Laura Nigi, Guido Sebastiani, Francesca Mancarella, Francesco Dotta
U.O.C. Diabetologia, Dipartimento di Scienze Mediche, Chirurgiche e Neuroscienze,
Università degli Studi di Siena; Fondazione Umberto Di Mario ONLUS – Toscana Life Science Park, Siena
Introduzione
Il diabete tipo 1 (DM1) è una malattia autoimmune cronica che si sviluppa in individui geneticamente predisposti e caratterizzata dalla distruzione delle cellule beta pancreatiche da parte del sistema immunitario (1). La patogenesi del DM1 è multifattoriale, rappresentando il risultato dell’interazione tra predisposizione genetica, fattori ambientali e sistema immunitario. Quest’ultimo partecipa alla progressiva distruzione e disfunzione delle beta-cellule pancreatiche con il coinvolgimento di linfociti T (CD4 e CD8-citotossici) e di citochine pro-infiammatorie (es.: Interferone-gamma, Interleuchina-1, TNF-alfa) che possono indurre sia apoptosi sia danno funzionale a carico delle cellule insulino-secernenti.
La perdita della tolleranza immunitaria nei confronti della beta-cellula, caratteristica del DM1, è evidenziata dalla presenza di autoanticorpi circolanti diretti contro antigeni beta-cellulari, sia di natura proteica (2) che glicolipidica (3). Infatti, alla diagnosi di DM1, i pazienti presentano autoanticorpi circolanti (AAbs) contro antigeni delle cellule insulari, che possono peraltro precedere di molti anni l’esordio della malattia e sono quindi utilizzati come markers per l’identificazione dei soggetti a rischio di sviluppare DM1 (4). Gli autoanticorpi circolanti diretti contro antigeni insulari, quali l’insulina, l’isoforma 65-kDa della decarbossilasi dell’acido glutammico (GAD), la tirosina fosfatasi IA-2 e il trasportatore cationico dello zinco nelle beta-cellule (ZnT8) sono i principali indicatori del processo autoimmune che precede ed accompagna l’insorgenza del DM1.
Tuttavia, i suddetti autoanticorpi, pur rappresentando i migliori markers di autoimmunità insulare attualmente disponibili, non rivestono un particolare significato patogenetico dal momento che non partecipano direttamente al danno beta-cellulare. Infatti, quest’ultimo è mediato da linfociti T citotossici e da macrofagi, con la partecipazione di citochine pro-infiammatorie.
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L’isola pancreatica nel diabete tipo 1
L’istopatologia del DM1 è caratterizzata dalla tipica infiammazione delle isole pancreatiche, definita “insulite”, che descrive la presenza di un infiltrato di cellule immuno-competenti a carico delle isole pancreatiche. La presenza dell’insulite è stata documentata decenni orsono, tuttavia una sua caratterizzazione è stata possibile solo recentemente grazie sia alla disponibilità di nuove tecniche di immunochimica molecolare e cellulare, sia ad iniziative quali la rete di ricerca “Network of Pancreatic Organ Donors” (nPOD), che ha iniziato a raccogliere sistematicamente pancreas provenienti da donatori d’organo affetti da DM1 o da autoimmunità insulare (e pertanto non utilizzabili per trapianto), creando quindi una biobanca di tessuti estremamente preziosi per ottenere informazioni su quanto avviene nell’organo bersaglio in corso di DM1 (5). Numerosi studi hanno dimostrato che l’insulite si caratterizza (Fig. 1) per la presenza di varie cellule del sistema immunitario (linfociti T citotossici CD8+, linfociti T CD4+, linfociti B, macrofagi, cellule Natural Killer, cellule dendritiche), probabilmente attratte dalla produzione da parte delle beta-cellule stesse che secernono chemochine pro-infiammatorie (CXCL-10 e CCL-2), a loro volta sintetizzate in risposta a fenomeni di stress cellulare indotti da eventi quali, ad esempio, infezioni virali. Le cellule T CD8+ sono predominanti, rispetto ad altri tipi cellulari che costituiscono l’infiltrato, mentre non sono mai state riscontrati linfociti T-regolatori (T-reg) (6).
Inoltre, uno studio recente svolto grazie al progetto nPOD (7) ha per la prima volta potuto dimostrare che i linfociti T citotossici CD8+ infiltranti le isole di Langerhans riconoscono effettivamente autoantigeni beta-cellulari quali insulina ed IA-2. Inoltre, lo stesso studio ha evidenziato che in numerosi individui un discreto numero di beta-cellule permane per molti anni dopo l’esordio clinico della malattia e che tale presenza di massa beta-cellulare residua è accompagnata dalla presenza di fenomeni autoimmunitari. Questo risultato ha di fatto dimostrato che in numerosi pazienti esiste un razionale per sviluppare ed utilizzare strategie terapeutiche di protezione beta-cellulare e di immuno-modulazione anche dopo l’esordio clinico del DM1.
Regolazione della massa beta-cellulare
Dai primi esperimenti d’immunoistochimica ad oggi, sono ormai numerose le evidenze che mostrano una certa variabilità nel numero delle cellule beta all’interno delle isole pancreatiche di soggetti con DM1. Ciò rispecchia l’estrema eterogeneità, sia qualitativa sia quantitativa, del processo di distruzione beta-cellulare che si verifica durante il decorso della malattia, a partire dalla fase preclinica. Al momento dell’esordio clinico del DM1, già la maggior parte delle isole pancreatiche risulta priva di cellule beta, a dispetto di un normale contenuto di cellule alfa, delta e cellule PP. Tali isole vengono indicate con l’acronimo IDI, ovvero, “insulin deficient islets”, per distinguerle dalle ICI (“insulin containing islets”), che risultano in netta minoranza numerica e che spesso tendono a distribuirsi all’interno di determinati lobi nel pancreas affetto. Le ICI, a differenza delle IDI, sono preferenzialmente interessate dal fenomeno dell’insulite (ovvero dal processo infiammatorio che si sviluppa all’interno delle isole, le quali risultano infiltrate da parte di linfociti T CD8 e CD4, linfociti B, macrofagi e cellule Natural Killer) (6), supportando la teoria secondo la quale tale processo immuno-mediato condurrebbe ad una distruzione beta-cellulo specifica. Le IDI rappresenterebbero, pertanto, isole nelle quali le cellule beta, originariamente presenti, sarebbero state distrutte in seguito all’attacco da parte di linfociti T autoreattivi (che costituiscono la principale componente cellulare all’interno dell’infiltrato). Le ICI con presenza di insulite sarebbero invece isole in cui le beta-cellule sono in corso di distruzione al momento dell’“osservazione” mentre, le ICI prive di insulite, sarebbero, infine, isole che non hanno ancora subito l’attacco da parte del sistema immunitario. Pertanto, poiché il processo di distruzione beta-cellulare può svilupparsi nell’arco di molto tempo, è plausibile il fatto di poter individuare all’interno delle isole pancreatiche cellule contenenti insulina anche a distanza di molti anni dall’esordio clinico della malattia (8-9). Tuttavia, c’è chi ipotizza fenomeni di proliferazione e/o di rigenerazione cellulare in risposta al processo di distruzione immuno-mediato. Ad oggi, il processo di proliferazione beta- cellulare non è stato ben documentato nell’uomo, anche se alcune evidenze suggeriscono che esso avvenga soprattutto nei primi due anni di vita e che poi subisca un declino repentino, cosicché già nella prima infanzia le cellule beta raggiungano uno stato di quiescenza proliferativa (10-11). Ciò nonostante, esperimenti condotti su animali mostrano che nell’età adulta è possibile assistere ad un ripristino della proliferazione delle cellule beta indotto da particolari condizioni di aumentata richiesta insulinica, come ad esempio durante la gravidanza o in caso di obesità che predispone all’insulino-resistenza (12-13). Tali evidenze, alle quali si aggiunge quella di un’aumentata replicazione beta-cellulare in sezioni di pancreas umano in presenza di pancreatite, suggeriscono che le cellule beta potrebbero conservare un’intrinseca capacità di replicarsi, ed attuare tentativi di compensazione della massa beta-cellulare perduta in caso di presenza di DM1 (14). In uno studio (15) condotto su 10 donatori d’organo con DM1 di recente insorgenza, confrontati con 3 donatori d’organo affetti da DM1 con lunga durata di malattia, 10 con diabete tipo 2 (DM2) e 14 non diabetici affetti da pancreatite, gli autori hanno evidenziato un incremento della proliferazione alfa- e beta-cellulare, nei pazienti con DM1 recentemente diagnosticato, che correlava positivamente con la presenza di insulite. Ciò suggerisce che le cellule insulari, in risposta all’attacco immuno-mediato, possano andare incontro a proliferazione, nelle fasi precoci della malattia o già a partire dalla fase pre-clinica, come indicato da studi su topi NOD e ratti BioBreeding e come osservato nel pancreas di una donna con positività autoanticorpale beta-cellulo specifica, in assenza di esordio clinico di malattia (4, 15-17). Un’affascinante teoria che si affianca a quella del ripristino della capacità proliferativa da parte delle cellule beta, in risposta ad un insulto, è quella della rigenerazione a partire da cellule non-beta. Sappiamo che le cellule alfa sono le prime a poter essere identificate nella linea cellulare endocrina durante il processo di sviluppo del pancreas, suggerendo un possibile ruolo di progenitori cellulari. Le cellule secernenti glucagone sono inoltre dotate di una certa “plasticità” in seguito a danno tissutale; è stato infatti osservato che un’espressione ectopica di PAX4 (un fattore di trascrizione importante per il differenziamento delle cellule beta) da parte delle alfa-cellule murine, a livelli fisiologici, induceva una trasformazione in cellule beta funzionanti. Ciò avverrebbe con il coinvolgimento di una via molecolare, simile a quella che opera in epoca embrionale durante lo sviluppo del pancreas, e che implica l’attivazione del fattore di trascrizione neurogenina 3 (Ngn3), espresso da cellule progenitrici, localizzate in prossimità dei dotti del pancreas adulto, inducendole a proliferare e ad adottare un’identità dapprima alfa- e successivamente beta-cellulare (18). La “strategia” messa in atto dal pancreas per contrastare la progressiva perdita delle cellule insulino-secernenti, che caratterizza il DM1, pur non essendo sufficiente ad evitare la comparsa della malattia, tuttavia può fornirci degli spunti per attuare una terapia in grado di preservare la massa beta-cellulare, ad esempio attraverso riprogrammazione cellulare e rigenerazione beta-cellulare in vivo (19). A tale scopo le cellule staminali pluripotenti sembrerebbero l’opzione di scelta per una futura applicazione clinica, poiché rappresenterebbero una fonte inesauribile di cellule beta funzionanti. Tuttavia, al momento, non ci sono chiare evidenze della presenza di cellule staminali nel pancreas adulto, perciò in alternativa, si potrebbe attuare una riprogrammazione cellulare oppure una transdifferenziazione di cellule pancreatiche esocrine o endocrine. Recentemente, infine, è stato suggerito il potenziale ruolo dell’ormone betatropina nel trattamento del DM1, in quanto potente stimolatore della proliferazione beta-cellulare nel topo. In uno studio del 2014, tuttavia, alcuni autori hanno confrontato le concentrazioni circolanti di betatropina in soggetti con DM1 (la maggior parte con lunga durata di malattia) ed in soggetti non diabetici, rilevando un incremento della concentrazione nei pazienti diabetici rispetto ai controlli. Tale risultato è in contrasto con quanto è stato osservato nel modello murino, in cui un’upregolazione della betatropina sembrerebbe indotta dall’insulino-resistenza e non da un deficit insulinico, suggerendo pertanto nell’uomo, l’eventuale necessità di dosi sovrafisiologiche di tale ormone, magari in combinazione con altre terapie (come ad esempio quella immunomodulante) per tentare di preservare la massa beta-cellulare (20). Attualmente non disponiamo di metodiche per misurare in vivo la massa beta-cellulare residua, ed in un recente studio 5 pazienti affetti da DM1 e 5 soggetti non diabetici sono stati sottoposti ad indagine SPECT, utilizzando come tracciante exenatide marcata con indio 111. L’uptake del tracciante è risultato ridotto nei pazienti diabetici rispetto ai soggetti di controllo (sebbene fosse presente un’alta variabilità interindividuale), senza differenze significative a distanza di 4, 24 e 48 ore dalla somministrazione del tracciante (21).
Regolazione della funzione beta-cellulare
Partendo dall’evidenza che anche a distanza di anni dall’esordio clinico della malattia si può avere persistenza di massa beta-cellulare residua la domanda successiva è se persista anche una funzione beta-cellulare residua. In linea generale, durante il decorso naturale della malattia, il declino della massa beta-cellulare si accompagna ad un declino anche della funzione con un’incapacità delle beta-cellule a rispondere ad uno stimolo di glucosio. Già nelle fasi che precedono l’esordio clinico del DM1, e ovvero quando ancora i livelli glicemici risultano normali, è presente un’alterazione della sensibilità al glucosio da parte delle cellule beta che inoltre è predittiva del successivo sviluppo di diabete, come descritto in uno studio condotto su parenti di soggetti con DM1, con positività autoanticorpale, e quindi a rischio di sviluppare essi stessi il diabete (22). Tuttavia, studi presenti in letteratura mostrano come alcuni pazienti con DM1, di lunga durata, mantengano livelli di C-peptide dosabili o addirittura clinicamente rilevanti, perfino a distanza di 50 anni dall’esordio clinico della malattia (9). Perciò, se da un lato la completa distruzione delle cellule beta sembrerebbe essere l’epilogo inevitabile del progressivo decorso del DM1, dall’altra è sempre più evidente che esiste un sottogruppo di pazienti in grado di conservare una certa capacità di secernere insulina, a cui potrebbe aggiungersi il fatto che, perlomeno in alcuni soggetti, la storia naturale della malattia potrebbe svilupparsi secondo un susseguirsi di fasi di remissione e ricadute, ritardando la perdita della massa/funzione beta-cellulare (23). Attualmente si conosce ben poco sull’importanza e sull’entità della secrezione insulinica residua e del perché essa sia presente soltanto in taluni soggetti diabetici piuttosto che in altri. In pazienti con DM1 di recente insorgenza, ad esempio, sono stati descritti due diversi pattern di secrezione insulinica in risposta ad uno stimolo (come ad esempio un pasto misto). I pazienti che presentavano una risposta precoce, con un picco secretorio nei primi 45 minuti dopo l’assunzione del pasto misto, mostravano una più rapida perdita della capacità di secernere insulina, suggerendo che potrebbero esserci delle differenze intrinseche a carico delle cellule beta fra i pazienti che conservano una funzione beta-cellulare residua a distanza di anni dalla diagnosi del DM1, rispetto a coloro che non la conservano (24). Con lo scopo di caratterizzare il processo di secrezione insulinica anche nei soggetti con DM1 di lunga durata di malattia (superiore a 2 anni, alcuni dei quali precedentemente trattati con anticorpo monoclonale anti-CD3) Sherr e coll. hanno sottoposto tali soggetti, così come pazienti con durata di malattia inferiore ad un anno e soggetti non diabetici, ad un pasto misto, confrontando la risposta del C-peptide. In circa il 70% dei pazienti diabetici con lunga durata di malattia era possibile rilevare la presenza di C-peptide basale (senza il riscontro di alcuna differenza fra coloro che erano stati trattati con anti-CD3 e non); inoltre tali soggetti presentavano una secrezione insulinica “ritardata” in risposta al pasto misto (a differenza dei soggetti non diabetici che avevano una risposta rapida) in linea con quanto descritto in precedenza, suggerendo che un tale pattern di secrezione possa associarsi ad una persistenza di funzione beta-cellulare residua in soggetti con lunga durata di malattia. Inoltre, indipendentemente dalla durata del diabete, la produzione endogena di insulina risultava clinicamente rilevante poiché l’entità della risposta secretoria correlava negativamente con i livelli di emoglobina glicata e con la terapia insulinica in atto. Infine, nei soggetti diabetici di lunga durata si assisteva ad un declino proporzionale della secrezione insulinica basale e dopo stimolo, a differenza di quanto descritto nei diabetici con recente insorgenza di malattia, in cui è compromessa soprattutto la secrezione indotta da stimolo. Ciò potrebbe riflettere la sopravvivenza selettiva di cellule beta in grado di rispondere allo stimolo indotto dal glucosio, oppure una perdita della sensibilità al glucosio in condizioni basali, dovuta ad un progressivo adattamento della beta- cellula nel corso degli anni di malattia (9). Inoltre, in seguito al recente sviluppo di metodiche ultrasensibili per la determinazione del C-peptide, che permettono di rilevare livelli circolanti anche inferiori a 5pmol/l, alcuni autori hanno recentemente studiato i livelli di C-peptide basale e dopo stimolo con pasto misto, sia nel siero che nelle urine, in 74 pazienti con DM1 di lunga durata (con una mediana di 29 anni). Lo studio ha mostrato che la maggior parte dei pazienti (54 su 74) presentava livelli misurabili di C-peptide basale, i quali, nel 44% dei casi, incrementavano in seguito all’assunzione del pasto misto, suggerendo che una percentuale variabile di cellule beta sia in grado di sfuggire al processo di distruzione immuno-mediato, oppure vada incontro a fenomeni di rigenerazione cellulare (25). Un contributo importante nella valutazione della funzione beta-cellulare nei pazienti con DM1 con lunga durata di malattia, giunge dal “Joslin medalist study” al quale hanno partecipato ben 411 soggetti con DM1, presente da più di 50 anni. Il 68% circa dei partecipanti allo studio presentava livelli misurabili di C-peptide (in occasione di un prelievo random) che in un sottogruppo di soggetti risultava ≥ 0,2nmol/l e correlava con più bassi livelli di emoglobina glicata, un’età più avanzata al momento della diagnosi, una maggiore frequenza del genotipo HLA DR3 ed una risposta secretoria in seguito ad un pasto misto (da segnalare che in più della metà dei soggetti con livelli basali di C-peptide >0,17nmol/l, si assisteva almeno ad un raddoppio di tali livelli dopo pasto misto). Infine, un’analisi post-mortem, tramite studi d’immunoistochimica su sezioni pancreatiche di 9 partecipanti allo studio, ha mostrato la presenza in 7 casi di cellule beta per lo più sparse o raggruppate in piccoli clusters nel tessuto esocrino, ed in 2 casi (con un’insorgenza più tardiva di malattia e con una buona risposta del C-peptide dopo pasto misto), anche all’interno delle isole (disposte per lo più in determinati lobi del corpo e della coda del pancreas). Le cellule beta risultavano per lo più in uno stato di quiescenza, sia per quanto riguarda il processo apoptotico che di proliferazione (come dimostrato da un basso numero di beta-cellule TUNEL positive e ki67 positive, rispettivamente); tuttavia, trattandosi di studi di immunoistochimica, non è possibile stabilire se tali cellule siano sopravvissute alla distruzione da parte del processo autoimmune oppure siano il risultato di una rigenerazione (26). Uno studio condotto su isole pancreatiche umane isolate da una paziente con DM1 a distanza di 8 mesi dalla diagnosi ha dimostrato come fossero ancora presenti delle cellule beta in grado di sintetizzare e rilasciare insulina e che il deficit di secrezione insulinica rispetto ad isole di controllo fosse soprattutto di tipo quantitativo, e che le caratteristiche di secrezione tendessero a migliorare dopo un periodo in coltura, ovvero dopo la rimozione dal loro ambiente nativo (27). Tra i possibili fattori che contribuiscono alla morte beta-cellulare in presenza di DM1 è stato recentemente proposto lo stress del reticolo endoplasmico indotto dalle citochine pro-infiammatorie quali IL-1β ed IFN-γ. Uno studio condotto su sezioni pancreatiche di soggetti con DM1 e soggetti di controllo, per determinare l’espressione dei markers di stress del reticolo endoplasmico, tramite saggi d’immunoistochimica, ha mostrato che le isole dei soggetti diabetici (contenenti insulina e non) mostravano livelli aumentati di CHOP e, soltanto nel sottogruppo di isole contenenti insulina e associate ad insulite, un incremento di BIP. XBP-1 non è risultato differentemente espresso nei soggetti diabetici rispetto ai controlli, sebbene risultasse espresso in tutte le isole esaminate. Tali risultati suggeriscono che lo stress del reticolo endoplasmico potrebbe contribuire alla disfunzione/morte delle beta-cellule e al processo insulitico nelle fasi precoci del DM1 (28).
Conclusioni
I recenti dati emersi sulla regolazione della massa e della funzione beta-cellulare in corso di DM1, evidenziano da un lato il coinvolgimento sia di componenti del sistema immunitario innato e di quello adattativo sia di fattori ambientali (es.: enterovirus) e, dall’altro, una notevole eterogeneità inter-individuale che riguarda l’entità e i meccanismi di danno insulare.
Se ipotizziamo che il processo di danno beta-cellulare immuno-mediato possa essere modulato, i pazienti potrebbero beneficiare d’interventi che abbiano come target il sistema immunitario, anche molti anni dopo l’insorgenza della malattia. Inoltre, poiché diversi fattori contribuiscono alla predisposizione e allo sviluppo del DM1, tra cui l’ambiente, la genetica, la percentuale di isole pancreatiche interessate dal processo autoimmune e le differenze funzionali delle cellule beta, è necessario tener conto anche dell’eterogeneità dei pazienti nell’ottica di una strategia terapeutica.
Per esempio, terapie che mirino soprattutto alla preservazione della massa beta-cellulare e alla conservazione della funzione cellulare potrebbero essere particolarmente efficaci in pazienti che presentino una massa beta-cellulare residua funzionante, mentre pazienti con un’insulite severa potrebbero beneficiare di un intervento aggressivo sul sistema immunitario. In realtà ciascun elemento che contribuisce al dialogo tra il sistema immunitario e le cellule beta rappresenta un potenziale bersaglio per lo sviluppo di una strategia terapeutica e, ad oggi, diversi approcci terapeutici sono in corso di valutazione nell’ambito di trials clinici internazionali.
Infine uno degli elementi essenziali per il successo dei suddetti trials clinici è rappresentato dall’identificazione di biomarcatori di progressione di malattia e di risposta alla terapia, sia in termini di funzione beta-cellulare che di risposta immunitaria (23). A tale riguardo, i microRNA, molecole presenti all’interno della maggior parte delle cellule del nostro organismo, stanno assumendo un’importanza sempre maggiore quali biomarcatori. Essi, a livello intracellulare, svolgono una funzione inibitoria sull’espressione dei geni che codificano per proteine, partecipando attivamente alla regolazione di molti processi cellulari. Inoltre, i microRNA possono anche essere secreti dalle cellule che li producono ed essere misurati nel sangue periferico. Questa caratteristica, li rende degli ottimi candidati come biomarcatori periferici per diverse malattie, tra cui il diabete (29), in quanto potrebbero potenzialmente rivelare, in periferia, le alterazioni eventualmente presenti nei tessuti colpiti da un determinato processo patologico. Esistono evidenze sperimentali secondo cui i microRNA sarebbero associati alla regolazione di diverse funzioni nell’ambito del sistema immunitario e, quindi, allo sviluppo di malattie a patogenesi immuno-mediata come il DM1 (30).
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