Sara Cocozza, Olga Vaccaro
Dipartimento di Medicina Clinica e Chirurgia, Università Federico II, Napoli
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Epidemiologia
Il prediabete è una condizione caratterizzata da iperglicemia non diagnostica per diabete e da un elevato rischio di sviluppare diabete tipo 2 e malattie cardiovascolari. Dati recenti documentano anche un aumentato rischio di altre patologie cronico degenerative come alcuni tipi di cancro, demenza ed insufficienza cardiaca (1-3). Il prediabete è una condizione eterogenea per patogenesi e per rischio di complicanze; infatti, sebbene il tratto comune sia l’iperglicemia, le persone con prediabete presentano una molteplicità di alterazioni metaboliche variamente associate tra loro: insulino-resistenza, disfunzione beta-cellulare, steatosi epatica/steatoepatite non alcolica, infiammazione subclinica, adiposità viscerale. Possono essere pertanto identificati fenotipi differenti (4) caratterizzati da prevalente deficit di funzione beta-cellulare, prevalente insulino-resistenza, e diverse combinazioni dei due. Anche il profilo dei fattori di rischio cardiovascolare (CV) e la prevalenza delle altre condizioni associate (i.e. obesità, steatosi epatica/steatoepatite, infiammazione subclinica) possono variare nei diversi fenotipi. È ragionevole ipotizzare che il rischio di progressione verso il diabete conclamato ed il rischio cardiovascolare possano essere diversi nei diversi fenotipi dipendendo dal difetto metabolico prevalente e dalla distribuzione dei fattori di rischio cardiovascolare. Poiché la condizione di prediabete rappresenta un obiettivo per la prevenzione del diabete e delle sue complicanze, queste osservazioni suggeriscono l’importanza della definizione del fenotipo al fine di identificare le misure di prevenzione più appropriate.
La prevalenza del prediabete è molto elevata nella popolazione occidentale, casistiche recenti degli USA indicano una prevalenza del 38% nella popolazione adulta, inoltre questa condizione è diagnosticata sempre più spesso in giovani adulti o in adolescenti, soprattutto se obesi (5).
Nel corso degli ultimi 10 anni i criteri per la diagnosi di prediabete sono cambiati diverse volte, ciò nonostante i valori di glicemia a digiuno ed i valori di emoglobina glicata da utilizzare per la diagnosi sono ancora materia di dibattito (Fig. 1).
Secondo l’American Diabetes Association (ADA) la diagnosi può essere posta in presenza di uno o più delle seguenti condizioni:
Glicemia a digiuno compresa tra 100-125 mg/dl (alterata glicemia a digiuno o Impaired Fasting Gglucose o IFG). È da notare che l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) indica per la diagnosi di IFG valori di glicemia compresi tra 110-125 mg/dl (6).
Glicemia 2 ore dopo carico orale di glucosio (Oral Glucose Tolerance Test- OGTT) compresa tra 140-199 mg/dl (ridotta tolleranza al glucosio o impaired glucose tolerance o IGT).
HbA1c compresa tra ≥39 e <48 mmol/mol (i.e. 5.7-6.4%).
L’uso della emoglobina glicata per la diagnosi degli stati di disglicemia è stato introdotto dall’ADA nel 2011. I valori 5.7-6.4% (42-47 mmol/mol) sono considerati non diagnostici per diabete, ma meritevoli di attenzione in quanto associati a un elevato rischio di sviluppare la malattia e, quindi, in qualche modo equivalenti alle condizioni di IFG ed IGT. Va tuttavia sottolineato che c’è una scarsa concordanza tra la diagnosi di prediabete definito con la misurazione della glicemia o con la misurazione della emoglobina glicata. Inoltre altri comitati di esperti – International Expert Committee, National Institute for Health and Clinical Excellence (NICE) e gli Standard Italiani per la Cura del Diabete – ritengono i valori indicati dalla ADA poco specifici e raccomandano di utilizzare valori più elevati i.e. 6.00-6.4%; 42-47 mmol/mol (7-9). L’OMS ad oggi, non ha ancora ratificato l’uso della HbA1c per la diagnosi di prediabete poiché considera le evidenze disponibili non sufficienti per dare raccomandazioni sull’interpretazione di livelli di emoglobina glicata <48 mmol/mol (6). Di fatto, mentre le categorie di IFG e IGT sono molto studiate, ed il rischio di complicanze in questi gruppi di persone è ben documentato, gli studi a supporto del significato prognostico dei valori di emoglobina glicata non diagnostici per diabete sono ancora poco numerosi e non sempre concordanti.
In considerazione dell’elevato rischio di diabete, spesso ci si riferisce alle condizioni di IFG ed IGT come ad uno stato di “prediabete”; non dobbiamo tuttavia dimenticare che i dati sulla evoluzione naturale di queste condizioni dimostrano che circa il 30% di questi pazienti, dopo 10 anni, non sviluppa il diabete ed addirittura può spontaneamente ritornare alla normoglicemia (10). Nella pratica clinica è pertanto preferibile definire IFG, IGT ed elevazioni della emoglobina glicata nel range non diabetico, come condizioni di “disglicemia” o di “alterato metabolismo glicidico”. Il termine “prediabete” è più propriamente utilizzato per identificare bambini e adolescenti con evidenza di autoimmunità beta-cellulare, suscettibilità genetica al diabete tipo 1 e alterazione della secrezione insulinica che non presentano ancora iperglicemia.
IFG e IGT sono entità cliniche differenti?
Sia la IFG che la IGT sono caratterizzate da iperglicemia ed insulino-resistenza, tuttavia ci sono evidenze che queste condizioni rappresentano per diversi aspetti entità cliniche differenti. Lo studio della risposta insulinemica al carico orale o endovenoso di glucosio e l’esecuzione del clamp euglicemio iperinsulinemico, hanno dimostrato che la IFG si associa ad una moderata/severa riduzione della risposta insulinica precoce ed una compromissione della insulino-sensibilità a livello epatico, mentre la risposta insulinica tardiva e la sensibilità insulinica nel distretto muscolare sono conservate, il che rende ragione del ritorno alla normoglicemia dopo 2 ore dal carico orale di glucosio. Al contrario la condizione di IGT è caratterizzata prevalentemente da una ridotta risposta insulinica tardiva, nonché da una moderata-severa insulino-resistenza epatica e marcata insulino-resistenza a livello muscolare. L’iperglicemia a digiuno o dopo OGTT sono quindi in qualche modo marcatori di fenotipi metabolici differenti (11). La IFG e la IGT possono essere presenti in forma isolata, oppure coesistere nello stesso individuo. Evidentemente la coesistenza di IFG ed IGT è caratterizzata da alterazioni metaboliche più complesse e si associa pertanto ad un rischio più elevato di progressione verso il diabete ed altre complicanze. Studi epidemiologici dimostrano che, approssimativamente, il 40% della popolazione con disglicemia presenta sia IFG che IGT, mentre i rimanenti presentano l’una o l’altra in forma isolata. Questo suggerisce che nelle persone con IFG, soprattutto quelle con altri fattori di rischio per diabete – i.e. obesità centrale, ipertensione arteriosa, steatoepatite – andrebbe praticata la curva da carico orale di glucosio per una migliore definizione diagnostica e prognostica (12-13). Una proporzione elevata di queste persone potrebbe avere una risposta al carico di glucosio compatibile con la diagnosi di IGT o di diabete (i.e. ≥140 0 ≥200mg/dl). È utile ricordare che la diagnosi di disglicemia basata sulla misurazione della emoglobina glicata non riesce a catturare la complessità dei diversi fenotipi metabolici che coesistono nel prediabete, il che, in parte, può rendere ragione della scarsa concordanza della diagnosi basata sui criteri glicemici o sui valori di emoglobina glicata. Anche la glicemia a digiuno e la glicemia a 2 ore dopo OGTT, tuttavia, sono misure imperfette della molteplicità delle anomalie metaboliche presenti negli stati di disglicemia. Al momento c’è crescente interesse per l’identificazione di altri marcatori da utilizzare in alternativa, o in combinazione a quelli già in uso per migliorare la caratterizzazione fenotipica e la stratificazione del rischio. In particolare i livelli di glicemia 1 ora dopo carico si sono dimostrati buoni predittori dello sviluppo di diabete e sono anche predittori di danno vascolare preclinico ed incidenza di eventi CV (14-16). Uno studio recente ha dimostrato che in giovani obesi con valori simili di glicemia a digiuno e dopo carico, l’andamento della curva glicemia (i.e. monofasico verso difasico, ovvero caratterizzato da rapido incremento e lenta discesa, oppure da rapido incremento e rapida discesa) è associato ad un profilo ormonale metabolico diverso. Insulina, C peptide, acidi grassi liberi, incretine e glucagone sono significativamente diversi nei due gruppi durante la curva denotando un profilo di minore insulino sensibilità e più marcato deficit beta-cellulare nelle persone con risposta monofasica (17).
Progressione verso il diabete
La presenza di disglicemia rappresenta il più importante fattore di rischio per lo sviluppo di diabete tipo 2. La causa ultima della progressione verso il diabete è la progressione del deficit di funzione beta-cellulare. Poiché IFG ed IGT rappresentano stati fisiopatologici differenti (difetto della secrezione insulinica precoce ed insulino-resitenza a livello epatico nella IFG; difetto della secrezione insulinica tardiva ed insulino-resistenza epatica e muscolare nella IGT) è ragionevole attendersi che questo possa influenzare il rischio di progressione verso il diabete. In realtà in una metanalisi di studi prospettici eseguiti tra il 1979 ed il 2004 si è visto che l’incidenza annuale di diabete era del 6-8% per anno nelle persone con IGT, 3-8% nelle persone con IFG e 4-20% nelle persone con entrambe le alterazioni (17). Queste stime tuttavia presentano alcuni limiti. Il più importante è che i criteri diagnostici sono cambiati e quindi tutti gli studi analizzati hanno utilizzato criteri diagnostici diversi da quelli attualmente in uso, il secondo è che le condizioni di IFG ed IGT spesso coesistono e la maggior parte degli studi non ha analizzato queste condizioni indipendentemente l’una dall’altra. È quindi difficile sulla base di questi dati valutare il rischio associato ai fenotipi IFG o IGT quando presenti in forma isolata. Riguardo alla capacità di predizione della HbA1c una metanalisi riporta in persone con valori di emoglobina glicata 6-6.4% (42-47 mmol/mol), un tasso di progressione verso il diabete non significativamente diverso da quello osservato per le persone con IFG o IGT, ma più basso che nelle persone con IFG ed IGT combinate (19). Un solo studio basato sui criteri diagnostici ADA ha valutato la progressione a diabete in soggetti con alterazioni isolate della glicemia a digiuno o dopo carico, o combinazione delle due, o HbA1c 5.7-6.4%. Lo studio dimostra che in nove anni di follow-up la percentuale di individui che sviluppa il diabete è particolarmente elevata nelle persone con IFG+IGT (31.9%), e nei soggetti con IGT (18%), mentre è sostanzialmente più bassa nelle persone con IFG isolata (15%) o elevata emoglobina glicata (10.9%) (20).
Il rischio di evoluzione verso il diabete, tuttavia, è condizionato anche dalla coesistenza di altri fattori (età, obesità, storia familiare, coesistenza di sindrome metabolica ecc.) e quindi non viene completamente catturato dalla misurazione della glicemia o della emoglobina glicata. Uno studio recente ha valutato i predittori della risposta ad un intervento sullo stile di vita (21) in 120 pazienti con disglicemia. I pazienti che non miglioravano in maniera significativa la loro tolleranza glicidica dopo nove mesi di intervento, nonostante la perdita di peso, erano quelli con peggiore funzione beta-cellulare e presenza di NAFLD.
Anche per questo motivo negli ultimi anni l’attenzione dei ricercatori si è spostata su altri indicatori di rischio. Abdul-Ghani et al. (14) hanno dimostrato per la prima volta che la concentrazione di glucosio plasmatico 1 ora dopo OGTT predice il rischio di diabete. Successivamente altri studi hanno dimostrato che la glicemia 1 ora dopo OGTT correla più fortemente della glicemia a 2 ore con la funzione beta-cellulare (22-23). Nel Botnia Study la concentrazione di glucosio 1 ora dopo OGTT si è dimostrata un predittore di diabete più forte della HBA1c. Alcuni autori hanno inoltre dimostrato che soggetti con IFG e soggetti con normale glicemia a digiuno, quando appaiati per valori di glicemia 1 ora dopo OGTT, avevano un simile rischio di sviluppare diabete. Inoltre, una glicemia a 1 ora dal carico di glucosio ≥155 mg/dl in soggetti con nomoglicemia a digiuno è stata associata con un aumentato rischio di diabete e con alcuni marcatori di danno d’organo subclinico (15). Altri indici che sono stati associati al rischio di progressione verso il diabete sono l’andamento della curva glicemica ed in particolare il tempo occorrente per ritornare ai valori di glicemia basale dopo assunzione del carico di glucosio. Minore è questo tempo migliore è la funzione beta-cellulare e minore è il rischio di diabete futuro (23). Al momento nessuno di questi indicatori è sufficientemente standardizzato da potere essere utilizzato nella pratica clinica.
Il rischio di diabete è certamente condizionato anche dal background genetico. Ad oggi sono stati individuati oltre 80 loci genici di suscettibilità per il diabete tipo 2 in base ai quali è anche possibile generare dei punteggi o degli algoritmi per la stratificazione del rischio di diabete ad essi associato. Tuttavia si è compreso che negli adulti un elevato rischio genetico definito in base a questi punteggi è associato ad un rischio elevato di sviluppare diabete, ma è anche generalmente associato ad iperglicemia per cui non contribuisce significativamente a migliorare la predizione rispetto alla misurazione della sola glicemia, più semplice e meno costosa. L’utilizzo degli score basati sul rischio genetico potrebbe, tuttavia essere utile nei giovani o nei bambini per identificare precocemente le persone ad alto rischio ed implementare misure di prevenzione prima che si manifesti l’iperglicemia (24).
Rischio cardiovascolare
Ci sono molte evidenze che documentano un aumento della mortalità totale e cardiovascolare nelle persone con disglicemia non diagnostica per diabete (3, 25-26). L’ordine di grandezza del rischio relativo di eventi cardiovascolari fatali e non fatali rispetto alla popolazione generale è modesto giacché oscilla tra 1.06 e 1.34 nei diversi studi, in relazione anche all’età delle coorti studiate. È più elevato nelle fasce di età più giovani, al di sotto dei 65, e si riduce progressivamente nelle fasce di età più elevata. Tuttavia tenendo conto della elevata prevalenza della condizione di prediabete, questo modesto aumento di rischio ha un impatto non trascurabile a livello di popolazione. Va anche sottolineato che la relazione tra iperglicemia non diagnostica per diabete e rischio CV non mostra un effetto soglia coincidente con i valori glicemici indicati per la diagnosi di IFG o IGT; un significativo, aumento di rischio è descritto già per valori glicemici che si collocano nel range normale-alto della distribuzione della popolazione (27). Considerando l’eterogeneità delle alterazioni metaboliche e le differenze nel profilo di dei fattori di rischio CV associati alle diverse definizioni di prediabete è ancora dibattuto quale delle misure oggi utilizzate per la definizione degli stati di disglicemia, sia quella più appropriata per identificare il rischio CV, i.e. glicemia digiuno, glicemia dopo OGTT, emoglobina glicata (25-29). La marcata insulino-resistenza che caratterizza la condizione di IGT è associata a diverse alterazioni metaboliche tra cui dislipidemia, ipertensione arteriosa ed obesità viscerale che rappresentano anche fattori di rischio per malattie CV. Diversi studi hanno documentato un profilo di rischio CV più sfavorevole nelle persone con IGT che con IFG (13). Inoltre, la maggior parte degli studi che hanno valutato nella stessa popolazione la relazione tra glicemia a digiuno, o dopo OGTT, con la mortalità CV (DECODE, HOORN, DECODA, Funagata) riportano una relazione significativamente più forte con la glicemia dopo carico che con la glicemia a digiuno (28). Uno studio di metanalisi condotto con l’obiettivo specifico di analizzare la relazione tra incidenza di eventi coronarici ed IFG definita secondo diversi criteri (WHO: 110-125 mg/dl, o ADA: 100-125 mg/dl), ha concluso cha non c’è un significativo aumento di rischio associato alla condizione di IFG quando si tenga in conto il confondimento dovuto alla iperglicemia dopo OGTT (29). Una analisi post-hoc dei dati dello studio DPP (Diabetes Prevention Programme) ha valutato l’incidenza di eventi CV fatali e non fatali durante nove anni di osservazione nei partecipanti con IGT che non avevano sviluppato diabete durante lo studio. I risultati evidenziano una relazione significativa con la glicemia 1 ora e 2 ore dopo carico, ma non con la glicemia a digiuno (16). Due recenti studi di intervento supportano l’ipotesi che negli stati di disglicemia l’aumento di rischio cardiovascolare nei soggetti con IGT sia spiegato in larga parte dalla insulino-resistenza e dai fattori di rischio ad essa associati, più che dalla iperglicemia per sé. Lo studio ORIGIN, che utilizzando la terapia insulinica ha corretto l’iperglicemia nelle persone con prediabete senza modificare l’insulino-resistenza, non ha dimostrato alcun beneficio sul rischio di eventi CV (30). D’altra parte, lo studio IRIS utilizzando il pioglitazone in soggetti con prediabete e pregresso ictus o TIA ha ridotto l’iperglicemia, ha migliorato il profilo di rischio CV ed ha ridotto l’incidenza di infarto ed ictus rispetto al gruppo trattato con placebo (31).
Rischio microvascolare
Classicamente il prediabete viene definito come una condizione di rischio piuttosto che come una patologia di per sé. Tuttavia, nonostante che i criteri per la diagnosi di diabete siano basati sul rischio di sviluppare retinopatia, diversi studi recenti documentano la presenza di complicanze microvascolari (retinopatia e nefropatia) o a parziale etiologia micro vascolare (neuropatia, insufficienza cardiaca, ictus) in persone con prediabete. In che misura questo sia dovuto al progressivo deteriorarsi della glicemia fino a valori compatibili con la diagnosi di diabete non è facile da stabilire in studi con disegno trasversale. Nel Diabetes Prevention Program il 7.9% dei partecipanti con IGT all’inizio dello studio, e che non avevano sviluppato diabete alla fine dello studio, presentavano retinopatia iniziale, in confronto al 12% di quelli che sviluppavano diabete. Una prevalenza di retinopatia intorno al 10% in individui con disglicemia è stata confermata anche da altri studi, la maggior parte riguardava persone con IGT + IFG che spesso presentavano anche altri fattori di rischio per retinopatia come ipertensione arteriosa, dislipidemia. Anche la microalbuminuria, un marcatore specifico di danno renale associato sia al rischio di insufficienza renale che di complicanze cardiovascolari, presenta una prevalenza significativamente più elevata nelle persone con prediabete. Nel National Health and Nutrition Examination Survey il 17% dei partecipanti con IFG aveva una malattia renale cronica rispetto al 10% delle persone con normoglicemia (33) e nello studio MONICA (Monitoring Trends and Determinants in Cardiovascular Disease) la prevalenza di neuropatia nei partecipanti con prediabete era doppia rispetto a quella delle persone con normoglicemia (34). Studi precedenti condotti su un gruppo di persone con IGT e controlli normoglicemci dello stesso sesso ed indice di massa corporea hanno dimostrato nelle persone con IGT alterazioni della “beat to beat variation”, un marcatore codificato di neuropatia autonomica, ed alterazioni iniziali della funzione cardiaca (35-36). Dati molto recenti suggeriscono che un danno microvascolare generalizzato è presente nelle persone con prediabete già al momento della diagnosi. Questo suggerirebbe che, analogamente a quanto osservato per il danno macrovascolare, il danno microvascolare insorge già per livelli di glicemia al di sotto della soglia per la diagnosi di diabete (31).
Possibilità di intervento
Considerato l’elevato rischio di sviluppare diabete ed altre complicanze, le persone con disglicemia rappresentano un buon target per interventi di prevenzione. L’aspetto finora più studiato riguarda la possibilità di prevenire o ritardare significativamente lo sviluppo del diabete riducendo così il peso socioeconomico di questa patologia a livello di individuo e di popolazione. Diversi studi controllati e randomizzati sono stati condotti per testare l’efficacia di interventi mirati alla riduzione dei principali difetti metabolici identificati nelle persone con prediabete (insulino-resistenza e deficit beta-cellulare) (37-55). La tabella 1 riassume gli studi che hanno utilizzato interventi mirati a modifiche dello stile di vita e riduzione del peso corporeo, la tabella 2 riassume gli studi basati su interventi farmacologici.
Discutere i dettagli dei singoli studi non rientra negli obiettivi di questa rassegna. Si possono tuttavia fare alcune considerazioni generali. Le modifiche dello stile di vita ed una riduzione anche modesta del peso corporeo si sono dimostrati altamente efficaci nel ridurre il rischio di sviluppare diabete in tutti i gruppi etnici studiati. Per quanto riguarda gli interventi farmacologici gli effetti maggiori si sono ottenuti con i farmaci che riducono l’insulino-resistenza (metformina e tiazolidinedioni).
La metformina riduce il rischio di circa il 34%, i tiazolidinedioni ottengono effetti anche maggiori, è stata osservata una riduzione del 72% con il pioglitazone e del 60 % con il rosiglotazone (45, 48). È rilevante a questo proposito ricordare che i risultati dello studio ACT NOW, che ha utilizzato appunto il pioglitazone, sono stati recentemente confermati dallo studio IRIS (32) che ha dimostrato che il trattamento con pioglitazone, rispetto al placebo, in soggetti con IGT e pregresso ictus o TIA riduce significativamente l’incidenza di diabete. In apparente contrasto con questi dati il pioglitazone nella coorte di etnia asiatica dell’Indian Diabetes Prevention Study non ha dimostrato di ridurre significativamente l’incidenza di diabete. Questo dato, che necessita di conferma, suggerisce tuttavia la possibilità di risposte fenotipo-specifiche. Molto efficaci si sono dimostrati anche gli inibitori dell’alfa glucosidasi. Inoltre lo studio STOP NIDDM (50) ha mostrato non solo una riduzione dell’incidenza di diabete ma anche un effetto protettivo per gli eventi CV mediante un intervento con l’acarbose. Al contrario gli studi Navigator ed ORIGIN che hanno utilizzato rispettivamente la nateglinide e l’insulina, non hanno osservato una significativa riduzione né dell’incidenza di diabete né dell’incidenza di eventi CV (53, 30). La chirurgia bariatrica è efficace nell’indurre la remissione del diabete tipo 2 in persone con malattia conclamata ed è in grado di prevenire lo sviluppo di diabete nelle persone con obesità (56). Al momento non ci sono dati di studi specificamente disegnati per valutare l’effetto della chirurgia bariatrica per la prevenzione del diabete in soggetti con disglicemia. Per quanto riguarda la possibilità di implementazione di strategie di prevenzione a livello di popolazione è utile sottolineare che tutti gli studi finora condotti hanno arruolato persone con IGT in forma isolata, o in combinazione con iperglicemia a digiuno. Un solo studio ha analizzato gli effetti di un intervento sullo stile di vita in persone con IFG isolata e non ha dimostrato alcun effetto significativo (44). Inoltre nessuno studio ha arruolato persone con prediabete definito secondo i valori di emoglobina glicata. In che misura, i benefici osservati da interventi condotti in persone con IGT possano essere riprodotti in popolazioni diverse rimane quindi una questione aperta. Inoltre, non è ben chiaro se l’intervento modifichi la storia naturale del prediabete oppure abbia solo un effetto di controllo nella iperglicemia. Gli effetti delle modifiche dello stile di vita si sono dimostrati duraturi. Il follow-up post trial dello studio DaQing ha dimostrato che a distanza di 20 e 23 anni era ancora possibile osservare una differenza nell’incidenza di diabete del 40% tra il gruppo di intervento ed il gruppo di controllo, una differenza del 43% nella mortalità CV e del 29% della mortalità totale. Nello studio DPS la differenza tra il gruppo di intervento ed il gruppo di controllo era del 43% dopo 7 anni e del 38% dopo 13 anni. Nello studio DPP, nel braccio allocato a modifiche dello stile di vita la differenza era del 34% a 10 anni e del 27% a 15 anni (57). Per quanto riguarda i farmaci, invece, tutti gli studi che hanno rivalutato la tolleranza glicidica dopo un periodo più o meno lungo di sospensione suggeriscono che gran parte dell’effetto si perde con la interruzione del trattamento ipoglicemizzante. Ciò nonostante, il bilancio costo efficacia per un farmaco di basso costo e con un buon profilo di sicurezza come ad esempio la metformina viene considerato molto positivo (ADA). Uno studio di simulazione basato sui dati del DPP ha calcolato che si può ritardare l’insorgenza del diabete di 11 anni con le modifiche dello stile di vita e di 3 anni con la metformina. Inoltre si può ridurre dell’8% e 2% rispettivamente l’incidenza di diabete nel corso della vita. Sulla scorta di questi dati sono in corso in diversi paesi iniziative per testare l’efficacia di programmi di prevenzione del diabete basati su modifiche dello stile di vita a livello di popolazione (58-59). Per quanto riguarda l’ambito clinico le evidenze disponibili sono considerate sufficienti dall’ADA per raccomandare in tutti i soggetti con prediabete modifiche dello stile di vita e la correzione ottimale dei fattori di rischio associati all’insulino-resistenza. In aggiunta, nei soggetti ad alto rischio – (i.e. disglicemia, e particolarmente IGT, BMI >35 età <60 anni o precedente diabete gestazionale) si può considerare l’uso della metformina (60).
Conclusioni
La disglicemia non diagnostica per diabete è una condizione altamente prevalente nella popolazione. È una condizione eterogenea caratterizzata da iperglicemia e da difetti metabolici diversi (insulino-resistenza a livello epatico e/o muscolare, deficit della funzione beta-cellulare precoce e/o tardiva) variamente combinati tra di loro per cui è possibile identificare diversi fenotipi. La misurazione della glicemia e della emoglobina glicata catturano solo in parte la diversità metabolica dei differenti fenotipi, ed è possibile che in futuro saranno suggeriti altri indicatori (glicemia 1 ora dopo OGTT, misurazione di insulina e peptide C durante OGTT), o metaboliti differenti da utilizzare in associazione o in alternativa a quelli attualmente in uso per la diagnosi. Per il momento la caratterizzazione genotipica non si è rivelata utile nella pratica clinica per migliorare la definizione diagnostica e prognostica. Il rischio di progressione verso il diabete e di complicanze macrovascolari può variare secondo il fenotipo. È particolarmente elevato per le persone con alterazioni della glicemia sia a digiuno che dopo OGTT (i.e. con IFG+IGT). Questo suggerisce l’opportunità di eseguire l’OGTT in tutte le persone con iperglicemia a digiuno per una migliore valutazione diagnostica e prognostica. Il rischio di complicanze tuttavia è anche fortemente condizionato dalla coesistenza di altri fattori di rischio associati all’insulino-resistenza: dislipidemia, ipertensione arteriosa, obesità viscerale, infiammazione subclinica, steatoepatite non alcolica. L’identificazione ed il trattamento ottimale di queste condizioni sono fortemente raccomandati nelle persone con disglicemia per ridurre il rischio di diabete e di complicanze vascolari. Per quanto riguarda la prevenzione del diabete ci sono chiare evidenze che nelle persone con IGT il diabete si può prevenire in una elevata percentuale di casi (30-58%) con interventi sullo stile di vita mirati ad una modesta riduzione ponderale ed all’incremento della attività fisica. Questi interventi si sono dimostrati costo efficaci e sono al momento fortemente raccomandati in tutti i soggetti con disglicemia. Inoltre ci sono in corso diverse iniziative per estendere la loro implementazione a livello di popolazione per arginare l’epidemia di diabete a cui stiamo assistendo. Anche l’uso di alcuni farmaci utilizzati per il trattamento del diabete si è dimostrato in grado di prevenire il diabete nei soggetti con disglicemia. Quelli più efficaci finora sono i farmaci che riducono l’insulino-resistenza (metformina e glitazoni). Sulla base di questi dati e considerato il buon profilo di sicurezza, la ADA raccomanda l’uso della metformina in associazione a modifiche dello stile di vita nelle persone con un rischio particolarmente elevato di sviluppare diabete. L’effetto dei farmaci tuttavia tende a ridursi, fino alla completa scomparsa, con l’interruzione della terapia; questo suggerisce che la loro efficacia è legata soprattutto alla correzione dell’iperglicemia più che a una capacità di modificare i meccanismi fisiopatologici della malattia diabetica.
Messaggi chiave
La disglicemia non diagnostica per diabete è una condizione altamente prevalente, caratterizzata da iperglicemia e da altri difetti metabolici (insulino-resistenza a livello epatico e muscolare, deficit della funzione beta-cellulare) variamente combinati tra di loro.
Si associa ad un elevato rischio di sviluppare diabete e complicanze macro e microvascolari, particolarmente nei soggetti con alterazioni sia della glicemia a digiuno che dopo OGTT.
L’esecuzione dell’OGTT nelle persone con IFG fornisce utili indicazioni per la definizione diagnostica e prognostica.
Le misure di prevenzione di provata efficacia riguardano la correzione della insulino-resistenza e dei fattori ad essa associati (displipidemia, ipertensione arteriosa, obesità viscerale, infiammazione subclinica).
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