Società Italiana di Diabetologia (SID), Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (ADI), Associazione Medici Diabetologi (AMD), Associazione Nazionale Dietisti (ANDID), Società Italiana di Nutrizione Umana (SINU), Società Italiana di Nutrizione Pediatrica (SINUPE) e Società Italiana dell’Obesità (SIO)
WRITING COMMITTEE
Coordinamento Scientifico
SID: Dott.ssa Rosalba Giacco, CNR-Istituto di Scienze dell’Alimentazione, Avellino
Delegati
ADI: Dott.ssa Barbara Paolini, UO Dietetica e Nutrizione Clinica – AOU Senese, Policlinico Santa Maria alle Scotte, Siena
AMD: Dott. Sergio Leotta, Direttore UOC Diabetologia e Dietologia, Ospedale Sandro Pertini, ASL Roma 2
ANDID: Dott.ssa Ersilia Troiano, Direzione Servizi Educativi e Scolastici, Municipio III, Roma Capitale
SINU/SINUPE: Dott.ssa Elvira Verduci, Clinica Pediatrica, Ospedale San Paolo, Dipartimento di Scienze della Salute, Università degli Studi di Milano
SIO: Dott.ssa Margherita Caroli, già responsabile dell’U.O. Dipartimentale Igiene della Nutrizione, ASL Brindisi
PREFAZIONE
L’epidemia globale dell’obesità e le difficoltà di raggiungere e mantenere una condizione di normopeso nel lungo termine hanno creato nel corso degli ultimi anni un ampio interesse nell’opinione pubblica accompagnato, però, dalla moltiplicazione di approcci terapeutici proposti da figure professionali disparate per formazione e competenza oltre che da un vasto e remunerativo mercato per la produzione di prodotti, strumenti, metodi e programmi utilizzati al fine della perdita di peso, definito con il termine di “diet-industry”. In molti casi, la diet-industry ha finalità meramente economiche poiché fa leva sull’esigenza delle persone che vogliono o devono perdere peso e sulla loro insufficiente conoscenza dei prodotti o delle procedure proposte. Per queste ragioni, il mercato dei prodotti “dietetici” che promettono consistenti perdite di peso si è popolato di prodotti di dubbia efficacia e di diete prive di solide basi scientifiche. In questo contesto è sorto il cosiddetto fenomeno delle “popular diets”, definibili come “diete alla moda”, che godono di un successo mediatico e di pubblico, per lo più temporaneo, in virtù di benefici poco credibili rafforzati dalla testimonianza di personaggi del mondo dello spettacolo o dello sport.
In aggiunta alle revisioni sistematiche della letteratura, che hanno evidenziato come alcune delle “popular diets” (a basso contenuto di carboidrati, a basso contenuto di grassi, a basso indice glicemico, Atkins) possano essere considerate un modello alimentare equilibrato, nutrizionalmente adeguato e sostenibile nel lungo termine, il limite maggiore consiste nel fatto che non esistono studi clinici rigorosi e a lungo termine che hanno confrontato gli effetti delle diverse popular diets in termini di efficacia e sicurezza.
A rendere ancora più complesso e, sotto certi aspetti, più preoccupante il quadro è la diffusa idea che il sovrappeso e l’obesità siano conseguenza di una presunta condizione di allergia o intolleranza alimentare. Negli ultimi anni vi è stata una vera e propria esplosione, soprattutto a livello di web e social network, di regimi alimentari restrittivi, basati su test diagnostici di “intolleranza alimentare” eseguiti su disparati campioni biologici (sangue, saliva, capelli) e considerati idonei a identificare le cause patogenetiche del sovrappeso. La maggior parte di queste informazioni derivano da siti internet dedicati alle cosiddette medicine non convenzionali mentre non esistono rigorose evidenze scientifiche che supportino l’utilizzo di questi test per diagnosticare reazioni avverse agli alimenti o per predire eventuali future reazioni.
In questo preoccupante scenario, Società Italiana di Diabetologia (SID), Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (ADI), Associazione Medici Diabetologi (AMD), Associazione Nazionale Dietisti (ANDID), Società Italiana di Nutrizione Umana (SINU), Società Italiana di Nutrizione Pediatrica (SINUPE) e Società Italiana di Obesità (SIO) hanno elaborato il presente Position Statement sul “Ruolo delle allergie, delle intolleranze alimentari e della terapia nutrizionale nell’obesità e nelle malattie metaboliche”. Questo documento congiunto ha lo scopo di svolgere un’analisi della documentazione scientifica alla base dei fenomeni delle diet-industry, delle popular diets o delle presunte “intolleranze alimentari” e una valutazione oggettiva sulle evidenze scientifiche esistenti per fornire al mondo scientifico e professionale un utile riferimento su queste tematiche. Il presente Position Statement rappresenta la posizione ufficiale delle Società Scientifiche che hanno partecipato alla stesura. In mancanza di studi scientifici o di pubblicazioni rilasciati da organizzazioni ed enti pubblici o regolatori, gli estensori del documento si sono avvalsi del proprio giudizio e della loro esperienza. È stato fatto ogni sforzo per raggiungere un consenso tra tutti gli autori. Questo documento di Position Statement deve essere considerato una guida, ma non può essere visto come prescrittivo per il singolo paziente e non può sostituire, in ogni caso, il giudizio clinico.
Giorgio Sesti Presidente della Società Italiana di Diabetologia (SID)
Antonio Caretto Presidente dell’Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (ADI)
Nicoletta Musacchio Presidente dell’Associazione Medici Diabetologi (AMD)
Ersilia Troiano Presidente dell’Associazione Nazionale Dietisti (ANDID)
Pasquale Strazzullo Presidente della Società Italiana di Nutrizione Umana (SINU)
Enrica Riva Presidente della Società Italiana di Nutrizione Pediatrica (SINUPE)
Paolo Sbraccia Società Italiana di Obesità (SIO)
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INTRODUZIONE
L’obesità è una patologia cronica ad etiopatogenesi complessa, per la quale attualmente non esiste una strategia monodirezionale efficace, soprattutto nel lungo termine (1). La progressiva diffusione di sovrappeso e obesità e l’assenza di una strategia di trattamento efficace, specie nel lungo termine, hanno costituito terreno fertile per il proliferare di modelli terapeutici, più o meno ortodossi, proposti da figure professionali molto eterogenee per formazione e competenza, oppure addirittura da professionisti “improvvisati” (1). Da diversi anni esiste inoltre un ricchissimo mercato per la produzione di prodotti, strumenti, strategie, programmi e qualsiasi altro mezzo che possa essere impiegato per la perdita di peso, indipendentemente dal rapporto costo-beneficio che si riflette sul consumatore, definito dalle Linee Guida Italiane Obesità (LIGIO 99) con il termine di “diet-industry”, che ha l’unico scopo di permettere un facile guadagno sfruttando il bisogno dei soggetti che vogliono o devono perdere peso, la loro intenzionalità, la loro mancanza di consapevolezza e di preparazione. Non ultimo, si trova sul mercato tutta una serie di settimanali dedicati al problema del calo ponderale con tutta una serie di diete squilibrate e consigli che non sono affatto basati su dati scientifici. Tutto questo mercato è aperto in particolare modo alle ciarlatanerie, alle stupidità, alle frodi, ai falsi ideologici e alle mistificazioni.
Nel complesso scenario della “diet-industry” è possibile far convergere il cosiddetto fenomeno delle “popular diets”, definibili come “diete alla moda”, che godono di un successo mediatico, nella gran parte dei casi temporaneo, in virtù non solo di presunti e vantati benefici, ai limiti del miracolistico, ma anche di testimonial di successo, come star dello spettacolo, dello sport, ecc. Diverse revisioni sistematiche della letteratura (2) hanno messo a confronto le più famose “Popular diets” (a basso contenuto di carboidrati, a basso contenuto di grassi, a basso indice glicemico, Atkins, ecc.) sottolineando che nessuna di loro può essere considerata, in assoluto, un modello alimentare equilibrato, adeguato nutrizionalmente e sostenibile nel lungo termine. Inoltre, ognuna di esse presenta pro e contro che vanno opportunamente valutati in quanto non esistono studi rigorosi e a lungo termine che possano confrontare gli effetti di queste diete (3).
In tale contesto il disorientamento da parte della popolazione appare scontato e le possibili ricadute negative, specie di tipo clinico e psicologico per trattamenti condotti male, sono tutt’altro che trascurabili (1).
Tra le tematiche molto attuali e sentite nella popolazione generale, sulle quali si è creata una enorme confusione, vi è quella del sovrappeso/obesità quale conseguenza di una presunta condizione di allergia o intolleranza alimentare e delle diete di esclusione quali terapia per la riduzione del peso.
Negli ultimi anni si è, infatti, assistito ad una enorme diffusione, soprattutto a livello mediatico (web e social network), di regimi alimentari restrittivi basati su test diagnostici di “intolleranza alimentare” eseguiti sulle più differenti matrici biologiche (sangue, saliva, capelli), quali soluzioni salvifiche e detossificanti per l’organismo.
Basti considerare che, da una semplice indagine con il motore di ricerca Google, i risultati che si ottengono digitando i termini “sovrappeso e intolleranze alimentari” sono 94.600 in 0,47 secondi. Ad onor del vero è importante specificare che la quasi totalità dei siti internet, dei blog e delle pagine social dedicati all’argomento afferisce all’area delle cosiddette medicine non convenzionali, così come a singoli professionisti o riviste che non hanno rilievo nell’ambito del panorama scientifico nazionale ed internazionale.
Inoltre, non è possibile trovare in rete né attraverso i più accreditati motori di ricerca scientifici rassegne, articoli o studi clinici che trattino l’argomento secondo i classici canoni della medicina basata sull’evidenza.
I pochi studi scientifici disponibili sul legame tra intolleranza alimentare e sovrappeso/obesità si basano, inoltre, sull’utilizzo di metodologie diagnostiche non riconosciute dall’evidenza scientifica oppure su ipotesi dubbie, quale ad esempio quello che l’infiammazione, che pure è una componente fisiopatologica descritta nel contesto delle alterazioni metaboliche indotte dall’obesità, sia il meccanismo scatenante dell’obesità stessa (4).
Non esistono, infatti, evidenze di letteratura di buona qualità che supportino l’utilizzo di questi test per diagnosticare reazioni avverse agli alimenti o per predire eventuali future reazioni, ciò nonostante il fenomeno sta assumendo dimensioni preoccupanti. Pur non avendo a disposizione stime della percentuale di popolazione che si rivolge a differenti professionisti per effettuare test di intolleranza alimentare al fine di ottenere una riduzione di peso, basti osservare che, già nel 2012, la Società di Allergia ed Immunologia Clinica Canadese (5) ha pubblicato un position statement sull’utilizzo di test per il dosaggio di IgG alimenti-specifiche. Tale documento sottolinea come il mercato di questi test, proposti quali semplici modi per identificare “sensibilità agli alimenti”, intolleranze o allergie alimentari, che in passato era limitato ad un contesto di medicina non convenzionale o alternativa, si stia pericolosamente estendendo non solo ai più disparati professionisti della salute (medici e non medici), ma anche a canali di acquisto diretto da parte della popolazione.
Scopo di questa rassegna è dunque quello di effettuare un’analisi del razionale e della documentazione scientifica alla base di questo fenomeno, valutando l’evidenza disponibile sulle tematiche relative ad allergie/intolleranze alimentari e sovrappeso/obesità, per fornire al mondo scientifico e professionale un riferimento condiviso su questo problema di forte impatto sulla salute della popolazione. Il documento analizza lo stato dell’arte riguardo all’associazione tra allergie ed intolleranze alimentari e sovrappeso/obesità, individuando i percorsi diagnostici accreditati dal punto di vista scientifico ed i relativi interventi terapeutici.
REAZIONI AVVERSE AGLI ALIMENTI: ALLERGIE ED INTOLLERANZE ALIMENTARI
Definizione
Le allergie ed intolleranze alimentari sono meglio definite come reazioni avverse agli alimenti, ovvero manifestazioni cliniche indesiderate ed impreviste relative all’assunzione di un alimento. Le reazioni avverse agli alimenti (Fig. 1) possono essere classificate in:
Tossiche: contaminazione batterica (es. sindrome sgombroide), contaminazione da tossine, contaminazione da sostanze chimiche di sintesi.
Non tossiche (da ipersensibilità):
reazioni immunomediate
- IgE mediate (allergie alimentari)
- miste (IgE /cellulo mediate) es. gastroenteropatie eosinofile
- non IgE mediate (enterocolite da proteine alimentari, celiachia, sindrome sistemica da nichel)
reazioni non immunomediate (intolleranze alimentari).
Figura l. Schema di classificazione delle reazioni avverse agli alimenti basato sui meccanismi patologici che le determinano EEACI (Mod. da Boyce J.A. et al, 2010)
Allergie alimentari
Le allergie alimentari sono definite come reazioni avverse derivanti da una specifica risposta immunitaria riproducibile alla riesposizione ad un determinato cibo (6).
Le allergie alimentari includono:
- reazioni IgE-mediate o reazioni di ipersensibilità immediata (reazioni di tipo I secondo Gell e Coombs);
- reazioni non IgE-mediate o reazioni di ipersensibilità ritardata (reazioni di tipo IV secondo Gell e Coombs);
- reazioni miste, IgE- e non IgE-mediate.
I diversi meccanismi immunologici alla base delle allergie alimentari determinano un polimorfismo clinico. Infatti, le allergie IgE-mediate sono tipicamente ad esordio acuto dopo il challenge con l’alimento, le reazioni cellulo-mediate, invece, hanno un esordio ritardato; le reazioni miste IgE- mediate/cellulo-mediate, infine, sono ad esordio immediato o ritardato.
Le reazioni allergiche si manifestano in seguito all’assunzione per via orale dell’alimento verso il quale il soggetto è sensibilizzato, ma possono manifestarsi anche in seguito al contatto cutaneo o all’inalazione dell’odore dell’alimento. L’allergia IgE mediata (tipo I) è l’unica veramente pericolosa per la vita; essa implica una prima fase di sensibilizzazione, quando l’organismo viene a contatto con l’allergene e non riconoscendolo come appartenente a sé, lo etichetta come pericoloso e inizia a produrre anticorpi specifici di classe E (IgE). Così, ogni volta che l’organismo entrerà in contatto con l’antigene verso cui è sensibilizzato, si scatenerà rapidamente una reazione allergica che, in casi estremi, può causare uno shock anafilattico. È importante ricordare che la sensibilizzazione ad un alimento non vuol dire allergia e i fattori che determinano concrete manifestazioni cliniche in soggetti sensibilizzati sono complessi e relativi sia al soggetto (ad esempio livello di IgE e reattività d’organo) sia all’allergene (ad esempio digeribilità, labilità e concentrazione) (6).
Epidemiologia
Secondo dati epidemiologici le allergie alimentari (AA) interessano il 5% dei bambini di età inferiore a tre anni e circa il 4% della popolazione adulta (7). Nella popolazione generale il concetto di “allergia alimentare” risulta molto più diffuso (circa il 20% della popolazione ritiene di essere affetta da allergie alimentari).
Per quanto riguarda l’età pediatrica, è stato recentemente osservato un significativo incremento della prevalenza in questa fascia di età, in generale più interessata rispetto a quella adulta da allergopatie. Le allergie alimentari “percepite”, tuttavia, non sono sempre reali: i dati di autovalutazione, che riportano un’incidenza compresa tra il 12,4% e il 25%, sarebbero confermati dal Test di Provocazione Orale (TPO) solo nell’1,5-3,5% dei casi. Dal momento che pochi studi epidemiologici hanno utilizzato il gold standard diagnostico, ossia il TPO in doppio cieco contro placebo, sono necessarie ulteriori ricerche per una più accurata determinazione della prevalenza e dell’incidenza dell’AA nella popolazione pediatrica. Parlando di ambito pediatrico è importante ricordare, inoltre, che l’allergia alimentare rappresenta il primo gradino della marcia allergica e svilupparla entro i primi 24 mesi di vita significa avere la massima probabilità per i bambini di diventare asmatici intorno ai 7 anni (8).
Manifestazioni cliniche
Le allergie alimentari possono manifestarsi con sintomi immediati o ritardati. Nel primo caso i sintomi insorgono da pochi minuti a poche ore (in genere, massimo due ore) dall’ingestione dell’alimento offending; nel secondo caso intercorrono almeno due ore (eccezionalmente prima) tra l’ingestione dell’alimento e la comparsa della sintomatologia. L’espressione clinica può variare sensibilmente da grado lieve fino a forme severe (anafilassi) e coinvolgere più organi (cute, apparati gastrointestinale, respiratorio e cardio-circolatorio).
In età pediatrica l’allergia alimentare più frequente è l’allergia alle proteine del latte vaccino (APLV), con una prevalenza dell’1,9-4,9%. Esordisce quasi sempre nel primo anno di vita, in genere più precocemente nel lattante alimentato con formula, rispetto all’allattato al seno. L’acquisizione della tolleranza, cioè la remissione di sintomi, si verifica nel 40-50% dei casi entro il primo anno vita e nell’85-90% dei casi entro il terzo anno di vita. Lo spettro di manifestazioni cliniche dell’APLV è molto ampio e comprende sintomi gastrointestinali (reflusso gastro esofageo, coliche, stipsi, diarrea, vomito) nel 32-60% dei casi, manifestazioni cutanee (dermatite e meno frequentemente orticaria) nel 5-9% dei casi; meno comuni sono i sintomi respiratori. L’anafilassi si verifica nello 0,8-9% dei casi.
I meccanismi immunologici implicati sono sia di tipo IgE mediato che di tipo cellulo-mediato. I principali allergeni presenti nel latte vaccino sono l’alfa-latto albumina, la beta-lattoglobulina e la caseina. Tali molecole presentano un’alta omologia di struttura con proteine contenute nel latte di altri mammiferi, in particolare ovini (capra e pecora). Minore analogia di struttura è invece riscontrabile nel latte di equini (cavalla e asina) e di cammella; questi latti sono, pertanto, più comunemente tollerati dai pazienti con APLV, sebbene la tolleranza vada comunque verificata caso per caso. Non è ancora chiaramente definito il grado di tolleranza del latte vaccino contenuto in alimenti cotti al forno ad elevate temperature (oltre 150°) e per lungo tempo (oltre 30 minuti), come ad esempio i prodotti da forno o i dolci.
La diagnosi si basa sulla storia clinica, l’eventuale utilizzo di test allergologici (in vivo ed in vitro), la dieta di esclusione ed il TPO, che è il test gold standard. Il lattante che esegue dieta di esclusione delle proteine del latte vaccino dovrebbe assumere, come alternativa, formule speciali dedicate rappresentate dalle formule a base di proteine di latte vaccino estesamente idrolisate, formule a base di soia, formule a base di idrolisati di soia e riso e miscele aminoacidiche. In caso di lattanti allattati al seno, la madre deve optare per una dieta priva di latte e derivati associata ad adeguata supplementazione di calcio. Il latte di altri mammiferi o bevande a base di soia o riso non rappresentano un’alternativa nutrizionalmente adeguata al latte vaccino (9).
Diagnosi
Per quanto riguarda le allergie alimentari, i test diagnostici disponibili sono:
- prove allergologiche cutanee (prick test, prick by prick, patch test);
- test sierologici per la ricerca di IgE totali (PRIST) e specifiche (mediante ImmunoCAP o RAST);
- diagnostica molecolare;
- Test di Provocazione Orale (TPO) in doppio cieco contro placebo.
Il prick test per la diagnosi di allergie alimentari è un test sensibile e specifico, relativamente semplice nella sua esecuzione, di basso costo ed a lettura immediata; si effettua utilizzando estratti allergenici purificati del commercio (prick test) oppure con alimenti freschi, in particolare del mondo vegetale (prick by prick o prick to prick). Quest’ultima metodica consente di testare alimenti che, individualmente, sono considerati possibile causa di disturbi e che non sono disponibili in commercio come estratti, ma anche per poter testare molecole altrimenti alterate dalle procedure di estrazione. I test sierologici supportano il sospetto di reazione IgE mediata agli alimenti, ma non sono decisivi per l’esclusione di un alimento dalla dieta, né risultano più sensibili o specifici dei test cutanei. Tali test devono essere utilizzati come prima indagine in caso di dermatiti estese, di trattamento cronico con antistaminico, situazioni che rendono i test cutanei non eseguibili.
È importante sottolineare che in presenza di una storia clinica suggestiva la negatività degli Skin Prick Test (SPT) e/o delle IgE specifiche deve essere interpretata anche considerando la possibilità di un’allergia alimentare non IgE-mediata.
Gli estratti allergenici, ma anche gli alimenti freschi, utilizzati nell’ambito dei test sopra citati sono per la gran parte miscele di più proteine allergeniche. Questo è la causa potenziale di una certa variabilità di concentrazione delle singole proteine allergeniche da un lotto all’altro; inoltre, comporta il fatto che la positività di un test con estratti (o con un alimento fresco) non indica quale proteina presente nella fonte allergenica sia responsabile della sensibilizzazione. In altre parole, un test negativo con un buon estratto o con un alimento fresco esclude la sensibilizzazione a quella fonte allergenica, mentre un test positivo ci dice che il paziente è sensibilizzato, ma non fornisce indicazione su quale sia l’allergene. Questo può costituire un grande problema nel campo delle allergie alimentari. L’avvento delle nanotecnologie e della biologia molecolare ha portato all’identificazione, sequenziazione, caratterizzazione e clonazione di un gran numero di molecole allergeniche e delle loro isoforme. Queste ultime possono essere utilizzate al fine di individuare la risposta IgE mediata verso componenti singoli degli alimenti (es. profilina, LTP), distinguere fra le sensibilizzazioni “vere” (a rischio maggiore di reazioni avverse importanti) e co-sensibilizzazioni (a rischio minore di reazioni importanti, come la sindrome orale allergica) ed indicare, quindi, il livello di rischio verso reazioni più o meno gravi per il singolo paziente. È possibile valutare il livello di IgE specifiche verso componenti molecolari con caratteristiche diverse di resistenza al calore, alla digestione peptica ed alla lavorazione industriale ed indirizzare il paziente verso l’esclusione dell’alimento oppure indicare la possibilità di assumerlo con certe precauzioni (cottura, lavorazione industriale, privo della buccia ecc.), sempre considerando le relazioni con i dati clinici.
Si ribadisce l’importanza di valorizzare il risultato di tali test solo se inserito in un contesto globale e se compatibile con i dati che emergono dalla storia clinica e dall’esame clinico approfondito. In presenza di una storia clinica suggestiva, infatti, la negatività degli SPT e/o delle IgE specifiche deve essere interpretata anche considerando la possibilità di un’allergia alimentare non IgE-mediata. Quando la storia clinica è suggestiva e il quadro clinico appare grave (anafilassi) o certamente correlato alla ingestione di un alimento (ad esempio comparsa immediata dopo ingestione di un singolo alimento) e la dieta di eliminazione porta alla regressione del quadro clinico, il riscontro di una sensibilizzazione allergica verso quell’alimento viene ritenuto sufficiente alla diagnosi. In tutti gli altri casi, dato che la sensibilità e la specificità dei test allergologici non è assoluta, per avere una maggiore certezza diagnostica è necessario ricorrere all’esecuzione di un test di provocazione orale nei confronti dell’alimento sospettato. In questi casi la dieta di eliminazione diagnostica deve essere impostata sulla base della storia clinica e dei risultati dei test allergologici (SPT e/o ricerca delle IgE specifiche) e l’effetto della dieta deve essere valutato attentamente per 2-4 settimane. Se la dieta di eliminazione diagnostica determina una significativa riduzione dei sintomi, deve essere protratta fino all’eventuale esecuzione del test di provocazione orale. Al contrario, se la dieta di eliminazione diagnostica non porta ad una significativa riduzione dei sintomi è improbabile che l’alimento eliminato sia responsabile di un’allergia alimentare (8).
Intolleranze alimentari
Le intolleranze alimentari consistono in reazioni indesiderate ed improvvise scatenate dall’ingestione di uno o più alimenti, con sintomi molto simili alle allergie alimentari, caratterizzate da meccanismi non immunomediati e dose dipendenti. Esse devono, pertanto, essere distinte dalle allergie alimentari, definite come reazioni avverse derivanti da una specifica risposta immunitaria riproducibile alla riesposizione ad un determinato cibo (6).
Le intolleranze alimentari includono:
- reazioni enzimatiche, determinate cioè dalla carenza o dalla assenza di enzimi necessari a metabolizzare alcuni substrati (ad es. l’intolleranza al lattosio, favismo);
- reazioni farmacologiche, ossia risposte a componenti alimentari farmacologicamente attivi, come le ammine vasoattive (ad es. tiramina, istamina e caffeina) contenute in pesce, cioccolato e prodotti fermentati, oppure le sostanze aggiunte agli alimenti, (ad es. coloranti, additivi, conservanti aromi);
- reazioni indefinite, ossia risposte su base psicologica o neurologica (ad es. “food aversion” o rinorrea causata da spezie) (6).
Spesso sono associate a condizioni cliniche diverse, in particolare patologie legate al distretto gastrointestinale (IBS, gastrite, reflusso gastroesofageo, litiasi della colecisti).
Epidemiologia
Per l’epidemiologia delle intolleranze è difficile avere una stima precisa, dato che sono tante e diverse le reazioni avverse all’ingestione di cibo che si possono considerare intolleranze e la diagnosi può essere difficoltosa per la mancanza di metodi diagnostici standardizzati e validi.
Manifestazioni cliniche
Le intolleranze alimentari si manifestano con sintomi e segni prevalentemente localizzati a carico dell’apparato gastrointestinale e consistono in gonfiore addominale, alterazione dell’alvo, dispepsia, dolori addominali, vomito; possono essere coinvolte anche la cute e le mucose con comparsa di rush eritematoso, prurito, orticaria. Meno frequentemente possono essere presenti difficoltà respiratoria, alterazioni pressorie, sincope e cefalea; tali sintomi, manifestandosi con minore frequenza risultano meno attribuibili alla sintomatologia dell’intolleranza alimentare. In generale, le manifestazioni cliniche di intolleranza alimentare sono meno gravi rispetto a quelle tipiche delle allergie alimentari. A differenza dei soggetti allergici, che devono condurre una rigida dieta di eliminazione dell’alimento verso il quale sono sensibilizzati, i soggetti intolleranti possono assumere piccole quantità dell’alimento, senza sviluppare alcun sintomo (8).
Intolleranze enzimatiche
Intolleranza al lattosio
Il deficit di lattasi può essere primario o secondario. Nel primo caso distinguiamo:
deficit congenito, a trasmissione autosomica recessiva, presente fin dalla nascita, caratterizzato da diarrea grave ed intrattabile, disidratazione e squilibrio idro-elettrolitico;
deficit ad esordio tardivo (forma più diffusa), che si manifesta in età scolare o in età adulta ed è dovuto al decadimento dell’attività lattasica che si verifica soprattutto nelle popolazioni mediterranee.
Si tratta di una condizione geneticamente determinata, per cui una volta insorta permane. C’è una gradazione nell’intensità della sintomatologia e l’entità dei sintomi non correla con l’entità del deficit lattasico e con la presenza residua di lattasi sull’orletto a spazzola.
Il deficit secondario di lattasi è dovuto ad un danno intestinale e si può verificare nelle gastroenteriti, nel malassorbimento, nella celiachia e nelle malattie infiammatorie croniche intestinali.
Tale intolleranza è presente nel 3-5% dei bambini di età inferiore a 2 anni, e nel 65% circa della popolazione adulta (10). Nell’adulto tale intolleranza può essere presente in concomitanza del cambiamento delle abitudini alimentari con relativa diminuzione della lattasi, enzima definito inducibile, poiché è stato dimostrato che la disponibilità della lattasi è direttamente proporzionale alla quantità di latte consumato. I principali sintomi sono dolore addominale, flatulenza e diarrea correlati all’assunzione di alimenti contenenti lattosio, la gravità della sintomatologia varia in base al grado di deficit enzimatico.
Favismo
Patologia ereditaria legata al cromosoma X, causata da un deficit enzimatico della glucosio-6- fosfato deidrogenasi (G6PD), enzima della via dei pentoso fosfati. La manifestazione clinica è caratterizzata da crisi emolitiche in risposta all’ingestione di fave.
Intolleranze farmacologiche
Sono reazioni determinate dall’effetto farmacologico esplicato da alcune sostanze presenti negli alimenti come amine biogene o vasoattive, quali: istamina (vino, pomodori, alimenti in scatola, sardine filetti d’acciuga, formaggi stagionati), tiramina (formaggi stagionati, vino, birra, lievito di birra, aringa), serotonina (banane, pomodori) dopamina, noradrenalina, feniletilamina (cioccolato). Inoltre risultano implicate anche caffeina, alcol, teobromina (tè e cioccolato), teoffillina, triptamina (pomodori e prugne), solanina (patate), capsicina (peperoncini), miricristina, acido glicerritinico.
Intolleranze da meccanismi non definiti
Reazioni legate all’assunzione di additivi utilizzati nell’industria alimentare come coloranti, addensanti, conservanti, antimicrobici, antiossidanti, i più comuni sono: benzoati, nitriti, nitrati, solfiti, glutammato di sodio (11). Prima di prescrivere una dieta definitiva di eliminazione, va fatta una valutazione clinica con dieta di esclusione e reintroduzione (12).
Diagnosi
L’approccio diagnostico nel sospetto di una intolleranza alimentare è basato innanzitutto sull’anamnesi.
Le intolleranze possono manifestarsi con sintomi simili e sovrapponibili alle allergie alimentari, pertanto, è fondamentale escludere che si tratti di allergie e valutare le condizioni cliniche internistiche associate.
Qualora in seguito all’anamnesi il medico sospetti una intolleranza al lattosio, il test di diagnosi utilizzato è il Breath test. Si tratta di un test che valuta la presenza di H2 nell’aria espirata (13-14). Per la diagnosi di intolleranze farmacologiche l’unico approccio è di tipo anamnestico, invece per quelle da meccanismi non definiti è possibile effettuare il test di provocazione con la somministrazione dell’additivo sospettato.
Diagnosi differenziale con: sindrome sgombroide, sindrome da sovracrescita batterica intestinale (SIBO), sindrome dell’intestino irritabile (IBS)
La prima, classificata tra le reazioni avverse ad alimenti con reazione di tipo tossico, è caratterizzata da una eccessiva esposizione ad amine biogene, come l’istamina che favorite da metabolismo batterico vengono prodotte in grandi quantità durante il processo di putrefazione del pesce, in particolare di tonno e sgombro. I sintomi principali sono l’orticaria e le manifestazioni gastrointestinali (15).
La seconda, caratterizzata da un eccesso di flora batterica nell’intestino tenue, si manifesta con dolore addominale, meteorismo, diarrea ed in alcuni casi segni di malassorbimento. La diagnosi si effettua mediante Breath test ad un carico di glucosio o lattulosio e necessita di un trattamento con antibiotici (16).
La terza è una patologia funzionale cronica dell’intestino con eziologia non completamente nota, è caratterizzata da sintomi come dolore addominale associato a gonfiore, distensione e alterazioni dell’alvo in assenza di anomalie organica dell’intestino.
Il dolore o il gonfiore addominale sono i sintomi principali che spesso si attenuano con la defecazione.
L’esacerbazione dei sintomi a volte è correlata all’introduzione di cibo e può essere in parte dovuta ad una vera e propria intolleranza ad alcuni alimenti, ma anche essere legata ad una ipersensibilità viscerale o a modificazioni del microbiota intestinale. Spesso la riacutizzazione dei sintomi compare con l’introduzione di cibi ad alto contenuto di fibre e di oligosaccaridi fermentescibili nonché disaccaridi, monosaccaridi e polioli definiti dall’acronimo FODMAP (17-18).
Malattia celiaca
La malattia Celiachia è una patologia cronica sistemica immuno-mediata, dovuta ad intolleranza al glutine alimentare, sostanza proteica presente in molti cereali quali avena, frumento, farro, kamut, orzo, segale, spelta e triticale.
Attualmente, la stima della prevalenza della celiachia è dell’1% (probabilmente sottostimata), sia a livello mondiale che in Europa dove si manifesta prevalentemente nei paesi nordici; colpisce tutte le fasce di età e prevalentemente il sesso femminile. In Italia, la prevalenza si aggira su 1 caso ogni 100-150 persone (19).
Si tratta di una malattia geneticamente determinata, caratterizzata da enteropatia di grado variabile (danno della mucosa intestinale con atrofia dei villi nel tratto duodeno-digiunale) e dalla presenza di anticorpi specifici nel siero.
Sintomatologia: le sue manifestazioni non coinvolgono solo l’apparato gastrointestinale ma possono interessare anche altri organi ed apparati. È caratterizzata da un quadro clinico variabilissimo, che va dalla diarrea profusa con dolori addominali alla presenza di stipsi, meteorismo e flatulenza, marcato dimagrimento, ma anche obesità. Inoltre possono essere presenti cefalea, amenorrea, anemia sideropenica, scarso accrescimento, dermatite erpetiforme. È possibile l’associazione con altre malattie autoimmuni (diabete 1, ipotiroidismo, psoriasi).
Diagnosi: 1° step) dosaggio degli anticorpi antitransglutaminasi tissutale IgA e IgG (questo solo se in presenza di deficit di IgA totali); 2° step) anticorpi antiendomisio (come conferma); 3° step) anticorpi IgA, IgG antipeptidi deamidati della gliadina (si effettuano sia in fascia pediatrica che al follow up per la verifica di aderenza alla dieta e in caso di deficit di IgA totali); 4° step) valutazione dell’assetto genetico HLA (Human Leukocyte Antigen) DQ2, DQ8; 5° step) esofagogastroduodenoscopia (EGDS) e biopsia duodeno-digiunale, da effettuarsi sempre nel soggetto adulto a conferma della diagnosi e per valutare l’entità del danno della mucosa intestinale (20).
Terapia: completa esclusione del glutine dalla dieta, che deve essere mantenuta per l’intera vita del soggetto.
Non-Celiac Gluten Sensitivity
La Non-Celiac Gluten Sensitivity (NCGS), descritta dal 2010 e riconosciuta come una nuova condizione clinica, è caratterizzata da manifestazioni cliniche intestinali ed extraintestinali (diarrea, gonfiore, dolore addominale, dolori articolari, depressione, annebbiamento mentale, emicrania) che insorgono tempestivamente dopo ingestione di alimenti contenenti glutine e altrettanto rapidamente scompaiono a dieta aglutinata, in pazienti non affetti da celiachia né da allergia al frumento IgE mediata. La patogenesi risulta attualmente ignota.
Prevalenza: varia dallo 0 al 6%, con maggiore frequenza nel sesso femminile, si associa in alcuni casi ad una positività degli anticorpi antigliadina (AGA) e nel 50% dei casi c’è una associazione non significativa rispetto alla popolazione generale, con gli aplotipi DQ2 e DQ8.
Istologia: la mucosa appare regolare, si rileva un aumento dei linfociti intraepiteliali in assenza di atrofia villosa. La diagnosi differenziale va effettuata rispetto alla malattia celiaca e all’allergia al grano.
Terapia: è rappresentata dalla dieta priva di glutine per un periodo di 24 mesi (21-24).
Test alternativi non validati
Accanto alle procedure comunemente utilizzate nella diagnosi di reazione avversa agli alimenti, esistono metodiche alternative per le quali manca una evidenza scientifica di attendibilità.
Tali test sono stati considerati inappropriati e pertanto non devono essere prescritti (12, 25-29). Anche in ambito allergologico la validità diagnostica di tali test non è riconosciuta ed un recente documento, pubblicato sulla Rivista di Immunologia e Allergologia Pediatrica (RIAP), ribadisce di non effettuare tali test in caso di sospetto di allergia alimentare (Tab. 1) (30).
Dosaggio IgG 4: attualmente esame molto praticato nei laboratori di analisi o nelle farmacie, poiché di facile accesso. È stato dimostrato che il dosaggio di IgG4 specifiche non è rilevante nella diagnosi delle allergie alimentari poiché tale dosaggio non individua i soggetti con allergie IgE mediata, creando un grave rischio di reazione avversa nel caso non vengano individuati gli allergeni responsabili (31).
Test citotossico o test di Bryan: consiste nell’aggiunta in vitro di un allergene al sangue intero o ad una sospensione leucocitaria del paziente con successive modificazione morfologiche delle cellule fino alla loro completa citolisi, in caso di intolleranza all’alimento. L’American Accademy of Allergy and Immunology ritiene il metodo inattendibile; non c’è correlazione tra i risultati del test e la sintomatologia; inoltre, test ripetuti danno risultati diversi.
Alcat test: variante automatizzata del test di Bryan, anch’esso non ha dimostrato attendibilità diagnostica.
Test elettrici: Elettroagopuntura di Voll (EAV), Bioscreening, Biostrengt test, Sarm test, Moratest, Vega test, misurano lungo i meridiani classici dell’agopuntura cinese o altri canali una microcorrente elettrica. Il presupposto teorico è che sia possibile leggere i potenziali elettrici cellulari, e che dalla variazione di questi e dalla rapidità di trasmissione dello stimolo elettrico sia possibile ricavare informazioni circa la funzionalità dei distretti interessati. Si tratta di test non riproducibili, non attendibili (32).
Test kinesiologico: si effettua facendo tenere in una mano al paziente una boccetta contenente l’alimento. L’esaminatore valuta la forza muscolare dell’altra mano. Un decremento di forza rappresenta la positività del test. Non esiste ovviamente una base teorica a supporto. Il test è dunque privo di qualsiasi attendibilità diagnostica.
Dria test: consiste nella somministrazione per via sublinguale, dell’estratto allergenico seguito dalla valutazione della forza muscolare per mezzo di un ergometro. Il test è considerato positivo quando si manifesta una riduzione della forza muscolare dopo 4 minuti dalla somministrazione sublinguale dell’estratto. Questa tecnica è priva di efficacia e di fondamento scientifico.
Analisi del capello: viene utilizzata con due modalità 1) per lo studio della carenza di oligoelementi e da eventuale eccesso di metalli pesanti, 2) utilizza le variazioni di frequenza di un pendolo, la metodica appartiene più alla sfera della “magia” risultando, pertanto, inappropriata per la diagnosi delle allergie e/o intolleranze alimentari.
Iridologia: valuta attraverso l’osservazione diretta dell’iride, il livello di salute di un soggetto. Anche questo test non è basato su evidenze scientifiche.
Biorisonanza: si basa sull’ipotesi che l’organismo possa emettere onde elettromagnetiche (buone o cattive). Si usa un apparecchio in grado di filtrare le onde emesse dall’organismo e rimandarle riabilitate al paziente. Onde patologiche vengono rimosse, con questo strumento al fine di trattare la patologia. Non esiste alcuna prova scientifica a tale proposito.
Pulse test: si basa sull’ipotesi che la reazione avversa all’alimento somministrato per bocca, per iniezione o per inalazione, sia in grado di modificare la frequenza cardiaca. La modificazione di 10 battiti al minuto è considerata una risposta positiva, anche se non è chiaro se risulti significativo, l’incremento o la diminuzione o entrambe dei battiti. Non vi è alcuna evidenza scientifica.
Riflesso cardiaco auricolare: l’alimento viene posto a 1 cm dalla cute e la sostanza in questione dovrebbe modificare il polso radiale, come test vengono utilizzati estratti liofilizzati di alimenti posti in speciali filtri. Privo di alcun fondamento scientifico.
Terapia
La terapia ufficiale delle varie forme di intolleranza e di allergia alimentare consiste nell’esclusione dalla dieta dell’alimento/i – ingrediente – allergene responsabili della reazione avversa.
La terapia dietetica rappresenta, infatti, il cardine della gestione terapeutica di tutte le reazioni avverse, e riveste una fondamentale importanza anche in fase diagnostica, come già descritto.
A tal proposito, per quanto riguarda l’ambito delle allergie alimentari, si ricorda che la dieta di eliminazione a scopo diagnostico non va protratta oltre lo stretto tempo necessario, corrispondente a 2-4 settimane nelle forme di allergia IgE-mediata ed al massimo 8 settimane nelle forme ritardate.
La dieta di eliminazione terapeutica, una volta che la diagnosi di allergia alimentare sia conclusiva, va effettuata finché necessario ed implica che, almeno annualmente, venga ripetuto il TPO volto a verificare l’avvenuta tolleranza. Diversi studi, infatti, hanno dimostrato che all’età di 3 anni il 75% dei bambini con allergia alle proteine del latte vaccino ha acquisito la tolleranza. Il raggiungimento della tolleranza è più tardivo e talora assente per altri alimenti quali crostacei e frutta secca.
Il supporto professionale competente è fondamentale nella gestione della dieta di esclusione, che costituisce una necessità di cura ben definita e che non può e non deve basarsi sulla mera eliminazione di alimenti, ma sulla loro sostituzione. Le scelte alimentari devono essere infatti definite in un’ottica di adeguatezza nutrizionale, varietà e sostenibilità a medio, breve e lungo termine, in un contesto di vita sociale, lavorativa e/o scolastica, oltre che tenendo in debita considerazione altri fattori coesistenti quali, ad esempio, la pratica di attività fisica o sportiva oppure eventuali terapie farmacologiche in atto (33). La dieta di esclusione può avere infatti un impatto significativo sulla qualità di vita e limitare di molto le scelte di consumo, determinando una condizione di rischio nutrizionale, nei bambini in particolare, nei quali la prescrizione dietetica va valutata con molta attenzione, ma anche negli adulti, che possono essere considerati a minor rischio per quanto anch’essi esposti alla possibilità di incorrere in carenze nutrizionali (34-35).
È dunque importante che la terapia nutrizionale preveda anche l’educazione dei pazienti e delle famiglie/caregiver alla attenta lettura delle etichette ed alla conoscenza degli alimenti, per garantire una appropriata gestione delle scelte di consumo domestiche ed extradomestiche. In tal senso la normativa vigente rappresenta un valido aiuto al supporto nutrizionale, considerato che il Regolamento UE 1169/2011, che armonizza tutte le norme nazionali in materia di etichettatura degli alimenti, impone l’obbligo di indicare in etichetta, in maniera chiara, usando opportuni accorgimenti grafici (grassetto, colore o sottolineatura), gli ingredienti che potrebbero comportare un rischio allergenico. Tale obbligo è valido anche per la ristorazione collettiva comunitaria e commerciale. Appare dunque chiaro che diete di esclusione autosomministrate, oppure basate su un semplice “elenco” di alimenti da eliminare, come risultante dei test diagnostici alternativi privi di validità scientifica suindicati, possono comportare rischi nutrizionali da non sottovalutare nella popolazione pediatrica così come in quella adulta, oltre a non rispondere ai principi di appropriatezza ed efficacia che devono caratterizzare tutti i percorsi diagnostici e terapeutici a garanzia della salute dei cittadini.
OBESITÀ
Definizione
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce l’obesità come patologia cronica legata ad un accumulo corporeo di tessuto adiposo accompagnato da una serie di complicanze fisiche, metaboliche e psicosociali e da una riduzione dell’attesa di vita dei soggetti affetti (36).
Un soggetto adulto viene definito obeso quando il suo Indice di Massa Corporea (IMC) (calcolato dal peso in kg diviso il quadrato dell’altezza, espressa in metri) è pari o superiore a 30 kg/m2, mentre il sovrappeso corrisponde ad un valore compreso fra 25 e 29,99 kg/m2.
Tali valori sono stati adottati poiché mostrano una certa relazione con la presenza di complicanze (IMC ≥30 kg/m2) o con il rischio di sviluppo delle stesse (IMC ≥25≤29,99 kg/m2) (37).
In età pediatrica (0-18 anni) non possono essere utilizzati dei valori soglia fissi poiché il bambino cresce in altezza e la percentuale fisiologica del grasso corporeo cambia con l’età e di conseguenza vengono utilizzati dei valori soglia legati ai percentili in base all’età. Fino a 5 anni il sovrappeso viene definito come un valore di IMC ≥2DS ed <a 3 DS, mentre l’obesità corrisponde ad un IMC ≥ a 3 DS al di sopra della mediana degli standard di crescita della OMS (38).
Da 5 a 19 anni il sovrappeso corrisponde ad un valore di IMC ≥ ad 1 DS ed ≤2 DS, mentre l’obesità corrisponde ad un valore di IMC ≥2 DS rispetto alla mediana delle curve di riferimento della OMS (39). Occorre però riconoscere che l’IMC, sebbene sia un ottimo metodo per definire l’eccesso di peso a livello di popolazione, può non esprimere lo stesso grado di adiposità in soggetti diversi (40).
Epidemiologia e trend
Nel 2014, secondo la OMS, a livello mondiale erano presenti circa un miliardo e 900 milioni di adulti sovrappeso (circa il 39% della popolazione mondiale adulta), di cui circa 600 milioni obesi (pari a circa il 13%). Sempre a livello mondiale secondo la OMS nel 2014 circa 41 milioni di bambini di età inferiore a 5 anni erano sovrappeso, includendo gli obesi. Questa patologia è ormai presente anche nei Paesi a basso o medio reddito ed infatti circa la metà dei bambini sovrappeso vive in Asia (36).
In Italia il sistema PASSI, che sorveglia lo stato di salute dei soggetti adulti ed è attuato raggiungendo i soggetti campionati per telefono, usando quindi dati riferiti e non misurati, riporta la prevalenza di sovrappeso a 31,6% e quella dell’obesità a 10,4% per un totale di eccedenza ponderale del 42%. Il trend temporale non sembra peggiorare visto che nella serie storica il totale di eccedenza ponderale nel 2007 era del 43% (sovrappeso 31,9%; obesi 11,1%), mentre è sempre presente un trend peggiorativo verso le regioni del Sud (41). Considerando che la prevalenza costruita su dai riferiti in genere sottostima la realtà, soprattutto nelle donne, il dato finale è molto probabilmente superiore a quello ufficiale (42).
Nei bambini, i dati di OKKio alla Salute, indagine condotta in un campione rappresentativo di bambini di 8-9 anni delle scuole nell’ambito del programma di sorveglianza della OMS “Childhood Obesity Surveillance Initiative” (COSI), dimostrano, nell’ultima rilevazione del 2014, che la prevalenza di sovrappeso è del 20,9% e quella dell’obesità è del 9,8% per un valore totale di eccedenza ponderale del 30,7%. Anche in questo caso si nota un gradiente peggiorativo verso le regioni del Sud, mentre si osserva un trend temporale migliorativo rispetto alla prima rilevazione del 2008 con una riduzione dei valori di sovrappeso e obesità che all’epoca raggiungevano il 23,2% ed il 12%, rispettivamente (41).
Eziopatogenesi
Sulla base delle più recenti conoscenze scientifiche di ordine fisiopatologico l’obesità è da ritenersi una malattia cronica complessa, determinata dall’interazione di fattori genetici, ambientali e comportamentali, gravata da una serie di complicanze (43). Il tessuto adiposo di per sé è un organo endocrino che può andare incontro a disfunzioni contribuendo allo sviluppo di alterazioni metaboliche sistemiche. Il calo ponderale è in grado di prevenire e curare le anomalie metaboliche concomitanti favorendo il miglioramento della funzione del tessuto adiposo.
Una disamina completa di tutti i fattori causali e della loro interazione non rientra negli obiettivi di questo documento, ma una overview del ruolo dei fattori principali è necessaria per comprendere l’inutilità ed a volte la pericolosità di trattamenti non basati sull’evidenza scientifica.
La causa fondamentale dell’eccedenza ponderale è uno squilibrio fra l’energia assunta e quella spesa, dovuto ad un complesso intreccio tra predisposizione genetica e fattori ambientali. In circostanze normali il bilancio energetico, pur oscillando fra i vari pasti o fra i giorni, non causa variazioni a lungo termine del peso corporeo. L’organismo umano è più preparato a difendersi da un possibile insufficiente apporto energetico che da un eccesso di assunzione di cibo (44).
Genetica
Nelle coppie di gemelli omozigoti l’ereditabilità dell’IMC è stata stimata essere circa l’80%, anche se i risultati degli studi sull’adozione e sulle famiglie concordano su un’ereditarietà generale di circa il 33% (44). Fattori genetici sono anche importanti nella topografia dell’eccesso di grasso corporeo e di alcune complicanze metaboliche. La trasmissione genetica dell’obesità, salvo casi specifici è dovuta all’interazione di diversi geni (45).
Sistema neuro-biochimico-ormonale
La regolazione del peso corporeo è il risultato di una complessa rete di segnali simili e opposti fra il cervello, l’intestino ed il tessuto adiposo che influenzano l’assunzione di energia e nutrienti, la distribuzione del tessuto adiposo stesso e il livello di attività fisica. Le informazioni neuro-biochimiche disponibili non ci permettono ancora di definire con certezza i meccanismi che portano ad un eccesso di peso.
Un aiuto viene, invece, da un’analisi ecologica della prevalenza di eccedenza ponderale che vede, contemporaneamente all’aumento della prevalenza dell’eccedenza ponderale a livello di popolazione, un aumento dell’assunzione di alimenti ad alta densità energetica e soprattutto ricchi in grassi (46).
A livello cerebrale il controllo del peso è regolato soprattutto nell’area ipotalamica, con la sua area laterale, che controlla la fame, e la sua area ventro-mediale, che controlla la sazietà (47). Gli ormoni intestinali coinvolti nella regolazione di fame-sazietà e del peso corporeo sono, per le conoscenze attuali, soprattutto il polipeptide YY3-36, il polipeptide pancreatico (PP), il polipeptide simil glucagone 1 (GLP-1), la ghrelina, la colecistochinina (CCK) e la leptina, ma le loro numerose attività e gli organi bersaglio, come pure il loro ruolo nello sviluppo dell’obesità sono ancora da chiarire. Solo per alcuni di questi ormoni si dispone già di informazioni specifiche sui loro ruoli.
Il livello sierico del polipeptide YY3-36 aumenta dopo l’ingestione di cibo e resta alto per molte ore dopo, suggerendo un suo ruolo nel mantenere la sensazione di sazietà (48). La sua secrezione è aumentata anche dallo stress e dall’esercizio fisico (48) e, al contrario di quanto accade per la leptina, i soggetti obesi conservano la sensibilità per i suoi effetti (49).
Il livello sierico di CCK aumenta in seguito all’ingestione di alimenti ricchi di proteine, lipidi e caffè velocemente entro 25 minuti e rimane elevato per circa 3 ore (50). Il CCK riduce l’assunzione di cibo, probabilmente attraverso il nervo vago, sia nei soggetti normopeso che negli obesi. Nei pazienti gravemente obesi il livello sierico di CCK è minore rispetto ai soggetti normopeso o a quelli con obesità di grado più lieve (51). La ghrelina è prodotta dalle ghiandole oxintiche dello stomaco: il suo livello sierico aumenta prima del pasto per scendere velocemente subito dopo l’inizio dello stesso, ed aumenta anche nella prima ora di sonno (52).
La ghrelina agisce sul nucleo arcuato dell’ipotalamo (53) ed aiuta a riconoscere gli alimenti particolarmente gratificanti come quelli ricchi di grasso o zucchero (54). La leptina è principalmente ma non esclusivamente prodotta nel tessuto adiposo ed agisce riducendo l’assunzione di cibo ed aumentando la spesa energetica (55). I soggetti obesi presentano spesso, più che una carenza di leptina, una resistenza alla stessa ma, dati i molteplici tessuti che la producono ed i suoi molteplici effetti, la ricerca in questo campo richiede ulteriore sviluppo. L’area di ricerca di interesse più recente riguardo la patogenesi dell’obesità è rivolta al ruolo del microbiota intestinale. Il microbiota è l’insieme dei microorganismi, patogeni e non, che popolano il tratto gastrointestinale, in particolare il colon: la sua composizione è il risultato di una complessa interazione tra fattori genetici, abitudini alimentari ed etnicità (56).
I pazienti obesi possiedono un’alterata composizione del microbiota con una presenza maggiore di Firmicuti e minore di Bacterioidi. Tuttavia occorre segnalare che gran parte degli studi disponibili sono stati effettuati in modelli animali e che i pochi disponibili nell’uomo sono basati su campioni estremamente ridotti con risultati quindi non conclusivi (57-59).
Una prolungata esposizione ad una dieta iperlipidica modifica significativamente la microflora del colon, con una riduzione dei Bifidobacterium e dei Lactobacillus (che svolgono azioni fisiologiche utili, ad es. il rafforzamento della funzione protettiva della barriera mucosale intestinale), ed un aumento dei Firmicutes e Proteobacteria (che includono specie patogene). I pazienti obesi sottoposti a restrizione calorica subiscono un aumento nella quantità di batteroidi (Bifidobecteri e Lattobacilli) proporzionale alla perdita di peso.
A tal proposito, risulta molto interessante il ruolo dei probiotici: la combinazione di due bifidobatteri e di un lattobacillo liofilizzati si è dimostrata avere efficacia nella riduzione della massa grassa e dei lipidi ematici nei topi, migliorando in tal modo l’attività metabolica del tessuto adiposo, nonostante non vi sia una chiara influenza a livello di riduzione dell’IMC (60). Inoltre, è stato dimostrato che topi germ-free sono a minor rischio di sviluppare obesità indotta dalla dieta.
La composizione del microbiota intestinale, nonostante subisca varie modificazioni durante il corso della vita in funzione di fattori esterni, risulta definita già al momento della nascita: bambini nati da parto naturale hanno una predominanza di Lattobacilli, mentre i nati con parto cesareo possiedono una microflora composta principalmente dai batteri della pelle. Inoltre, nel post-natale, si è dimostrato che l’allattamento al seno porta ad aumento dei batterioidi, mentre i neonati nutriti con latte in formula evidenziano un maggior livello di Firmicutes (61).
Attività fisica
Un aumento della inattività fisica è certamente uno dei fattori principali dello sviluppo dell’obesità, e l’incremento dell’attività fisica giornaliera uno dei cardini del suo trattamento (62), ma la trattazione di questo specifico fattore esula dallo scopo di questa rassegna.
Terapia nutrizionale dell’obesità
La riduzione ponderale migliora i fattori di rischio delle malattie correlate all’obesità, le comorbidità, la qualità di vita e riduce la mortalità (63-65). La terapia deve porsi come obiettivo un calo ponderale realistico. Infatti, numerosi studi suggeriscono che una riduzione di peso del 5-15% rispetto al peso iniziale riduca il rischio delle malattie correlate all’obesità (66-70). Tuttavia, la principale sfida della terapia dell’obesità è quella di mantenere la perdita di peso nel tempo.
Negli ultimi anni numerosi sono stati i progressi di ricerca sia per quanto riguarda gli interventi sullo stile di vita che quelli relativi alla farmacoterapia e chirurgia bariatrica. In questa sezione sono esaminate le evidenze scientifiche che supportano l’efficacia degli interventi sullo stile di vita, per l’approfondimento dei diversi tipi di intervento si rimanda alle linee guida di riferimento (Standard Italiani per la Cura dell’Obesità SIO/ADI 2012-2013, linee guida e stato dell’arte della chirurgia bariatrica e metabolica in Italia SICOB, Raccomandazioni per la terapia medica nutrizionale nel diabete mellito 2013-2014 ADI-AMD-SID, Guidelines for the Management of Dyslipidaemias 2016 ESC/EAS, 2013 AHA/ACC/TOS Guideline for the Management of Overweight and Obesity in Adults).
A tale riguardo, gli studi d’intervento hanno dimostrato l’efficacia dei cambiamenti dello stile di vita, sia nella prevenzione che nella terapia dell’obesità, quando si utilizzano programmi d’intervento strutturati e orientati contemporaneamente alla modifica delle abitudini alimentari, all’incremento dell’attività fisica e a favorevoli cambiamenti dello stile di vita. Infatti, il primo passo per perdere peso è diminuire l’apporto calorico ed aumentare il dispendio energetico, mentre per mantenere il peso raggiunto a lungo termine è necessario modificare le proprie abitudini di vita. La dieta per il calo ponderale deve avere tre requisiti: 1) un contenuto calorico inferiore a quello abitualmente introdotto, 2) caratteristiche tali da permettere al paziente di aderire alla dieta in modo ottimale, 3) effetti benefici generali sulla salute.
In relazione al grado di sovrappeso/obesità e all’introito calorico giornaliero abituale si può praticare una riduzione calorica giornaliera moderata, che può variare dalle 300 alle 500 fino a 1000 kcal die rispetto al proprio fabbisogno energetico; tale restrizione, non essendo drastica, ha il vantaggio di facilitare l’adesione del paziente alla dieta.
Una restrizione di 1000 kcal/die induce un calo ponderale di circa 1 kg di peso a settimana. Tale perdita di peso è dovuta ad un dispendio energetico di circa 7000 kcal (ossidazione di tessuto adiposo e massa magra) che divise per i 7 giorni della settimana significano un deficit calorico giornaliero di 1000 kcal. La riduzione di 300 e 500 kcal/die induce, invece, una riduzione del peso di circa 0,3 e 0,5 kg la settimana, rispettivamente. La dieta ipocalorica deve coprire i fabbisogni nutrizionali in macro e micronutrienti, deve essere composta da alimenti naturali e dotata di buona palatabilità, dovendo essere seguita per tutta la vita.
La restrizione calorica drastica va riservata a selezionati gruppi di pazienti che per esigenze metaboliche o psicologiche hanno necessità di avere una perdita di peso iniziale elevata e rapida. Le diete drasticamente ipocaloriche sono diete con un contenuto calorico inferiore alle 800 Kcal die, nella maggior parte di casi liquide/semiliquide, contenenti circa 0,8-1,5g di proteine/Kg di peso ideale: esse vanno integrate con vitamine e sali minerali. Tale approccio richiede uno stretto controllo medico in quanto l’eccessiva restrizione calorica può scatenare aritmie cardiache come conseguenza di disturbi elettrolitici associati all’aumento degli acidi grassi circolanti in soggetti cardiopatici.
Un altro problema dei regimi dietetici drasticamente ipocalorici è la perdita di massa magra (muscolo) secondaria ad uno scarso apporto proteico, anche se le più recenti formule di diete drasticamente ipocaloriche hanno generalmente adeguati supplementi di vitamine e sali minerali e un apporto di proteine ad elevato valore biologico più che soddisfacente e tale da limitare i rischi osservati negli anni passati. In tutti i casi un regime a bassissimo contenuto calorico protratto per più di 2-3 settimane va sempre attuato in regime di ricovero. Inoltre, diete con contenuto calorico <1000 kcal sono difficilmente accettate dal paziente per periodi più lunghi di qualche settimana e non mostrano particolari vantaggi sulla perdita di peso e sul compenso metabolico nel lungo periodo.
Mentre sull’importanza della perdita di peso e sull’apporto calorico della dieta c’è un consenso quasi unanime, sulla sua composizione ci sono opinioni contrastanti. Le opinioni divergono sull’utilizzo della quantità di carboidrati, grassi e proteine della dieta.
Gli studi che hanno valutato gli effetti delle diverse quantità di grassi, proteine e carboidrati della dieta sul calo ponderale così come del basso indice glicemico e di diete equilibrate in macronutrienti sono numerosi ma generalmente riguardano un numero esiguo di partecipanti.
Uno dei pochi studi effettuati su un numero elevato di partecipanti, 811 pazienti obesi o in sovrappeso, è “The POUNDS Lost Study” (71). Questo studio ha confrontato diete con il 20% o il 40% di grassi e diete con il 15% o il 25% di proteine mostrando un’assenza di differenza nel calo ponderale sia a 6 mesi che a 2 anni dall’intervento. Anche il risultato di una meta-analisi (72) di studi che hanno confrontato diete a basso contenuto di carboidrati rispetto a diete a basso contenuto di grassi ha confermato che l’efficacia dei due tipi di dieta è simile sia per quanto riguarda la riduzione del peso che il miglioramento dei fattori di rischio metabolici (Tab. 2). Una rassegna sistematica (73), che ha valutato gli effetti di 17 diverse diete sulla perdita di peso, ha mostrato che nessuna dieta è migliore dell’altra.
Allo stesso modo, un’altra meta-analisi (2) degli studi che hanno stimato gli effetti sul calo ponderale delle più popolari diete utilizzate negli Stati Uniti – la dieta di Atkins, bassa in CHO, la dieta Ornish, povera in grassi, quella Zone, bassa in CHO, la Weight Watchers, equilibrata per composizione in nutrienti, ecc. – non ha mostrato alcuna differenza significativa nella perdita di peso tra una dieta e l’altra. I risultati di questi studi sottolineano, inoltre, che tutti i trattamenti basati su regimi alimentari molto complessi o rigorosi falliscono nel lungo termine perché i pazienti ritornano alle vecchie abitudini una volta superata la novità della dieta e concluso l’intervento intensivo. Un successo più frequente è stato osservato utilizzando una strategia basata su una maggiore flessibilità nella composizione in macronutrienti e utilizzando diete che aiutano a raggiungere e mantenere un senso di sazietà, riducendo così l’apporto calorico. Negli ultimi anni, quindi, l’attenzione è stata diretta alla valutazione dei diversi approcci nutrizionali non solo per quanto riguarda la loro efficacia nel lungo termine ma anche riguardo alla loro sostenibilità.
Una dieta ristretta in energia, ma ricca di alimenti ad alto contenuto di fibre e/o basso indice glicemico, svolge un ruolo importante, se non essenziale, nella gestione del peso corporeo a lungo termine. A tal riguardo una meta-analisi di 14 studi (74) ha mostrato che diete a basso indice glicemico (IG) e carico glicemico (CG) sono efficaci sul calo ponderale e si associano ad un miglioramento dei livelli di proteina C-reattiva e dell’insulina a digiuno (Tab. 2).
Un vantaggio emerge anche dall’utilizzo di diete moderatamente ristrette in calorie basate sul modello alimentare mediterraneo. Una meta-analisi (75) di nove studi su 1178 pazienti ha mostrato che le diete basate sul modello alimentare mediterraneo sono associate ad una significativa riduzione del peso corporeo e dell’indice di massa corporea, a riduzioni dell’emoglobina glicosilata, della glicemia e dell’insulinemia a digiuno (Tab. 2). Quindi, il beneficio sul peso corporeo si associa anche ad una riduzione dei fattori di rischio cardiovascolare (76). I benefici sull’adiposità e sulle altre anomalie metaboliche di queste diete sono attribuibili alla loro capacità di influenzare la flora batterica intestinale che, attraverso la fermentazione dei polisaccaridi non digeribili, è in grado di influenzare la sazietà, la sensibilità insulinica, l’infiammazione subclinica e il metabolismo glico-lipidico (61).
In conclusione, le evidenze scientifiche disponibili mostrano che:
1)
la riduzione dell’introito calorico è la principale componente dell’intervento per la riduzione ponderale;
2)
la composizione in macronutrienti della dieta ha un minore impatto sul calo ponderale ma è fondamentale per l’adesione nel lungo termine. Essa, inoltre, contribuisce a rendere più salutare il pattern dietetico e in alcuni pazienti è in grado di migliorare il profilo di rischio cardiometabolico (Tab. 2);
3)
i risultati migliori si ottengono utilizzando modelli alimentari che hanno un background culturale/tradizionale, come quello mediterraneo.
Alla terapia nutrizionale per la perdita di peso deve essere associato un cambiamento dello stile di vita che includa anche un’attività fisica regolare adatta all’età della persona, al grado di obesità e alla presenza di eventuali co-morbilità. L’attività fisica, infatti, contribuisce ad aumentare il dispendio energetico, protegge l’organismo dalla perdita di massa magra, migliora la fitness cardiorespiratoria e i fattori di rischio cardiometabolici correlati all’obesità ed incrementa la sensazione di benessere.
Lo studio a lungo termine Action for Health in Diabetes (Look AHEAD) (77) è il primo studio che ha valutato, in un ampio campione di pazienti con diabete tipo 2 (DM2) in sovrappeso o obesi, gli effetti sulla morbilità e mortalità cardiovascolare di una riduzione ponderale moderata, ottenuta mediante un intervento intensivo sullo stile di vita, che associava una restrizione energetica moderata della dieta all’incremento giornaliero dell’attività fisica. In relazione ai fattori di rischio CV, i risultati dello studio hanno mostrato che l’intervento intensivo sullo stile di vita, rispetto al programma di educazione applicato abitualmente nella cura del diabete, rappresenta una strategia ottimale per ridurre il peso corporeo e migliorare sia la pressione arteriosa che il profilo metabolico a 4 anni dall’inizio dell’intervento (77). Inoltre, in un piccolo numero di pazienti, l’intervento è risultato anche in grado di indurre una remissione parziale o totale del diabete (78). Questo studio mostra che, nonostante i pazienti non avessero raggiunto il loro peso ideale, comunque si aveva una riduzione significativa della pressione arteriosa, della glicemia, dell’HbA1c e dei trigliceridi plasmatici, confermando i benefici che una perdita moderata di peso (7-10% del peso iniziale) ha nel controllo delle anomalie metaboliche della malattia diabetica.
Le società scientifiche raccomandano di svolgere un’attività fisica di moderata intensità, della durata di almeno 30 minuti per cinque giorni a settimana. Questo tipo di attività, condotta per un mese, permette di perdere circa 0,5 kg di peso.
Per ottimizzare la perdita di peso, l’attività può essere estesa a 60 minuti per 5 giorni la settimana. Andrebbero incoraggiate attività quali il camminare, andare in bicicletta, salire le scale ecc. In genere sono le persone più istruite, più giovani, in sovrappeso piuttosto che francamente obese che più frequentemente praticano un’attività fisica regolare per ridurre il peso corporeo.
Le modifiche dei comportamenti dello stile di vita sono, invece, particolarmente importanti per il mantenimento del peso nel lungo termine. La gestione comportamentale comprende diverse tecniche come l’auto-monitoraggio, la gestione dello stress, il controllo dello stimolo, le tecniche di rinforzo, la soluzione dei problemi, i cambiamenti nel comportamento gratificanti, la ristrutturazione cognitiva, il sostegno sociale, e la formazione e prevenzione delle ricadute (79-80).
La terapia comportamentale può essere fornita in ambito clinico o mediante programmi di auto- aiuto. La perdita di peso nel lungo termine ottenuta mediante interventi di Gruppo è paragonabile a quella ottenuta con l’intervento individuale. Tuttavia, all’inizio dell’intervento la consulenza individuale a volte è preferibile per i soggetti gravemente obesi e per gli uomini piuttosto che per le donne.
Per quanto riguarda il trattamento comportamentale dell’obesità nei bambini, esso dovrebbe coinvolgere tutta la famiglia, o almeno la madre di un bambino obeso. I dati sulla efficacia dei programmi comportamentali eseguiti in ambienti controllati mostrano che la perdita media di peso è di circa il 9% nel corso di studi della durata di ~ 20 settimane (79). La maggiore limitazione di questi programmi è l’alta probabilità che gli individui riguadagnino peso una volta che il trattamento comportamentale è terminato.
La modifica dei comportamenti, in particolare l’auto-controllo del bilancio energetico quotidiano, svolge un ruolo cruciale nel successo a lungo termine del peso. L’auto-monitoraggio del peso, la dieta e l’attività fisica quotidiana, svolti regolarmente sono importanti determinanti per il mantenimento della perdita di peso.
Abitudini alimentari coerenti, quali consumare regolarmente la prima colazione, influenzano anche il risultato di gestione del peso. È ovvio che una particolare attenzione deve essere prestata ai pazienti che sono inclini al fallimento nella gestione del peso a lungo termine. Per questi pazienti un intervento integrato nutrizionale, motorio e psicologico ripetuto nel tempo riduce il rischio di insuccessi.
La consulenza nutrizionale successiva al primo intervento potrebbe essere rappresentata dalla visita tradizionale del paziente o essere fornita per telefono, e-mail, o applicazioni di chat Internet (81). Il supporto psicologico è necessario per i pazienti con depressione o con disinibizione nei confronti dell’alimentazione. Lo psicologo dovrebbe addestrare questi pazienti a come far fronte a situazioni scatenanti la disinibizione alimentare (ad esempio, stress, ansia e depressione).
In conclusione, le evidenze scientifiche disponibili mostrano che le modifiche dello stile di vita che includono un’attività fisica regolare contribuiscono al mantenimento del peso perso nel lungo termine, a prevenire lo sviluppo del diabete tipo 2 e a migliorare il profilo di rischio cardiovascolare (82). Inoltre, la modifica dei comportamenti, in particolare l’auto-controllo del bilancio energetico quotidiano, svolge un ruolo cruciale nel successo a lungo termine del peso.
CONCLUSIONI
Dalla analisi critica degli studi epidemiologici, etiopatogenetici e clinici disponibili sull’argomento, emergono evidenze solide per affermare che le intolleranze alimentari e l’obesità sono due patologie indipendenti tra loro, senza alcun legame etiopatogenetico. Sebbene l’attivazione cronica del sistema immune possa contribuire allo sviluppo di insulino-resistenza, diabete tipo 2 e aterosclerosi causando un’infiammazione subclinica nel tessuto adiposo, la presenza di anticorpi IgG, ed in particolare di IgG4 “alimento specifico” non indica una condizione di allergia o intolleranza alimentare quanto piuttosto una risposta fisiologica del sistema immune all’esposizione ai componenti contenuti negli alimenti (31).
Pertanto, risultati positivi per specifiche IgG4 sono da considerarsi normali in adulti e bambini sani e misurare la risposta dei livelli di IgG4 ad un alimento, così come valutare la tolleranza attraverso altri test in vivo (Tab. 1) è clinicamente irrilevante sia per la diagnosi di allergia e intolleranza alimentare che come strategia d’intervento nutrizionale per la riduzione ponderale in persone sovrappeso/obese.
I più recenti documenti di consenso nazionali (12) ed internazionali (6) sottolineano come molti dei test utilizzati in alternativa a quelli riconosciuti dall’evidenza scientifica per la diagnosi di intolleranze e allergie alimentari difettino di razionale, attendibilità e validità clinica; per tali motivi non possono che essere considerati inappropriati e non devono essere prescritti né effettuati al fine di diagnosticare una condizione di allergia o intolleranza alimentare. Oltretutto, l’utilizzo inappropriato di questi test aumenta solo la probabilità di falsi positivi, con la conseguenza di inutili restrizioni dietetiche e ridotta qualità di vita.
Va inoltre sottolineato che le diete di esclusione non adeguatamente gestite e monitorate da un professionista sanitario competente possono comportare un rischio nutrizionale non trascurabile e, nei bambini, scarsa crescita e malnutrizione. Quando si intraprende una dieta di esclusione, anche per un solo alimento o gruppo alimentare, devono essere infatti fornite chiare indicazioni nutrizionali, al fine di assicurare innanzitutto un adeguato apporto calorico, oltre che di macro e micronutrienti. È indispensabile un idoneo follow-up, con l’obiettivo di valutare la compliance alla dieta, individuare precocemente i deficit nutrizionali e, nei bambini, verificare che l’accrescimento sia regolare (30).
Un altro aspetto molto importante e spesso trascurato è infine rappresentato dal monitoraggio dell’eventuale superamento dell’allergia/intolleranza, per valutare la reintroduzione degli alimenti/gruppi di alimenti esclusi e reintrodurre la dieta libera. Essendo tali test spesso utilizzati per una diagnostica alla quale non segue un follow-up ma “semplicemente” un elenco di alimenti da eliminare, nell’ambito dei quali il paziente/utente si trova a barcamenarsi spesso in maniera autogestita, tali diete vengono nella gran parte dei casi protratte per periodi lunghi senza alcun monitoraggio né dell’andamento clinico della “presunta” allergia o intolleranza, né tantomeno dello stato nutrizionale. Aspetto che assume ancora maggiore pericolosità se si considera che il fenomeno è molto in crescita anche in età pediatrica e che spesso le diete di esclusione vengono estese anche all’ambito scolastico, con le relative ripercussioni anche sulle componenti emotive e sociali che riveste il pasto a scuola.
Sulla base di quanto analizzato nel presente documento risulta evidente che l’utilizzo di regimi alimentari restrittivi, basati su test diagnostici di “intolleranza o allergia alimentare” per il trattamento del sovrappeso e dell’obesità è privo di qualsiasi fondamento scientifico e contribuisce non solo a determinare un rischio nutrizionale, ma anche al disorientamento dei pazienti che hanno bisogno di perdere peso, alimentando il fenomeno della “diet industry”, e rappresentando, inoltre, un costo diretto per i pazienti/utenti ed indiretto per il Sistema Sanitario Nazionale, essendo la risposta terapeutica inadeguata alla necessità di cura. I medici e tutti gli operatori sanitari coinvolti nel trattamento dell’obesità hanno il dovere di informare i pazienti che l’uso di questi metodi non solo non è basato sulla scienza e non produce risultati a lungo termine, ma può essere molto pericoloso per la salute.
Nei pazienti obesi, per quanto difficile, è possibile ottenere un calo ponderale che persista a lungo solo se l’intervento terapeutico è multifattoriale e se l’obiettivo di perdita di peso da raggiungere non è eccessivamente ambizioso: anche un calo ponderale modesto, del 5-15% rispetto al peso iniziale, ha infatti indubbi effetti benefici sul profilo di rischio cardiometabolico.
Il trattamento risulta efficace se è indirizzato a modificare lo stile di vita attraverso l’adozione di diete non drasticamente ristrette in energia rispetto alla dieta abituale ed un incremento dell’attività fisica. I risultati migliori si ottengono utilizzando modelli alimentari che hanno un background culturale/tradizionale, come quello mediterraneo o che non si discostino molto da quelle che sono le preferenze del paziente, in associazione ad un’attività fisica di circa 150 minuti la settimana.
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