POSITION STATEMENT
Farmaci ipoglicemizzanti, malattie cardiovascolari e renali
Enzo Bonora, Antonio Bossi, Daniela Bruttomesso, Angelo De Pascale, Gabriella Gruden, Davide Lauro, Frida Leonetti, Edoardo Mannucci, Roberto Miccoli, Annalisa Natalicchio, Gianluca Perseghin, Francesco Purrello, Ferdinando Carlo Sasso, Giorgio Sesti
Questo documento rappresenta la posizione ufficiale della Società Italiana di Diabetologia (SID) ma non può essere visto come prescrittivo per il singolo paziente e non può sostituire, in ogni caso, il giudizio clinico. È stato fatto ogni sforzo per raggiungere un consenso tra tutti gli autori.
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Premessa
Le malattie cardiovascolari e renali sono le più frequenti e temibili complicanze croniche del diabete. Le persone con diabete rappresentano il 25% circa dei ricoverati in unità di terapia intensiva coronarica (1), il 9% dei ricoverati per stroke ischemico (2) e circa il 20% di quelli in terapia dialitica (3). Il diabete è tra le prime 10 cause di morte in Italia (4) e le malattie cardiovascolari sono la prima causa di morte fra i diabetici (5). L’eccesso di mortalità per malattie cardiovascolari nel diabete è pari al 30%-40% rispetto alla popolazione senza diabete (6). In Italia, inoltre, lo scompenso cardiaco è la principale causa di ricovero ospedaliero (pari all’8%) (7).
L’impegno dei clinici sia per la prevenzione di queste complicanze della malattia sia per rallentarne o bloccarne la progressione deve essere rivolto al controllo di tutti i fattori di rischio. Per il controllo attento dell’iperglicemia è necessaria anche una scelta oculata dei farmaci ipoglicemizzanti, soprattutto in un momento come l’attuale in cui l’armamentario terapeutico è particolarmente ricco. Diversamente da un passato non lontano, infatti, chi cura le persone con diabete oggi può contare su 6 classi di farmaci orali (biguanidi, agonisti dei recettori SUR, inibitori della alfa-glucosidasi, agonisti dei PPAR-gamma, inibitori di DPP-4, inibitori di SGLT-2), una classe di farmaci iniettabili non insulinici (agonisti del recettore di GLP-1) e varie formulazioni di insulina e suoi analoghi. La maggioranza di queste classi include diverse molecole, rendendo l’area diabetologica da un lato una delle più ricche di opportunità terapeutiche e dall’altro una delle più bisognose di esperienza e di specifica professionalità da parte dei clinici (8).
L’agenzia americana del farmaco (FDA) impone a tutti i nuovi farmaci per il controllo dell’iperglicemia la realizzazione di studi di sicurezza cardiovascolare. Tali studi non erano richiesti in passato e per i vecchi farmaci ipoglicemizzanti le informazioni disponibili sono scarse o talora decisamente lacunose. In alcuni casi, le informazioni sulla sicurezza cardiovascolare provengono da studi sperimentali (9-12) oppure osservazionali (13-16) o da studi di intervento con pool di dati di fase II-III (17-25). In altri casi sono state tratte conclusioni da studi che non avevano disegni sperimentali adatti a rispondere a questo specifico quesito. Emblematico da questo punto di vista è lo studio UKPDS che è stato il trial clinico di riferimento per consolidare il concetto che la metformina sia il farmaco fondamentale per la terapia del diabete tipo 2 per i suoi benefici cardiovascolari (26) nonostante lo studio fosse stato disegnato per confrontare gli effetti sulle complicanze del raggiungimento di obiettivi glicemici diversi. Un analogo commento potrebbe essere fatto per il più recente studio ADVANCE che non può essere considerato uno studio di confronto di gliclazide con altro trattamento ma piuttosto di diversi regimi di controllo glicemico, basati largamente sull’uso di sulfoniluree (27).
Il presente documento mira a presentare la posizione ufficiale della Società Italiana di Diabetologia (SID) in merito alla ricaduta clinico-assistenziale dei risultati di recenti studi sugli effetti cardiovascolari e renali di alcuni farmaci ipoglicemizzanti. La posizione viene espressa rispondendo a dieci domande chiave che prendono in esame non solo gli aspetti clinici ma anche quelli regolatori ed economici. La SID, come recentemente riportato in vari documenti, ritiene che tutti questi aspetti debbano essere patrimonio culturale dei diabetologi italiani, di quanti curano le persone con diabete e di chi ha la responsabilità di organizzare l’assistenza diabetologica.
I contenuti di questo documento integrano ed estendono quanto riportato negli Standard di cura del diabete delle Società Italiane di diabetologia (8).
- Quali farmaci ipoglicemizzanti hanno mostrato benefici su outcome cardiovascolari e in quali categorie di pazienti?
Negli ultimi anni sono stati pubblicati numerosi studi di outcome cardiovascolare condotti nel diabete tipo 2 in cui un farmaco attivo è stato confrontato verso placebo o verso un altro farmaco attivo, in aggiunta alla terapia background. La tabella I riassume le caratteristiche dei pazienti arruolati e del disegno sperimentale di questi studi, i cui risultati sono riassunti qui di seguito.
Nello studio HOME (Hyperinsulinemia: the Outcome of its Metabolic Effects), uno dei pochi studi controllati contro placebo condotto in pazienti con diabete tipo 2 in trattamento con insulina e in gran parte senza malattia cardiovascolare pregressa, il trattamento con metformina ha mostrato oltre al miglioramento del controllo glicemico, una riduzione del 40% della malattia cardiovascolare (endpoint secondario composito) ma non dell’endpoint primario (composito tra morbidità e mortalità micro- e macro-vascolare) (28).
Nello studio PROactive, condotto in 5.238 soggetti con pregressa malattia cardiovascolare per un periodo mediano di 2.9 anni, il pioglitazone, accanto ad un beneficio cardiovascolare solo sull’endpoint secondario (morte per tutte le cause, infarto e ictus non fatale nel loro complesso ridotti del 16%; HR 0.84, 95% CI 0.72-0.98, p=0.027) (29), ha mostrato una riduzione del rischio di infarto (HR 0.72, 95% CI 0.52-0.99, p=0.045) o di sindrome coronarica acuta (HR 0.63, 95% CI 0.41-0.97, p=0.035) in soggetti con precedente storia di infarto del miocardio (30) o di ictus (HR 0.53, 95% CI 0.34-0.85, p=0.009), in soggetti con precedente storia di ictus (31) a fronte di un aumento del rischio di scompenso cardiaco (Number Needed to Harm pari a 33 per 2.9 anni di trattamento (29). Il NNT per prevenire un MACE era 50 per 2.9 anni di trattamento e quello per prevenire una morte per qualsiasi causa era 333 per 2.9 anni di trattamento. L’effetto favorevole del pioglitazone nella prevenzione dell’ictus è stato confermato da un recente trial su 3876 pazienti con malattia cerebrovascolare nota, nei quali il trattamento con il farmaco per 4.8 anni, rispetto al placebo, è risultato associato ad una riduzione dell’incidenza di ictus del 24% (32). Quest’ultimo risultato è stato ottenuto in soggetti non diabetici, confermando che l’azione protettiva del pioglitazone sulla malattia cerebrovascolare è indipendente dal miglioramento della glicemia.
Nello studio ORIGIN, condotto in 12.537 soggetti in ampia maggioranza con diabete di tipo 2 di recente diagnosi e pregressi eventi cardiovascolari, l’insulina glargine, rispetto al placebo, non ha determinato alcun cambiamento nell’incidenza di eventi cardiovascolari maggiori o di mortalità cardiovascolare dopo oltre 6 anni di trattamento. In questo studio, oltre a pazienti con diabete di tipo 2, è stato reclutato anche un piccolo numero di persone con ridotta tolleranza glicidica o iperglicemia a digiuno, che non soddisfacevano ancora i criteri diagnostici per il diabete (33).
Nello studio DEVOTE, 7.637 pazienti con precedenti eventi cardiovascolari (85.2%) o ad alto rischio cardiovascolare sono stati randomizzati a trattamento con insulina glargine o degludec. Dopo un follow-up di 2 anni, non sono state osservate differenze significative (HR 0.91, 95% CI 0.78-1.06) per l’outcome primario composito rappresentato da mortalità cardiovascolare, infarto miocardico e ictus non fatali (34).
Nello studio SAVOR-TIMI 16.492 soggetti con diabete tipo 2 e storia di malattia cardiovascolare o multipli fattori di rischio per malattia vascolare sono stati trattati con saxagliptin o placebo in aggiunta alla terapia background per un periodo mediano di 2,1 anni durante il quale non sono state osservate differenze significative nell’endpoint primario (MACE: morte cardiovascolare, infarto e ictus non fatale): HR 1.00, 95% CI 0.89-1.12, p=NS (35). In tale studio è stato riscontrato un lieve aumento del rischio di scompenso cardiaco con un HR dell’ospedalizzazione per scompenso pari a 1.27 (95% CI 1.07-1.51, p=0.007). Il significato clinico di quest’ultima osservazione è di difficile interpretazione in quanto recenti studi osservazionali retrospettivi su ampi database non hanno confermato l’incremento di ospedalizzazione per scompenso cardiaco durante trattamento con saxagliptin (36-37).
Lo studio EXAMINE condotto in 5.380 soggetti con recente sindrome coronarica acuta trattati per una mediana di 1,5 anni con alogliptin o placebo in aggiunta alla terapia background ha mostrato piena sicurezza del farmaco. L’HR per MACE (morte cardiovascolare, infarto o ictus non fatale) era 0.96 (limite superiore del CI pari a 1.16). In questo studio l’HR per ospedalizzazione per scompenso cardiaco è risultato 1.19 [0.90-1.58], p=0.22 (38-39).
Lo studio TECOS condotto in 14.671 soggetti con precedenti eventi cardiovascolari trattati per una mediana di 3.0 anni con sitagliptin o placebo in aggiunta alla terapia background ha mostrato piena sicurezza su tutti gli endpoint cardiovascolari. A parità di controllo glicemico tra i due gruppi di trattamento (<0.3% di differenza nei livelli di HbA1c), l’HR per MACE (morte cardiovascolare, infarto o ictus non fatale o ospedalizzazione per angina instabile) è stato 0.98 (95% CI 0.88-1.09, p=NS) e quello relativo a ospedalizzazione per scompenso cardiaco 1.00 (95% CI 0.83-1.20, p=NS) (40).
Lo studio ELIXA, condotto in 6.068 soggetti con pregressi eventi cardiovascolari trattati per una mediana di 2.1 anni con lixisenatide o placebo in aggiunta alla terapia background ha mostrato piena sicurezza con effetti cardiovascolari neutri: l’HR per MACE (morte cardiovascolare, infarto o ictus non fatale o ospedalizzazione per angina instabile) era 1.02 (95% CI 0.89-1.17, p=NS). In questo studio l’HR per scompenso cardiaco è risultato 0.96 (95% CI 0.75-1.23, p=NS) (41).
Nello studio EMPA-REG OUTCOME, condotto in 7.020 diabetici tipo 2 con pregressa malattia cardiovascolare, l’aggiunta di empagliflozin invece che di placebo alla terapia background, è stata associata a una riduzione degli eventi che costituivano l’endpoint primario (MACE: morte cardiovascolare, infarto e ictus non fatale) del 14% (HR 0.86, 95% CI 0.74-0.99, p=0.04 per la superiorità). Il follow-up mediano è stato di 3,1 anni e la differenza di HbA1c fra i due gruppi di trattamento, nonostante l’intendimento di mantenere glicemie sovrapponibili, è risultata di circa 0.3%. Inoltre, i pazienti che assumevano empagliflozin hanno mostrato una riduzione del 38% della morte cardiovascolare (HR 0.62, 95% CI 0.49-0.77, p<0.001), del 32% della mortalità per tutte le cause (HR 0.68, 95% CI 0.57-0.82, p<0.001) e del 35% della ospedalizzazione per scompenso cardiaco (HR 0.65, 95% CI 0.50-0.85, p=0.002). Il Number Needed to Treat (NNT) per prevenire una morte per tutte le cause trattando con empagliflozin soggetti con diabete tipo 2 e pregressa malattia cardiovascolare è stato pari a 38 per 3 anni di trattamento mentre quello per ridurre il rischio di eventi cardiovascolari compositi (MACE) è stato pari a 63 per 3 anni di trattamento (42). Un numero simile a quello che ha portato a consolidare l’uso delle statine in prevenzione secondaria (43).
Una successiva analisi dello studio EMPA-REG OUTCOME ha evidenziato che il trattamento con empaglifozin non era associato né a riduzione né ad aumento del rischio di eventi cerebrovascolari rispetto al placebo (44).
Nello studio LEADER, condotto in 9.340 diabetici tipo 2 con pregressa malattia cardiovascolare e lieve insufficienza renale (~41.7% eGFR 60-89), l’aggiunta di liraglutide invece che di placebo alla terapia background, era associata a una riduzione degli eventi che costituivano l’endpoint primario (MACE: morte cardiovascolare, infarto e ictus non fatale) del 13% (HR 0.87, 95% CI 0.78-0.97, p=0.01 per superiorità). Il periodo di follow-up mediano è stato di 3,8 anni, e la differenza di HbA1c fra i due gruppi di trattamento, nonostante l’intendimento di mantenere glicemie sovrapponibili, era di circa 0.4%. Inoltre, i pazienti trattati con liraglutide hanno mostrato una riduzione del 22% della morte cardiovascolare (HR 0.78, 95% CI 0.66-0.93, p=0.007) (45). Il NNT per prevenire una morte per qualsiasi causa trattando con liraglutide pazienti con diabete tipo 2 e pregressa malattia cardiovascolare o alto rischio cardiovascolare era 71 per 3 anni di trattamento. Un numero superiore rispetto a quello calcolato per empagliflozin ma comunque apprezzabile. In questo studio il NNT per prevenire un MACE era 66 per 3 anni di trattamento.
Nello studio SUSTAIN-6, condotto in 3.297 diabetici tipo 2 con pregressa malattia cardiovascolare (58.8%) o ad alto rischio cardiovascolare, l’aggiunta di semaglutide (0.5 o 1 mg alla settimana) invece che di placebo alla terapia background, era associata a una riduzione degli eventi che costituivano l’endpoint primario (MACE: morte cardiovascolare, infarto e ictus non fatale) del 26% (HR 0.74, 95% CI 0.58-0.95, p=0.02 per superiorità). Il periodo di follow-up mediano è stato di 2.1 anni, e la differenza di HbA1c rispetto al placebo era di -0.7 % per il gruppo trattato con semaglutide 0.5 mg e -1.0% per il gruppo trattato con semaglutide 1 mg. (46)
Nello studio CANVAS condotto in 10.141 pazienti con precedenti eventi cardiovascolari (65.6%) o ad alto rischio cardiovascolare, l’aggiunta di canaglifozin (alla dose di 100 o 300 mg/die) invece che di placebo alla terapia background, era associata a una riduzione degli eventi che costituivano l’endpoint primario (MACE: morte cardiovascolare, infarto e ictus non fatale) del 14% (HR 0.86; 95% CI 0.75-0.97; p<0.001 per non-inferiorità e p=0.02 per superiorità) e del 33% della ospedalizzazione per scompenso cardiaco (HR 0.67, 95% CI 0.52-0.87). Il periodo di follow-up mediano è stato di 2.4 anni, e la differenza di HbA1c fra i due gruppi di trattamento era di 0.58%. Tuttavia, il trattamento con canaglifozin risultava in un aumentato rischio di amputazione (HR 1.97; 95% IC 1.41-2.75) (47).
Nello studio EXSCEL, condotto in 10.782 pazienti (73% con pregressa malattia cardiovascolare), l’aggiunta di exenatide OW invece che di placebo alla terapia background, era associata a una riduzione degli eventi che costituivano l’endpoint primario (MACE: morte cardiovascolare, infarto e ictus non fatale) del 9% (HR 0.91; 95% CI 0.83-1.00; p<0.001 per non-inferiorità e p=0.06 per superiorità). Il periodo di follow-up mediano è stato di 3.2 anni (IQR 2.2-4.4), e la differenza di HbA1c fra i due gruppi di trattamento era di 0.53%. Tuttavia, il trattamento con exenatide OW era associato a una riduzione del 14% della mortalità per tutte le cause (HR 0.86; 95% CI 0.77-0.97 (48).
In un’analisi complessiva (pooled analysis) degli studi di fase II-III in diabetici tipo 2, l’acarbosio ha mostrato una riduzione del rischio di infarto di oltre il 60% (49), ma questo studio è stato criticato sia per problemi di publication-bias, sia per problemi di eterogeneità, detection-bias e fattori confondenti. Recentemente, gli effetti dell’acarbosio sulle malattie cardiovascolari sono stati studiati in un ampio studio cinese (randomizzato, doppio cieco, vs placebo) condotto in 6.522 soggetti con pregressa malattia cardiovascolare e ridotta tolleranza glucidica (IGT). Dopo un follow-up mediano di 5.0 anni non sono state osservate differenze significative (HR 0.98, 95% CI 0.86-1.11; p=0.73) per l’outcome primario composito rappresentato da mortalità cardiovascolare, infarto miocardico e ictus non fatali, ricovero per angina instabile o per scompenso cardiaco, mentre si è ridotta l’incidenza di diabete (0.82, 95% CI 0.71-0.94, p=0.005) (50).
Per quanto riguarda le sulfoniluree, esiste una ricca letteratura basata su studi osservazionali che sostengono la conclusione che alcune di queste molecole possano aumentare il rischio cardiovascolare (51-54). Mentre due meta-analisi di trial randomizzati, hanno evidenziato che l’uso delle sulfoniluree è associato ad un aumento significativo della mortalità rispetto alle terapie di confronto, ma non dell’incidenza di eventi cardiovascolari maggiori (55-56), un’altra recente meta-analisi ha evidenziato che le sulfoniluree non sono associate né ad aumento della mortalità per tutte le cause, né della mortalità cardiovascolare, infarto miocardico o ictus (57).
Lo studio in doppio cieco SPREAD-DIMCAD (The Study on the Prognosis and Effect of Antidiabetic Drugs on Type 2 Diabetes Mellitus with Coronary Artery Disease), condotto in 304 pazienti con diabete tipo 2 e coronaropatia, è l’unico che ha confrontato gli effetti del trattamento per 3 anni con glipizide in confronto metformina. La metformina si è risultata associata a una riduzione del 46% (HR 0.54; 95% CI 0.30-0.90; p<0.026) degli eventi che costituivano l’endpoint primario (morte cardiovascolare, morte per tutte le cause, infarto non fatale, ictus non fatale o rivascolarizzazione arteriosa). Secondo tale studio glipizide aumenterebbe l’incidenza di MACE, con un NNH pari a 10/5anni (58).
Nello studio TOSCA.IT, 3.028 pazienti con diabete tipo 2 (11% con pregresso evento cardiovascolare) sono stati randomizzati a trattamento con pioglitazone o sulfoniluree (glibenlclamide 2%, glimepiride 48%, gliclazide 50%) in aggiunta a metformina, per un periodo mediano di 4.7 anni. L’outcome primario, rappresentato da mortalità per tutte le cause, infarto miocardico non fatale, ictus non fatale o rivascolarizzazione, è stato documentato in 105 pazienti in terapia con pioglitazone e in 108 in terapia con sulfoniluree (HR 0.96, 95% CI 0.74-1.26; p=0.79). In una sensitivity analysis condotta nei partecipanti che continuavano ad assumere il farmaco (analisi “on treatment”), l’outcome secondario comprendente una serie di eventi aterosclerotici (morte improvvisa, infarto del miocardio fatale e non fatale, ictus fatale e non fatale, amputazioni maggiori delle gambe e procedure di rivascolarizzazioni) si è ridotto del 33% (p=.03) nel gruppo pioglitazone. Tale osservazione porterebbe a ipotizzare che il farmaco possa conferire un beneficio CV quando assunto regolarmente dai partecipanti allo studio (59).
- I farmaci che hanno mostrato benefici cardiovascolari potrebbero eventualmente essere usati contemporaneamente e, in caso affermativo, in quali situazioni?
Considerando il rischio cardiovascolare residuo osservato nei soggetti trattati con inibitori di SGLT2 o liraglutide negli studi EMPA-REG OUTCOME (42), CANVAS (47) e LEADER (47), la diversità dei meccanismi d’azione dei due farmaci e la differenza temporale degli effetti sugli eventi cardiovascolari suggeriscono distinti effetti sui processi fisiopatologici responsabili del danno d’organo. È quindi ragionevole pensare che i benefici dei due farmaci potrebbero essere almeno in parte additivi. Per tale motivo l’uso combinato di tali farmaci, i cui benefici additivi cardiovascolari dovrebbero essere idealmente confermati da un trial specifico la cui realizzazione appare assai complessa (4 gruppi con 5-6 mila soggetti in ciascuno), potrebbe essere un’ottima opzione per ridurre il rischio di eventi nei soggetti con pregressa malattia cardiovascolare.
- Nei pazienti con malattia cardiovascolare ben controllati dal punto di vista metabolico la terapia ipoglicemizzante dovrebbe essere modificata alla luce dei risultati dei più recenti trial?
L’aggiunta di un farmaco ipoglicemizzante alla terapia sottostante, se questa è condotta secondo le raccomandazioni correnti, può comportare un’ulteriore riduzione dei valori glicemici. Tuttavia, se la terapia sottostante è basata su uno o più farmaci che, per il loro meccanismo d’azione, non causano ipoglicemia (metformina, acarbosio, pioglitazone, inibitore di DPP-4) l’aggiunta di SGLT2 inibitori o liraglutide ad una di queste classi può non richiedere aggiustamenti posologici. Se invece la terapia sottostante include una sulfonilurea oppure repaglinide e/o insulina è indispensabile un aggiustamento della dose o la sospensione di tale terapia per evitare episodi ipoglicemici. Occorre ricordare, infatti, che il rischio di ipoglicemie è tanto più elevato quanto più vicino è l’obiettivo prefissato di HbA1c. Va anche evidenziato che i benefici cardiovascolari degli inibitori di SGLT2 e liraglutide sono stati osservati in presenza di modeste differenze del controllo glicemico rispetto al placebo, considerando che in questi studi si è cercato di ottenere un buon controllo metabolico e che quindi si tratta di effetti che attengono a modificazioni di funzioni fisiologiche indipendenti dal livello di glicemia. È pertanto ipotizzabile che essi si manifestino anche in persone in buon controllo glicemico con la terapia in corso.
- I benefici osservati con singole molecole di specifiche classi di farmaci ipoglicemizzanti possono essere considerati validi per l’intera classe?
In diabetologia ci sono vari esempi di diversità nei benefici clinici fra molecole della stessa classe. La metformina è il fondamento della terapia farmacologica del diabete tipo 2 mentre fenformina è stata ritirata dal mercato, analoga considerazione si può fare per il pioglitazone che fa parte a pieno diritto dell’armamentario terapeutico del diabetologo mentre il rosiglitazone è stato ritirato da molti anni. E ancora la gliclazide si distingue dalle altre sulfoniluree per il minore rischio di ipoglicemia e per dati cardiovascolari più favorevoli, saxagliptin ha mostrato un lieve e ancora discusso incremento del rischio di scompenso cardiaco mentre ciò non è emerso con sitagliptin. Infine, lixisenatide non ha mostrato i benefici cardiovascolari osservati con liraglutide e semaglutide, e, in parte con exenatide OW, tutte molecole della stessa classe degli agonisti del recettore di GLP-1. I favorevoli effetti cardiovascolari osservati negli studi EMPA-REG OUTCOME e CANVAS (44, 47) farebbero pensare ad un effetto di classe anche alla luce di un recente ampio sudio osservazionale (60-61).
Per questi motivi serve cautela nel trarre conclusioni su questo aspetto. Le molecole appartenenti ad ogni singola classe hanno caratteristiche tali da configurare una diversa selettività verso una varietà di enzimi (è così per gli inibitori di DPP-4) o selettività verso i trasportatori (è così per gli inibitori di SGLT-2) oppure peculiarità nel legame recettoriale, nella farmacocinetica o negli eventi post-recettoriali (è così per gli agonisti del recettore di GLP-1) con conseguenti diversità non tanto nell’effetto biologico principale (riduzione della glicemia) ma negli effetti ancillari che difficilmente possono essere considerati secondari. D’altro canto la classe degli agonisti del recettore di GLP-1 è già stata suddivisa in sottoclassi composte da farmaci apparentati solo strutturalmente con la molecola nativa e da farmaci identici alla molecola nativa o in molecole ad azione breve (short-acting) e molecole ad azione prolungata (long-acting).
- I benefici cardiovascolari si accompagnano a benefici renali e, se sì, a quali?
Lo studio EMPA-REG OUTCOME ha dimostrato che il trattamento con empaglifozin era associato a una riduzione del rischio sia dell’endpoint composito (progressione a macroalbuminuria, raddoppio della creatininemia e eGFR ≤45 mL/min per 1.73 m2, inizio trattamento renale sostitutivo o morte per malattia renale) (HR 0.61 (95% CI 0.53-0.70, p<0.001), sia della comparsa o peggioramento della nefropatia e progressione della malattia renale nei pazienti con DT2 e malattia cardiovascolare (62). In una successiva pooled-analysis sono stati valutati gli effetti a breve- e lungo-termine di empaglifozin in pazienti con alto rischio cardiovascolare in un ampio range di albuminuria all’inizio dello studio EMPA-REG Outcome (63). A partire dalla 12 settimana di trattamento con empaglifozin è stata osservata una riduzione significativa dell’escrezione urinaria di albumina che persisteva per almeno 3 anni, indipendentemente dai livelli basali di albuminuria, in aggiunta alla terapia con ACE inibitori e indipendentemente dal controllo glicemico.
Gli studi ACCORD, ADVANCE e VADT (64, 27, 66) hanno documentato benefici renali inferiori in presenza di differenze nei livelli di HbA1c ben più evidenti (differenze comprese fra 0.7% e 1.5% in termini assoluti) in soggetti con caratteristiche simili a quelli reclutati negli studi EMPA-REG (42, 62) e LEADER (44) e trattati in maniera intensiva piuttosto che convenzionale (64-66).
Il rischio di comparsa o peggioramento della nefropatia si è ridotto anche negli studi LEADER (67) e SUSTAIN-6 (46), ma tale riduzione era legata soprattutto alla minore progressione della microalbuminuria (45-46). Da notare, inoltre, che le differenze nei livelli di HbA1c tra i gruppi di trattamento con farmaco attivo e placebo negli studi LEADER (45) e SUSTAIN-6 (46) apparivano più evidenti rispetto a quanto osservato in EMPA-REG OUTCOME (42), anche se l’entità degli effetti cardiovascolari e renali attribuibili al controllo glicemico non sono stati analizzati. Anche il trattamento con DPP-4i è in grado di ridurre l’escrezione urinaria di albumina, ma senza effetti sul rischio di raddoppio della creatiniemia, dialisi o morte, suggerendo che i benefici effetti dei farmaci ipoglicemizzanti sull’albuminuria possano essere indipendenti dal controllo glicemico (68).
Nello studio CANVAS, è stato documentato un beneficio di canaglifozin riguardo alla progressione di albuminuria (HR 0.73; 95% IC 0.67-0.79) e dell’outcome composito rappresentato da riduzione del 40 dell’eGFR, terapia renale sostitutiva o morte renale da tutte le cause (HR 0.60; 95% IC 0.47-0.77) (47).
- I benefici osservati nei pazienti con malattia cardiovascolare nota (prevenzione secondaria) possono essere estesi ai pazienti senza malattia cardiovascolare (prevenzione primaria)?
Gli studi EMPA-REG OUTCOME (42) e PROactive (29) sono stati condotti in pazienti con pregressa malattia cardiovascolare mentre gli studi LEADER (45), CANVAS (47) EXSCEL (48)) e TOSCA.IT (59) hanno incluso anche soggetti ad alto rischio ma senza precedenti eventi cardiovascolari, seppure in percentuale limitata (18%, 38%, 27% e 89%, rispettivamente). Occorre tenere presente, comunque, che una porzione consistente di soggetti con diabete tipo 2 senza precedenti eventi cardiovascolari può avere in realtà una malattia cardiovascolare, se questa viene ricercata con tecniche più sofisticate di una semplice anamnesi e/o di un ECG a risposo (70). Questa nozione spinge a ipotizzare che i farmaci in questione possano determinare benefici anche in un numero consistente di soggetti che solo apparentemente ricadono nell’ambito della prevenzione primaria, hanno cioè una compromissione vascolare che non ha ancora causato un evento. Tale ipotesi necessita di essere verificata mediante studi clinici appropriati.
- Alcune indicazioni/raccomandazioni di uso o non uso di inibitori di SGLT-2 e/o liraglutide dovrebbero essere cambiate alla luce dei risultati di questi recenti trial?
Si può stimare che la storia clinica di precedenti eventi cardiovascolari sia presente in circa il 20% dei soggetti con diabete tipo 2 che vivono in Italia.
I risultati degli studi EMPA-REG (62) e LEADER (45) hanno giustificato ampiamente l’aggiunta nelle RCP (Riassunto delle Caratteristiche del Prodotto) di empagliflozin e liraglutide dei dati riguardanti la riduzione del rischio di eventi cardiovascolari e di mortalità cardiovascolare in pazienti con diabete tipo 2 e malattia cardiovascolare accertata.
È sorprendente che per pioglitazone non sia stata richiesta o ottenuta, alla luce dei risultati sugli endpoint secondari nello studio PROactive (29).
Va inoltre sottolineato che una parte consistente dei soggetti dello studio EMPA-REG aveva un filtrato glomerulare inferiore a quello attualmente considerato la soglia di non utilizzo di empagliflozin (<60 ml/min x 1.73m2) (62). Anche in tali soggetti sono stati osservati benefici cardiovascolari e renali.
- Esistono in questo momento in Italia limitazioni alla prescrizione di questi farmaci nei pazienti con malattia cardiovascolare e/o con malattia renale?
In questo momento in Italia gli inibitori SGLT-2 e gli agonisti del recettore di GLP-1 possono essere prescritti a soggetti con diabete tipo 2 con e senza malattia cardiovascolare. Nel caso degli inibitori di SGLT-2 le indicazioni approvate da EMA sono la monoterapia o la terapia di combinazione con altri farmaci ipoglicemizzanti, compresa l’insulina. La RCP non permette l’uso nei soggetti con eGFR inferiore a 60 ml/min x 1.73 m2 e raccomanda la sospensione della terapia se la funzione renale scende sotto i 45 ml/min x 1.73 m2. Questa limitazione all’impiego nei pazienti con ridotta funzione renale potrebbe essere modificata alla luce dei benefici renali dimostrati nello studio EMPA-REG (circa il 20% dei soggetti inclusi nello studio aveva una funzione renale compromessa, compresa tra 60 e 30 ml/min x 1.73 m2) portando la soglia a cui non sarebbe permesso l’impiego di inibitori di SGLT-2 a 30 ml/min x 1.73 m2 (62). Nel caso di liraglutide le indicazioni comprendono la monoterapia, l’associazione con ipoglicemizzanti orali e insulina. Esiste una raccomandazione a non usare liraglutide in caso di insufficienza renale terminale (eGFR <15 ml/min x 1.73 m2).
- Gli attuali criteri di rimborsabilità di questi farmaci dovrebbero essere modificati alla luce dei risultati di questi recenti trial?
Attualmente in Italia gli inibitori di SGLT-2 sono rimborsati dal SSN quando associati a metformina oppure a insulina con o senza metformina. Resta esclusa dalla rimborsabilità l’associazione in duplice o triplice anche con sulfoniluree, pioglitazone, inibitori di DPP-4, agonisti del recettore di GLP-1. Tuttavia, una larga percentuale dei soggetti dello studio EMPA-REG è stato trattato con empagliflozin in aggiunta ad altri farmaci (es. metformina e sulfonilurea oppure metformina e pioglitazone oppure insulina e sulfonilurea o insulina e pioglitazone oppure metformina e inibitore DPP-4) (42). Per liraglutide la rimborsabilità è ammessa quando i valori di HbA1c sono compresi tra 7.5% e 8.5%. Quest’ultimo limite è esteso a 9% nel caso sussistano elementi di fragilità quali età >75 anni e/o complicanze-patologie che ne riducano l’attesa di vita. Nello studio LEADER, l’età media dei soggetti reclutati era di 64 anni e i livelli di HbA1c erano pari a 8.7% (45). Se ne deduce che una considerevole porzione di pazienti con diabete tipo 2 con o senza pregressa malattia cardiovascolare non possono usufruire della rimborsabilità da parte del SSN malgrado gli evidenti benefici cardiovascolari e microvascolari.
- L’utilizzo più ampio di questi farmaci è economicamente sostenibile?
Prevenire eventi cardiovascolari (infarto, scompenso cardiaco) e renali (necessità di emodialisi o trapianto) è certamente un dovere dal punto di vista etico e deontologico ma è anche conveniente dal punto di vista della spesa sanitaria. Non va poi dimenticato che sia gli inibitori di SGLT-2 che gli agonisti del recettore di GLP-1, per il loro meccanismo d’azione, sono gravati da un rischio ipoglicemico molto basso o praticamente nullo a meno che non siano associati a sulfoniluree e insulina. Il loro uso è certamente associato ad un minore consumo di risorse (visite mediche, esami di laboratorio, chiamate del 118, accessi al PS, ricoveri ospedalieri). Il maggiore costo unitario di questi farmaci (circa quintuplo rispetto ad una sulfonilurea nel caso degli inibitori di SGLT-2 e circa decuplo nel caso degli agonisti del recettore di GLP-1) è largamente bilanciato dal risparmio legato alla minore incidenza di ipoglicemie e dalla minore incidenza di eventi cardiovascolari e renali, quanto meno nei soggetti con pregressa malattia cardiovascolare. A proposito del costo dei farmaci, tuttavia, va considerato che non poche delle combinazioni attualmente non rimborsate (es. inibitore di SGLT-2 con altri 2 o 3 farmaci orali o iniettabili non insulinici) sarebbero meno costose di complessi e ancora largamente utilizzati schemi insulinici attualmente rimborsati. Al costo dei farmaci, infatti, andrebbero aggiunti i costi del monitoraggio glicemico domiciliare, decisamente più intensivo in caso di utilizzo di insulina più volte al giorno. Senza dimenticare che la terapia insulinica basal-bolus è meno gradita al paziente di una terapia che non comporta 1460 iniezioni all’anno e un elevato rischio di ipoglicemia. La tabella II riassume una stima dei costi di alcune terapie complesse del diabete.
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