67) ed EPIC-Potsdam (78), hanno mostrato miglioramenti assenti o modesti nella capacità discriminativa dei test basati sul genotipo, rispetto ai modelli clinici di predizione basati sul fenotipo. Recentemente, lo UCLEB Consortium (72) ha pubblicato il più grande studio di coorte mai realizzato sinora, in cui è stata verificata la capacità di uno score di rischio genetico composto da 65 loci noti per essere associati a DMT2, nel determinare il rischio di sviluppare nuovi casi di diabete nella popolazione adulta durante un arco temporale lungo 10 anni. Come atteso, in tale studio l’aggiunta del GRS65 migliorava modestamente la statistica C del Framingham Diabetes Risk score da 0.75 a 0.76 (P=0.003). È interessante notare che la capacità discriminativa del GRS65 nel riclassificare correttamente le persone nelle categorie di rischio che meglio riflettevano la loro occorrenza di DMT2, era profondamente influenzata dall’indice di massa corporea (BMI, body-mass index) ma non dall’età, ed era particolarmente efficace nei soggetti con BMI ≤24.5 Kg/m2 (NRI=27.6%).

In sintesi, benché nell’ultimo decennio si sia verificato un notevole passo in avanti nella comprensione delle componenti genetiche del DMT2 grazie allo sforzo globale profuso dai consorzi di studio di genetica su larga scala, l’evidenza attuale disponibile dalla letteratura scientifica sull’argomento suggerisce che l’inclusione delle informazioni genetiche in modelli clinici e socio-demografici di predizione del rischio di DMT2 aggiunga poco o nulla alla capacità predittiva complessiva di tali modelli (72, 80). Ciononostante, ad oggi rimane particolarmente elevata l’aspettativa di poter trasferire le conoscenze relative all’architettura genetica del DMT2 nella pratica clinica e possibilmente tradurle in interventi terapeutici sempre più orientati al singolo individuo (80-83). Alcune iniziative in questo senso sono attualmente in corso per poter individuare una adeguata risposta a tali istanze.

A questo proposito, è di recente istituzione una piattaforma informatica (http://www.type2diabetesgenetics.org), disponibile in rete e gestita presso il Broad Institute dell’Harvard University e del Massachusetts Institute of Technology di Boston, allo scopo di promuovere la condivisione di dati e la collaborazione internazionale tra differenti gruppi di ricerca. Finché la ricerca dei determinanti genetici di DMT2 e dei fenotipi di rischio ad esso associati manterrà il proprio slancio propositivo, la messe di dati sinora raccolti rappresenta il punto di partenza per determinare la rilevanza funzionale o regolatoria dei loci di rischio per DMT2 già noti e per svelare nuove varianti genetiche, possibilmente codificanti, eventualmente presenti con minore frequenza nella popolazione generale e pertanto caratterizzate da un effetto individuale maggiore rispetto a quelle, più largamente rappresentate, che costituiscono la maggior parte dei loci sinora identificati dagli studi su larga scala del genoma. Nell’era della medicina personalizzata e della cosiddetta “medicina di precisione”, una delle maggiori sfide per malattie complesse come il DMT2 risiede nella nostra abilità di spiegare la connessione esistente tra genetica e ambiente e tra genetica e risposta individuale ai farmaci, per cui alcune iniziative di farmacogenetica per individuare la risposta individuale ai farmaci ipoglicemizzanti nel DMT2 sono attualmente già in corso (84-85). È tuttavia fondamentale, per raggiungere risultati significativi, che ampi studi prospettici vengano realizzati in coorti di soggetti in cui vi sia disponibilità di una profonda e accurata caratterizzazione del fenotipo clinico, insieme a dettagliate informazioni di tipo genetico e trascrittomico.

In conclusione, vi è ancora molta strada da fare prima che la rilevanza traslazionale dell’informazione genetica possa essere chiaramente evidente, facilmente accessibile e correttamente utilizzata dai medici o, addirittura, dal pubblico “laico”, per determinare il rischio individuale di sviluppare DMT2. Indubbiamente, la futura medicina orientata al paziente necessita urgentemente di strumenti altamente efficaci per identificare nuovi target farmacologici sinora sconosciuti e per determinare il rischio individuale di DMT2, e così allocare al meglio risorse – umane ed economiche – e strategie di prevenzione primaria. Tuttavia, ad oggi, al termine dell’era dei GWAS, l’avvilente notizia è che le informazioni genetiche non sono ancora in grado di migliorare in maniera consistente i modelli di predizione del rischio di DMT2 basati sui soli dati clinici (55). Pertanto, come peraltro già anticipato alcuni anni or sono (86-87), i pazienti dovrebbero essere avvisati della scarsa sensibilità e del basso valore predittivo positivo dei test genetici per la determinazione del rischio individuale di DMT2 (ma il ragionamento vale anche per altre malattie complesse) proposti direttamente alle singole persone, e dovrebbero essere piuttosto incoraggiati ad essere inseriti in formali studi scientifici all’interno dei maggiori filoni di ricerca delineati nel presente documento.

29_1_Vita_8_Tab.3

Complicanze microvascolari e cardiovascolari del diabete

Le complicazioni microvascolari e cardiovascolari del diabete mellito sono disordini multifattoriali e poligenici. L’analisi dei pedigree ha documentato l’esistenza di un forte raggruppamento familiare per tutte le complicanze del diabete (88-89). L’ereditabilità, cioè la porzione della varianza fenotipica dovuta alla variabilità genetica, è stata stimata tra il 20% e il 44% per la malattia renale cronica (chronic kidney disease, CKD) del diabete (diabetic kidney disease, DKD) definita dalla riduzione del filtrato glomerulare (GFR) e/o dall’albuminuria, tra il 18% e il 27% per la retinopatia diabetica in ogni sua forma (RD) e tra il 25% e il 52% per gli stadi più avanzati della RD (88-91), mentre non sono disponibili stime accurate sulla ereditabilità della neuropatia diabetica (ND). Anche la patologia coronarica (coronary artery disease, CAD) è fortemente influenzata dalla variabilità genetica, con il 40-60% della sua varianza sostenuta da fattori ereditari (92).

Ciascuna di queste stime è sufficientemente ampia per dimostrare inequivocabilmente l’esistenza di una forte suscettibilità genetica per tutte le complicanze del diabete.

Nonostante questo, la ricerca di specifici geni capaci conferire la predisposizione alle complicanze microvascolari e cardiovascolari del diabete ha, ad oggi, permesso di ottenere risultati relativamente poco gratificanti.

Malattia renale cronica del diabete (DKD)

Nei soggetti diabetici, con maggiori evidenze nel DMT1, almeno 1/3 dei pazienti sviluppa DKD entro i primi 15-20 anni dall’esordio della malattia, mentre se i segni di danno renale non si manifestano durante questo primo periodo il rischio di sviluppare successivamente DKD si riduce progressivamente.

La precisa definizione dei fenotipi di danno renale è fondamentale nell’interpretazione degli studi caso-controllo sulla nefropatia diabetica. La maggior parte degli studi si basa sul presupposto che una lunga esposizione al diabete mellito e la presenza di proteinuria e/o di ridotto fitrato glomerulare (eGFR, estimated GFR) possano definire accuratamente la DKD. Tuttavia, è verosimile che la micro- e la macroalbuminuria, le diverse fasi della malattia renale cronica, le diverse velocità di declino del GFR e la malattia renale allo stadio terminale (end stage renal disease, ESRD) possano rappresentare fenotipi distinti, piuttosto che un percorso obbligato lungo un continuum. Questi tratti più probabilmente hanno basi genetiche distinte. Per questo motivo gli studi più recenti hanno spesso adottato uno spettro di definizioni di “caso-controllo” basati su fenotipi distinti (albuminuria o ridotto eGFR), sulla loro severità (per esempio, micro- e macroalbuminuria), oltre che sulla loro combinazione (per esempio, fenotipi albuminurici e non-albuminurici di malattia renale cronica).

Molti studi “genome-wide” (GWAS, genome-wide association study) hanno identificato diversi loci genetici associati al rischio di sviluppare albuminuria e/o riduzione del GFR e/o DKD (89, 93-110), quelli con un livello di significatività statistica genome-wide sono riportati in tabella 4.

29_1_Vita_8_Tab.4

Anche le varianti più promettenti mostrano però risultati inconsistenti e si osserva anche una certa sovrapposizione nell’associazione di marcatori genetici con diversi fenotipi renali come l’albuminuria, il GFR o la CKD, suggerendo che vi sia eterogeneità nei meccanismi patogenetici coinvolti nei processi di malattia (111). Inoltre, varianti diverse possono essere implicate nelle varie fasi di progressione della malattia, in popolazioni diverse. Vi è anche dibattito se il background genetico (e fisiopatologico) dei meccanismi responsabili di DKD nel DMT1 e nel DMT2 siano sovrapponibili e condivisi o invece siano distinti e, eventualmente, in quale misura. Infine, se le varianti genetiche che regolano la suscettibilità alla DKD hanno un impatto che è specifico per la DKD, o se queste varianti hanno effetti sul rischio complessivo di danno renale attribuibile a una più ampia serie di patologie rimane ancora poco chiaro (89).

Nonostante la forte suscettibilità genetica osservata per ogni tratto fenotipico renale, l’entità dell’effetto di ciascuna delle varianti genetiche identificate è così modesta da far si che il loro valore prognostico risulti essere pressoché insignificante. Per esempio, i 16 SNP associati alla malattia renale cronica con livello di significatività “genome-wide” nella popolazione generale rendono conto solo del 1.4% della variabilità dell’eGFR. Il modesto impatto delle varianti genetiche attualmente identificate preclude l’individuazione delle persone ad alto rischio di sviluppare la DKD o di progredire verso le forme più avanzate di malattia renale fino all’ESRD e il potenziale per una previsione personalizzata del rischio è attualmente basso (111). Così, sebbene il definire l’architettura genetica che regola il rischio di DKD potrebbe migliorare la possibilità di individuare precocemente i soggetti a rischio più elevato e favorire lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici, le informazioni disponibili sul make-up genetico della DKD sono attualmente inconsistenti.

Solo pochi studi “proof-of-concept” hanno sviluppato modelli genetici per verificare l’ipotesi che l’analisi combinata di molteplici varianti genetiche possa migliorare la predizione di DKD. Un modello logistico basato su 5 SNP identificati in altrettanti geni (HSPG2, NOS3, ADIPOR2, AGER e CCL5) e 5 variabili convenzionali (età, sesso, etnia, tipo di diabete e durata di malattia) prediceva la DKD meglio di un modello basato solo sulle variabili convenzionali (C-statistica 0,672 verso 0,569) (112). Ovviamente, siamo ancora lontani dall’immaginare che modelli simili possano fornire strumenti di predizione più efficaci e, soprattutto, clinicamente fruibili.

Retinopatia diabetica

Sebbene il contributo dei fattori genetici nello sviluppo e nella progressione del RD sia stato ampiamente documentato, l’identificazione di varianti di suscettibilità emersa da approcci gene- candidato, studi di linkage e studi GWAS è stata tutt’altro che soddisfacente. Anche per la RD, la mancanza di standardizzazione del fenotipo (a causa dei vari sistemi di classificazione adottati in diversi studi) rimane un importante ostacolo per l’interpretazione e il confronto dei risultati ottenuti (91). Durata del diabete e controllo glicemico sono i principali promotori della RD. Tuttavia, la RD può svilupparsi nonostante un buon controllo glicemico e una breve durata della malattia, mentre l’emoglobina glicata, la pressione arteriosa ed il profilo lipidico spiegano solo il 10% della variabilità nel rischio di RD. L’etnia gioca un ruolo rilevante, con forti evidenze di clustering familiare soprattutto per le forme più avanzate di RD (91). Una esaustiva sintesi degli studi “gene candidato” e degli studi di linkage dedicati alla RD è apparsa di recente (91); i risultati sono stati a volte nominalmente significativi, ma più spesso non permangono tali dopo l’aggiustamento per la molteplicità dei test statistici eseguiti e la correzione per i fattori confondenti.

Gli studi “genome-wide” dedicati alla RD sono tutti relativamente recenti (113). Diversi GWAS condotti in diverse popolazioni ma su campioni di modeste dimensioni hanno identificato solo associazioni borderline o deboli sia nel DMT1 che nel DMT2, senza riuscire a replicare alcuna delle associazioni di volta in volta individuate (114-127) (Tab. 5). L’analisi combinata dei dati provenienti da più GWAS, al fine di raggiungere una dimensione del campione adeguata, è stata proposta come il passo successivo per poter individuare i loci associati alla RD, insieme ad una più accurata fenotipizzazione e all’ attenzione alle fasi più avanzate della RD (che mostrano una ereditabilità più forte) e ad una rigorosa definizione dei controlli soprattutto per quanto riguarda la durata del diabete. Infine, sarà indispensabile la conferma in diversi set di dati per essere garantiti di aver individuato le vere associazioni (91), quelle probabilmente tali o quelle con significatività almeno nominale.

Variabili facilmente disponibili possono essere utilizzate per identificare i pazienti ad elevato rischio di RD. Nel National Health and Nutrition Examination Survey, HbA1c, indice di massa corporea, circonferenza vita, età, pressione sistolica, albumina e creatinina urinarie permettono di costruire un modello capace di predire la presenza di RD alla diagnosi di DM, con un valore predittivo positivo del 22% e un valore predittivo negativo del 99% (128). Sulla base dei dati clinici sono stati proposti algoritmi per calcolare il rischio individuale di RD pre-proliferante, RD proliferante e maculopatia diabetica (129). Ciascun algoritmo predice l’intervenire dei vari stadi di RD con aree sotto la curva di circa 80% nei pazienti con DMT2. I dati del DCCT/EDIC permettono la definizione di modelli predittivi accurati per le complicanze del diabete. Per ciascun outcome, compresa la RD, è stato individuato il modello che offre la migliore performance, cioè il più piccolo insieme di parametri clinici che ha per quella determinata complicanza il più forte potere predittivo. I modelli proposti contengono da cinque a quindici fattori di rischio, a seconda dello specifico outcome (130). Per quanto a nostra conoscenza, nessun algoritmo ha incluso varianti genetiche per esplorare la possibilità di migliorare la previsione del rischio di RD; infatti, i segnali genetici, attualmente disponibili non sono sufficientemente robusti per ipotizzare l’implementazione di strategie complementari o alternative per identificare i soggetti a rischio più elevato.

29_1_Vita_8_Tab.5

Neuropatia diabetica

Le neuropatie diabetiche (DN) più significative sono la neuropatia uremica (NU), la neuropatia diabetica periferica (DPN; polineuropatia diabetica sensitivo-motoria) e la neuropatia autonomica cardiaca (CAN). Gli studi condotti per identificare fattori genetici di rischio per DN sono molto scarsi e una revisione accurata delle varianti genetiche implicate nelle DN, recentemente pubblicata, ha messo in evidenza potenziali loci in comune alle varie forme è stata (131).

Un solo studio GWAS (il “Genetics of Diabetes Audit and Research Tayside”; GoDARTS) confrontando 572 casi con DPN (definita dal trattamento per il dolore da neuropatia e dalla positività al test del monofilamento) e 2491 soggetti di controllo ha identificato un cluster a livello del cromosoma 8p21.3 in prossimità al gene FGFR2 con un livello di significatività “near-GW” (113, 132). FGFR2 codifica per una “glycosylphosphatidylinositol (GPI)-linked cell surface protein”, un recettore di membrana per potenti fattori neurotrofici coinvolti nel controllo della sopravvivenza neuronale e la loro differenziazione.

In conclusione, la genetica della DN è ancora agli albori e allo stato attuale non e possibile utilizzare le poche conoscenze disponibili sui fattori genetici di DN per valutarne il rischio individuale.

 Complicanze cardiovascolari

Attraverso vari meccanismi che vanno dalla disfunzione endoteliale all’alterata capacità di riparazione vascolare, il diabete accelera e aggrava il processo aterosclerotico a livello di ogni letto vascolare. Nel DMT2, è stata descritta una forte aggregazione familiare per lo spessore dell’intima-media a livello carotideo (ereditabilità stimata 32-41%), e per la presenza di calcificazioni coronariche (40-50%). Le differenze nella tempistica, nell’estensione e nella severità della malattia cardiovascolare sostengono l’ipotesi dell’eterogeneità nell’insieme dei fattori e delle varianti genetiche che influenzano il rischio di malattia coronarica (CHD), ictus ischemico e arteriopatia periferica (PAD) tra i soggetti con diabete rispetto a quelli senza. Tuttavia, solo pochi studi hanno cercato di rispondere a questa domanda (89). Diversi studi GWAS hanno identificato numerosi loci associati alla CHD nella popolazione generale (133-140). Quindici di tali marcatori localizzati in 12 differenti loci identificati dagli studi GWAS condotti nella popolazione generale sono stati genotipizzati in tre studi su pazienti con DMT2: il Nurses’ Health Study, l’Health Professional Follow-up Study e il Joslin Heart Study (141). Cinque SNP, localizzati presso CDKN2A/2B, PHACTR1, CELSR2-PSRC1-SORT1, HNF1A, e PCSK9, noti per la loro associazione con la CHD nella popolazione generale, hanno mostrato associazioni coerenti con la CHD anche nella popolazione con DMT2, con OR compresi tra 1,17 e 1,25. Considerati in maniera combinata per calcolare un punteggio di rischio genetico, questi 5 loci mostravano un OR per CHD di 1,19 per unità di punteggio; in particolare, i portatori di ≥8 alleli di rischio (19% dei soggetti con DMT2) presentavano un aumento di quasi 2 volte del rischio di CHD rispetto ai portatori di ≤5 alleli di rischio (30% dei soggetti con DMT2). La combinazione di questo “score” genetico con un modello che include caratteristiche cliniche convenzionali migliora la predittività nei confronti della CHD; benché l’effetto sia risultato statisticamente significativo, non si è però tradotto in un miglioramento sostanziale nella definizione del rischio, con una AUC-ROC di 0.715 vs 0.699 (141). Un solo studio GWAS è stato specificamente effettuato in cinque campioni indipendenti di soggetti con DMT2. Questo studio ha individuato un locus non rilevato in precedenza associato ad un aumentato rischio di CHD nella regione del gene GLUL (glutamate-ammonia ligase) sul cromosoma 1q25. Il gene GLUL è un regolatore del metabolismo dell’acido glutammico; l’allele di rischio C è risultato associato ad una ridotta espressione di GLUL in cellule endoteliali umane. Nessuna associazione con la CHD è stata osservata nelle coorti di soggetti non diabetici, mentre nel DMT2 l’allele di rischio è strettamente associato con la CHD (OR 1.36), suggerendo un significativo sinergismo gene-diabete (142). Recentemente, in un follow-up medio di circa 13 anni, questo stesso SNP è stato riconosciuto come un modulatore indipendente dalla mortalità per tutte le cause (HR per allele di 1.32) e della mortalità cardiovascolare (HR 1,51) in 1.242 soggetti con diabete di tipo 2 (143).

29_1_Vita_8_Fig.5

Mentre numerosi studi GWAS sono stati condotti per esplorare i markers genetici di ictus ischemico e PAD nella popolazione generale (135, 144-150), nessuno studio è stato eseguito in soggetti con DM con l’obiettivo di individuare specifici loci associati a questi outcome vascolari tra i pazienti diabetici.

 29_1_Vita_8_Fig.6

 

CONCLUSIONI

La previsione genetica del DMT1 è utile nelle famiglie e, in modo molto meno performante, nella popolazione generale, solo quando anche gli autoanticorpi diabete-specifici siano stati valutati (46). Tuttavia, ad oggi nessuna strategia di successo per la prevenzione del DMT1 è stata ancora identificata; per questo, la questione chiave è se gli studi di predizione del DMT1 siano veramente utile ed eticamente giustificati a questo stadio di conoscenza.

Per quanto riguarda il DMT2, sebbene ulteriori scoperte di fattori genetici predisponenti non ancora identificati potrebbe cambiare in maniera importante lo scenario attuale, il messaggio da recepire è che, attualmente, l’aggiunta di informazioni genetiche a modelli di previsione clinici poco costosi e ben performanti non fornisce risultati migliori (55, 151). Quindi, come già anticipato qualche anno fa (86-87), i pazienti devono essere allertati circa la scarsa sensibilità dei test genetici per il DMT2 e dovrebbero essere piuttosto incoraggiati ad essere arruolati in studi scientifici volti a migliorare in primo luogo le nostre conoscenze sull’architettura genetica del DMT2 per poi cercare di utilizzare le nuove conoscenze per implementare sempre di più le strategie di predizione.

Lo stesso discorso vale per le malattie cardiovascolari per le quali l’aggiunta d’informazioni genetiche a modelli basati sulle caratteristiche cliniche non si traduce in un miglioramento sostanziale nella discriminazione del rischio.

Infine, le informazioni sul background genetico di altre complicanze diabetiche che colpiscono reni, occhi e sistema nervoso periferico non sono al momento assolutamente sufficienti per provare a fare predizione, sottolineando che il tempo per l’utilizzo di dati genetici per migliorare la stratificazione del rischio è davvero lontano a venire.

In definitiva, al giorno d’oggi, l’uso di test genetici per prevedere il diabete e le sue complicanze croniche è assolutamente di scarsissimo valore nella pratica clinica. Una migliore definizione fenotipica dei diversi sottotipi d’iperglicemia, un’identificazione esaustiva delle varianti genetiche rare/infrequenti con un importante effetto biologico e strumenti statistici adeguati, specificamente progettati per tenere conto le interazioni gene-gene e gene-ambiente, rappresentano nell’insieme innovazioni necessarie per avere successo nella realizzazione dati genetici in ambito clinico, in modo che una migliore previsione del rischio di sviluppare iperglicemia e le sue devastanti complicanze devastanti possa diventare realtà.

RINGRAZIAMENTI

Questo studio è stato parzialmente supportato dal Ministero della Salute (Ricerca Corrente 2015 e 2016 a S. Prudente e V. Trischitta), da Fondazione Roma (Sostegno alla ricerca scientifica biomedica 2014 a V. Trischitta), dalla Comunità Europea (progetto MEDIGENE FP7-279171), dal Ministero dell’Università e della Ricerca (PRIN 2010 a R. Buzzetti e PRIN 2012 a V. Trischitta), dall’Università di Roma “Sapienza” (Ateneo 2014 a R. Buzzetti) e dall’Università di Verona (Finanziamento di ricerca a M. Dauriz).

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