Obesità sana: realtà o illusione?

Paolo Sbraccia, Valeria Guglielmi

Dipartimento di Medicina dei Sistemi, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
UOC di Medicina Interna – Centro Medico dell’Obesità, Policlinico Tor Vergata, Roma

DOI: 10.30682/ildia1902a

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Premessa

Certamente i lettori del “Il Diabete” sanno bene che l’obesità è causa di una lunga lista di complicanze cardio-metaboliche, respiratorie, osteoarticolari, psichiatriche e oncologiche, solo per citare le più comuni, che sono responsabili di aumentata morbosità, disabilità e mortalità. Per tali motivi l’obesità dovrebbe essere riconosciuta universalmente come una malattia cronica. Tuttavia, in molti strati della società civile, politica e anche medica, si ritiene ancora che l’obesità sia solo un problema legato a errate e reversibili scelte personali.

La controversia circa la definizione dell’obesità come malattia risale a quasi cento anni fa: “Tutte le malattie, inclusa l’obesità, sono concetti creati dalla mente umana” (1). Oggi, di fronte a una devastante e crescente pandemia, è urgente spostarsi dalla filosofia al pragmatismo, assumendosi le responsabilità di chi conosce bene le conseguenze e le criticità di prevenzione e trattamento dell’obesità. In tal senso, la decisione dell’American Medical Association (AMA) di riconoscere l’obesità come malattia va nella giusta direzione (2). La World Obesity Federation (WOF) sostiene che l’obesità rientra nella definizione di malattia cronica recidivante (3). Infine, l’American Heart Association (AHA), nel suo “goal di impatto per la promozione della salute cardiovascolare (CV) e la prevenzione delle patologie CV” per il 2020 e oltre, definisce un indice di massa corporea (IMC) <25 Kg/m2 la soglia ideale per la salute CV (4). Alla luce di tutto ciò, suona quindi come un ossimoro la definizione di “obesità sana”. Quest’ultima, insieme al cosiddetto paradosso dell’obesità (ovvero il teorico vantaggio, in termini di mortalità, che il sovrappeso e l’obesità di I grado conferirebbero in alcuni ambiti patologici tra cui lo scompenso cardiaco) rappresentano due ostacoli al pieno riconoscimento dell’obesità come malattia. Il concetto del paradosso dell’obesità si basa, il più delle volte, su studi cross-sectional e può derivare da bias statistici (di selezione, di sopravvivenza) o su cali ponderali non intenzionali.

L’obesità sana, intesa esclusivamente in ambito metabolico, è invece l’oggetto di questa Rassegna e, al di là dell’outcome clinico che verrà approfondito nelle pagine che seguono, si basa su dati fisiopatologici certamente consolidati. Cercheremo, quindi, di dare risposta alla seguente domanda: gli obesi metabolicamente sani hanno realmente un profilo di rischio CV migliore?

Introduzione

L’aumento dell’IMC, particolarmente al di sopra del valore soglia utilizzato per la diagnosi di obesità (≥30 Kg/m2), è associato a un aumento della mortalità (5-7). Tuttavia, una metanalisi che ha analizzato i dati provenienti da 2,88 milioni di individui, pur confermando l’associazione tra obesità di II e III grado (IMC ≥35 Kg/m2) e aumentata mortalità per tutte le cause, ha evidenziato come il sovrappeso (IMC ≥25 e <30 Kg/m2) fosse invece paradossalmente associato ad una più bassa mortalità per tutte le cause rispetto alla condizione di normopeso (IMC ≥18,5 e <25 Kg/m2) (8). Questi dati (così come le successive analisi critiche) (9-10) non fanno altro che sottolineare e ricordare la complessità della relazione tra peso corporeo e mortalità nonché il ruolo giocato da altri fattori, più probabilmente metabolici, nel definire la mortalità all’interno di tutte le categorie di IMC.

È ormai ampiamente riconosciuto come soggetti nella medesima categoria di IMC possano presentare una sostanziale eterogeneità delle caratteristiche metaboliche, quali la circonferenza della vita, il profilo lipidico, la tolleranza ai carboidrati e la pressione arteriosa. Agli estremi dei possibili gradi di eccesso ponderale e di compromissione cardio-metabolica, sono stati individuati, diventando presto oggetto di particolare interesse, degli individui obesi privi di alterazioni metaboliche (“metabolically healthy obesity” MHO) e, al contrario, individui che pur essendo normopeso risultano metabolicamente compromessi (“metabolically unhealthy normal weight”, MUNW) (11-13).

Dal momento che gli effetti dell’obesità sulla malattia CV sono in larga parte mediati da altri fattori di rischio cardio-metabolici, nonché componenti della sindrome metabolica quali la dislipidemia aterogena e il diabete tipo 2, gli individui MHO potrebbero rappresentare un sottogruppo di obesi privo dell’atteso e temuto aumentato rischio CV (14).

Criteri diagnostici

Non essendovi accordo sui criteri diagnostici, le stime della prevalenza della MHO risultano molto variabili andando dal 3 al 57% (15).

Nella maggior parte degli studi, la definizione del fenotipo MHO si basa prevalentemente sull’assenza della sindrome metabolica (o di alcune sue componenti) sia negli adulti (12, 16-21) (Tab. 1) che nei bambini/adolescenti obesi (22-28). Nel caso di questi ultimi, le stime sono rese ancor più incerte da una significativa variabilità delle misure antropometriche e dei rispettivi valori soglia adottati per fare diagnosi di obesità (Tab. 2). Alcune definizioni di MHO includono anche l’assenza di infiammazione, documentata da bassi livelli di proteina C reattiva (12, 16).

Caratterizzazione e determinanti di MHO

I dati ad oggi disponibili sembrano indicare che i bambini/adolescenti con MHO siano tendenzialmente più giovani (e in stadi dello sviluppo puberale più precoci), più frequentemente di sesso femminile, con alto peso alla nascita e caratterizzati da una minore adiposità viscerale, da assenza di steatosi epatica, da una preservata sensibilità insulinica, da alte concentrazioni sieriche di adiponectina e da ridotti livelli di transaminasi e di acido urico (25-26, 28-29). Sebbene il precoce aumento del peso sia stato originariamente identificato come un determinante di MHO nei bambini (30), un successivo e più ampio studio danese condotto in adulti obesi di sesso maschile, dei quali era noto l’IMC nell’infanzia, non è stato in grado di confermarlo (31). Al contrario, è stata dimostrata una chiara relazione tra lo sviluppo precoce di obesità, e conseguentemente una più prolungata esposizione a quest’ultima, e l’obesità “metabolically unhealthy” (MUO) (31).

Le evidenze a favore di un ruolo della dieta nella MHO sono ad oggi discordanti. Gli individui MHO e MUO non sembrano differire infatti per introito energetico totale né per introito di macronutrienti (32-35), tanto da portare a esaminare piuttosto i pattern dietetici, gli indici di qualità della dieta e l’aderenza alle raccomandazioni dietetiche.

Uno studio cross-sectional condotto su 2.415 adulti australiani ha riportato che per ogni unità di deviazione standard di miglioramento nel pattern dietetico la probabilità di avere un profilo metabolico favorevole aumentava del 16% (36). Usando i dati del National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) (2007-2008 e 2009-2010), Camhi et al. hanno esaminato la qualità della dieta, valutata mediante l’Healthy Eating Index 2005 (HEI-2005, esso rappresenta una misura della qualità della dieta originariamente creata dal Dipartimento di Agricoltura Statunitense ed in seguito modificata in base alla piramide alimentare), in 133 adolescenti e 1102 adulti obesi (37). I punteggi HEI-2005 sono risultati più alti negli adolescenti e nelle donne MHO (19-44 anni) rispetto ai rispettivi controlli MUO, mentre non sono state osservate differenze significative nel sesso maschile (19-44 o 45-85 anni). L’analisi dei punteggi HEI-2005 per gruppi specifici di alimenti ha mostrato che gli adolescenti MHO consumavano più latte, zuccheri aggiunti, grassi e bevande alcoliche, mentre le donne MHO (19-44 anni) frutta, cereali, carne e legumi (37) rispetto ai controlli MUO.

In un altro studio che ha valutato i Mediterranean Diet Scores (MDS) in 1.739 adulti del NHANES III (1988-1994) con follow-up medio di 18,5 anni, gli individui con MHO aderivano più strettamente alla dieta mediterranea, consumavano meno carne rossa e prodotti caseari ed erano caratterizzati da un più alto rapporto tra acidi grassi monoinsaturi e saturi (38). Inoltre, l’aderenza alla dieta mediterranea era associata a una più bassa mortalità nei soggetti con MHO ma non negli individui con MUO, a suggerire come per questi ultimi siano necessarie strategie dietetiche alternative (38). Similmente, una maggiore aderenza alle raccomandazioni basate sulla piramide alimentare è risultata positivamente associata alla MHO (33).

Il fenotipo MHO sembra essere anche caratterizzato da una migliore fitness cardio-respiratoria (39), tanto che il miglioramento di quest’ultima, anche ottenuto attraverso programmi di intervento (esercizio fisico) di breve durata (14 settimane), è risultato in grado di promuovere la transizione dalla MUO alla MHO (40).

Sono pochi e contrastanti i dati riguardanti gli effetti del calo ponderale ottenuto mediante interventi dietetici sulla MHO. Se alcuni studi hanno evidenziato un minor decremento dell’adiposità totale, del grasso intraepatico e dell’insulino-resistenza negli individui con MHO rispetto a quelli con MUO (41-42), altri studi invece non hanno confermato queste differenze, a suggerire come il calo ponderale sia da promuovere in tutti gli individui obesi a prescindere dal loro stato di salute metabolica (43-44).

Il Beijing Children and Adolescents Metabolic Syndrome study ha analizzato il contributo dei fattori ambientali e genetici nella patogenesi della MHO in individui di 6-18 anni di età (45). Sebbene siano stati esaminati solo 22 polimorfismi a singolo nucleotide (SNPs), il KCNQ1 rs227892 e rs227897 sono risultati predittori indipendenti di MHO. Questo stesso studio ha, inoltre, fornito la prima evidenza del ruolo di interazioni geni-nutrienti (consumo di bevande analcoliche) e geni-ambiente (camminata da casa a scuola) nella predisposizione alla MHO.

Uno studio longitudinale norvegese condotto su circa 4.000 adulti e 1.380 adolescenti, ha rivelato delle nuove associazioni tra alcuni SNPs, già noti per essere coinvolti nella regolazione dell’introito alimentare, della spesa energetica e nel comportamento alimentare, con le variazioni del BMI e della circonferenza vita nel tempo e con il progressivo sviluppo di un fenotipo metabolico sfavorevole (46).

Stabilità del fenotipo MHO nel tempo

Sebbene la MHO sia stata inizialmente ritenuta una condizione clinica a sé stante e pertanto non evolutiva, vi sono crescenti evidenze longitudinali di come la MHO sia in realtà una condizione metabolica intermedia transitoria.

Il Bogalusa Heart Study che ha valutato la stabilità della MHO in 1.098 individui (al reclutamento sia bambini [5-17 anni], che giovani adulti [24-43 anni]) per un periodo medio di 24 anni (24), ha permesso per la prima volta di osservare l’evoluzione del fenotipo MHO nel passaggio dall’infanzia all’età adulta. Questo studio ha mostrato come, sebbene i bambini con MHO avessero una probabilità di diventare adulti con MHO di 2,7-9,3 volte maggiore rispetto ai bambini di altre categorie metaboliche, solo il 13% di questi mantenesse il fenotipo MHO nell’età adulta.

Per quanto riguarda gli adulti, gli studi riportano delle percentuali di partecipanti che transitano da una condizione di MHO ad una di MUO che variano dal 33 al 52% in 4-10 anni di follow-up (47-52) (53). Nel caso di follow-up più lunghi (20 anni), queste stime salgono al 51-84% (54-55).

Che la salute metabolica rappresenti uno stato transitorio non sembra tuttavia prerogativa degli individui obesi, dal momento che anche il 8,5% e il 68% di soggetti normopeso sembra aver perso l’iniziale salute metabolica dopo 4 (47, 56) e 20 anni rispettivamente (55).

Mentre l’IMC e l’aumento di peso non sono risultati predittori significativi della progressione verso un profilo metabolico sfavorevole (51), gli individui con MHO che hanno la maggiore probabilità di transitare verso il fenotipo MUO sarebbero più anziani e caratterizzati da più bassi livelli di colesterolo HDL (51), da più elevate concentrazioni di trigliceridi, emoglobina glicata e proteina C reattiva (52), da un maggior grado di adiposità addominale (51-52) e di insulino-resistenza (49) e, infine, da livelli maggiori di pressione arteriosa (52). Nel loro insieme questi dati appaiono concordi nel sottolineare, quindi, l’importanza di un favorevole profilo lipidico e infiammatorio nel raggiungere e nel mantenere la salute cardio-metabolica.

Rischio cardiovascolare nei MHO

Se la MHO rappresenti una condizione di vera salute negli obesi è stato oggetto di acceso dibattito (57-58). In effetti diversi studi prospettici che hanno valutato lo sviluppo di malattie CV, di diabete e la mortalità nei soggetti con MHO hanno fornito risultati in parte contrastanti. Da un lato, uno studio prospettico della durata di 20 anni ha mostrato come il rischio di stroke e di malattia coronarica e la probabilità di sopravvivenza aumenti all’aumentare del numero di fattori di rischio cardio-metabolico in maniera indipendente dall’IMC (59), a suggerire come la salute metabolica possa essere più importante dell’IMC nel definire il rischio di eventi CV. Anche l’Health Survey for England and the Scottish Health Survey, condotto su 22.303 e con un follow-up di 7 anni (60) così come le stime della mortalità nel NHANES III (follow-up di 12-18 anni) (61), non hanno evidenziato differenze nel rischio di malattia CV e morte per tutte le cause tra i soggetti non obesi metabolicamente sani e quelli con MHO (60-61) che invece presentavano un minor rischio di morte rispetto agli individui con MUO (60). Analogamente, dai dati ottenuti da due grandi coorti (del Coronary Artery Risk Development in Young Adults Study e dell’Atherosclerosis Risk in Communities Study rispettivamente con 18,7 e 20 anni di follow-up) emerge come i soggetti con MHO siano a più basso rischio di diabete tipo 2, malattia CV, stroke e mortalità per tutte le cause rispetto a quelli con MUO, sebbene siano a rischio più alto di diabete rispetto ai controlli non obesi metabolicamente sani (59).

Dall’altro lato, altre evidenze suggeriscono che l’obesità, indipendentemente sia dalla presenza di salute metabolica, sia da come quest’ultima viene definita, comporterebbe un rischio aumentato di morte e di malattie CV, e che pertanto la MHO potrebbe non essere così “sana” come originariamente supposto.

Infatti, nei 17,7 anni di follow-up della coorte del Whitehall II Study, la mortalità, l’incidenza di malattie CV e di diabete sono risultate aumentate in maniera sovrapponibile nei soggetti con MHO e MUO rispetto agli individui normopeso metabolicamente sani (62). Tuttavia, gli individui con MHO presentavano un più basso rischio di sviluppare diabete, ma non malattie CV, degli individui con MUO (63), portando a ipotizzare, quindi, non solo che la MHO non rappresenti una condizione benigna come inizialmente ritenuto, ma anche che i risultati ottenuti nei diversi studi siano fortemente influenzati dall’outcome esaminato nonché dal gruppo di controllo scelto.

In linea con questi dati, anche nei 1.758 soggetti della coorte dell’Uppsala Longitudinal Study of Adult Men (30 anni di follow-up), così come nei 6.011 della coorte del NHANES III (8,7 anni di follow-up), gli individui obesi presentavano, indipendentemente dalla presenza di sindrome metabolica (64) o di alcune sue componenti (65), un maggiore rischio di morte rispetto ai controlli non obesi metabolicamente sani. Anche laddove la diagnosi di obesità era effettuata sulla base della circonferenza vita piuttosto che dell’IMC, come nel caso dei soggetti con MHO della coorte del EPIC-MORGEN (22.654 individui; follow-up di 13,7 anni) presentavano un rischio di mortalità per tutte le cause maggiore degli individui non obesi metabolicamente sani e sovrapponibile a quella dei non obesi metabolicamente compromessi (66). Infine, anche la malattia CV subclinica è risultata maggiore in donne di mezza età con MHO rispetto a donne normopeso metabolicamente sane (67).

Più recentemente, alcuni studi ponderosi (per numerosità del campione e anni di follow-up) hanno contribuito in modo importante a spostare l’ago della bilancia verso la non fondatezza del concetto di MHO. Nel primo di tali studi, condotto su 90.257 donne del The Nurses’ Health Study (20 anni di follow-up), non è emersa alcuna interazione significativa tra IMC e status metabolico nella definizione del rischio CV. Infatti, se da una parte le donne metabolicamente sane presentavano un più basso rischio CV rispetto alle donne con preesistenti alterazioni metaboliche in tutte le categorie di IMC, dall’altra le donne con MHO (o anche sovrappeso metabolicamente sane) avevano un rischio CV maggiore delle donne normopeso metabolicamente sane, anche se la condizione di MHO veniva mantenuta nel tempo (10 o 20 anni) (Fig. 1). Del resto, le donne metabolicamente sane al baseline ma che sviluppavano diabete o ipertensione nel corso del follow-up presentavano un rischio CV sovrapponibile a quello delle donne classificate ab initio come metabolicamente compromesse (55). Pertanto, questi dati suggeriscono un modello nel quale l’eccesso ponderale è fin dall’inizio associato allo sviluppo di alterazioni metaboliche e vascolari subcliniche che giustificherebbero un’aumentata incidenza di eventi CV e mortalità a lungo termine (68).

Questo pattern di obesità non sarebbe quindi sano come inizialmente creduto, quanto piuttosto caratterizzato, stando ai dati di un ponderoso studio prospettico (coorte di 3,5 milioni di individui), e per quanto riguarda in particolare il rischio CV, da un aumento del 49% del rischio di cardiopatia ischemica, del 7% di malattia cerebrovascolare e del 96% di scompenso cardiaco rispetto agli individui normopeso metabolicamente sani (69).

Questi dati indicano quindi la necessità di interventi precoci sullo stile di vita anche per gli individui con MHO al fine di ridurre il loro rischio CV e di prevenire lo sviluppo di alterazioni metaboliche clinicamente manifeste.

Conclusioni

L’obeso metabolicamente sano è una realtà ed una illusione allo stesso tempo. È una realtà nel momento in cui noi fotografiamo un individuo obeso che non mostra alcuna delle alterazioni della sindrome metabolica; tale individuo, dal punto di vista fisiopatologico ha una distribuzione dell’adipe prevalentemente gluteo-femorale. Ed è una illusione perché se invece filmiamo la sua vita futura siamo in grado di assistere a due possibili scenari che di sano hanno poco o nulla. Nel primo scenario compaiono nel tempo una o più delle alterazioni metaboliche che trasformano il nostro paziente in non più sano. Nel secondo scenario, il nostro paziente, anche mantenendosi metabolicamente sano nel tempo, cumula un rischio CV che si discosta significativamente da quello del suo corrispettivo normopeso (Fig. 2).

Va poi detto che l’IMC, che utilizziamo per far diagnosi di obesità, non ci dice nulla circa l’entità e la distribuzione dell’eccesso di massa grassa. E la maggior parte degli individui definiti come normopeso metabolicamente obesi, sono individui con un IMC <25 Kg/m2 ma con un aumento della massa grassa specie a livello viscerale, come conseguenza di un cronico lieve surplus calorico.

Ci troviamo di fronte quindi ad una di quelle situazioni definite “lose lose” dagli anglosassoni: i due estremi, rappresentati da un lato dai soggetti normopeso “metabolicamente obesi” (70) e dall’altro dagli obesi “sani”, sono entrambi a più elevato rischio di sviluppare eventi CV.

Dal punto di vista clinico, quindi, il messaggio è di non dedicare meno attenzione, stante comunque la difficoltà nel trattare l’obesità, ai pazienti con obesità “sana”. Perché, parafrasando il noto scioglilingua, “se oggi è seren, domani seren non sarà”.

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