Metanalisi e diabete: tra scienza e metascienza

Matteo Monami

Unità Piede Diabetico, SODc Diabetologia, Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi, Firenze

Lettura in occasione del Premio Alcmeone tenutasi a Rimini al 51° Congresso della Società Italiana di Diabetologia, 5 maggio 2016

Alcmeone di Crotone, figlio di Pirito, disse questo a Brontino e a Leonte e a Batillo: “delle cose invisibili e delle cose visibili soltanto gli dèi hanno conoscenza certa (sapheneian); gli uomini possono soltanto congetturare (tekmairesthai)”.

Filosofi e medici sono entrambi uomini e quindi, per sillogismo perfetto, in grado di congetturare entrambi sulla realtà delle cose; ma mentre il filosofo e le sue ipotesi non creano nocumento, se non quello di distorcere la verità o renderla troppo amara il medico, avendo tra le mani la vita dei suoi pazienti, non può permettersi troppe congetture errate. Proprio per questo il metodo scientifico, strumento in grado di farci avvicinare alla conoscenza degli dei, è l’unico in grado di nobilitare le nostre congetture.

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Gli studi fisiopatologici, epidemiologici, i trial clinici, come le meta-analisi sono tutte armi utili per cercare di sondare la verità delle cose, tutte con vantaggi e svantaggi, limiti e punti di forza che vanno ben conosciuti se non vogliamo nuocere ai nostri pazienti, più di quanto la nostra natura umana già non ci induca a fare.

Solitamente, quando si parla di strumenti metodologici, esistono diverse fazioni, “l’un contro l’altra armata”, che cercano di convincere gli altri della bontà di una metodologia rispetto ad un’altra. Ci sono gli amanti degli studi fisiopatologici, che cercano di spiegare la natura delle cose partendo da dimostrazioni di tipo meccanicistico sul funzionamento o il mancato funzionamento alle basi di una determinata malattia. Tali studi sono ovviamente di fondamentale importanza; nel caso del diabete, infatti, grazie a questo tipo di studi si è arrivati a conoscere molto delle anomalie alla base della patologia, passando dal concetto di triumvirato, ovvero muscolo, beta-cellula e fegato, al ben più complesso e credibile “ominous octet”, che ha permesso una migliore comprensione del diabete e soprattutto lo sviluppo di nuovi farmaci e tecnologie (1). Sebbene, molto importanti, questo tipo di studi non sono sufficienti da soli a creare evidenze esaustive. Ad esempio l’identificazione di un fattore di rischio cardiovascolare, quale l’acido urico (2), mediante studi epidemiologici e meccanistici, non ha tuttavia, trovato conferme unanimi in trial clinici con farmaci in grado di ridurne i livelli ematici; infatti, la riduzione dell’uricemia non si è tradotta in una diminuzione degli eventi cardiovascolari incidenti (3). Un altro classico esempio, è quello della dimostrazione di un maggior potere antiossidante del Martini shakerato, rispetto a quello mescolato, studio questo che ha avuto l’innegabile merito di gettare per primo luce sulla longevità di Mr. Bond, ma che sfortunatamente non ha alcun razionale o plausibilità biologica (4).

In realtà, tutti concordiamo sul fatto che in medicina gli atteggiamenti diagnostico-terapeutici dovrebbero essere quanto più possibile “basati sulla evidenza”, dove il trial clinico di fatto rappresenta il gold standard per eccellenza (5). Purtroppo, la realtà delle cose è ben diversa; infatti, meno del 20% di ciò che i medici fanno ogni giorno possiede almeno uno studio clinico ben disegnato a sostegno della sua utilità (6) e nei restanti casi spesso ve ne sono molti e con risultati diversi, talvolta addirittura discordanti tra loro. In questo caso, la scelta di un atteggiamento terapeutico, invece di un altro, diventa quanto mai arbitraria, nonostante derivi dallo strumento “evidence based” per eccellenza, ovvero il trial clinico. Un tipico esempio, è quello degli studi di intervento sul trattamento dell’ipercolesterolemia per ridurre il rischio eventi cardiovascolari incidenti. Il trial MRC/BHF Heart Protection (7) effettuato con la simvastatina ha dato risultati ottimi in termini di eventi cardiovascolari maggiori, ictus e mortalità da tutte le cause; al contrario, un trial molto simile, con la pravastatina, il PROSPER (8) non ha riportato alcuna superiorità nel braccio di intervento, in nessuno degli outcome studiati. Altro esempio controverso, può essere quello di trial clinici con risultati neutri o non pienamente significativi, ma non adeguatamente dimensionati per ottenere differenze statisticamente significative tra i gruppi di intervento. I trial di intervento atti a dimostrare una superiorità del controllo glicemico intensivo nel ridurre gli eventi cardiovascolari ne è un tipico esempio; sia lo UKPDS (9), che l’ADVANCE (10) e il VADT (11), infatti, non hanno un’adeguata potenza statistica per evidenziare differenze significative negli eventi cardiovascolari maggiori (Tab. 1),28_2_Rassegna 1_Tab 1

perché hanno endpoint compositi micro e macrovascolari. L’ACCORD (12), invece, seppur adeguatamente disegnato, non ha raggiunto una sufficiente potenza statistica, in quanto prematuramente interrotto. In questo caso una metanalisi può essere di aiuto come spiegato in seguito.

I trial, inoltre, non sono strumenti sempre adeguati per rispondere ad alcuni quesiti di sicurezza farmacologica. Infatti, per eventi avversi rari o comunque non frequenti, difficilmente può essere disegnato un trial clinico apposito, sia per mancanza di interesse da parte dell’industria, che per le dimensioni campionarie e i periodi di osservazione abnormi. Un esempio, le pancreatiti in corso di terapia con inibitori della DPP-4 o chetaoacidosi con gli inibitori degli SGLT-2. Inoltre, anche per eventi non infrequenti, come ad esempio le patologie tumorali, è davvero eccezionale la costruzione di un trial clinico con un endpoint simile e spesso tali problematiche rimarrebbero senza una risposta chiara ed univoca.

Per tutti questi, ed altri motivi, anche uno strumento potente e universalmente riconosciuto come gold standard, quale un trial clinico, può non essere in grado di dare risposte a tutti i quesiti, al pari degli studi fisiopatologici.

I limiti dei trial clinici e l’aumento vertiginoso del loro numero in molti settori della medicina hanno determinato una parallela ed esponenziale crescita del numero delle metanalisi (Fig. 1).

28_2_Rassegna 1_Fig 1

Tale inevitabile aumento deriva principalmente dalla estrema difficoltà di sintetizzare la sempre più crescente mole di letteratura su singoli farmaci, fattori di rischio o eventi avversi che, come ricordato prima, non sempre è univoca e concorde.

Le metanalisi e le revisioni sistematiche della letteratura

Uno dei modi possibili di riassumere i dati è quello della narrative review. La narrative review o revisione sistematica fornisce una sorta di riassunto dello stato dell’arte in un dato settore disciplinare e ha una indubbia utilità, ma anche lo svantaggio di non fornire un univoco dato sintetico, immediatamente comprensibile e fruibile, come l’odd ratio.

La meta-analisi, invece, definita come una tecnica clinico-statistica, in grado di “assemblare” i risultati di più trial (o studi epidemiologici) solitamente di uno stesso trattamento, è in grado di fornire un unico risultato cumulativo. Esistono due principali tipologie di metanalisi: la pooled analysis e la metanalisi classica.

La principale differenza consiste nel fatto che la pooled analysis si basa sui dati provenienti dai singoli partecipanti di più trial clinici, come se fossero arruolati in un unico studio. Possono essere condotte in maniera retrospettiva o prospettica, come accade più frequentemente con i farmaci di nuova introduzione in commercio in ambito diabetologico. Infatti, spesso programmi di sviluppo di una singola molecola prevedono il disegno di più trial clinici che arruolino soggetti con criteri di inclusione molto simili tra loro, di modo da semplificare un successivo (pre-specificata) pooling dei dati. La metanalisi “classica”, invece, è sempre possibile anche quando i dati dei singoli pazienti non sono disponibili e ha il vantaggio di poter dare risultati sintetici anche per molecole differenti all’interno di una classe di farmaci.

Le ragioni principali per cui una meta-analisi è da considerare a tutti gli effetti uno strumento utile e in alcuni casi imprescindibile sono almeno tre:

1. L’efficacia di molti trattamenti (malattie gravi o diffuse, trattamenti innovativi o ritenuti tali) viene valutata da più trial, cosa che ne rende indispensabile un resoconto sintetico se si vuole che la pratica della medicina sia basata sui risultati della ricerca clinica (evidence-based medicine). Una iniziativa finalizzata a soddisfare questa esigenza è la Cochrane Collaboration. È questo un mega-network internazionale non-profit costituito da numerosi gruppi collaborativi, che producono e diffondono meta-analisi di trattamenti relativi a specifici problemi sanitari (13). Come già ricordato prima, spesso i singoli trial oltre a dare risultati non sempre concordi, sono sotto dimensionati per dimostrare una differenza significativa tra gruppi. Una metanalisi, quindi, oltre ad avere il vantaggio di sintetizzare più dati provenienti da studi diversi, può incrementarne la potenza statistica, dando risposte che i singoli studi non potrebbero fornire. La prima meta-analisi, condotta da Karl Pearson nel 1904, è stata condotta proprio nel tentativo di superare questo problema negli studi con campioni di piccole dimensioni (14-15). Un esempio paradigmatico, in questo senso, è quello dei trial di intensificazione del trattamento ipoglicemizzante (Tab. 1), sotto dimensionati se presi singolarmente, ma che quando metanalizzati mostrano una significativa superiorità del miglior compenso glicemico nella prevenzione degli eventi cardiovascolari maggiori (16).

2. Talvolta i trial forniscono dati divergenti o discordanti tra loro ed una metanalisi può, “pesando” i vari studi e sintetizzando i diversi dati ottenuti, cercare di risolvere le controversie, dando una interpretazione più omogenea ed univoca ad uno stesso problema. Un esempio, in questo senso, è costituito dai diversi risultati ottenuti dalle terapie ipolipemizzanti: in alcuni trial (es. Heart Protection Study, 7) di riduzione del rischio cardiovascolare, in altri (es. PROSPER, 8) invece neutrali. Anche in questo caso, l’unico strumento in grado di valutare se una classe di farmaci, in questo caso le statine, non scevra da costi ed effetti collaterali, sia cost-effective e sicura è quello metanalitico (18).

3. Un’altra indubbia potenzialità della metanalisi è quella di indagare aspetti di sicurezza delle terapie farmacologiche, soprattutto se gli eventi avversi in questione sono rari o molto rari. Un esempio potrebbe essere quello delle pancreatiti e dei tumori del pancreas con i farmaci incretinici, la cui relazione è stata sospettata in uno studio di farmacovigilanza (18). Dati successivi provenienti da analisi metanalitiche (19-20) su oltre 100 trial, compresi studi non pubblicati, non ha tuttavia confermato questa relazione, impedendo il ritiro dal commercio di una classe di farmaci, molto utili quali gli analoghi del GLP-1 e gli inibitori della DPP-4 (21).

In altre occasioni gli strumenti metanalitici sono stati oggetto di accese discussioni, come nel caso degli inibitori della DPP-4 e la loro presunta azione cardioprotettiva. Infatti, molte metanalisi e pooled analysis preliminari, che hanno indagato la relazione tra inibitori della DPP-4 ed eventi cardiovascolari maggiori incidenti, hanno ipotizzato una riduzione del rischio con tutte le molecole della classe (22-28), che in alcuni casi ha addirittura raggiunto la piena significatività statistica (22-23, 28). Questi studi hanno indotto a credere molti clinici in un reale effetto cardioprotettivo di questa classe di farmaci, frustrato tuttavia dai successivi studi di outcome cardiovascolare, che non hanno confermato questa presunta superiorità rispetto al placebo (29-31). Tali differenze possono essere spiegate in diversi modi; il primo proprio riconoscendo alcuni limiti metodologici delle metanalisi, che potrebbero aver determinato una sovrastima dell’effetto benefico di questa classe di farmaci. Innanzitutto, i trial di fase 2 e 3 inclusi nelle varie metanalisi hanno outcome diversi da quelli cardiovascolari, quindi non sono stati disegnati per questo scopo. Questo, unitamente al fatto che spesso in trial con outcome metabolici non sono previste commissioni indipendenti per l’aggiudicazione degli eventi cardiovascolari, potrebbe aver fatto erroneamente classificare alcuni casi, determinando una distorsione dei risultati. Inoltre, in molti casi, sono stati inclusi trial con durata di trattamento molto dissimile tra loro, con numerosi studi con periodi di trattamento molto corti e quindi con maggior probabilità di registrare nessuno o pochi eventi. Nonostante, vi siano meccanismi di correzione di questo bias (sensitivity analysis), non è possibile escludere una alterazione dei risultati ottenuti. Inoltre, i trial precoci arruolano popolazioni mediamente più sane rispetto ai trial con outcome cardiovascolare. Inoltre, metanalisi che includono anche trial di piccole dimensioni e qualità bassa, possono portarsi dietro i limiti presenti in tali studi, determinando un’elevata eterogeneità complessiva della metanalisi stessa, per caratteristiche della popolazione arruolata, durata, modalità di trattamento, ecc. Infine, una ricerca non esaustiva, che non includa quindi tutti i trial con quei pre-specificati criteri di inclusione, comprendenti gli studi non ancora pubblicati, la presenza di bias di pubblicazione (solo trial con effetti benefici o neutri della molecola sponsorizzata) o l’uso di inadeguati o errati metodi statistici sono ulteriori problemi importanti che spesso affliggono le metanalisi presenti in letteratura (Tab. 2).

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Un’altra possibile spiegazione dei diversi risultati ottenuti con strumenti metanalitici, rispetto ai trial appositamente disegnati per valutare la sicurezza cardiovascolare, potrebbe tuttavia derivare, non tanto dai problemi metodologici delle metanalisi, ma dall’impiego di una classe di farmaci in popolazioni molto differenti tra loro (Tab. 3).

28_2_Rassegna 1_Tab 3

Si potrebbe, infatti, ipotizzare che l’impiego di una classe di farmaci, come nel caso specifico quella degli inibitori della DPP-4, in una popolazione a basso rischio cardiovascolare (“prevenzione primaria”) abbia effetti diversi rispetto a quelli ottenuti in popolazione ad alto o altissimo rischio (“prevenzione secondaria”).

La possibilità di un diverso effetto cardioprotettivo di un farmaco, secondo la popolazione in cui viene testato, non dovrebbe stupire più di tanto. Ad esempio, l’aspirina utilizzata in prevenzione primaria si è dimostrata di poco superiore al placebo nel ridurre mortalità, infarto e ictus con un incremento considerevole degli eventi avversi (32), mentre in popolazioni con pregresso evento cardiovascolare l’effetto protettivo di questo farmaco è inconfutabile e ormai ben documentato (33). In tale direzione sembra andare anche l’effetto cardioprotettivo degli analoghi del GLP-1; infatti, nelle metanalisi di trial con outcome metabolici, e quindi in popolazioni relativamente sane, sembra esserci una riduzione degli eventi (almeno contro placebo, 34). Tale effetto protettivo sembra essere confermato dallo studio LEADER e SUSTAIN (press release su http://www.novonordisk.com/media.html) – con liraglutide e semaglutide –, in popolazioni con rischio cardiovascolare intermedio, ma non nello studio ELIXA (35) – con lixisenatide – condotto in popolazioni ad altissimo rischio cardiovascolare.

In questo caso, come analogamente per gli inibitori di SGLT-2 (www.emaeuropa.eu), le metanalisi (ben condotte e complete) hanno fotografato in anticipo ed in maniera molto precisa i risultati degli studi di outcome cardiovascolare (36), dando informazioni utili al clinico, che non può permettersi di aspettare anni prima di conoscere se una terapia è o meno sicura.

Le metanalisi possono dunque rivelarsi un valido strumento per cercare di avvicinarsi il più possibile ad un modello di medicina basato sull’evidenza ma, come tutti gli strumenti, se utilizzato male (o per fini non propriamente scientifici), può portare a considerazioni completamente errate. Il classico esempio è quello della metanalisi condotta da Nissen e Wolski sulla relazione tra rosiglitazone e aumentata incidenza di infarto miocardico e mortalità cardiovascolare. Questo studio sia per l’utilizzo di analisi statistiche non appropriate, che per i criteri di selezione dei trial del tutto arbitrari, è giunto a conclusioni rivelatesi poi del tutto errate (37). Analisi successive condotte con metodologie appropriate e includendo tutti i trial condotti con rosiglitazone non hanno in nessun caso confermato i risultati ottenuti da Nissen e Wolski (38-40), come testimoniato da una riabilitazione postuma da parte di FDA (41).

In conclusione, citando sempre il buon Alcmeone, potremmo dire che se è vero che nessuno strumento umano, anche se utilizzato nel migliore dei modi, potrà mai permettere all’uomo di avvicinarsi al sapere divino, che almeno il nostro difficoltoso “congetturare” non sia reso ancor più vano da sciocche credenze popolari ed infondati pregiudizi.

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