Nuovi antigeni beta cellulari:possibili applicazioni diagnostiche e terapeutiche

Rubrica Medicina traslazionale a cura di Lorella Marselli

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Pisa


Roberto Mallone

INSERM U1016 Istituto Cochin e Servizio di Diabetologia e Immunologia Clinica, Ospedale Cochin, Parigi

DOI: 10.30682/ildia1901g

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Il diabete tipo 1: ben più che una semplice iperglicemia

Il diabete tipo 1 (DT1) è una malattia autoimmune che porta alla distruzione delle cellule beta pancreatiche. Il processo autoimmune inizia spesso diversi mesi o anni prima della manifestazione clinica della malattia, caratterizzata dai sintomi ben noti dell’iperglicemia che portano alla diagnosi. Si tratta dunque di una diagnosi tardiva, che si accompagna inevitabilmente ad un approccio terapeutico che, da un punto di vista fisiopatologico, è limitato. La diagnosi arriva infatti quando una buona parte delle cellule beta è già stata distrutta, e possiamo allora soltanto sostituire l’insulina non più prodotta con una somministrazione esogena. Meglio sarebbe però poter intervenire sul processo autoimmune che ne è alla base.

Partendo da questa constatazione, diverse Società di Diabetologia, tra cui l’American Diabetes Association (ADA) e la European Association for the Study of Diabetes (EASD), sotto l’egida della Juvenile Diabetes Research Foundation (JDRF) hanno recentemente proposto una nuova classificazione del DT1 (1) (Fig. 1). Mentre oggi chiamiamo DT1 soltanto la fase tardiva che si manifesta dopo la comparsa dell’iperglicemia e la diagnosi clinica (stadio 3), la malattia dovrebbe piuttosto essere considerata come un continuum che evolve attraverso 3 stadi:

1) Stadio 1: si tratta dello stadio dell’autoimmunità beta cellulare asintomatica, che può essere diagnosticato attraverso la detezione degli autoanticorpi anti-insulina (IAA), anti-decarbossilasi dell’acido glutammico (GADA), anti-antigene 2 insulinoma-associato (IA-2A), e anti-trasportatore 8 dello zinco (ZnT8A). È la presenza di almeno 2 di questi autoanticorpi che segna un rischio significativo di evoluzione verso la malattia clinica (~50% a 10 anni in presenza di 2 autoanticorpi, e ~85% in presenza di 3 autoanticorpi).

2) Stadio 2: una situazione di disglicemia inizia ad instaurarsi, essa è asintomatica, ma può essere evidenziata con il test di stimolazione della secrezione d’insulina tramite carico orale di glucosio. La glicemia può risultare corretta all’inizio e alla fine dei 120 minuti del test, ma un’iperglicemia può apparire nella fase precoce (30 minuti) del test, essa di solito riflette la perdita della prima fase della secrezione insulinica, che può essere confermata mediante il dosaggio in parallelo del peptide C.

3) Stadio 3: comparsa dell’iperglicemia e del DT1 clinicamente manifesto così come lo incontriamo nella pratica clinica quotidiana.

Questa nuova visione del DT1 non ha un valore semplicemente semantico, in quanto accettare questa stadiazione significa considerare l’individuo con 2 autoanticorpi positivi già “malato”, sebbene ancora asintomatico. Il corollario di questa diagnosi precoce allo stadio asintomatico è che la tempistica della prevenzione risulta spostata a delle fasi più precoci. In altri termini, ciò che bisogna cercare di prevenire non è l’iperglicemia, ma l’autoimmunità beta cellulare che ne è all’origine. Bisognerebbe allora intervenire ancora prima dell’apparizione degli autoanticorpi, in quanto la loro presenza testimonia già un processo autoimmune in atto. Tuttavia, questo richiede di identificare dei marcatori del rischio di progressione verso l’autoimmunità ancora più precoci degli autoanticorpi.

La necessità di identificare dei nuovi marcatori prognostici di evoluzione lungo le fasi del DT1: i linfociti T CD8+

Gli autoanticorpi, quali biomarcatori di un’autoimmunità beta cellulare già in atto, presentano dei limiti, a questi si aggiunge anche il fatto che essi non hanno un ruolo patogenetico diretto (2). Tale ruolo è invece svolto dai linfociti T, in particolare dal sottogruppo dei linfociti T CD8+ citotossici, essi sono infatti gli attori finali della distruzione beta cellulare. Questa distruzione ha luogo perché i linfociti T riconoscono sulla superficie della cellula beta degli antigeni presentati dalle molecole HLA di Classe I sotto forma di frammenti peptidici (Fig. 2). Questo riconoscimento permette non soltanto l’ancoraggio dei linfociti al loro bersaglio, ma anche l’attivazione dei linfociti stessi, che liberano il contenuto di granuli citotossici portando alla morte beta cellulare.

Che cosa riconoscono i linfociti T CD8+ anti-cellula beta?

In altri termini, cosa sappiamo degli antigeni peptidici riconosciuti dai linfociti T sulla superficie della cellula beta? Poco o nulla. Gli antigeni identificati fino a oggi riflettono un approccio estremamente parziale, basato sulle conoscenze che abbiamo degli antigeni bersaglio degli autoanticorpi o degli antigeni riconosciuti dai linfociti T nel modello animale di DT1 più frequentemente utilizzato, il topo NOD. I ricercatori sono andati dunque a verificare se gli stessi antigeni fossero riconosciuti anche dai linfociti T CD8+ umani. Sebbene questa ricerca abbia spesso portato a dei risultati positivi, un approccio più imparziale si è reso necessario per poter ottenere una cartografia completa.

Alla ricerca degli antigeni beta cellulari: i soliti noti ma anche diverse sorprese…

La domanda è stata affrontata prendendo delle linee di cellule beta immortalizzate (3-4) o isole pancreatiche umane ottenute da donatori multiorgano, esposte in vitro a citochine che mimano il microambiente infiammatorio del pancreas nella condizione di DT1. Le molecole HLA di Classe I sono state in seguito isolate dalle cellule beta ed i peptidi in esse contenuti sono stati estratti e identificati con le tecniche di spettrometria di massa (5).

La prima osservazione è che la maggior parte degli antigeni già noti (per esempio insulina, GAD, IA-2 e ZnT8) erano tra i peptidi identificati. In particolare, sono stati identificati tutti gli antigeni peptidici già descritti per l’insulina. Questo ha fornito una conferma della validità dell’approccio scelto.

Secondo, è stata osservata una presenza particolarmente importante di peptidi derivati da proteine normalmente contenute nel granulo di insulina. Circa un terzo di tutti i peptidi osservati derivava da tali proteine. Si è trattato di un’osservazione attesa, vista l’abbondanza di tali proteine nella cellula beta ed il loro rapido ricambio, che le rende particolarmente vulnerabili ad errori di sintesi. Tali proteine erroneamente sintetizzate rappresentano la fonte più importante dei peptidi presentati dalle molecole HLA di Classe I (6).

Terzo, sono stati osservati tutta una serie di peptidi derivati da proteine particolarmente interessanti, come la secretogranina 5, la proconvertasi 2, l’urocortina 3. Si tratta di proteine che hanno caratteristiche in comune con l’insulina (Fig. 3): sono tutte proteine contenute nei granuli di secrezione, sono solubili, sono sintetizzate sotto forma di pre-proteine, in cui la sequenza segnale della proteina nascente è rimossa durante il suo passaggio nel reticolo endoplasmico, subiscono inoltre delle tappe intermedie di clivaggio da parte di enzimi come le proconvertasi per generare i prodotti bio-attivi finali. Le tappe intermedie di clivaggio, oltre a generare i prodotti bio-attivi finali, generano prodotti privi di una funzione biologica propria, ma che potrebbero andare ad alimentare la “discarica” molecolare che è la sorgente principale di peptidi per le molecole HLA di Classe I (6).

Quarto, è stato osservato che alcuni di questi peptidi non avevano la sequenza aminoacidica attesa, ma una variante generata attraverso due meccanismi diversi: uno splicing alternativo dell’RNA messaggero (7) o la fusione di due frammenti peptidici derivati da sequenze non contigue della stessa proteina o di due proteine diverse (8-9). Si tratta dunque di peptidi che potrebbero non essere riconosciuti dai linfociti T come facenti parte del “sé” immunologico, ma piuttosto come componenti estranee al corpo (come per i peptidi virali prodotti da cellule infettate) e, come tali, potenzialmente pericolosi e da distruggere. In altri termini, questi peptidi modificati potrebbero favorire la rottura della tolleranza immunitaria e la reazione autoimmune alla base del DT1.

Gli antigeni presentati dalla cellula beta sono riconosciuti dai linfociti T autoimmuni dei pazienti DT1?

Per verificare se gli antigeni peptidici esposti sulla superficie delle cellule beta fossero effettivamente riconosciuti dai linfociti T CD8+ dei pazienti diabetici e di individui sani di controllo, sono state sintetizzate molecole HLA di Classe I ricombinanti, che sono state poi caricate con i peptidi identificati e marcate con una sonda fluorescente. I linfociti che riconoscono questi peptidi sono stati quindi in grado di legare le molecole HLA e mimare in vitro l’interazione con le stesse molecole (HLA e peptide) esposte sulla superficie della cellula beta in vivo. La sonda fluorescente ha permesso di identificare tali linfociti attraverso le tecniche di citometria di flusso.

Tre importanti osservazioni sono state fatte. La prima è che la frequenza nel sangue circolante dei linfociti T CD8+ che riconoscono questi antigeni peptidici è simile nei pazienti diabetici e nei soggetti sani non-diabetici, tale frequenza si colloca nella maggior parte dei casi tra 1 e 50 cellule per milione di linfociti T CD8+ totali (corrispondente in media ad una cellula per 4 ml di sangue totale). La seconda è che questi linfociti presentavano un fenotipo largamente “naive”. In altri termini, essi erano potenzialmente autoimmuni e capaci di riconoscere e distruggere una cellula beta, ma in pratica non avevano avuto occasione di esprimere questo potenziale patogeno in quanto non avevano ancora incontrato il loro antigene bersaglio. La terza è che questi linfociti si trovavano invece a delle densità più elevate nel pancreas di soggetti diabetici rispetto a quello di individui sani. Queste osservazioni riproducono quelle che erano già state descritte in precedenza per altri antigeni beta cellulari già noti (10-11).

Esiste dunque una sorta di autoimmunità “benigna” universale in tutti gli individui. Perché dunque abbiamo bisogno di essere autoimmuni? Ci sono almeno due buone ragioni. La prima è che ogni linfocita presenta un certo potenziale di autoreattività, ed è altamente “promiscuo” nella sua capacità di riconoscere un antigene. Pur essendo autoreattivo, esso è dunque in grado di riconoscere anche degli antigeni esteriori, per esempio derivati da virus. Si stima che ogni linfocita sia in grado di riconoscere fino ad un milione di peptidi differenti (12-13). Mantenere questo potenziale autoimmune è dunque anche un mezzo per difendersi meglio dalle minacce immunitarie esteriori, in quanto eliminare troppi linfociti autoreattivi ci farebbe correre il rischio di creare delle lacune nel repertorio a disposizione per il riconoscimento degli antigeni, compromettendo così le risposte fisiologiche contro gli agenti patogeni. Secondo, quando i linfociti T incontrano degli agenti infettivi, si attivano e proliferano per montare una risposta immunitaria più vigorosa. Tuttavia, un linfocita T incontra il suo antigene bersaglio soltanto in momenti limitati della vita. Nell’attesa di questo incontro, che può essere letteralmente l’incontro di una vita intera, ha bisogno di sopravvivere, e per farlo ha bisogno di essere stimolato da altri antigeni. In assenza di infezione, i soli antigeni bersagli disponibili per permettere questa sopravvivenza sono quelli del nostro corpo. Essere autoimmuni è dunque il prezzo da pagare per essere meglio protetti rispetto al mondo esteriore.

Ma se siamo tutti autoimmuni, perché allora non siamo tutti diabetici?

La domanda chiave è tuttavia perché, se siamo tutti autoimmuni, soltanto pochi individui sviluppano un DT1. Due ipotesi, non mutualmente esclusive, potrebbero spiegare questo paradosso.

La prima è che questo potenziale autoimmune potrebbe in condizioni normali essere tenuto sotto controllo da meccanismi di regolazione, come i linfociti T regolatori, e che questo controllo potrebbe alterarsi nel caso del DT1. In questo senso, il DT1 potrebbe essere causato da una perdita dell’immunoregolazione.

La seconda ipotesi, più provocatoria, e che forse il DT1 è certo una malattia dell’autoimmunità, ma anche della cellula beta, e della sua capacità di rendersi più o meno visibile e vulnerabile ai linfociti T autoreattivi che tutti abbiamo. In questo senso, è interessante notare che le cellule beta incubate nei nostri esperimenti con delle citochine infiammatorie esponevano sulla loro superficie un numero più elevato di peptidi, che andava di pari passo con l’aumento dell’espressione delle molecole HLA di Classe I che le presentano. Il microambiente infiammatorio che si crea nel pancreas diabetico potrebbe dunque favorire la vulnerabilità delle cellule beta ai linfociti T, aumentando la possibilità per questi ultimi di riconoscerle e di ancorarsi alla loro membrana. In questo senso, il DT1 potrebbe essere causato da una perdita, da parte dei linfociti T, della “ignoranza immunitaria” nei confronti delle cellule beta.

Conclusioni

Questi studi forniscono una cartografia più completa della “immagine immunitaria” che le cellule beta offrono ai linfociti T, immagine che può favorire la loro distruzione attraverso la presentazione di un numero più elevato di peptidi, alcuni dei quali modificati e dunque non riconosciuti e tollerati come parte del proprio corpo.

Esiste uno stato di autoimmunità benigna universale, e la sua progressione verso un DT1 potrebbe essere favorito da fattori dipendenti dai linfociti T (la perdita dell’immunoregolazione) e dalla cellula beta (la perdita della “ignoranza” immunitaria). Il DT1 è dunque probabilmente una malattia dell’autoimmunità e della cellula beta.

Identificare gli elementi motori chiave della progressione dell’autoimmunità benigna verso il DT1 è dunque il passo successivo prioritario per continuare queste ricerche. Tali elementi dovrebbero fornire i biomarcatori più precoci di predizione del rischio di DT1, ed anche dei formidabili bersagli terapeutici per far ritornare l’autoimmunità beta cellulare verso il suo stato benigno.

I nuovi antigeni identificati offrono comunque delle applicazioni diagnostiche e prognostiche, per misurare lo stato globale di attivazione del sistema immunitario contro la beta cellula, in altri termini la “carica” autoimmune complessiva dell’individuo, in maniera più completa di quanto sia stato finora possibile con gli antigeni già noti. Delle applicazioni terapeutiche sono ugualmente possibili tramite l’incorporazione di questi antigeni in vaccini beta cellulari che possano restaurare la tolleranza immunitaria perduta.

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