a cura di Francesco Purrello
Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Catania
Massimo Federici, Dipartimento di Medicina dei Sistemi, Università degli Studi di Roma Tor Vergata, Centro Aterosclerosi, Policlinico Tor Vergata
INTRODUZIONE
La “Medicina Traslazionale” si basa sulla capacità di trasferire in modo rapido nuove conoscenze dalla scienza di base a quella biomedica in modo da generare applicazioni diagnostiche e terapeutiche avanzate offrendo nel contempo nuovi strumenti di indagine.
Sebbene la conoscenza dei fattori predittivi di rischio convenzionali può aiutare nella diagnosi della malattia futura, la previsione che offrono ad oggi resta imperfetta, rispecchiando la nostra comprensione incompleta dei meccanismi sottostanti. Il limite maggiore della ricerca di nuovi biomarcatori è restare nell’ambito di meccanismi d’azione già esplorati, i modelli statistici dicono chiaramente che in questo modo il risultato è modesto (1).
Se ad esempio pensiamo al diabete di tipo 2 ci rendiamo conto di come i nuovi biomarcatori che interrogano l’omeostasi del glucosio non offrano maggiore potere discriminativo per il rischio di sviluppare malattia o complicanze rispetto a quelli consolidati. Una recente analisi fatta da Wang e colleghi suggerisce che per migliorare il potere predittivo dei biomarcatori è necessario utilizzare quelli che hanno una media di correlazione marcatore-marcatore debole invece che forte (2). Questo significa che un biomarcatore che correla poco con quelli classici ha più probabilità di migliorare la stima del rischio dell’evento clinico sotto osservazione. Semplificando, se il colesterolo totale funziona bene per il rischio cardiovascolare allora è inutile aggiungere un altro marcatore della stessa via metabolica al fine di migliorare la nostra attività clinica, meglio puntare su altro tipo di marcatore che magari può offrire anche spunti per la ricerca di nuovi meccanismi. Al tempo stesso però se si trovasse un marcatore migliore del colesterolo totale (ad esempio come proposto il colesterolo LDL o l’ApoB) potrebbe valere la pena non aggiungerlo ma bensì sostituirlo al precedente e vedere come lavora in interazione con i nuovi biomarcatori emergenti (3).
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Questo ampio preambolo ci porta ad una conseguenza: per migliorare le nostre conoscenze dobbiamo analizzare in modo più sistematico le casistiche cliniche ed identificare marcatori che anche se apparentemente poco collegati alla patologia in esame, proprio per questo possono offrire sia una nuova ipotesi meccanicistica sia migliorare gli strumenti di valutazione clinica disponibili.
Il diabete di tipo 2 e l’insulino-resistenza sottostante sono considerati i paradigmi delle malattie metaboliche, quindi perché non puntare proprio sull’analisi del metabolismo umano con metodiche che ci offrano una visione globale (sistematica) del suo andamento? Una possibilità per l’identificazione di nuovi marcatori di rischio e di meccanismo è quindi offerta dall’analisi globale del metaboloma umano (4). Mentre decenni di ricerca in biochimica, nutrizione, e la fisiologia hanno rivelato specifiche vie metaboliche, indagini sistematiche dei meccanismi alterati nei principali disordini del metabolismo come il diabete mellito e l’aterosclerosi, sono ora resi più semplici grazie alle nuove tecnologie. La metabolomica sfrutta tecniche come la spettrometria di massa e risonanza magnetica nucleare (NMR) che permettono il monitoraggio di centinaia di analisi da campioni biologici. Queste tecnologie promettono di trasformare la nostra capacità di profilare i campioni, con l’obiettivo di illuminare la biologia e avviare la scoperta sia di nuovi biomarcatori clinici sia di nuovi meccanismi molecolari di malattia (5).
La metabolomica, costruita su decenni di ricerca di base in biochimica, mira a misurare i metaboliti presenti all’interno di una cella, tessuto o organismo al basale o nel contesto di uno stato perturbato, come un’alterazione genetica o uno stimolo fisiologico o ambientale. Tuttavia, con una stima attuale di 5.000 metaboliti rilevabili nel siero umano (un numero destinato ad aumentare con i progressi tecnologici) (6), si rende necessario avviare una mappatura metabolomica globale, obiettivo non raggiunto che però potrebbe trasformare i nostri processi clinici.
Dallo studio degli effetti metabolici del silenziamento genico per identificare fenotipi apparentemente silenziosi in sistemi modello come il lievito, le tecniche di profiling biochimiche sono quindi evolute nel corso degli ultimi anni permettendo di acquisire informazioni su centinaia di metaboliti all’interno dello stesso campione ed offrendo quindi una serie di informazioni che possono integrare gli effetti del genoma e delle influenze ambientali sul funzionamento di cellule, tessuti e organismi (7). Il metaboloma è infatti composto da una incredibile varietà di classi chimiche e fisiche che vanno dai piccoli metaboliti, polari, volatili idrofili sino a grandi complessi come i lipidi idrofobici. La gamma dinamica di concentrazioni del metabolita varia attraverso diversi ordini di grandezza, dal picomolare al millimolare. Per ottimizzare la prifilazione globale del metaboloma, è quindi necessario l’uso di una vasta gamma di tecniche analitiche nel campo della metabolomica quali la Risonanza Magnetica Nucleare. spettrometria di massa collegate con gas cromatografia solida o liquida, oggi accoppiate a diverse tecnologie di separazione ionica (sistemi QTOF, TOF) che permettono di analizzare diverse classi di metaboliti (Fig. 1) (5, 8).
L’APPLICAZIONE DELLA METABOLOMICA NELLA SINDROME METABOLICA: TRA FISIOPATOLOGIA E CLINICA
Vediamo ora alcuni esempi recenti di come la metabolomica sta modificando le nostre conoscenze sulle malattie metaboliche e le ricadute cliniche.
Nel 2008 l’analisi metabolomica della risposta alla curva da carico di glucosio ha permesso di identificare diversi profili metabolici rivelando nuovi assi distinti di sensibilità all’insulina (9). In particolare veniva osservato in individui sani che 18 metaboliti plasmatici precedentemente collegati all’omeostasi glicidica cambiava in modo riproducibile in risposta al carico, tra cui acidi biliari, intermedi del ciclo dell’urea e prodotti di degradazione delle purine. Inoltre questa analisi ha individuato dei biomarcatori specifici per ognuna dei quattro assi principali della funzione dell’insulina, regolazione della proteolisi, lipolisi, chetogenesi, e glicolisi, che riflettono il passaggio da catabolismo a anabolismo. Applicando la stessa metodologia a soggetti con prediabete, veniva osservata nell’insieme una risposta funzionale ridotta di tutti gli assi. Nello stesso studio si osservava in particolare come i predittori migliori per l’insulinemia a digiuno fossero in maniera complementare il rapporto tra isoleucina/leucina, due amino acidi ramificati, e i livelli di glicerolo che riflettevano la sensibilità al controllo della proteolisi e della lipolisi rispettivamente. Il che ci porta a concludere che ognuna delle due alterazioni può segnalare un certo grado di insulino-resistenza che si traduce nello stesso livello di insulinemia a digiuno. Dunque due individui possono avere insulino-resistenza differente rispetto alla proteolisi e alla lipolisi pur mantenendo lo stesso profilo glicemico e la stessa insulinemia (9).
Newgard e colleghi hanno analizzato in diversi lavori il rapporto tra aminoacidi ramificati (BCAA) e insulino-resistenza, in particolare in rapporto all’obesità, sottolineandone sia il ruolo patogenetico nel diabete (che può derivare dalla disregolazione della via di segnale di mTOR) sia il possibile utilizzo come biomarcatori per testare il rischio di sviluppare malattia (10-11). Questa ipotesi è stata ampiamente confermata da un ampio studio che ha utilizzato soggetti caso-controllo provenienti dal Framigham Heart Study e dal Malmöe Cancer Study ma ha avuto un risultato meno eclatante in uno studio successivo basato su un’analisi di coorte (12-13). Perché questa differenza? È importante comparare i due studi. Nel primo caso si tratta di utilizzare dei casi accertati estratti da uno studio di popolazione e compararli con controlli che presentano lo stesso profilo di rischio al basale: questo approccio assicura di aumentare il potere di predittività del parametro che stiamo analizzando. Ma se ci spostiamo su una popolazione più ampia riduciamo il potere di discriminazione. Quale traslazione possiamo cogliere? Utilizzare il metabolita x (ad esempio un aminoacido ramificato o un suo derivato) mi permette di aumentare il calcolo del rischio di diabete di tipo 2 in una popolazione già preselezionata ma non in quella generale. Se quindi effettuiamo un primo screening ad esempio valutando l’indice di massa corporea o la glicemia a digiuno, poiché sappiamo che non tutti i soggetti selezionati svilupperanno malattia, qui ha senso applicare dei biomarcatori con ulteriore potere discriminatorio.
Studi simili effettuati sul metabolismo degli acidi grassi ed utilizzando in particolare le acilcarnitine come marcatori del metabolismo ossidativo hanno portato a nuove acquisizioni, in particolare per il calcolo del rischio di mortalità a breve termine in soggetti anziani o emodializzati (14-15).
Ma il ruolo della metabolomica non è limitato alla sola medicina diagnostica ma permette sia di migliorare le nostre capacità di capire i meccanismi di azione che sottendono alcuni fenomeni clinici noti sia scoprirne di inattesi.
Abbiamo recentemente studiato il ruolo del fattore di trascrizione FoxO1 nell’endotelio a seguito di alcune osservazioni, cioè che FoxO1 è centrale nella patogenesi del diabete e delle sue complicanze, che FoxO1 regola anche la funzione dell’endotelio e quest’ultima riveste un ruolo anche nel rischio di sviluppare diabete di tipo 2 e aterosclerosi. FoxO1 è regolato da diversi stimoli ormonali, ad esempio è inibito dall’insulina e questo effetto è perso nell’insulino-resistenza. Utilizzando forme transgeniche del fattore di trascrizione che si distinguono per capacità funzionale e posizione intracellulare in cellule endoteliali, abbiamo effettuato un esperimento di analisi del metaboloma cellulare (16). Questo esperimento ha rivelato che quando FoxO1 è attivo nella cellula (come in condizioni di insulino-resistenza), un metabolita derivato dall’arginina e noto come Arginina DiMethyl Asimmetrica (ADMA) aumenta nella cellula. La possibile ricaduta traslazionale di questa osservazione ci ha interessato in quanto era già noto che sia ADMA sia FoxO1 inibissero la Ossido Nitrico Sintetasi endoteliale (eNOS) enzima cruciale per la funzione endoteliale e la produzione di ossido nitrico. Partendo dall’analisi metabolomica abbiamo ricostruito il percorso che porta dalla disregolazione di eNOS (ad esempio nell’insulino-resistenza) all’effetto di FoxO1 sulla trascrizione di un enzima noto come DDAH1 (Arginina DiMethyl Asimmetrica Deidrolasi) che è a sua volta il regolatore di ADMA. Quando FoxO1 è troppo attivo, esso inibisce la trascrizione di DDAH1. Meno DDAH1 nella cellula fa aumentare i livelli di ADMA che a sua volta inibisce eNOS. Il successivo passo traslazionale è stato valutare se i rapporti tra FoxO1, DDAH1 e ADMA siano evidenziabili in vivo. Analizzando placche aterosclerotiche abbiamo confermato che laddove FoxO1 è prevalentemente attivo nel nucleo cellulare, l’espressione di DDAH1 si abbassa e il livello ematico di ADMA aumenta. Una prima conclusione di questi studi è che ADMA, già noto come biomarcatore di rischio cardiovascolare, possa essere utilizzato come biomarcatore delle funzioni metaboliche del fattore di trascrizione FoxO1 (Fig. 2).
Recentemente, una serie di studi su biomarcatori di rischio di eventi cardiovascolari quali infarto, ictus o morte improvvisa in una valutazione prospettica di tre anni ha evidenziato nuove connessioni tra dieta, batteri intestinali e il metaboloma, portando alla luce che alcuni metaboliti della fosfatidilcolina contenuta nella dieta come betaina, colina, e trimetilammina N-ossido risultavano predittori di rischio cardiovascolare e svelando come l’integrazione alimentare di colina fosse sufficiente a promuovere l’aterosclerosi in modelli sperimentali murini, e come la soppressione di batteri intestinali responsabili per la conversione della fosfatidilcolina alla colina inibisse negli stessi modelli sperimentali lo sviluppo di aterosclerosi (17-20).
Anche nel diabete di tipo 2 la metabolomica sta facendo emergere nuovi meccanismi di malattia a seguito dell’identificazione di metaboliti. Ecco due esempi recenti. Nel primo caso, utilizzando una piattaforma metabolomica che analizza acidi intermedi organici, purine, pirimidine, e altri composti, sono stati analizzati 188 individui che hanno sviluppato il diabete e 188 controlli estratti da 2422 partecipanti normoglicemici seguiti per 12 anni nel Framingham Heart Study (21). Il metabolita acido 2-amino adipico (2-AAA) è risultato il più fortemente associato al rischio di sviluppare il diabete. Gli individui con concentrazioni di 2-AAA nel quartile più alto avevano un rischio maggiore di 4 volte di sviluppare il diabete e come già sottolineato in precedenza, il fatto che i livelli di 2-AAA non fossero ben correlati con altri biomarcatori del diabete, come aminoacidi a catena ramificata (BCAA), suggeriva che il 2-AAA segnalasse un meccanismo di danno metabolico diverso da quelli noti. Dati sperimentali su modelli murini e cellulari inducono a ritenere che 2-AAA interferisca in particolare con la secrezione insulinica, malgrado il meccanismo molecolare non sia ancora chiaro. Lo studio del modello murino knockout per ApoE ha rivelato come TIMP3, una proteina che inibisce alcune proteasi con risvolti nel controllo metabolico sistemico, sia coinvolto nella regolazione della flessibilità metabolica cardiaca e combinando metodiche di metabolomica e di sequenziamento di RNA è stato identificato un meccanismo di azione che regola la transizione da metabolismo ossidativo a glicolitico attraverso la secrezione di un peptide chiamato Apelina. Nel modello mancante di TIMP3 infatti si osserva un blocco del metabolismo ossidativo che comporta innesco della glicolisi e fenomeni di ipoglicemia correlati con insorgenza di aritmie e morti improvvise che devono essere ulteriormente approfonditi (22).
CONCLUSIONI
La metabolomica è una metodica di studio emergente che offre a chi opera nel settore delle malattie metaboliche diverse possibilità applicative, tra implementazione dei processi diagnostici a miglioramento delle conoscenze patogenetiche. La definizione completa del metaboloma umano (23) ci permetterà di identificare quindi nuove variabili da introdurre per la diagnosi e la cura del diabete e delle patologie correlate.
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