Nuovi marcatori nella nefropatia diabetica

Gabriella Gruden  Dipartimento di Scienze Mediche, Università degli Studi di Torino

Oltre trent’anni fa uno studio condotto su una piccola casistica dimostrava che oltre l’80% dei pazienti con diabete di tipo 1 (DM1) e microalbuminuria progredivano col tempo a nefropatia diabetica conclamata (1). Da allora numerose pubblicazioni hanno confermato il valore della microalbuminuria come marcatore di nefropatia diabetica (ND) e rischio cardiovascolare. Tuttavia, studi prospettici successivi, condotti su casistiche più ampie, hanno evidenziato che il valore predittivo della microalbuminuria per la sviluppo di macroalbuminuria era meno forte di quanto si ritenesse (2). Inoltre, alterazioni strutturali possono essere già presenti nei soggetti con microalbuminuria di nuova diagnosi a suggerire che la microalbuminuria sia più una fase precoce di malattia che un biomarcatore (3). Infine, l’implementazione di efficaci strategie terapeutiche, come l’ottimizzazione del compenso glicemico e l’uso dei bloccanti del sistema renina angiotensina (RAS), ha profondamente mutato la storia naturale della malattia ed oggi solo circa un terzo dei soggetti con microalbuminuria progredisce a macroalbuminuria ed una consistente percentuale di pazienti regredisce a normoalbuminuria (4). Pertanto, la microalbuminuria ha perso gran parte del suo potere predittivo e sarebbe quindi importante individuare nuovi marcatori in grado di identificare i soggetti diabetici destinati a sviluppare un’albuminuria persistente e progressiva. 

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Come tutte le patologie renali croniche (CKD), la ND è anche caratterizzata da una progressiva perdita di funzionalità renale che può esitare in insufficienza renale terminale (ESRD). L’albuminuria è stata spesso utilizzata negli studi clinici di intervento come marcatore surrogato di ESRD. Tuttavia, la albuminuria non è abbastanza sensibile e specifica per l’identificare tutti i soggetti con CKD destinati a progredire a ESRD. Inoltre, una considerevole percentuale di pazienti diabetici sviluppa CKD in assenza di albuminuria (ND non-albuminurica) e non è disponibile in questo sottogruppo di pazienti alcun biomarcatore prognostico (5-6). Esiste, quindi, la necessità di individuare nuovi biomarcatori di albuminuria e CDK progressiva allo scopo di identificare precocemente i soggetti su cui concentrare l’intervento terapeutico. Il tema è di notevole importanza clinica in considerazione della crescente prevalenza del diabete e dell’elevato impatto sia clinico che socio-sanitario della complicanza, che continua ad essere, nonostante gli sforzi compiuti, una delle prime cause di ESRD nei paesi occidentali ed un importante fattore di rischio di malattia cardiovascolare.

In questa rassegna saranno descritti e discussi i dati attualmente disponibili sui nuovi biomarcatori della ND. Numerosi fattori, presenti in circolo o nelle urine e quindi di agevole misurazione nella pratica clinica, sono stati proposti come biomarcatori della complicanza. L’attenzione si è concentrata in particolare su indici funzionali, marcatori di danno strutturale sia glomerulare che tubulare e fattori coinvolti nella patogenesi della complicanza, come i marcatori di stress ossidativo e di infiammazione. Questa strategia di ricerca di nuovi biomarcatori, che si basa sulla conoscenza dei meccanismi e delle alterazioni caratteristiche della malattia (strategia deduttiva) (Fig. 1), è stata recentemente affiancata da una strategia di tipo “induttivo” che prevede di passare al vaglio in modo sistematico migliaia di molecole per identificare, avvalendosi di tecnologie avanzate, nuovi profili biomolecolari di rischio (Fig. 2). Data la complessità della ND è, infatti, semplicistico aspettarsi che un singolo biomarcatore abbia una sensibilità e specificità adeguata per la diagnosi precoce e la stratificazione del rischio. Avvalendosi di metodiche di proteomica, metabolomica e di analisi del profilo di espressione genica sono stati condotti negli ultimi 10 anni numerosi studi tesi ad identificare gruppi di proteine, metaboliti e RNA/miRNA che potessero costituire una sorta di firma molecolare del successivo rischio di sviluppo e progressione della ND. I risultati preliminari sinora ottenuti sono promettenti anche se la complessità e gli elevati costi di questi nuovi approcci rappresentano un importante limite al loro utilizzo nella pratica clinica.

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MARCATORI FUNZIONALI

Cistatina C

La stima del filtrato renale glomerulare GFR (eGFR) basata sui valori plasmatici di creatininemia è utilizzata nella pratica clinica per la valutazione della funzionalità renale. Tuttavia, l’eGFR coglie alterazioni funzionali tardive e la sua accuratezza è limitata da problemi metodologici soprattutto nei soggetti con valori di GFR normali-alti (7). Un approccio alternativo è quello di usare per il calcolo dell’eGFR un marcatore di funzionalità renale diverso dalla creatininemia. Quasi 30 anni fa, Grubb et al. hanno proposto l’uso della cistatina C per la valutazione della funzionalità renale (8). La cistatina C è una proteina di basso peso molecolare prodotta da tutte le cellule nucleate, liberamente filtrata dal glomerulo e completamente metabolizzata dal tubulo renale prossimale. Presenta il vantaggio rispetto alla creatinina di non essere influenzata da fattori extra-renali come età, sesso, dieta e massa muscolare. Recentemente, studi clinici hanno valutato l’utilizzo della cistatina C come marcatore di funzionalità renale nei soggetti diabetici (9). I risultati ottenuti mostrano che la stima del GFR basata sulla cistatina C riflette in modo più accurato variazioni del GFR nel range normale-alto rispetto alla stima del GFR basata sulla creatininemia (10-11). Inoltre, due studi recenti hanno dimostrato che la misurazione della cistatina C migliora la nostra capacità di predire quali pazienti con diabete sono a più alto rischio di progredire a ESRD. Uno studio ha reclutato 1.000 pazienti diabetici in stadio CKD 1-3 secondo la formula CDK-EPI ed ha valutato lo sviluppo di ESRD dopo 8-10 anni di follow-up. La stadiazione della CKD all’inizio dello studio è stata condotta anche utilizzando una formula per il calcolo del eGFR basata sulla cistatina C e si è visto che il suo impiego migliorava in modo significativo la stratificazione del rischio di ESRD (12). In un altro studio condotto su 234 indiani Pima seguiti per periodo di follow-up medio di 10,7 anni, il reciproco dei valori serici di cistatina C era in grado di predire lo sviluppo di ESRD meglio della misura diretta del GFR con metodiche radioisotopiche o del reciproco della creatininemia (13) anche dopo aggiustamento per età, sesso, durata del diabete, peso, altezza, HbA1c ed escrezione renale di albumina (AER). La ragione fisiopatologica della superiorità della cistatina C non è nota, ma potrebbe essere legata alla capacità dei livelli di cistatina C di riflettere l’effetto di fattori extra-renali di rischio di progressione a ESRD (13). In conclusione, studi recenti indicano che nei soggetti con diabete la misurazione della cistatina C potrebbe rappresentare un metodo semplice ed accurato per cogliere un precoce declino della funzionalità renale ed il suo successivo deterioramento. Stanno, inoltre, emergendo dati che suggeriscono che la misurazione della cistatina C, in sostituzione a quella della creatinina, potrebbe rendere più stretta l’associazione tra eGFR e rischio di morte e ESRD. Occorre, peraltro, tener conto del più alto costo e della maggiore variabilità intra-individuale della misurazione della cistatina C rispetto a quella della creatininemia (14). Sono state anche proposte delle formule per il calcolo del eGFR che utilizzano sia la creatinina che la cistatina C, ma non esistono al momento evidenze di una loro superiorità nel cogliere precoci riduzioni della funzionalità renale (15).

MARCATORI DI DANNO STRUTTURALE

Marcatori di sclerosi

Collageno di tipo IV

La ND è caratterizzata da un progressivo accumulo di costituenti della matrice extracellulare, come il collageno di tipo IV, nell’area mesangiale. Uno studio prospettico con follow-up di 8 anni ha dimostrato che elevati livelli urinari di collageno di tipo IV erano associati in modo indipendente alla velocità di riduzione annuale dell’eGFR (16). Tale relazione era documentabile anche nel sottogruppo di soggetti con normoalbuminuria e la misurazione del collageno IV urinario è stata proposta per l’identificazione dei soggetti normoalbuminurici a rischio di perdita di funzionalità renale. Inoltre, il rapporto collageno IV/albumina nelle urine è significativamente più elevato nella ND che in altre glomerulopatie (17) e potrebbe essere utile per discriminare tra ND ed altre patologie renali croniche.

Transforming Growth Factor-β1 (TGF-β1)

Il TGF-β1 è una citochina prosclerotica prodotta dalle cellule residenti renali e si ritiene che sia il mediatore della via finale comune che, innescata dai molteplici insulti associati al diabete (iperglicemia, ipertensione, attivazione del sistema RAS ecc.), conduce allo sviluppo di sclerosi renale. Gli studi clinici che hanno valutato la relazione tra livelli circolanti di TGF-β1 ed indici di danno renale hanno riportato risultati conflittuali, probabilmente a causa del fattore confondente rappresentato dal rilascio in circolo di TGF-β1 da parte delle piastrine. Per contro, tutti gli studi sono concordi nel mostrare un aumento dei livelli urinari di TGF-β1 nei soggetti con CKD. Inoltre, il trattamento con inibitori del RAS determina una riduzione dell’escrezione urinaria di TGF-β1 nei soggetti con diabete di tipo 2 (DM2) (18). Piccoli studi prospettici che hanno valutato il valore prognostico dei livelli urinari di TGF-β1 hanno, tuttavia, riportato risultati conflittuali. Uno studio ha concluso che i livelli urinari di TGF-β1 erano in grado di predire la velocità di declino del GFR e la progressione della ND durante un periodo di follow-up di 2 anni (19), mentre un altro studio ha riportato risultati opposti (20). Non esiste, pertanto, alcuna evidenza che il TGF-β1 urinario sia di utilità clinica nella stratificazione del rischio dei soggetti con ND.

Connective Tissue Growth Factor (CTGF)

Il CTGF, una citochina prosclerotica che agisce a valle del TGF-β1, è stato implicato nella patogenesi della ND. Esiste, inoltre, una stretta correlazione tra concentrazioni urinarie di CTGF e rapporto albuminuria/creatininuria (ACR). Uno studio ha documentato che la concentrazione di CTGF nelle urine aumentava di 10 volte nei soggetti con microalbuminuria e di 100 volte nei soggetti con macroalbuminuria (21). Inoltre, i livelli urinari di CTGF correlavano con un aumento dell’AER in uno studio longitudinale (22). Studi clinici condotti su ampie casistiche di pazienti con DM1 hanno dimostrato che i valori di CTGF correlano non solo con l’albuminuria, ma anche con il GFR (23). In uno studio prospettico i valori plasmatici basali di CTGF erano associati in modo indipendente al rischio di ESRD e mortalità, sebbene la relazione fosse evidente solo nei soggetti macroalbuminurici. Inoltre, la concentrazione plasmatica di CTGF, quando usata in associazione ai fattori di rischio convenzionali, migliorava in modo significativo la capacità di predire mortalità e sviluppo di ESRD nei soggetti con macroalbuminuria (24). Sebbene, ulteriori studi siano necessari per confermare questi incoraggianti dati preliminari, il CTGF potrebbe rappresentare un nuovo biomarcatore per la stratificazione del rischio di ESRD nei pazienti con macroalbuminuria.

Marcatori di danno podocitario

Il danno podocitario è un evento precoce nella storia naturale della ND. I podociti possono andare incontro ad apoptosi. Inoltre, alterazioni nei meccanismi di adesione dei podociti alla membrana basale glomerulare possono determinare il loro distacco con successiva perdita nelle urine. È stato, pertanto, proposto di utilizzare la conta dei podociti presenti nelle urine e/o i livelli urinari di mRNA/proteine specifiche dei podociti, come nefrina, sinaptopodina, podocalyxin, WT-1, CD2-AP, α-actinina-4, per identificare i soggetti ad elevato rischio di progressione della ND (25-26). Gli studi condotti hanno evidenziato che l’entità del danno podocitario, valutabile nelle urine con queste strategie, era strettamente associata alla gravità dell’albuminuria, ma non era un marcatore indipendente di perdita di funzionalità renale. Ciò conferma indirettamente l’ipotesi della “doppia via” secondo cui il danno podocitario è il maggiore determinante della aumentata permeabilità glomerulare alle proteine e quindi della albuminuria; mentre processi di tipo sclerotico sarebbero i principali responsabili della progressiva perdita di funzionalità renale.

Nefrina

Recentemente, la nefrina urinaria è stata proposta come marcatore di rischio di sviluppo di microalbuminuria. In uno studio la nefrina era detectabile nelle urine di tutti i soggetti DM2 con micro/macroalbuminuria, mentre era presente solo in un sottogruppo di soggetti con normoalbuminuria (27-28). Sebbene questi risultati siano preliminari in quanto ottenuti su piccole casistiche, suggeriscono che la presenza di nefrina nella urine preceda lo sviluppo di microalbuminuria e possa forse rappresentare un marcatore precoce di rischio di albuminuria.

Wilms’ tumor 1 (WT1)

Il WT-1 è un marcatore podocitario e un importante regolatore dei processi trascrizionali. In uno studio condotto su pazienti con DM1, il WT1 era presente negli esosomi urinari del 50% dei soggetti senza proteinuria e nel 100% dei soggetti con proteinuria. Inoltre, in un piccolo studio prospettico della durata di 2 anni, i soggetti normoalbuminurici positivi per il WT-1 avevano maggiore probabilità di sviluppare albuminuria nel follow-up (29).

Marcatori di danno tubulare

Nell’ultima decade è diventato evidente che non solo il danno glomerulare, ma anche quello del tubulo-interstizio è un importante fattore di rischio di progressione della ND. Sono numerosi i marcatori di danno del tubulo-interstizio, soprattutto urinari, che sono stati studiati al fine di esplorare il loro possibile utilizzo come biomarcatori di ND e tra questi i più rilevanti sono: la molecola-1 di danno renale (KIM-1), la lipocalina associata alla gelatinasi neutrofila (NGAL) e le proteine che legano gli acidi grassi (FABP).

KIM-1 e NGAL

KIM-1 è una proteina transmembrana presente a livello del tubulo renale solo in condizioni patologiche e coinvolta nella fagocitosi delle cellule tubulari danneggiate. NGAL è una piccola proteina che viene rilasciata in circolo e nelle urine dal tubulo renale danneggiato. Uno studio prospettico condotto su pazienti con DM1 e proteinuria ha dimostrato che elevati livelli urinari di KIM-1 e NGAL si associavano ad un più rapido declino della funzionalità renale. La relazione, tuttavia, perdeva di significatività dopo aggiustamento per altri fattori di progressione, come albuminuria, durata del diabete, compenso glicemico e pressione arteriosa (30). Più recentemente, uno studio condotto su 1573 pazienti con DM1 della coorte dello studio FinnDiane, seguiti prospetticamente per 6 anni, ha confermato che i livelli urinari di KIM-1 non predicono la progressione ad ESRD dopo aggiustamento per l’AER e non migliorano il potere predittivo dell’AER e del eGFR (31). Analogamente, in uno studio longitudinale condotto su pazienti con DM2, per lo più con normale funzionalità renale e normoalbuminuria, l’associazione prospettica tra elevati livelli urinari di KIM-1 al baseline e declino del eGFR a 4 anni veniva meno dopo aggiustamento per i valori basali di albuminuria, pressione arteriosa, eGFR e HbA1c (32). Per quanto concerne la relazione con l’albuminuria i dati disponibili in letteratura sono conflittuali. Uno studio condotto su pazienti DM1 ha dimostrato che la regressione della albuminuria si associava a bassi valori urinari di KIM-1 e NGAL. Al contrario, in un altro studio, condotto su soggetti con DM2, non si osservava alcuna relazione tra marcatori di danno tubulare e progressione/regressione della microalbuminuria (32). KIM-1 è anche presente in circolo ed in un recente studio condotto in una coorte di pazienti con DM1 e proteinuria, i livelli serici basali di KIM-1 erano potenti predittori della velocità di caduta del eGFR e del rischio di ESRD dopo 5-15 anni di follow-up anche dopo aggiustamento per i valori basali di ACR, eGFR e HbA1c (33).

FABP

Le FABP sono una famiglia di proteine coinvolte nell’omeostasi lipidica. La FABP epatica (L-FABP) è una proteina trasportatrice espressa dal tubulo renale prossimale e dal fegato con attività protettiva anti-ossidante. L-FABP è un ottimo marcatore di insufficienza renale acuta. Inoltre, i livelli urinari di L-FABP sono aumentati nella CKD e correlano con il danno funzionale e strutturale del tubulo renale (34). Per quanto concerne la ND, la concentrazione urinaria di L-FABP è associata alla progressione della ND, intesa sia come progressione della albuminuria che come sviluppo di ESRD. Infatti, in soggetti con DM2 e normale funzionalità renale, elevati livelli urinari di L-FABP erano predittivi di progressione a ESRF/emodialisi ed albuminuria, indipendentemente da altri fattori di rischio (35). Inoltre, in 165 pazienti con DM1 e normoalbuminuria, i livelli urinari di L-FABP erano predittori indipendenti di sviluppo di microalbuminuria (36). Uno studio più recente condotto su 1.549 pazienti DM1 normoalbuminurici della coorte dello studio FinnDiane, seguiti prospetticamente per 5,8 anni, ha confermato che i livelli urinari basali di L-FABP erano in grado di predire lo sviluppo di microalbuminuria. Inoltre, la misurazione combinata di AER e L-FABP nelle urine aumentava il potere predittivo (37).

Recentemente, altri membri della famiglia delle FABP sono stati proposti come biomarcatori di ND. La proteina FABP cardiaca (H-FABP) è un marcatore di danno del tubulo renale distale ed in uno studio trasversale, condotto su pazienti con DM2, H-FABP era l’unico marcatore tubulare associato all’eGFR dopo aggiustamento per gli altri fattori di progressione (38). La FABP adipocitaria (A-FABP) è altamente espressa dai macrofagi e nei pazienti con DM2 i suoi livelli serici erano associati in modo indipendentemente allo stadio della ND e sembravano predire un precoce declino dell’eGFR (39). In conclusione, i marcatori tubulari della famiglia delle FABP sembrano quelli maggiormente promettenti, ma sono necessari ulteriori studi di validazione per confermarne il loro significato clinico.

MARCATORI PATOGENETICI

Marcatori di infiammazione

Il sistema del TNF-α-recettori del TNF-α

Il Tumor necrosis factor α (TNF-α) è una proteina transmembrana di 26 kDa che viene clivata dalla metalloproteasi TNF-α-converting enzyme (TACE) in una forma solubile di 17 kDa in grado di legare due recettori denominati TNFR1 e TNFR2. Il TNFR1 è espresso in modo ubiquitario, è attivato sia dalla forma transmembrana che da quella solubile del TNF-α ed induce apoptosi cellulare ed infiammazione. Il TNFR2 è espresso solo da specifici tipi cellulari, è attivato in modo predominante dalla forma transmembrana del TNF-α e causa una protratta attivazione dei processi di tipo infiammatorio. Entrambi i recettori possono subire shedding ed essere rilasciati in circolo, ma non è chiaro se ciò si traduca un prolungamento dell’effetto biologico (riserva circolante di TNF-α) o determini una ridotta biodisponibilità della citochina (40). Studi condotti nel diabete sperimentale hanno dimostrato che il sistema TNF-α/TNFR è iperespresso a livello renale e che il suo blocco ha effetti benefici probabilmente perché inibisce gli effetti infiammatori, ossidativi e pro-apoptotici della citochina (41). Inoltre, numerosi studi suggeriscono che il TNF-α e i suoi recettori possano rappresentare nuovi biomarcatori di ND.

Studi trasversali hanno dimostrato l’esistenza di un’associazione tra il sistema TNF-α/TNFR e la ND. In pazienti con DM2, i livelli serici di TNF-α correlano con l’albuminuria (42) e quelli urinari con marcatori clinici di ND e di progressione di malattia (43). Inoltre, i livelli circolanti di TNFR2 correlavano in modo inverso con l’eGFR (44). Per quanto concerne il DM1, nello studio EURODIAB, i livelli di TNF-α erano associati alle complicanze croniche del DM1, inclusa la ND, e l’associazione tra NT-proBNP e complicanze era mediata dal TNF-α (45). Inoltre, TNFR1 e TNFR2 erano associati al declino della funzionalità renale in pazienti non proteinurici anche dopo aggiustamento per l’AER (46).

Studi longitudinali hanno confermato che TNFR1 e TNFR2 sono ottimi predittori di progressione di malattia in pazienti con DM1 e DM2 in diversi stadi di ND. In uno studio prospettico con 12 anni di follow-up, l’incidenza cumulativa di CKD stadio 3 in 628 pazienti con DM1 e normo/microalbuminuria era del 55% nei soggetti con TNFR2 nel quartile più elevato e del 15% nei pazienti negli altri quartili (47). Nello studio Diabetes Control and Complications Trial (DCCT), i livelli di TNFR1 e TNFR2 erano associati ad un aumentato rischio di sviluppare ND conclamata (48). In un recente studio prospettico condotto sulla coorte di soggetti con DM1 del FinnDiane, il TNFR1 era associato in modo indipendente all’incidenza cumulativa di ESRD ed aveva un valore additivo come biomarcatore di rischio di ESRD nei pazienti con macroalbuminuria (49). Nei DM2, l’incidenza cumulativa di progressione ad ESRD dopo 12 anni di follow-up in 410 pazienti con proteinuria era quasi dell’80% in quelli con livelli di TNFR1 nell’ultimo quartile e del 20% dei quelli con TNFR1 negli altri quartili ed il TNFR1 era un ottimo predittore di ESRD anche dopo aggiustamento per le co-variate cliniche, inclusa l’AER (50).

Complessivamente questi dati indicano che i recettori del TNF-α sono molto promettenti come biomarcatori del declino della funzionalità renale nei pazienti con diabete. Sono, peraltro, necessari ulteriori studi prima della loro introduzione nella pratica clinica.

Fibroblast Growth Factor 23 (FGF-23)

Il FGF-23 è un importante regolatore dell’omeostasi del calcio-fosforo ed un fattore di rischio di progressione della CKD. In un piccolo studio condotto su 55 soggetti con DM2 e macroalbuminuria seguiti per un periodo di follow-up di 30 mesi, i livelli plasmatici di FGF-23 non correlavano con i marcatori del metabolismo osseo, ma erano un predittore di morte, raddoppio dei valori di creatininemia e/o dialisi. La relazione tra FGF23 ed outcomes renali era, tuttavia, mediata dal TNFR1 (51). Probabilmente la downregulation del fattore Kloto da parte del TNF-α provoca resistenza al FGF23 con conseguente aumento compensatorio dei suoi livelli circolanti.

Pigment Epithelium-Derived Factor (PEDF) e Fibroblast Growth Factor 21 (FGF-21)

Il PEDF è una glicoproteina presente in circolo con proprietà anti-ossidative ed anti-infiammatorie. È espressa a livello renale e, in modelli animali di ND, ha effetti reno-protettivi ed anti-infiammatori. Il FGF21 è un ormone prodotto prevalentemente dal fegato e possiede molteplici proprietà metaboliche. In modelli animali di DM2, il signalling renale del FGF-21 è alterato (FGF-21-resistenza), probabilmente a causa della infiammazione locale che causa una downregulation TNF-α-mediata di Kloto, il co-recettore del FGF-21. Studi recenti suggeriscano che questi due fattori possano essere promettenti candidati come biomarcatori della ND. In una coorte di pazienti cinesi con DM2 e normale funzionalità renale, i valori basali di PEDF e FGF21 erano in grado di predire in modo indipendente il declino della funzionalità renale. Inoltre, nel sottogruppo di soggetti con normale funzionalità renale e normoalbuminuria, il PEDF era associato in modo indipendente sia alla progressione a micro/macroalbuminuria che alla riduzione del eGFR anche dopo aggiustamento per i valori basali di eGFR. È probabile che l’aumento dei livelli serici di PEDF e FGF21 sia il risultato di una risposta compensatoria innescata dallo stato infiammatorio presente a livello renale e ne rifletta la gravità e, pertanto, indirettamente il rischio di progressione (52-53).

Monocyte Chemoattractant Protein-1 (MCP-1)

L’MCP-1, una chemiochina prodotta dalle cellule renali residenti e dai monociti, lega il recettore CC-chemokine receptor-2 (CCR2) e regola il reclutamento renale e l’attivazione dei monociti. Il sistema MCP-1/CCR2 è iperespresso nel rene diabetico e studi condotti nell’animale dimostrano un ruolo cruciale di questo sistema nella patogenesi della ND (54). Inoltre, numerosi piccoli studi clinici hanno esplorato il potenziale ruolo del MCP-1 come biomarcatore della complicanza. Nonostante MCP-1 sia iperespresso nel rene diabetico, i suoi livelli serici non sono aumentati nella ND e non correlano con la gravità del danno istologico o il grado di infiltrazione monocitaria. È possibile che il legame del MCP-1 alle catene di glicosaminoglicani endoteliali, che è di cruciale importanza per l’attività dell’MCP-1 in quanto ne assicura un’elevata biodisponibilità locale, impedisca l’aumento dei livelli serici di MCP-1, compromettendone l’utilità come biomarcatore. Per contro, la concentrazione urinaria di MCP-1 è aumentata nei pazienti con ND e correla con l’albuminuria. Tuttavia, tale aumento si verifica in una fase avanzata della malattia e non predice lo sviluppo o il peggioramento dell’albuminuria (22, 54-55). In un piccolo studio condotto su pazienti diabetici con macroalbuminuria, i livelli urinari di MCP-1 correlavano con la velocità di declino del GFR (22), ma ulteriori studi sono necessari per valutare la potenziale rilevanza dell’MCP-1 urinario come biomarcatore di funzionalità renale.

Intercellular Adhesion Molecule-1 (ICAM-1) e Vascular Cell Adhesion Molecule-1 (VCAM-1)

Le molecole di adesione svolgono un ruolo cruciale nei processi infiammatori in quanto consentono l’adesione all’endotelio delle cellule infiammatorie e la loro trans-migrazione dal lume dell’endotelio ai tessuti. In uno studio caso controllo, le concentrazioni plasmatiche di ICAM-1 erano aumentate nei soggetti con DM1 e micro/macroalbuminuria rispetto ai soggetti di controllo, mentre quelle di VCAM-1 erano elevate solo nei soggetti con macroalbuminuria (56). Inoltre, nello studio di Lin et al. sulla casistica del DCCT, i valori basali di ICAM-1, ma non quelli di VCAM, erano associati allo sviluppo di microalbuminuria (57). In un piccolo studio condotto su 30 pazienti ipertesi con DM2 e 30 soggetti normotesi non diabetici i livelli circolanti di VCAM ed ICAM-1 erano aumenti nei casi, ma solo quelli di VCAM correlavano con l’AER (58). Più recentemente, uno studio prospettico della durata di 6 anni condotto su 264 pazienti afro-americani con DM1 e normo/microalbuminuria ha dimostrato che dopo aggiustamento per l’età, l’HbA1c ed altri fattori confondenti, elevati valori plasmatici basali di ICAM-1 erano associati ad un aumentato rischio di sviluppare proteinuria (59).

Marcatori di Stress Ossidativo

Lo stress ossidativo svolge un ruolo centrale nello sviluppo delle complicanze del diabete, inclusa la ND. Numerosi studi hanno, pertanto, esplorato la possibilità di utilizzare i marcatori di stress ossidativo come biomarcatori della complicanza. La 8-idrossi-20-deossiguanosina (8-OHdG) è un marcatore di stress ossidativo ed i suoi livelli urinari sono aumentati nei pazienti diabetici (60). In uno studio condotto su pazienti giapponesi con DM2 e normo/microalbuminuria, elevati livelli di urinari di 8-OHdG erano associati a progressione ad albuminuria dopo un follow-up di 5 anni. Inoltre, nell’analisi di regressione logistica, i valori urinari di 8-OHdG erano il più forte predittore di progressione dell’albuminuria (61). Tuttavia, in uno studio più recente condotto su 52 pazienti con DM2, la misurazione dei livelli urinari di 8-OHdG non differiva in pazienti diabetici con e senza ND e non migliorava la capacità di identificare i pazienti a rischio di CKD progressiva rispetto alla misurazione della sola albuminuria (62). Non sembra, pertanto, che i marcatori di stress ossidativo siano in grado di fornire informazioni aggiuntive di tipo prognostico sullo sviluppo e la progressione della ND rispetto ai marcatori di attuale utilizzo clinico. 

Prodotti avanzati di glicosilazione (AGE)

I prodotti avanzati di glicosilazione sono stati implicate nella patogenesi della ND. La pentosidina è un componente strutturale degli AGE ed è considerata un marcatore della loro formazione ed accumulo. I livelli plasmatici ed urinari di pentosidina sono aumentati nei pazienti con ND. Inoltre, in un recente studio prospettico, l’escrezione urinaria basale di pentosidina era in grado di predire il successivo sviluppo di macroalbuminuria con un rischio che aumentata di quasi 7 volte per ogni incremento del 50% dei livelli urinari di pentosidina (63).

ALTRI MARCATORI

Adiponectina

L’adiponectina è un ormone secreto dagli adipociti ed i suoi livelli plasmatici sono aumentati nei soggetti con ND probabilmente a causa di un’aumentata produzione e/o ridotta clearance renale. Uno studio condotto sulla coorte di pazienti con DM1 dello studio FinnDiane ha dimostrato che elevati livelli serici di adiponectina predicono la progressione da macroalbuminuria a ESRD (64). Inoltre, uno studio più recente dello stesso gruppo ha riportato che anche l’adiponectina urinaria è un predittore indipendente di progressione da macroalbuminuria a ESRD e che il suo utilizzo aumenta il potere predittivo dei biomarcatori comunemente utilizzati nella pratica clinica (AER, eGFR) (65).

Acido urico

Studi recenti suggeriscono che elevati livelli di acido urico siano un fattore di rischio per la progressione della ND, sebbene la corretta interpretazione dei risultati sia ostacolata dall’effetto della funzionalità renale stessa e della terapia con diuretici sull’uricemia. Il meccanismo che lega l’uricemia alla ND non è noto, è tuttavia probabile che infiammazione, stress ossidativo, disfunzione endoteliale ed ipertensione arteriosa giochino un ruolo importante. Numerosi studi hanno documentato un’associazione diretta ed indipendente tra uricemia e ridotta funzionalità renale o sviluppo di proteinuria. Per quanto concerne il DM1, livelli di acido urico nel range normale-alto erano indipendentemente associati ad una riduzione del filtrato in uno studio trasversale condotto su pazienti normo/microalbuminurici (66). In un altro studio, gli stessi ricercatori hanno dimostrato una relazione dose-dipendente tra uricemia e rischio di precoce perdita di funzionalità renale e sviluppo di CKD stadio 3 dopo un follow-up di 4-6 anni, mentre non si osservava alcuna relazione con il rischio di progressione/regressione della albuminuria (67). Al contrario nella casistica dello Steno, i livelli basali di acido urico erano in grado di predire lo sviluppo di macro, ma non di microalbuminuria in una coorte di 263 pazienti seguiti in modo prospettico per 18 anni (68). Infine, in un altro studio prospettico, i valori basali di acido urico erano associati allo sviluppo di albuminuria dopo un periodo di follow-up di 6 anni (69). 

Analoghi risultati sono stati riportanti anche in pazienti con DM2. In uno studio prospettico condotto su soggetti con normale funzione renale e senza macroalbuminuria, la concentrazione basale di acido urico era associata allo sviluppo di macroalbuminuria o eGFR<60 mL/min/1.73m2 dopo 5 anni di follow-up (70). Inoltre, un’analisi post-hoc dello studio RENAAL ha dimostrato che in pazienti con proteinuria il grado di riduzione nei livelli di acido urico dopo 6 mesi di trattamento con losartan era associato ad un ridotto rischio di raddoppio dei valori di creatininemia/ESRD, indipendentemente da eGFR ed albuminuria (71). 

Nessuno studio ha, tuttavia, chiaramente dimostrato che nei soggetti diabetici destinati a sviluppare CKD i livelli di acido urico comincino ad aumentare prima della caduta del GFR e quest’area di ricerca è oggi oggetto di intensa indagine (72).

MICRO-RNA

Un approccio emergente nell’identificazione di nuovi biomarcatori della ND è la misurazione dei microRNA (miRNA) presenti in circolo e nelle urine. La scoperta dei miRNA ha infranto il dogma centrale della biologia per cui il DNA è trascritto in mRNA e l’mRNA serve da stampo per la sintesi delle proteine. Infatti, i miRNA sono piccole sequenze di RNA che non codificano per le proteine, ma si legano ad mRNA ad essi complementari e ne inibiscono la traduzione. I miRNA hanno un’enorme importanza dal punto di vista fisiopatologico. Infatti, non sono solo possibili mediatori di processi patologici, ma vengono anche rilasciati nei liquidi biologici dove svolgono un ruolo chiave nei processi di comunicazione tra cellule. I miRNA circolanti sono molto stabili e studi recenti hanno dimostrato che il loro profilo di espressione può variare in modo specifico in vari contesti fisiopatologici (73) e rappresentare, quindi, una sorta di codice a barre per la diagnosi e la stratificazione prognostica delle malattie. Esiste, quindi, un notevole interesse sul possibile utilizzo dei miRNA, presenti in circolo e nelle urine, come biomarcatori di ND, sebbene i risultati per ora disponibili siano ancora scarsi.

miRNA plasmatici

Un recente studio condotto da Pezzolesi et al. ha dimostrato il potenziale ruolo dei miRNA regolati dal TGF-β1 come biomarcatori di progressione della ND nel DM1. Lo studio ha paragonato 3 gruppi di soggetti: 1) soggetti con proteinuria e rapido declino del eGFR durante il follow-up di 6 anni, 2) soggetti con proteinuria e stabile funzionalità renale, 3) soggetti normoalbuminurici con stabile funzionalità renale. I risultati hanno dimostrato che il rischio di progressione a ESRD era associato ad aumento dei livelli circolanti di let-7b-5p e miR-21-5p e ad una riduzione di quelli di miR-29a-3p e let-7c-5p (74). Inoltre, dati preliminari sulla casistica dell’Eurodiab indicano che il profilo di espressione dei miRNA circolanti differiva tra pazienti DM1 con (casi) e senza (controlli) complicanze croniche del DM. In particolare, il mir-126, considerato un marcatore di danno endoteliale, era ridotto nei soggetti con ND (75).

miRNA urinari

In uno studio condotto da Argyropoulos et al. sono stati identificati un gruppo di 27 miRNA che erano espressi in modo diverso nelle urine di soggetti DM1 con microalbuminuria persistente oppure intermittente (76). In questo lavoro sono stati valutati tutti i miRNA liberi presenti nelle urine e questo rappresenta un potenziale limite dello studio. Infatti, le urine contengono anche miRNA contaminanti derivanti da cellule apoptotiche/necrotiche del tratto urinario. Inoltre, una considerevole quota di miRNA liberi presenti nelle urine sono probabilmente di origine plasmatica anziché renale, perché i miRNA sono di piccole dimensioni e possono superare la barriera di filtrazione glomerulare e ciò limita l’utilità dell’analisi dei miRNA urinari finalizzata all’identificazione di biomarcatori di patologie renali. Recentemente lo studio dei miRNA contenuti negli esosomi urinari ha consentito di superare questi problemi metodologici. La particolare stabilità dei miRNA nei fluidi biologici è dovuta al fatto che i miRNA sono spesso racchiusi all’interno degli esosomi. Gli esosomi sono delle microvescicole che originano dal compartimento endosomiale delle cellule e contengono proteine, RNA e miRNA. Una volta rilasciati nei fluidi biologici, gli esosomi viaggiamo anche a notevole distanza sino a raggiungere le cellule bersaglio in cui riversano il loro contenuto, condizionandone il fenotipo. Uno studio ha recentemente dimostrato che gli esosomi urinari contengono miRNA; inoltre, il profilo di espressione dei miRNA presenti negli esosomi urinari di soggetti con DM1 variava in presenza ed in assenza di microalbuminuria. Nei soggetti con microalbuminuria, i livelli di miR-145 e miR-130a erano aumentati, mentre quelli di mir-155 e mir-424 erano significativamente ridotti. Sebbene la casistica fosse piccola, questi risultati hanno confermato la validità di questo approccio per la scoperta di nuovi biomarcatori urinari (77).

PROTEOMICA

L’analisi proteomica utilizza un approccio sistematico per l’identificazione e la quantificazione delle proteine presenti nei liquidi biologici. Recentemente, tecniche di analisi proteomica sono state impiegate per l’identificazione di nuovi biomarcatori urinari. L’attenzione si è rivolta in particolare alla frazione delle proteine urinarie di basso peso molecolare (<2000 dalton). Studi trasversali condotti su casistiche ampie hanno dimostrato che sulla base del tipo di frammenti di collageno presenti nelle urine è possibile discriminare tra soggetti diabetici e non diabetici e distinguere tra soggetti con DM di tipo 1 e 2. Per quanto concerne la ND, è stato identificato un pannello di 65 biomarcatori (DN65), molti dei quali sono frammenti del collageno, in grado di distinguere tra pazienti diabetici con normoalbuminuria o ND (78). Inoltre, un’analisi sofisticata del peptidoma urinario suggerisce che sia possibile identificare tra i pazienti con DM1 e microalbuminuria quelli a più elevato rischio di precoce perdita della funzionalità renale. Infatti, tecniche di proteomica hanno consentito di identificare 3 peptidi, i cui livelli urinari sono ridotti, e 3 peptidi, i cui livelli urinari sono aumentati, nei pazienti con precoce perdita di funzionalità renale rispetto ai pazienti con funzionalità renale stabile (79). Un altro set di biomarcatori urinari di notevole interesse è il biomarcatore CKD273, che è costituito da 273 peptidi urinari e consente di discriminare tra soggetti con e senza CKD a prescindere dalla causa sottostante (80). Uno studio longitudinale condotto su una piccola casistica di soggetti con DM di tipo 1 e 2 ha dimostrato che nei soggetti normoalbuminurici una positività per il CKD273 aumentava il rischio di sviluppare ND conclamata e consentiva di identificare i soggetti a rischio prima ancora dello sviluppo di microalbuminuria (81). Tra questi 273 peptidi urinari sono compresi i frammenti di collageno di tipo I e l’osservazione che una riduzione dei frammenti di collageno di tipo I precede di 3-5 anni lo sviluppo di microalbuminuria suggerisce che variazioni nella composizione della matrice extracellulare e nel turn-over del collageno abbiano un importante valore prognostico nella ND. Più recentemente, uno studio prospettico condotto su pazienti con DM2 della coorte dello studio PREVEND ha dimostrato che una positività per il CKD273 si associava in modo indipendente alla progressione della albuminuria dopo 3 anni di follow-up anche dopo aggiustamento per i valori basali di albuminuria e di eGFR (82). Il biomarcatore CKD273 è stato anche validato in uno studio multicentrico: in 165 campioni urinari ottenuti da 87 casi di ND e 78 controlli, il CKD273 era in grado di distinguere tra casi e controlli reclutati in 9 centri diversi (83). Complessivamente, questi risultati suggeriscono che una positività per il biomarcatore CKD273 possa essere di ausilio nella identificazione dei soggetti normoalbuminurici a rischio di progressione.

Recentemente, tecniche di proteomica sono state utilizzate per confrontare il contenuto proteico di esosomi urinari ottenuti da pazienti con ND e controlli sani. Vi sono 352 proteine diverse negli esosomi urinari umani e tre di queste AMBP, MLL3, VDAC1 sono espresse in modo significativamente diverso in 5 soggetti con proteinuria e CKD avanzata (stadio 3-5) rispetto a soggetti di controllo non diabetici, come anche confermato in piccolo studio di validazione (84).

METABOLOMICA

La metabolomica utilizza un approccio sistematico per identificare e quantificare le centinaia di metaboliti presenti nei liquidi biologici mediante l’utilizzo della cromatografia liquida/gas associata alla spettrometria di massa o alla spettroscopia NMR. L’utilizzo della metabolomica per l’identificazione di nuovi biomarcatori è stato poco esplorato in ambito di ND. 

In uno studio condotto su 52 pazienti DM1 normoalbuminurici di cui circa la metà sviluppavano micro/macroalbuminuria durante i 5,5 anni di follow-up, si è paragonato il profilo metabolico urinario dei soggetti che progredivano e di quelli che rimanevano normoalbuminurici. Ciò ha consentito di identificare un gruppo di metaboliti in grado di discriminare tra i due gruppi con un’accuratezza del 75% ed una precisione del 73%. Tra i metaboliti identificati vi erano acitil-carnitine, acilglicine e metaboliti del triptofano (85). Un altro studio, condotto su controlli sani e soggetti diabetici con e senza CKD, ha dimostrato che 12 metaboliti urinari erano ridotti nei soggetti diabetici con CKD rispetto non solo ai controlli, ma anche ai pazienti diabetici senza CKD. Questi metaboliti erano legati al metabolismo mitocondriale ad indicare una soppressione della attività mitocondriale nei soggetti con ND (86). Recentemente, uno studio caso-controllo nidificato condotto sulla casistica della Joslin Clinic ha confrontato il profilo metabolico plasmatico di pazienti DM2 con normale o lievemente alterata funzionalità renale che hanno (casi) o non hanno (controlli) sviluppato ESRD durante i successivi 8-12 anni di follow-up. I casi presentavano un aumento al baseline, quindi anni prima dello sviluppo di ESRD, di 16 metaboliti che sono notoriamente elevati nei soggetti con uremia. Inoltre, nei casi si osserva una riduzione degli aminoacidi essenziali e dei loro derivati ed un aumento di alcune acitil-carnitine. Queste differenze rimanevano significative dopo aggiustamento per AER, eGFR ed HbA1c. È pertanto possibile che questi metaboliti o contribuiscano alla progressione a ESRD o siano un marcatore di una fase precoce del processo che porta allo sviluppo di ESRD nel DM2 (87).

Fig3_Rassegna1

CONCLUSIONI

Lo sviluppo di tecnologie avanzate ha aperto nuove opportunità per la ricerca di biomarcatori nella ND; tuttavia, nonostante il crescente numero di studi condotti in quest’area di ricerca, nessun nuovo biomarcatore di ND è stato introdotto nella pratica clinica. 

Il processo che porta un candidato biomarcatore a diventare uno strumento utilizzabile per i pazienti è infatti lungo e complesso (Fig. 3). Studi prospettici di lunga durata e su ampie casistiche devono dimostrare la capacità del biomarcatore di predire in modo indipendente lo sviluppo/progressione della malattia, preferibilmente usando come esito eventi come mortalità e ESRD anziché eventi surrogati come il declino del eGFR o l’albuminuria. Eventuali risultati positivi devono essere confermati su casistiche diverse da quella originaria. Occorre poi dimostrare che il biomarcatore sia in grado di fornire informazioni di tipo prognostico addizionali rispetto ai marcatori clinici già disponibili (albuminuria, eGFR). È importante, quindi, verificare in studi di intervento che il biomarcatore sia in grado di guidare l’intervento terapeutico e di migliorarne l’esito. Infine, il biomarcatore deve dimostrare di avere una performance vantaggiosa in termini di costo-efficiacia, cioè l’utilizzo del biomarcatore deve migliorare l’esito del trattamento in misura sufficiente a giustificare il costo della misurazione del biomarcatore e del trattamento.

Purtroppo, nessuno dei biomarcatori, descritti in questa rassegna, ha completato questo processo di validazione e i dati disponibili vengono spesso da studi longitudinali di breve durata o condotti su piccole casistiche (Tab. 1 e 2). Raramente esiste la dimostrazione che il biomarcatore migliori il potere predittivo se usato in combinazione con i biomarcatori esistenti e solo uno studio attualmente in corso, il trial PRIORITY, sta valutando l’efficacia di un intervento terapeutico guidato da biomarcatori. Occorre quindi concentrare gli sforzi futuri non tanto sulla identificazione di nuovi potenziali biomarcatori, ma su una rigorosa validazione scientifica dei biomarcatori potenziali oggi disponibili.

Tab1_Rassegna1Tab2_Rassegna1

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