a cura di Anna Solini1, Agostino Consoli2
1Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Pisa; 2Dipartimento di Medicina e Scienze dell’Invecchiamento, Università degli Studi di Chieti-Pescara “G. D’Annunzio”
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Con la disponibilità di nuovi farmaci negli ultimi anni si è intensificato il dibattito, già iniziato nel secolo scorso, sull’utilizzazione delle sulfoniluree che hanno rappresentato una delle colonne portanti della terapia farmacologica del diabete tipo 2.
Già negli anni Settanta con lo studio UDPG si è affrontato il tema della sicurezza delle sulfoniluree; negli ultimi anni si è dibattuto il tema dei loro effetti indesiderati, in primis delle ipoglicemie e delle loro conseguenze sulla patologia e mortalità cardiovascolare.
Nonostante crescenti perplessità le sulfoniluree sono tuttora inserite nelle raccomandazioni e negli algoritmi terapeutici delle principali società scientifiche internazionali e nazionali (EASD, ADA, SID-AMD).
Ci è sembrato utile, in un clima di persistenti dubbi nelle scelte terapeutiche della pratica clinica, questo confronto tra due colleghi diabetologi che hanno cercato da un lato di riaffermare la validità terapeutica di questa classe di farmaci ed in particolare di alcune molecole, dall’altro di sottolineare l’importanza di alcuni effetti indesiderati da prendere in considerazione nella personalizzazione del trattamento farmacologico del paziente diabetico e nel possibile ricorso in alternativa a nuovi farmaci.
Sulfoniluree nel trattamento del diabete tipo 2
DISCUSSANT
Olga Vaccaro1, Gabriele Riccardi1, Saula Vigili de Kreutzenberg2
1Università degli Studi di Napoli “Federico II”;
2Università degli Studi di Padova
Guarda al futuro senza cancellare il passato
Olga Vaccaro, Gabriele Riccardi
Le sulfoniluree sono farmaci di notevole importanza nel trattamento del diabete mellito di tipo 2, in alternativa o in associazione agli altri antidiabetici orali. Infatti, le sulfoniluree sono farmaci molto efficaci e di basso costo, ma presentato effetti indesiderati clinicamente importanti quali l’aumento di peso e il rischio di ipoglicemie. L’elevata efficacia clinica delle sulfoniluree non è mai stata messa in discussione, tant’è che sono sempre presenti negli algoritmi terapeutici per il diabete mellito di tipo 2. Tuttavia nel corso degli anni sono stati pubblicati diversi studi osservazionali che hanno messo in dubbio la sicurezza delle sulfoniluree in generale e della glibenclamide in particolare, soprattutto per quanto riguarda il rischio cardiovascolare (1).
Sebbene con qualche controversia, i dati a disposizione, soprattutto quelli provenienti dagli studi di intervento randomizzati, non dimostrano per le sulfoniluree un rischio significativamente maggiore di mortalità totale o cardiovascolare, o una maggiore morbidità cardiovascolare fatta eccezione, probabilmente, per il confronto con la metformina e con gli inibitori della DDP-4 (2-3).
Il dibattito sulla sicurezza delle sulfonilure è iniziato negli anni Settanta con lo studio UGDP, un trial clinico in cui si osservava un eccesso di mortalità cardiovascolare nei pazienti trattati con Tolbutamide (una sulfonilurea di prima generazione) in confronto ai pazienti trattati con sola dieta o con insulina (4). Lo studio presentava alcuni limiti metodologici che hanno indotto alla cautela nella interpretazione dei risultati, in particolare lo sbilanciamento dei gruppi rispetto al rischio cardiovascolare iniziale che era più alto nel gruppo trattato con tolbutamide.
La maggior mole di dati disponibili sugli effetti cardiovascolari delle sulfoniluree deriva da studi osservazionali di coorte che frequentemente utilizzano data base amministrativi relativi a prescrizioni di farmaci e/o dati da registri di patologia (IMA, ospedalizzazione per SCA ecc.) (5). Quasi tutti forniscono dati sulla mortalità totale, pochi hanno indagato la mortalità cardiovascolare (CV) e pochissimi sono quelli che hanno valutato l’incidenza di eventi. Per definizione, gli studi di osservazione non permettono di valutare relazioni di causa-effetto e sono più adeguati a generare ipotesi, anziché a testarle. Il limite principale di questi studi consiste nel fatto che è difficile controllare eventuali distorsioni dovute al “bias da indicazione”. Nella pratica clinica la scelta del farmaco ipoglicemizzante è spesso guidata dalle caratteristiche cliniche del paziente che a loro volta possono influenzare l’esito. Ad esempio i pazienti trattati con sulfoniluree, rispetto ai pazienti trattati con metformina presentano generalmente una maggiore durata di malattia, più comorbidità e maggiore difficoltà a raggiungere il compenso glicemico; tutti questi parametri potrebbero influenzare la probabilità di eventi CV. L’effetto di questi fattori di confondimento non è sempre misurato, e quando misurato non è sempre totalmente correggibile con l’analisi statistica, si parla quindi di “confondimento residuo”. Inoltre in questo tipo di studi in genere non è possibile valutare accuratamente l’esposizione al farmaco al momento in cui si verifica l’evento CV. L’esposizione viene valutata generalmente all’inizio dello studio ed eventuali interruzioni/variazioni di trattamento occorse successivamente non vengono registrate. Questo è particolarmente rilevante se si pensa che i meccanismi suggeriti per spiegare gli effetti avversi CV delle SU (i.e. abolizione del precondizionamento ischemico ed ipoglicemia) richiedono la presenza attiva del farmaco al momento dell’evento. Inoltre in questi studi generalmente non si hanno informazioni sul dosaggio dei farmaci e non si riesce a stabilire quindi se esiste una relazione dose-effetto con gli eventi CV che è uno dei criteri per stabilire il nesso di causalità tra l’uso di un farmaco e gli eventi avversi. Pur con queste limitazioni, numerosi studi osservazionali sono stati proposti nel corso degli anni, al fine di valutare l’impatto delle sulfoniluree sulla mortalità e sul rischio di eventi cardiovascolari (2-6) Le evidenze disponibili sono eterogenee, ed è difficile trarre delle conclusioni solide. Infatti, alcuni articoli documentano un eccesso di rischio associato all’uso di tali molecole (7-9), altri riportano un effetto neutro (10-12) e più di rado la terapia con sulfoniluree è stata associata ad una riduzione della mortalità (13-14). Analogamente, gli studi che hanno confrontato la terapia combinata con sulfoniluree e metformina rispetto ad un gruppo di controllo (monoterapia o sola dieta) hanno prodotto risultati variabili (15-16). Tuttavia gli studi più recenti condotti su ampi data base amministrativi a livello nazionale e registri di patologia, propendono, con poche eccezioni, per un più elevato rischio di mortalità totale e/o cardiovascolare o occorrenza di endpoint combinati di eventi cardiovascolari maggiori (MACE) associati all’uso di sulfoniluree, in confronto alla metformina come terapia di prima linea ed in confronto agli inibitori della DPP-4 come terapia di seconda linea in aggiunta alla metformina (2-3). Anche in questi casi, comunque, nonostante l’elevato potere statistico permangono i limiti degli studi osservazionali di cui si è già detto.
Proprio a causa della elevata probabilità di “bias da indicazione” negli studi osservazionali le informazioni più attendibili derivano dalle sperimentazioni cliniche randomizzate. In tal caso, infatti, i pazienti hanno tutti la stessa probabilità di essere assegnati ad uno dei trattamenti in studio, i gruppi di trattamento sono generalmente ben bilanciati rispetto a varie caratteristiche cliniche (incluso evidentemente il rischio di eventi cardiovascolari), e l’adesione alla terapia viene attentamente monitorata. Deve tuttavia essere sottolineato che gli studi di intervento in cui sono state usate le sulfoniluree con l’intento di valutarne gli effetti cardiovascolari non sono numerosi come quelli osservazionali e, pertanto, i dati disponibili derivano da analisi secondarie di trials disegnati con altri obiettivi e quindi presentano numerosità e durata di osservazione generalmente insufficienti per valutare gli effetti sugli eventi CV.
Certamente il trial clinico che più ha influito sul nostro modo di trattare i pazienti con diabete di tipo 2 è stato l’UKPDS (17-18). Come noto, lo scopo principale dello studio UKPDS era quello di paragonare, in pazienti di nuova diagnosi e nel corso di 10 anni di follow-up, il trattamento convenzionale (principalmente con la sola dieta) con un trattamento “intensivo” farmacologico, comprendente metformina, clorpropamide, glibenclamide o insulina. I risultati di questo trial indicavano che i pazienti assegnati ai vari trattamenti intensivi ottenevano un miglior controllo glicemico rispetto a quelli in terapia convenzionale (HbA1c: 7.0 vs 7.9%, intervallo 6.2-8.2% vs 6.9-8.8 nell’UKPDS 33), e che per quanto riguarda gli effetti sul controllo del diabete nonché quelli sugli end-point vascolari (compresi quelli a livello cardiocircolatorio) si avevano risultati simili con clorpropamide, glibenclamide e insulina. Di notevole interesse anche i dati ottenuti successivamente, a seguito di ulteriore follow-up di questi pazienti. Infatti, i risultati della analisi a 10 anni dalla fine dell’UKPDS hanno documentato come il controllo metabolico intensivo con glibenclamide o insulina si associasse ad una riduzione significativa del 15% nell’incidenza di infarto e del 13% della mortalità totale, oltre a una riduzione del 24% delle complicanze micro-vascolari (19). Questo avveniva nonostante i livelli di HbA1c nei due bracci dello studio (terapia intensiva verso terapia convenzionale) fossero diventati sovrapponibili a cinque anni dopo la chiusura della parte sperimentale dello studio, suggerendo che un controllo intensivo precoce (ottenuto, come abbiamo detto, mediante uso di glibenclamide o insulina) determina benefici duraturi nel tempo (memoria metabolica). Inoltre, in questo studio gli eventi cardiovascolari non erano significativamente diversi nei pazienti trattati con glibenclamide rispetto a quelli trattati con insulina.
Ulteriori dati derivano dallo studio ADVANCE, nel quale 11,140 pazienti con diabete di tipo 2 (un terzo con pregresso evento CV maggiore) sono stati randomizzati a controllo metabolico intensivo, che mirava a raggiungere valori di HbA1c ≤6.5%, o al controllo standard (70). La terapia antidiabetica nel gruppo intensivo era basata sulla gliclazide a rilascio modificato, alla quale poteva essere aggiunto qualsiasi altro farmaco. Nel braccio intensivo, oltre il 90% dei pazienti erano in trattamento a fine studio con la gliclazide, associata a metformina nel 73.8% dei casi e a insulina nel 40.5% dei casi; nel gruppo di controllo, il 57% dei pazienti era in trattamento con una sulfonilurea diversa dalla gliclazide. Dopo una mediana di follow-up di 5 anni, la terapia intensiva era associata ad una riduzione significativa del 21% delle complicanze renali, ma non degli eventi cardiovascolari, anche se, comunque, questi non erano aumentati nel gruppo di trattamento intensivo in cui quasi tutti i pazienti erano trattati con gliclazide (20).
Altri dati derivano da un’analisi post-hoc dello studio DIGAMI-2, nel quale 1181 pazienti con diabete di tipo 2 sono stati seguiti per una mediana di 2.1 anni dopo il ricovero per infarto acuto del miocardio (21). In tale studio è stato valutato il rischio di morte e di infarto e ictus non fatali in base alla terapia alla dimissione (sulfoniluree nel 22.8% dei pazienti). L’analisi dei dati di mortalità, corretta per livello di controllo metabolico, non ha mostrato differenze significative fra i trattamenti ipoglicemizzanti. Per quanto riguarda gli eventi non fatali, il trattamento con insulina era associato ad un eccesso di rischio di circa il 70%, l’uso di metformina ad una riduzione del rischio intorno al 35% e l’impiego di sulfoniluree non si associava a modifiche significative del rischio.
In una rassegna nella Cochrane Library sull’uso delle sulfoniluree come monoterapia Hemmingsen e coll hanno analizzato tutte le pubblicazioni disponibili fino all’agosto 2011 (utilizzando The Cochrane Library, MEDLINE, EMBASE, Science Citation Index Expanded, LILACS e CINAHL) riguardanti trials clinici randomizzati con una durata di almeno 6 mesi, in cui fossero stati randomizzati pazienti con diabete di tipo 2 di età superiore a 18 anni (68). Gli outcome primari considerati sono stati la mortalità per tutte le cause e quella per cause cardiovascolari. Venivano così selezionati 72 studi con 22.589 partecipanti, di cui 9.707 randomizzati a sulfoniluree. Nel complesso, la durata dell’intervento farmacologico variava da 6 mesi a 10.7 anni. Gli autori riportavano che le sulfoniluree di seconda generazione, compresa la glibenclamide, non erano associate ad aumentata mortalità per eventi cardiovascolari in confronto a metformina, tiazolidinedioni, insulina, glinidi, o farmaci agenti sul sistema incretinico. Per quanto riguarda gli eventi macrovascolari non fatali la rassegna sistematica riportava che le sulfoniluree di seconda generazione avevano impatto simile a quello dei glitazoni e delle glinidi ma, come atteso, si associavano a un rischio aumentato rispetto alla metformina (22).
Più recentemente Bolen et al hanno compiuto una dettagliata revisione della letteratura per valutare le evidenze su efficacia e sicurezza dei farmaci per il trattamento del diabete di tipo 2 in monoterapia o in duplice terapia con metformina (23-24). In totale, venivano inclusi e analizzati 216 studi, prevalentemente trials, ma anche studi osservazionali di buona qualità. Le molecole considerate sono state la metformina, le sulfoniluree, i tiazolidinedioni, gli inibitori della DPP-4, gli agonisti del GLP-1 e gli inibitori degli SGLT-2. Gli autori evidenziano che negli studi osservazionali da loro esaminati le sulfoniluree erano associate ad un aumento del rischio di mortalità per cause cardiovascolari rispetto alla metformina, senza differenze di rilievo (laddove riportate) tra glibenclamide, glimepiride e glipizide.
Studi pubblicati successivamente non hanno modificato questo scenario. Una meta-analisi di trials clinici con durata di almeno 24 settimane e con ricerca bibliografica aggiornata a marzo 2016 conclude che non ci sono evidenze sufficienti a supporto di differenze significative nella associazione tra ciascuna delle nove classi di farmaci utilizzate attualmente per il trattamento del diabete (in monoterapia o in combinazione) ed il rischio di mortalità totale, mortalità cardiovascolare, eventi cardiovascolari maggiori (25).
Questi dati spiegano perché secondo l’ADA e l’EASD, le sulfoniluree possono essere usate in monoterapia in sostituzione della metformina nel caso che questa non sia tollerata, oppure in duplice terapia con la metformina, o in triplice terapia (Fig. 1). Né la versione più recente dell’algoritmo (79), né quella precedente pongono particolare accento sulla associazione tra sulfoniluree ed aumento di rischio cardiovascolare o mortalità, limitandosi a menzionare con un punto interrogativo la possibilità che le sulfoniluree possano interferire con il precondizionamento ischemico (1).
Le linee guida del NICE (26) consigliano l’uso delle sulfoniluree in terapia duplice o triplice (Tab. 1) in associazione alla metformina e sono sostanzialmente concordanti con le raccomandazioni dell’ADA e dell’EASD, con in più il suggerimento che in caso di diabete sintomatico il trattamento con sulfoniluree possa essere preso in considerazione in alternativa all’insulina. Per quanto riguarda l’algoritmo dell’AACE e dell’ACE (27), le indicazioni all’uso delle sulfoniluree non si discostano da quanto indicato nelle altre linee guida. Negli Standard Italiani per la cura del diabete 2016 (Fig. 2), a cura di AMD e SID, si legge che nei “pazienti che, per età avanzata, fragilità, comorbilità, attività lavorative particolari (es. uso di macchinari o guida protratta di veicoli), sono a rischio di subire o causare conseguenze gravi per una ipoglicemia, è mandatorio, seppure entro i limiti del possibile, non utilizzare i farmaci che provocano ipoglicemia, cioè sulfoniluree, glinidi e insulina. In caso di utilizzo di una sulfonilurea, la glibenclamide, che si associa ad un rischio di ipoglicemia maggiore rispetto ad altre molecole della classe, deve essere evitata”. Queste affermazioni si riferiscono quindi a categorie di soggetti specifiche e ben definite, nelle quali il rischio di ipoglicemia viene sovente accentuato dall’uso delle sulfoniluree in pazienti che presentano controindicazioni a questi farmaci (28). Gli Standard, inoltre riconoscono che nello studio UKPDS e nella sua analisi post-trial (19) le sulfoniluree utilizzate (i.e. clorpropamide e glibenclamide) erano associate ad una morbilità e mortalità cardiovascolare non diverse dal gruppo di controllo e di quello trattato con insulina. Per quanto riguarda poi l’associazione tra uso di sulfoniluree e scompenso cardiaco riportata nella tabella 15 degli Standard, la questione è ancora aperta. Pertanto, ci sembra particolarmente appropriata la conclusione degli Standard su questo argomento: “Dobbiamo tuttavia attendere i risultati di trial clinici randomizzati appropriati, come lo studio TOSCA.IT (Thiazolidinediones Or Sulphonylureas and Cardiovascular Accidents Intervention Trial), condotto dalla SID in collaborazione con l’AMD, per poter avere dati solidi su tale aspetto”.
E, in effetti, i risultati di questo studio, recentemente presentati a Lisbona al Congresso dell’EASD, l’associazione europea per lo studio del diabete, e pubblicati contemporaneamente on line sul Lancet Diabetes and Endocrinology (20) dimostrano chiaramente che gli eventi cardiovascolari totali sono relativamente poco frequenti rispetto a quanto atteso e non sono complessivamente diversi nel gruppo trattato con metformina più sulfoniluree (quasi tutti i pazienti praticavano glimepiride o gliclazide) rispetto a quello trattato con metformina più pioglitazone. Va sottolineato che lo studio, condotto in 57 strutture diabetologiche italiane distribuite su tutto il territorio nazionale, ha coinvolto più di tremila pazienti con diabete tipo 2 non adeguatamente compensati con metformina in monoterapia e ha avuto una durata media di circa cinque anni. Oltre agli eventi cardiovascolari, lo studio ha valutato l’impatto di queste due strategie terapeutiche sui parametri del controllo glicemico e sui possibili effetti collaterali. Ebbene, per l’intera durata dello studio nei pazienti trattati con una sulfonilurea in più dell’80% dei casi si riusciva a mantenere un compenso glicemico soddisfacente senza dover ricorrere a terapie di salvataggio, le crisi ipoglicemiche severe che richiedevano l’intervento di terzi sono state registrate nel 2% dei pazienti in trattamento con sulfoniluree e l’aumento di peso era contenuto (meno di due chilogrammi). Tuttavia, occorre precisare che, a fronte di questi buoni risultati ottenuti con le sulfoniluree, i pazienti in trattamento con pioglitazone, anche se interrompevano più frequentemente il trattamento prescritto (principalmente in conseguenza dei sospetti sulla sicurezza del farmaco), sperimentavano un effetto ipoglicemizzante più duraturo nel tempo, un minore ricorso alla terapia insulinica per il controllo della iperglicemia, un minore rischio di crisi ipoglicemie e una ridotta incidenza di eventi cardiovascolari ischemici (questa ultima analisi è una analisi “post-hoc” condotta dopo esclusione dei pazienti che avevano abbandonato la terapia prescritta).
Conclusioni
Le sulfoniluree sono farmaci di notevole importanza nel trattamento del diabete mellito di tipo 2, in alternativa o in associazione agli altri antidiabetici orali. Sebbene con qualche controversia, i dati a disposizione, soprattutto quelli provenienti dagli studi di intervento randomizzati, non dimostrano che le sulfoniluree siano associate a rischio significativamente maggiore di mortalità totale o cardiovascolare o ad una maggiore morbidità cardiovascolare fatta eccezione, probabilmente, per il confronto con la metformina e con gli inibitori del DDP-4. Resta tuttavia non spiegato se, e in che misura, l’eccesso di rischio cardiovascolare riportato per le sulfoniluree in confronto a queste due ultime classi di farmaci possa essere spiegato da un effetto “protettivo” di metformina ed inibitori della DPP-4 piuttosto che da un effetto avverso delle sulfoniluree. I risultati dello studio TOSCA.IT (29) offrono un’ulteriore rassicurazione sull’efficacia e la sicurezza di questa classe di farmaci (in particolare su glimepiride e gliclazide che erano pressoché gli unici utilizzati) e fornisce importanti elementi di riflessione su questo “vecchio” farmaco considerato da molti come un inutile residuo del passato. A nostro parere, le caratteristiche metaboliche e di sicurezze di questi farmaci unitamente al loro bassissimo costo, alla reperibilità in tutti i paesi del mondo – anche quelli economicamente più svantaggiati – ed alla consolidata esperienza sul loro uso, inducono a ritenere che abbiano ancora un ruolo importante nell’armamentario terapeutico per la cura del diabete tipo 2.
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Sono ancora attuali le sulfoniluree?
Saula Vigili de Kreutzenberg
Le sulfoniluree (SU) hanno rappresentato per decenni, in passato, la terapia orale del diabete tipo 2, in alternativa o in associazione alle biguanidi. Nel 1997 l’FDA autorizzò la prima commercializzazione dei glitazoni e successivamente sono stati resi disponibili, per il trattamento del diabete tipo 2, i farmaci incretinici (DPP4-inibitori e GLP1-recettori agonisti) e le gliflozine (SGLT2-inibitori), di cui abbiamo a disposizione un ragguardevole numero di molecole. Tutti questi farmaci, compresa la metformina, a differenza delle SU, si associano ad un basso rischio di ipoglicemia, complicanza invece frequente e temibile con l’uso delle SU, così come con la terapia insulinica. Il rischio di ipoglicemia è la principale limitazione che deve essere tenuta in considerazione nella prescrizione di una SU. Questa tematica e gli altri possibili effetti collaterali di questa classe di farmaci secretagoghi, che ne suggeriscono un uso circostanziato se non addirittura la controindicazione, specialmente in particolari gruppi di pazienti, saranno discussi nei prossimi paragrafi. Va peraltro ricordato che non tutte le SU sono “uguali”.
Sulfoniluree e ipoglicemia
Le SU sono potenti farmaci ipoglicemizzanti che stimolano la secrezione di insulina endogena legandosi ad un recettore specifico (SulphonylUrea Receptor-1) di un complesso macromolecolare connesso ai canali del potassio ATP-dipendenti, posto sulla membrana della beta-cellula. Il legame SU-recettore blocca l’ingresso del potassio nella cellula; quando il flusso del potassio all’interno della beta-cellula si riduce a zero, la membrana cellulare si depolarizza, favorendo l’ingresso dello ione calcio nel citosol, con conseguente contrazione dei filamenti di actomiosina, responsabile dell’esocitosi dell’insulina (1). Il rilascio dell’insulina indotto dalle SU è indipendente dal valore glicemico e pertanto il rischio di ipoglicemia è particolarmente elevato. Nelle linee-guida nazionali e internazionali (2-4), le SU sono considerate una delle terapie di seconda scelta per il diabete tipo 2, in associazione a metformina o a qualsiasi altro farmaco antidiabetico, compresa l’insulina, anche se il razionale di un’associazione SU/insulina è discutibile e potenzia il rischio di ipoglicemia (5). La riduzione dell’emoglobina glicata che si ottiene con SU è dell’1-2%.
Il principale svantaggio della terapia con SU è, come già anticipato, il rischio di ipoglicemia grave. L’ipoglicemia è un importante problema clinico in termini di qualità di vita, rischio di cadute, coma, talora morte, ricoveri ospedalieri, di costi sanitari, ma anche di compliance terapeutica. Almeno il 20% dei pazienti trattati con SU presenta ipoglicemie sintomatiche durante i primi 6 mesi di trattamento e probabilmente la reale prevalenze è maggiore, se consideriamo le ipoglicemie asintomatiche che non vengono registrate (6). Nello studio Action in Diabetes and Vascular Disease Pretarax and Diamicron Modified Release Controlled Evaluation (ADVANCE), l’ipoglicemia grave era chiaramente associata ad un aumentato rischio di eventi microvascolari, macrovascolari e morte (7). In una metanalisi che ha incluso 25 trials controllati randomizzati, lo 0,8% (95% confidence interval [CI]: 0.5-1.3%) dei pazienti in terapia con SU presentava almeno 1 episodio di ipoglicemia grave nel corso del periodo di osservazione compreso tra 12 e 104 settimane (8). In uno studio “real-life” condotto in Germania e in Austria, l’incidenza di ipoglicemia grave nei pazienti trattati con SU, presso centri specializzati, è risultata invece pari a 3,9\100 pazienti-anno (5). In questa coorte un’età più elevata e una maggior durata di diabete differivano significativamente in confronto a pazienti con episodi ipoglicemici non gravi. Altre variabili significativamente associate all’ipoglicemia grave erano la mancanza di educazione terapeutica, il sesso femminile, un basso BMI e bassi valori di pressione arteriosa diastolica e trigliceridi. In una nostra casistica, circa la metà dei ricoveri ospedalieri per ipoglicemia grave, nel diabete tipo 2, è risultata imputabile a terapia con SU, mentre l’altra metà alla terapia insulinica (9). In uno studio americano che ha valutato i ricoveri urgenti secondari a effetti sfavorevoli dei farmaci, in pazienti di età >65 anni, oltre il 94% degli accessi dei pazienti trattati con terapia endocrinologica era da attribuire ad ipoglicemia grave; insulina e antidiabetici orali rappresentavano rispettivamente la seconda e la quarta classe di farmaci maggiormente responsabili: il 10,7% degli accessi era attribuibile agli antidiabetici orali, il 13,9% all’insulina (10). Le SU, in confronto all’insulina inducono più frequentemente uno stato di coma e i pazienti ricoverati per ipoglicemia grave da SU necessitano di un ricovero di più lunga durata (9). L’età, l’insufficienza renale cronica ed il decadimento cognitiva o la demenza rappresentano i principali determinati dell’ipoglicemia grave, nel paziente trattato con SU (11). I risultati dei trials randomizzati controllati e le metanalisi suggeriscono che l’ipoglicemia grave si associa ad un rischio di eventi cardiovascolari circa doppio (7,12) e tale rischio appare indipendente dalla presenza di comorbidità anche severe (13). Inoltre, ipoglicemie gravi ripetute si associano ad un maggior rischio di demenza nei pazienti diabetici tipo 2 anziani (14). Anche gli episodi ipoglicemici asintomatici sono frequenti nei pazienti trattati con SU (15).
Le SU a più lunga durata d’azione sono quelle maggiormente responsabili di ipoglicemia grave, anche perché possono inibire il rilascio di glucagone, fondamentale ormone della controregolazione (16). Tra tutte, glibenclamide (gliburide), che ha un’emivita di eliminazione di circa 10 ore, è la SU con il maggior rischio di ipoglicemia (17) e soprattutto per questo motivo, oltre che per la sua sfavorevole azione a livello miocardico (vedi oltre), il suo utilizzo è controindicato nel paziente cardiopatico, nel paziente fragile, anziano ed in particolare se affetto da insufficienza renale. È noto infatti che una ridotta filtrazione glomerulare rallenta la clearance, determinando un accumulo del farmaco e dei suoi metaboliti attivi, aumentandone la durata d’azione e conseguentemente potenziando il rischio di ipoglicemia. Una progressiva riduzione della eGFR si associa ad un progressivo e significativo incremento del numero di episodi ipoglicemici gravi (5). La glibenclamide e i suoi metaboliti attivi, in particolare, sono eliminati a livello renale; pertanto il farmaco è sconsigliato in presenza di valori di eGFRs <60 mL/min/1.73 m2 (3). È dimostrato infine che anche la paura dell’ipoglicemia per sé da sola esercita un impatto negativo sulla gestione del diabete, sul controllo metabolico e conseguentemente sullo stato di salute del paziente (18).
Tutte queste evidenze suggeriscono che minimizzare o possibilmente abolire il rischio di ipoglicemia deve essere un obiettivo primario nella gestione del diabete tipo 2: la terapia con SU rappresenta un non trascurabile fattore di rischio per questa temibile complicanza.
Sulfoniluree e sicurezza cardiovascolare
Un altro importante aspetto che riguarda la terapia con SU è la “safety” cardiovascolare, in quanto è stato da tempo segnalato un aumento di eventi e morte cardiovascolare nei pazienti trattati con questi farmaci. Nel 1970 furono pubblicati i risultati dello studio University Group Diabetes Program, che per primo sollevò il dubbio di un aumentato rischio di morte cardiovascolare nei pazienti che assumevano tolbutamide, una SU di prima generazione (19). Benché lo studio presentasse importanti limitazioni, l’ipotesi di un impatto negativo sul sistema cardiovascolare da parte delle SU fu indagata negli anni successivi. Furono soprattutto studi di tipo osservazionale (20) a dimostrare un maggior numero di eventi e mortalità cardiovascolare nei pazienti trattati con SU, mentre gli studi controllati randomizzati (RCTs), molto meno numerosi, hanno fornito risultati contrastanti, o perché non erano stati disegnati con tale finalità, o perché non raggiungevano la necessaria potenza statistica. Pertanto molti di questi studi sono inficiati da importanti bias di selezione o legati al disegno dello studio.
Nell’UK Prospective Diabetes Study (UKPDS), (21) e nello studio A Diabetes Outcome Progression Trial (ADOPT) (22) non fu dimostrata nessuna associazione tra trattamento con SU ed eventi CV, sebbene entrambi questi trials presentassero le suddette limitazioni interpretative. Nello studio RECORD, gli eventi cardiovascolari sono stati simili nei pazienti trattati con glibenclamide o con rosiglitazione (23). In altri trials che hanno studiato gli effetti cardiovascolari della terapia antidiabetica, l’esposizione a SU non rappresentava un criterio di randomizzazione. Nello studio Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes (ACCORD) (24), in cui l’outcome primario includeva eventi compositi di infarto e ictus non fatali e morte per causa cardiovascolare, i regimi terapeutici non erano randomizzati; in entrambi i gruppi era presente un’elevata proporzione (>65%) di soggetti trattati con glimepiride, la sola SU approvata nel trial. Limitazioni simili sono presenti anche nel disegno degli studi DIGAMI 2 (25), VADT (26), RECORD (23), ORIGIN (27) e SAVOR-TIMI 53 (28), non permettendo di trarre conclusioni su questo importante quesito clinico. Anche lo studio ADVANCE, che ha confrontato un gruppo di soggetti in terapia con gliclazide a rilascio modificato vs un gruppo in trattamento convenzionale, contava in quest’ultimo un’elevata percentuale di soggetti trattati con un’altra SU, diversa da gliclazide a rilascio modificato e pertanto non ha potuto fornire conclusioni in merito agli effetti cardiovascolari di questa categoria di farmaci (29).
In uno studio osservazionale danese che ha valutato gli infarti del miocardio, glibenclamide, glipizide e tolbutamide risultavano associate ad un aumento della mortalità entro 1 anno (30).
Benché l’impatto delle diverse SU su eventi e morte cardiovascolari non sia sovrapponibile, un incremento della mortalità e degli eventi CV è stato osservato con la maggior parte delle SU in monoterapia, ovvero glimepiride, glibenclamide, glipizide e tolbutamide, in pazienti con o senza pregressa cardiopatia ischemica (31). Per quanto riguarda nello specifico l’ictus ischemico, le evidenze riguardanti l’utilizzo di SU non sembrano favorevoli. Mentre per alcuni farmaci antidiabetici, come pioglitazione e semaglutide sono stati dimostrati effetti protettivi indipendenti dal controllo glicemico nei confronti dell’ictus, le SU sono risultate neutre (32) o associate a maggior rischio (33). Inoltre, glimepiride si è dimostrata meno efficace, rispetto al pioglitazone, nel ridurre la progressione dello spessore intimo-mediale carotideo, un marcatore di aterosclerosi subclinica e predittore di stroke (34).
Una recente analisi di meta-regressione che ha cercato di interpretare i risultati degli studi osservazionali ha concluso che la terapia con SU si associa ad un maggior rischio relativo di eventi CV negli studi che presentano: possibili bias inerenti il disegno sperimentale, che utilizzano la metformina come farmaco di confronto e in cui viene considerata la mortalità come outcome (35). Gli Autori non osservavano invece un aumento del rischio negli studi che non presentano bias legati al disegno sperimentale, in cui viene utilizzato come confronto un farmaco diverso dalla metformina e che considerano come outcomes gli eventi cardiovascolari complessivi (35). L’interpretazione dei risultati degli studi è quindi estremamente complessa e nonostante un effetto sfavorevole sul sistema cardiovascolare sia stato più volte descritto, le conclusioni non sono definitive e l’argomento rimane oggetto di studio.
Le SU possono nuocere al sistema cardiovascolare in maniera diretta, alterando il precondizionamento ischemico ed espletando effetti proartmici (vedi oltre). A prescindere da questi effetti sfavorevoli specifici, a livello cardiaco, il già discusso aumentato rischio di ipoglicemia, l’aumentata produzione di proinsulina, l’incremento ponderale ed in particolare del grasso viscerale e la ritenzione idrica legati all’uso delle SU rappresentano indiscussi noti fattori di rischio cardiovascolare (36), suggerendo di limitare l’utilizzo di questi farmaci, per ridurre il rischio cardiovascolare di per sé già elevato nel diabete tipo 2.
Anche l’ipoglicemia gioca un ruolo fondamentale nel rischio di eventi e morte CV (37) in quanto è una condizione proaritmica e può innescare un’aritmia fatale sia attraverso modifiche del tono autonomico cardiaco, sia tramite un’alterata ripolarizzazione, soprattutto nei pazienti che già presentano un rischio elevato. Le aritmie sembrano più frequenti durante gli episodi di ipoglicemia notturna, quando prevale il tono vagale, piuttosto che diurna. Durante la notte, un’eccessiva attivazione vagale compensatoria, durante la fase di controregolazione, potrebbe indurre bradicardia, con conseguente attivazione di pacemakers latenti. Questo meccanismo può innescare aritmie fatali come la torsione di punta (37). Un’aumentata dispersione dell’intervallo QT e un prolungamento del QTc, che possono contribuire all’innesco di aritmie fatali sono stati descritti in corso di ipoglicemia da SU (15). In pazienti trattati con SU e/o insulina, Sthan et al, mediante la registrazione contemporanea e continua di glicemia interstiziale (GCMS) e holter cardiaco per 5 giorni, hanno osservato un’elevata incidenza di episodi asintomatici di ipoglicemia grave (<3,1 mmol/L), mentre nessun episodio veniva registrato nel gruppo di controllo, trattato con metformina e/o DPP4-inibitori (38). I pazienti che manifestavano ipoglicemia severa presentavano anche un più elevato numero di episodi di aritmie ventricolari gravi. Inoltre, utilizzando il monitoraggio continuo della glicemia, De Souza et al. hanno riscontrato una frequenza maggiore di episodi di dolore retrosternale durante episodi ipoglicemici, suggerendo un’aumentata incidenza anche di episodi ischemici (39).
Recentissimi sono i risultati dello studio Thiazolidinediones or Sulfonylureas and Cardiovascular Accidents Intervention (TOSCA.IT), promosso dalla Società Italiana di Diabetologia (40), che ha valutato gli effetti del trattamento a lungo termine di pioglitazone verso SU, in aggiunta a metformina, sugli eventi cardiovascolari, nel diabete tipo 2. L’incidenza di eventi è stata simile nei due bracci di trattamento. Va però specificato che il 50% dei pazienti trattati con SU assumeva gliclazide, che è riconosciuta come la SU più “safe” da un punto di vista cardiovascolare, mentre il 48% assumeva glimepiride, cui pure, nella maggior parte degli studi, viene attribuita sicurezza cardiovascolare. Solamente il 2% dei pazienti era trattato con glibenclamide. Inoltre, la prevalenza di malattia cardiovascolare era decisamente bassa (11%) nella popolazione arruolata e l’incidenza annuale di eventi è stata inferiore all’atteso, riducendo la potenza statistica dello studio. Ancora, il trattamento con SU rispetto a pioglitazione si associava ad un numero significativamente maggiore di eventi ipoglicemici e ad una minor efficacia a lungo termine. Pertanto questo studio sottolinea ancora una volta che il rischio di ipoglicemia è comune a tutte le SU, che la loro efficacia nel tempo può essere compromessa, che probabilmente non tutte le molecole mostrano lo stesso impatto da un punto di vista di sicurezza cardiovascolare; tali argomento saranno discussi nel paragrafo successivo.
A tutt’oggi, quindi, le conclusioni riguardanti possibili effetti sfavorevoli delle SU sugli outcomes cardiovascolari sono avvallate da numerose osservazioni, sono più evidenti per alcune molecole, ma rimangono non definitive. Restiamo in attesa dei risultati di ulteriori studi randomizzati controllati, disegnati con questo specifico obiettivo, quali il CARdiovascular Outcome Trial of LINAgliptin Versus Glimepiride in Type 2 Diabetes (CAROLINA) e lo studio Glycemia reduction Approaches in Diabetes: A Comparative Effectiveness Study (GRADE), che saranno conclusi prossimamente.
Tutte le molecole sono uguali?
Le SU sono considerate come un’unica classe di farmaci, nonostante vi siano ampie differenze nelle proprietà farmacologiche delle singole molecole, quali l’effetto sulla secrezione insulinica, la durata d’azione, il metabolismo del farmaco, l’affinità e la specificità per i diversi sottotipi di recettori delle SU (SUR), il rischio di ipoglicemia e la capacità di abolire il precondizionamento ischemico. Il precondizionamento ischemico (PCI) è un meccanismo cardioprotettivo, per cui ripetuti episodi ischemici aiutano il cuore a proteggersi nei confronti di ulteriori ischemie, limitando il danno ischemico e l’area infartuale. Il PCI è mediato dai canali del potassio ATP-dipendenti, sito di azione delle SU, che a livello cardiaco si aprono in risposta allo stress ischemico. Alcune SU sono in grado di interagire anche con i canali del potassio dei cardiomiciti, impedendone l’apertura e in tal modo attenuano o aboliscono il PCI. Inoltre il blocco di questi canali può prevenire l’accorciamento della durata del potenziale d’azione, favorendo l’accumulo di calcio intracellulare, che a sua volta potrebbe precipitare pericolose aritmie nel periodo post-depolarizzazione (41).
Mentre gliclazide e glipizide si legano specificatamente ai recettori pancreatici SUR1, stimolando principalmente la secrezione insulinica, glimepiride e glibenclamide non sono specifiche per il pancreas, ma antagonizzano entrambi i recettori pancreatici SUR1 e i recettori SUR2, presenti nei cardiomiociti e nelle cellule muscolari lisce vascolari (42-43). I recettori SUR2 mediano il precondizionamento ischemico ed è stato dimostrato che glibenclamide è in grado di abolire questo meccanismo di protezione contro l’ischemia, determinando disfunzione miocardica (44-45). Rimane da chiarire se le differenze inerenti le proprietà farmacologiche delle singole molecole esitino in un differente rischio di eventi e/o morte CV, anche se negli studi osservazionali le SU con maggiore affinità miocardica si associano a maggiore mortalità, in confronto ad altri farmaci della stessa classe (46-47). Una revisione sistematica della letteratura, che ha confrontato l’impatto delle SU sulla mortalità, ha dimostrato che gliclazide e glimepiride si associavano a ridotta mortalità CV e per tutte le cause in confronto ad altre molecole della stessa classe (48). Se le singole SU, che presentano differenti selettività tissutali e differente rischio di ipoglicemia, possano differire anche in termini di mortalità e rischio di eventi cardiovascolari è stato indagato da Simpson e coll. (49) in una recente metanalisi. Questi Autori hanno riscontrato un rischio relativo di morte, rapportato alla glibenclamide, significativamente inferiore solo per gliclazide (0,65; CI 0,53-0,79) e borderline per glimepiride (CI 0,83; 0,68-1.00) mentre per glipizide, tolbutamide e clorpropamide il rischio non differiva significativamente rispetto a glibenclamide. Simili associazioni si osservavano per la mortalità cardiovascolare, inducendo gli Autori a concludere che gliclazide e glimepiride presentano un minor rischio di mortalità rispetto a glibenclamide. Va sottolineato ancora una volta che la maggior parte degli studi inseriti nella metanalisi erano però osservazionali e pertanto con possibili bias di selezione riguardanti le popolazioni studiate, i diversi disegni sperimentali, la scelta delle variabili e degli aggiustamenti applicati.
Come discusso, i risultati finora ottenuti non sono conclusivi nell’attribuire alle SU un indiscusso effetto dannoso sul sistema cardiovascolare (49-51); tuttavia, in presenza di sicure e valide alternative terapeutiche, la terapia con SU va attentamente considerata. In particolare, l’utilizzo di glibenclamide, soprattutto nel paziente con cardiopatia ischemica, che presenta per sé un aumentato rischio di morte cardiovascolare è controindicato sia per l’elevato rischio di ipoglicemia, sia perché abolisce il precondizionamento ischemico.
Nello studio UKPDS il 17,7% dei pazienti trattati con glibenclamide presentava almeno 1 episodio ipoglicemico nel corso di un anno, a fronte dell’11,0% dei pazienti trattati con clorpropamide (21). Una metanalisi di studi randomizzati controllati ha dimostrato che i pazienti trattati con glibenclamide presentavano un rischio di manifestare almeno 1 episodio di ipoglicemia del 52% superiore in confronto ad altre SU (RR 1.52 [95 % CI, 1.21-1.92]) (17).
Attualmente gliclazide viene considerata la molecola più maneggevole tra le SU. In confronto a glimepiride gli episodi di ipoglicemia con gliclazide RM sono più che dimezzati, a parità di efficacia (52). Nel confronto con altri agenti insulinotropi (altre sulfoniluree, glinidi, DPP-4 inibitori), gliclazide ha mostrato un’efficacia sovrapponibile, in termini di riduzione di HbA1c, senza differenze per quanto riguarda le ipoglicemie, ma in confronto alle altre SU, il rischio di ipoglicemia era significativamente ridotto (53). Anche gli Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito (3) suggeriscono per la gliclazide una maggior sicurezza cardiovascolare, per la sua bassa affinità miocardica. Infine, in presenza di insufficienza renale, mentre è sconsigliabile l’impiego di glibenclamide, glimepiride e gliclazide possono essere titolate in base all’entità della ridotta eGFR. La glipizide e il gliquidone hanno prevalente metabolismo epatico e pertanto potrebbero essere preferibili in presenza di insufficienza renale. Nella scelta di una SU, il diabetologo deve dunque affinare la personalizzazione della terapia, considerando non solo le caratteristiche del paziente, ma anche le peculiarità farmacologiche delle diverse SU.
“Primary” e “Secondary failure”
Le SU presentano inoltre un basso livello di aderenza e sono gli ipoglicemizzanti che mostrano la minore persistenza di effetto sulla HbA1c (54). In generale si definisce “primary failure” un’inadeguata risposta glicemica alla terapia con SU, dopo un periodo di trattamento a breve termine (<12 settimane) (55), mentre “secondary failure” si definisce la condizione in cui non siano più mantenuti i targets glicemici con la terapia, dopo un periodo di trattamento a lungo termine, descritto dai diversi studi tra 1 e 7,5 anni (54, 56-57). La primary failure viene inoltre definita da una riduzione della glicemia plasmatica a digiuno <10% rispetto al basale, dopo 4 settimane di aggiustamento terapeutico e 8 settimane di mantenimento della terapia con glipizide 5 mg (55), oppure come una riduzione delle glicemia plasmatica a digiuno (FPG) <20 mg/dl, dopo un’iniziale risposta, con riduzione della FPG >30 mg/dl (58). Più ampia è la definizione della FPG per la secondary failure: nell’UKPDS veniva definita da un valore di FPG >270 mg/dl o dalla presenza di sintomi tipici di iperglicemia, mentre nello studio ADOPT il fallimento terapeutico veniva considerato per valori di FPG >180 mg/dl, mentre più recentemente il fallimento secondario è stato definito dalla persistenza di FPG >126 mg/dl.
La secondary failure viene imputata ad un declino della funzione beta-cellulare piuttosto che attribuita al farmaco in sé. Sesti et al hanno dimostrato che i portatori di una particolare variante dei canali potassio ATP-dipendenti, che dovrebbero presentare una ridotta secrezione insulinica, sono ad aumentato rischio di fallimento secondario (59). Possibili fattori non genetici predittori di secondary faillure, sono risultati essere l’HbA1c e la glicemia a digiuno, mentre sesso, età, indice di massa corporea e durata di diabete non influirebbero sull’efficacia a lungo termine delle SU (60, 61). Nell’UKPDS, oltre allo scarso controllo glicemico, una ridotta riserva beta-cellulare e un’aumentata insulino-resistenza, come pure una maggior durata di malattia si associavano ad una più frequente fallimento terapeutico con SU (54). È stato calcolato che, in un periodo di 6 anni, il 44% dei soggetti randomizzati a SU hanno presentato fallimento a questa terapia, il che significa che annualmente il 5-7% dei pazienti trattati con una SU dovevano essere indirizzati ad altra terapia (54).
Meno studi hanno indagato le cause di primary failure, ma i meccanismi che determinano il fallimento primario alle SU sembrano diversi da quelli che portano al fallimento secondario. I pazienti che sviluppano fallimento primario presentano solitamente un miglior controllo glicemico e una migliore riserva beta-cellulare (62). In particolare i pazienti diabetici tipo 2 con un elevato disposition index (DI), espressione della funzione beta-cellulare, e migliore insulino-sensibilità (basso HOMA-IR), quindi più basso FPG, erano quelli che maggiormente presentavano primary failure alle SU. La prevalenza della primary failure è stata descritta variabile dal 12 al 48% (62).
La possibile mancata risposta al trattamento con SU va dunque considerata un ulteriore limite della terapia con SU, in quanto potrebbe favorire una dannosa inerzia terapeutica.
Conclusione
Il rischio di ipoglicemia, l’incremento ponderale, la scarsa persistenza dell’effetto terapeutico, la dubbia sicurezza cardiovascolare, oltre alla disponibilità di terapie altrettanto efficaci e più sicure per il trattamento del diabete tipo 2 sono tutti validi motivi da tenere in attenta considerazione prima di prescrivere una terapia con sulfoniluree. Inoltre, i farmaci di questa classe presentano caratteristiche differenti tra loro e alcuni sono controindicati, in particolare per specifici sottogruppi di pazienti. Ancora una volta, l’individualizzazione della terapia e l’ampia disponibilità di farmaci alternativi più appropriati devono guidare il diabetologo nella scelta della terapia più adatta e sicura per il singolo paziente.
Principali caratteristiche delle diverse sulfoniluree disponibili in Italia
Effetti indesiderati associati alla terapia con sulfoniluree
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