La Variabilità Glicemica ha un impatto cruciale o trascurabile sul rischio di complicanze e sulle scelte terapeutiche nel diabete mellito?

Rubrica Opinioni a Confronto a cura di Anna Solini1, Agostino Consoli2

1Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Pisa; 2Dipartimento di Medicina e Scienze dell’Invecchiamento, Università degli Studi di Chieti-Pescara “G. D’Annunzio” 

Il “confronto” di questo numero verte sul ruolo della variabilità glicemica nella fisiopatologia delle complicanze del diabete da un lato e sulla sua importanza nella definizione delle scelte terapeutiche dall’altro. Per un verso, infatti, la eventuale definitiva dimostrazione che oscillazioni importanti della glicemia possono essere dannose quanto o più di una glicemia cronicamente alta per la salute della parete vascolare apre la strada ad una serie di interessanti speculazioni scientifiche sui meccanismi molecolari che legano i livelli di glucosio alla induzione di danno vascolare. D’altro canto, in un momento in cui la definizione di livelli target di HbA1c nel trattamento dei pazienti diabetici diventa sempre meno automatica e sempre più strettamente legata alle caratteristiche cliniche ed anamnestiche dei pazienti, la eventuale dimostrazione di una relazione tra oscillazioni della glicemia ed outcome clinici indipendente, anche parzialmente, dai livelli di HbA1c, indurrebbe a focalizzare maggiormente il trattamento della malattia su obiettivi paralleli, quali, ad esempio, il raggiungimento di adeguato livelli di glicemia post-prandiale.

Tuttavia, i dati a supporto di un ruolo cardine della variabilità glicemica nella fisiopatologia delle complicanze del diabete e nella loro prevenzione non è stato ancora dimostrato con sufficiente certezza ed il “peso” di questa variabile nella complessa equazione che descrive la malattia diabetica rimane, al momento, ancora opinabile. Proprio perché questo “peso” è “opinabile”, ospitiamo in questo numero le “opinioni” a proposito di due colleghi con ampia esperienza: così Franco Cavalot argomenterà in favore della necessità di tenere in ampia considerazione la variabilità glicemica nella determinazione del rischio di complicanze e nel disegno delle strategie terapeutiche. Al contrario, Riccardo Candido ci metterà in guardia dai facili entusiasmi, argomenterà che le prove a favore di una determinante importanza della variabilità glicemica non sono sufficientemente solide e ci ricorderà che il raggiungimento di un adeguato livello di HbA1c in assenza di episodi di ipoglicemia resta, ad oggi, l’elemento chiave che definisce il buon controllo glicemico nel diabete mellito. Speriamo che, come noi, apprezzerete l’intelligente e stimolante discussione della quale i colleghi si sono resi protagonisti e troverete… “food for thoughts” nella lettura.

La Variabilità Glicemica ha un impatto cruciale o trascurabile sul rischio di complicanze e sulle scelte terapeutiche nel diabete mellito? 

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DISCUSSANT

Franco Cavalot1, Riccardo Candido2
1 SCDU Medicina Interna 3 ad Indirizzo Metabolico, AOU San Luigi Gonzaga di Orbassano; 2 Centro Diabetologico Distretto, A.S.S. 1 Triestina

Il ruolo chiave della variabilità glicemica nello sviluppo e nella prevenzione delle complicanze del diabete

Franco Cavalot

L’emoglobina glicosilata (HbA1c) è stata ed è universalmente considerata come il parametro di riferimento con cui valutare il raggiungimento di un buon compenso del diabete, sia di tipo 1 sia di tipo 2. La percezione più diffusa è che la riduzione dell’HbA1c porti alla riduzione di eventi e mortalità cardiovascolari (1), ma occorre tener presente che non è conclusiva l’evidenza che il trattamento intensivo riduca più del 10% il rischio relativo di eventi cardiovascolari, mentre è confermato che lo stesso trattamento aumenta il rischio relativo di ipoglicemia del 30% (2). Dati osservazionali ricavati dalla General Practice nel Regno Unito hanno evidenziato che nei pazienti diabetici trattati con ipoglicemizzanti orali o insulina i dati di mortalità rispetto ai valori di HbA1c hanno una forma ad U, con l’incidenza più bassa per valori di HbA1c pari a 7,5%, mentre per valori inferiori e valori superiori si assiste ad un incremento di mortalità (3). Va inoltre tenuto conto che con le terapie convenzionali solo 1 diabetico su 3 raggiunge il target raccomandato di HbA1c<7,5% (4). I molteplici fattori di rischio cardiovascolare che si accompagnano al diabete possono in parte giustificare la suscettibilità agli eventi cardiovascolari; un altro aspetto da tenere presente è il fatto che l’HbA1c riflette i valori glicemici medi, un parametro che risente della glicemia a digiuno e della glicemia postprandiale (GPP), ma non di numero, entità e morfologia delle variazioni glicemiche nel tempo (complessivamente comprese sotto l’entità denominata “variabilità glicemica”– VG –), parametri che invece stanno emergendo come importanti componenti del rischio cardiovascolare legato al diabete (5). Nei paragrafi seguenti andremo ad evidenziare cosa si intende per VG e quali sono i dati epidemiologici, i meccanismi di danno e le strategie di trattamento della VG.

Definizione di variabilità glicemica

Per VG si intende l’oscillazione dei valori glicemici intorno al valore glicemico medio. In un recente studio di Mazze et al. effettuato con il monitoraggio glicemico continuo (CGM), nel soggetto non diabetico i valori glicemici sono pari a 102±7 mg/dl, con una VG, valutata come range interquartile, pari a 21 mg/dl (91-112 mg/dl) e con variazioni mediane di 3±1 mg/dl/ora (6). Un controllo così stretto dei valori glicemici è mantenuto grazie ad un sofisticato sistema di controllo a feed-back. Perché l’organismo mantiene un controllo glicemico così stretto? Le risposte sono molteplici, tra le più importanti possiamo ricordare: la necessità di fornire un flusso continuo di glucosio per il sistema nervoso centrale che è glucosio-dipendente; tenere l’organismo pronto per le rapide richieste energetiche; permettere il normale sviluppo del feto (non dimentichiamo quanto è importante l’omeostasi glicemica a questo riguardo). Possiamo includere tra queste necessità anche il mantenimento della funzione vascolare? Probabilmente si, se pensiamo a quanto essa sia rilevante per l’adattamento alle molteplici necessità dell’organismo in toto ed ai differenti momenti funzionali dei singoli organi (pensiamo alla digestione, all’attività cardiaca, alla funzione renale, all’attività fisica, all’immagazzinamento e mobilizzo delle scorte energetiche, ecc.). Quando il controllo glicemico deteriora, aumentano i valori glicemici assoluti, ma consensualmente si riduce la capacità del sistema di mantenere stabili i valori glicemici entro il range ottimale, cioè aumenta la VG (6-7).
Quali sono le componenti della VG? Nel diabetico di tipo 1 e nel diabetico di tipo 2 insulino-trattato la VG può essere molto differente da un individuo ad un altro, spesso si osservano ampie e frequenti oscillazioni della glicemia con caratteristiche di iper-variabilità; le fonti di variabilità in questi soggetti sono legate alla via esogena/periferica di somministrazione dell’insulina, al variabile assorbimento dell’insulina, alla risposta contro-insulare, all’imperfetta corrispondenza tra assorbimento degli alimenti ed azione insulinica, all’effetto dell’attività fisica, ecc. Il CGM ci svela questa iper-variabilità in modo molto più chiaro ed evidente rispetto all’autocontrollo glicemico tradizionale. Nel diabetico di tipo 2 in terapia dietetica o ipoglicemizzante orale le principali fonti di VG sono i pasti (la GPP), l’effetto ormonale contro-regolatorio (effetto alba) e l’effetto farmacologico, in particolare delle sulfoniluree, in quanto stimolano in modo non perfettamente glucosio-dipendente la secrezione insulinica e pertanto possono indurre ipoglicemia.

Come esprimiamo la VG?

Non vi è consenso unanime sul come epsrimere la VG nel paziente diabetico. Non è scopo del presente articolo esaminare i differenti parametri utilizzati, oggetto di revisioni approfondite (ad es. (8)). Oltre alla VG intra-giornaliera, esiste una VG inter-giornaliera, che può essere espressa con il metodo del MODD (mean of daily differencens), ed una variabilità dell’HbA1c nel tempo, emersa come parametro predittore di complicanze in alcuni studi. Occorre ricordare che oltre alla modalità di espressione della VG è importante il metodo con cui vengono raccolti i dati: certamente il CGM condotto per più giorni è la metodica di misurazione che permette di avere il quadro più completo della VG inter- ed intra-giornaliera nel singolo soggetto. Se il CGM è il metodo di riferimento per la raccolta di dati il più completi possibile sulla VG, l’automonitoraggio glicemico è il metodo più semplice ed ampiamente utilizzato. Poiché i dati dell’automonitoraggio non seguono un andamento gaussiano, ma sono più dispersi a destra per i valori alti, media e deviazione standard non descrivono correttamente i valori glicemici, che possono essere disturbati da outliers; la mediana ed il range interquartile meglio riflettono la distribuzione dei valori glicemici nel singolo soggetto (9).

VG e rischio di complicanze

a) Dati sperimentali
Brownlee nel 2001 ha ipotizzato che l’iperglicemia stimoli una maggior formazione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) a livello mitocondriale in tessuti sensibili ad opera della catena di trasporto degli elettroni e che questo sia il principale meccanismo di danno vascolare glucosio-mediato attraverso l’attivazione delle vie dei polioli, dell’esosamina, della proteina chinasi C e l’iperproduzione di AGE (10). Le ROS possono interagire con macromolecole quali DNA, proteine e lipidi e generare derivati ossidati. Negli ultimi 15 anni i dati sperimentali (rivisti in (11)) hanno evidenziato come l’esposizione a livelli variabili di glucosio rispetto all’iperglicemia costante dia luogo ad una maggiore generazione di derivati ossidativi quali la nitrotirosina e la 8-idrossi-deossiguanosina. Le ROS inoltre inducono apoptosi cellulare, attivano il fattore nucleare NF-kB in cellule mononucleate e la proliferazione cellulare e la sintesi di collagene in cellule tubulo-interstiziali umane. L’iperglicemia intermittente favorisce l’adesione dei monociti all’endotelio dell’aorta toracica nel ratto e accelera l’aterogenesi in topi deficitari di apolipoproteina E. Queste ed altre evidenze sperimentali depongono per un effetto favorente le complicanze micro- e macro-vascolari della VG.

b) Dati epidemiologici nel diabete di tipo 1
Nel diabete di tipo 1 le evidenze epidemiologiche (riviste in (12)) non hanno confermato, nella maggior parte dei casi, un ruolo indipendente della VG nella predizione delle complicanze del diabete. La maggior parte degli studi si è basato sull’impiego dei profili glicemici a 7 punti, come si è verificato per i pazienti del DCCT, che hanno costituito la maggior fonte dei dati. Alcune criticità a tal proposito vanno sottolineate quali la scarsa adeguatezza del profilo glicemico a descrivere la iper-variabilità caratteristica del diabete di tipo 1 come è dato osservare con il CGM (13), il basso numero di eventi macro-vascolari ed il fatto che la correzione per la glicemia media tende a ridurre l’impatto della VG sulle complicanze del diabete a causa della collinearità tra media e deviazione standard dei valori glicemici (9).

c) Dati epidemiologici nel diabete di tipo 2
Nel diabete di tipo 2 la VG è soprattutto espressione della iperglicemia postprandiale e dell’ipoglicemia in soggetti trattati farmacologicamente. Bonora et al. hanno osservato che l’iperglicemia postprandiale è un riscontro frequente nel diabete di tipo 2, anche in presenza di un buon compenso glicemico (14).
Il Verona Diabetes Study ha evidenziato come la variabilità della glicemia a digiuno predice in modo indipendente la mortalità per tutte le cause e che la mortalità aumenta con l’aumentare del coefficiente di variazione della glicemia a digiuno (15). In uno studio successivo a 10 anni lo stesso gruppo osservava come il CV della glicemia a digiuno prediceva in modo indipendente la mortalità per tutte le cause nei soggetti di età >65 anni, mentre nei soggetti con età 65 anni nel braccio prandiale rispetto al braccio basale (24).
Recentemente, è stato osservato che la riduzione della VG con il trattamento con inibitori della DPP-4 si accompagna ad una riduzione dello stress ossidativo e dell’infiammazione (25) e che questo effetto si associa ad una riduzione della progressione dello spessore medio-intimale in diabetici di tipo 2 (26).

e) Variabilità dell’emoglobina glicosilata
Un altro aspetto da tenere in considerazione è la variabilità nel tempo dell’HbA1c, che sembra avere un significato differente dalla VG tout-court: mentre quest’ultima esprime la variabilità dei valori glicemici nel corso dello stesso giorno o al più in giorni vicini, la variabilità dell’HbA1c riflette altre variabili cliniche, quali la difficoltà nel mantenere il compenso glicemico nel tempo, la compliance del soggetto alla terapia ed ai controlli glicemici, la presenza di variabili stagionali/sociali, etc. Nel DCCT è stata osservata una correlazione tra variabilità dell’HbA1c e complicanze, aspetto che sottolinea l’importanza di mantenere il compenso nel tempo, ma non vi sono dati su variabilità nel tempo della VG e complicanze (27). Nel diabete di tipo 1 sono stati osservati altri dati di associazione tra variabilità dell’HbA1c e nefropatia e nuovi eventi CV nel Finnish Nephropathy Study (28) e nefropatia nell’Oxford Regional Prospective Study and the Nephropathy Family Study (29).
Nel diabete di tipo 2 è stata osservata associazione tra variabilità dell’HbA1c e nefropatia nello Tsukuba Kawai Diabetes Registry study (30), in uno studio taiwanese (31) e nello studio italiano RIACE (32).

Quali strategie d’intervento per ridurre la VG?

L’automonitoraggio glicemico permette di raccogliere i dati per la valutazione della VG nel singolo soggetto ed è pertanto un presupposto irrinunciabile per la corretta impostazione della terapia. I dati dell’automonitoraggio sono usati dai pazienti per rilevare o confermare l’ipoglicemia o l’iperglicemia e per intraprendere le azioni correttive in termini di modifica di dose e timing dell’insulina, di aggiustamento degli altri farmaci ipoglicemizzanti, o per la correzione della quantità, qualità e distribuzione dei pasti. Glucometri per l’autocontrollo glicemico e dotati di memoria e possibilità di scarico dei dati sono disponibili da oltre 20 anni per l’impiego da parte dei pazienti. Peraltro, lo scarico dei dati e la loro analisi computerizzata è utilizzata da pochi diabetologi e solo per una piccola parte dei pazienti visitati, anche per l’impegno temporale che queste valutazioni richiedono, non sempre disponibili in ambulatori affollati. È auspicabile che queste procedure vengano implementate con piattaforme comuni per i differenti tipi di reflettometro, che lo scarico e la fruizione dei dati venga uniformata e semplificata, e che sia possibile pertanto effettuarne la valutazione al momento della visita da parte di un maggior numero di medici e pazienti. Ne potrebbe derivare una miglior definizione del grado di compenso, che non tenga quindi conto solamente dei valori di HbA1c ma anche del grado di VG in relazione alla mediana della glicemia. Questo potrebbe permettere di valutare il grado di compenso nel singolo paziente secondo criteri prestabiliti in riferimento alla popolazione di pazienti con analoghe caratteristiche (tipo e durata del diabete, trattati presso lo stesso centro e con lo stesso regime terapeutico) (9).
Un secondo aspetto da sottolineare è il fatto che non si possono controllare i valori glicemici medi se dapprima non si riduce la VG. Se, ad esempio, la glicemia media è 100 mg/dl e la deviazione standard 40 mg/dl, si può prevedere un importante rischio di ipoglicemia anche se la glicemia media è nel range euglicemico. Quindi, se è vero che la riduzione dei valori glicemici medi comporta una consensuale riduzione della VG, occorre però tenere presente l’entità della VG mentre si riducono i valori glicemici medi. Quando si deve titolare l’insulina basale, bisogna osservare la variabilità da un giorno all’altro della glicemia a digiuno nello stesso soggetto per assegnare un target glicemico appropriato in modo da ridurre il rischio di ipoglicemia. La VG è quindi un aspetto essenziale per ridurre il rischio di ipoglicemia.
La riduzione della VG comporta l’applicazione di tutto l’armamentario terapeutico a disposizione del diabetologo.
Nel paziente con diabete di tipo 1 e nel paziente insulino-trattato la misurazione della glicemia preprandiale ed il conteggio dei carboidrati sono essenziali per calcolare il bolo prandiale di insulina basato rispettivamente sulla sensibilità insulinica e sul rapporto insulina/carboidrati. Sia per il paziente con diabete di tipo 1 sia per il diabetico di tipo 2 l’indice glicemico degli alimenti ed il carico glicemico hanno un importante effetto sulla GPP, ed il carico glicemico predice la GPP meglio del semplice conteggio dei carboidrati. Nel diabetico di tipo 2 la dieta dovrebbe preferibilmente contenere cibi non raffinati, ricchi in fibre, verdura e frutta, cereali integrali, legumi e frutta secca per l’effetto benefico sulla glicemia e lipemia postprandiali e per l’effetto favorevole sull’infiammazione. Altri presidi dietetici che possono avere un effetto favorevole sul dismetabolismo postprandiale comprendono il grasso di pesce, la cannella, l’aceto, il the ed una dose moderata di alcool.
L’attività fisica ricopre un ruolo importante ma spesso non considerato. In pazienti con diabete di tipo 2 un esercizio aerobico di intensità bassa o media (25-50% della VO2 massima) promuove il consumo di acidi grassi e migliora la sensibilità insulinica. L’attività fisica deve ovviamente tenere conto delle caratteristiche del paziente in termini di età, fitness, grado di allenamento, massa muscolare, complicanze micro- e macro-vascolari. L’attività fisica può aumentare la VG ed il rischio di ipoglicemia, in particolare nei soggetti in terapia ipoglicemizzante orale o in terapia insulinica. I nuovi farmaci incretinici, dotati, rispetto alla terapia con sulfoniluree o insulina, di un effetto maggiormente glucosio-dipendente e di un minor rischio di ipoglicemia, possono semplificare la prescrizione dell’attività fisica da parte del medico e l’adesione ad essa del paziente.
Nel diabete di tipo 1 un controllo efficace e sicuro della VG potrà essere ottenuto solamente quando sarà possibile chiudere l’ansa tra sensore glicemico ed infusore di insulina e glucagone, come ha recentemente dimostrato uno studio preliminare con il pancreas “bionico” (33). Nel diabete di tipo 2 la situazione è ancora più complessa, poiché la VG risente sia del deficit di secrezione insulinica sia della insulino-resistenza. In questa forma di diabete, quando l’incremento della glicemia sia prevalentemente postprandiale, si potranno utilizzare i farmaci usualmente suggeriti per questa condizione, quali l’acarbose, le glinidi e, più recentemente, i farmaci incretinici. Questi ultimi hanno mostrato un ottimo effetto sull’incremento postprandiale della glicemia, effetto legato all’azione del GLP-1 sulla sazietà a livello periferico e centrale, oltre che allo stimolo della secrezione insulinica e all’inibizione della secrezione di glucagone; tali azioni contribuiscono all’effetto favorevole sul peso degli inibitori della DPP-4 e soprattutto degli agonisti recettoriali del GLP-1 (34).
Quando il trattamento ipoglicemizzante orale o con analoghi del GLP-1 non sia più in grado di garantire un adeguato compenso e sia necessario introdurre la terapia insulinica, gli analoghi rapidi dell’insulina permettono un miglior controllo della glicemia postprandiale. Quando l’insulina è associata ai farmaci ipoglicemizzanti orali, occorre modulare saggiamente la posologia insulinica e degli ipoglicemizzanti orali (in particolare delle sulfoniluree) per evitare un inaccettabile rischio di ipoglicemia quale è stato osservato nello studio 4T, soprattutto nel braccio in terapia con analoghi rapidi (35).
In conclusione, esiste un buon numero di farmaci che permettono di controllare discretamente la VG e la GPP. Spetta al diabetologo scegliere, a seconda delle caratteristiche del paziente, le strategie terapeutiche che meglio permettono di correggere il dismetabolismo glicidico e di ridurre al minimo effetti collaterali, morbilità e mortalità cardiovascolari.

La variabilità glicemica non è di per se stessa un parametro fondamentale per lo sviluppo e la prevenzione delle complicanze del diabete

Riccardo Candido

La variabilità glicemica è divenuta in questi ultimi anni un argomento importante e molto dibattuto nella gestione del paziente con diabete. In realtà questo fenomeno è noto da anni ed in alcuni casi raggiunge una rilevanza clinica così marcata da costituire un problema di difficile gestione e soluzione. Rientrano in questo ambito i casi di “brittle diabetes” descritti ancora negli anni Settanta. La variabilità glicemica era infatti un elemento considerato, pur nella scarsa disponibilità di dati relativi all’andamento glicemico dei pazienti, ancora prima dell’introduzione dell’emoglobina glicata (HbA1c). L’interesse su questo argomento è stato ravvivato in questi ultimi anni grazie ad alcune osservazioni che suggeriscono come la variabilità glicemica non sembrerebbe essere correlata solo alle complicanze acute del diabete ed in particolare all’ipoglicemia, ma potrebbe anche essere implicata nello sviluppo delle complicanze croniche, soprattutto a quelle macrovascolari. In realtà pochi dubbi ci sono al giorno d’oggi sull’importanza dell’instabilità glicemica per quanto riguarda il rischio di ipoglicemia, lo studio Diabetes Complications and Control Trial (DCCT) ha, infatti, chiaramente dimostrato come esista una stretta relazione tra variabilità glicemica e rischio di sviluppare ipoglicemie severe (36). Non del tutto chiara, invece, ancora dibattuta e sopravvalutata in base ai dati disponibili, è l’importanza della variabilità glicemica per le strategie di trattamento e per il rischio di complicanze croniche del diabete. Attualmente convincenti e inoppugnabili sono le evidenze che l’iperglicemia cronica (valutata in base all’ HbA1c) giochi un ruolo chiave nello sviluppo delle complicanze micro- e macrovascolari sia nel diabete di tipo 1 che in quello di tipo 2. Questa stretta correlazione ed il nesso causale sono stati ampiamente dimostrati dai 2 studi di intervento, che hanno rappresentano le pietre miliari nella storia del diabete, il DCCT (36) e lo United Kingdom Prospective Diabetes Study (UKDPS) (37). Questi studi hanno chiaramente dimostrato, in entrambi i tipi di diabete, la capacità di un controllo glicemico intensivo di ridurre significativamente lo sviluppo delle complicanze microvascolari e, più nel lungo termine, anche di quelle macrovascolari (38-39). Ad esempio nel diabete di tipo 2, la riduzione dei valori di HbA1c dell’1% era associato ad una riduzione del 14% degli episodi di infarto del miocardio e del 37% delle complicanze microvascolari (40). Studi più recenti (41-43) hanno, poi, chiarito che il beneficio del controllo glicemico intensivo, espresso come riduzione dei valori di HbA1c inferiore a 6,5%, risulta maggiore e realmente efficace, in termini di riduzione delle complicanze macrovascolari, quando viene ottenuto in assenza di episodi ipoglicemici. Negli ultimi anni è stato ipotizzato come anche la variazione continua del valore glicemico possa avere un ruolo patogenetico nello sviluppo delle complicanze del diabete, di entità quantomeno analoga, all’esposizione glicemica, espressa dall’HbA1c. Lo studio che per primo ha fatto ipotizzare che anche la variabilità glicemica possa condizionare lo sviluppo e la progressione delle complicanze microvascolari è stato proprio il DCCT (44). Questa affermazione si basava in massima parte sull’osservazione che il rischio di sviluppare retinopatia, a parità di valore di HbA1c, risultava significativamente differente a 5 e 9 anni tra i pazienti trattati in modo convenzionale rispetto a quelli trattati intensivamente. I soggetti del gruppo intensivo avevano mostrato negli anni solo modesti incrementi del rischio di progressione verso la retinopatia, mentre quelli trattati convenzionalmente avevano un marcato aumento del rischio, a parità di valori di glicata. La prima spiegazione di questo fenomeno fu che i pazienti trattati in modo convenzionale avessero sperimentato una maggiore frequenza e ampiezza di oscillazione glicemiche poiché ricevevano un minor numero di iniezioni di insulina. Questa osservazione, è stata tuttavia dapprima messa in dubbio e poi smentita da una analisi successiva condotta da Lachin e collaboratori (45) in base alla quale il rischio di sviluppare retinopatia nel diabete di tipo 1 era completamente attribuibile all’HbA1c. Successivamente, altri lavori hanno cercato di dimostrare l’importanza della variabilità glicemica per le strategie di trattamento e per il rischio di complicanze ma con risultati globalmente negativi o quantomeno contrastanti.

Variabilità glicemica e complicanze nel diabete di tipo 1

Un analisi approfondita di questo aspetto è stata condotta, nella stessa coorte dei pazienti del DCCT, da Kilpatrick et al. (46). Questi autori da un lato hanno dimostrato come la variabilità glicemica non sia un predittore di complicanze microvascolari (in particolare retinopatia) (46), mentre dall’altro hanno osservato come i valori medi giornalieri di glicemia correlino con lo sviluppo di eventi cardiovascolari (47). È interessante notare che gli stessi autori hanno dimostrato come sia l’instabilità dei valori di HbA1c, piuttosto che la variabilità glicemica, un predittore di complicanze microvascolari (27). Anche Service e collaboratori (48) hanno utilizzato i dati del DCCT per valutare la relazione tra svariati indici di variabilità glicemica ed il rischio di comparsa o progressione di retinopatia, utilizzando i profili glicemici a 7 punti effettuati ogni 3 mesi. Mediante analisi di Cox è stato osservato che la glicemia media, ma non la variabilità glicemica, era associata con il rischio di progressione della retinopatia. In un altro studio, Oyibo et al. (49) hanno valutato la relazione tra escursioni glicemiche e dolore intermittente in pazienti con neuropatia sintomatica utilizzando il monitoraggio glicemico continuo per 3 giorni e calcolando il mean amplitude of glycemic excursions (MAGE) ed il valore M (la deviazione dei valori glicemici da un punto predefinito, ad esempio 90 mg/dl, in un determinato periodo di tempo) come misure di variabilità glicemica. I pazienti con sintomi più severi avevano valori più elevati di glicemia media, di valore M ed un maggior numero di escursioni glicemiche rispetto ai pazienti senza dolore, mentre il MAGE non differiva tra i 2 gruppi. Inoltre, non vi era correlazione tra numero e severità degli episodi di dolore e frequenza ed ampiezza delle escursioni glicemiche. Più recentemente uno studio svedese ha valutato il ruolo della variabilità glicemica, espressa dalla deviazione standard della glicemia in un periodo di 4 settimane, nello sviluppo di complicanze microvascolari in un arco temporale di 11 anni (50). La variabilità glicemica era un predittore di neuropatia periferica, mentre non correlava in modo significativo con il rischio di retinopatia e di nefropatia. Per quanto concerne le complicanze macrovascolari nel diabete di tipo 1, Gordin et al. (51) hanno valutato l’effetto della variabilità glicemica sulla pressione arteriosa e sul danno macrovascolare. In questo studio è stato effettuato un monitoraggio glicemico continuo di 72 ore e durante clamp iperglicemico e la variabilità glicemica è stata valutata con il MAGE. In condizioni basali la rigidità arteriosa era correlata con la glicemia media ma non con il MAGE. Durante il clamp iperglicemico nessuna delle misure di controllo glicemico (MAGE, glicemia media e HbA1c) correlava con le variazioni della rigidità arteriosa. Al contrario, la variabilità glicemica giornaliera era positivamente correlata con le variazioni di pressione arteriosa aortica sistolica e diastolica. Questi risultati indicano che un’elevata glicemia media, ma non la variabilità glicemica per sé, si associa con la rigidità arteriosa in pazienti con diabete di tipo 1; al contrario, le variazioni della pressione arteriosa centrale indotte dall’iperglicemia sono associate con le fluttuazioni della glicemia durante il giorno. Kilpatrick et al. hanno analizzato questo aspetto anche nei pazienti del DCCT, dimostrando che la variabilità glicemica non era significativamente associata con il rischio di complicanze macrovascolari (47). Recentemente Snell-Bergeon e collaboratori hanno riportato una correlazione significativa tra calcificazioni coronariche (un indice del grado di aterosclerosi) ed alcuni indicatori di variabilità glicemica ricavati utilizzando il monitoraggio glicemico continuo (52). Questa correlazione era tuttavia limitata ai soli pazienti di sesso maschile, mentre non si osservava nelle femmine. In aggiunta l’analisi è stata effettuata considerando un endpoint surrogato di malattia cardiovascolare che implica la necessità di ulteriori approfondimenti e conferme su endpoints clinici. Nel complesso gli studi relativi al diabete di tipo 1 non dimostrano alcuna chiara associazione tra variabilità glicemica e complicanze microvascolari. In relazione, poi, al ruolo della variabilità glicemica nel rischio di sviluppare complicanze macrovascolari, il numero limitato di studi non permette alcuna conclusione in merito.

Variabilità glicemica e complicanze nel diabete di tipo 2

Relativamente limitati sono gli studi che hanno valutato i rapporti tra variabilità glicemica e sviluppo di complicanze nei soggetti con diabete mellito di tipo 2. In uno studio osservazionale, condotto su 1019 pazienti, Zoppini et al. (53) non hanno riportato alcuna correlazione tra variabilità glicemica e rischio di sviluppo o di progressione della retinopatia diabetica. Benché in alcuni studi sia stata, invece, dimostrata una associazione tra variabilità glicemica e complicanze macrovascolari (54), mancano a tutt’oggi dati solidi ed inconfutabili su un possibile ruolo della instabilità glicemica nella patogenesi del danno cardiovascolare nel diabete. Il San Luigi Gonzaga Diabetes Study (18), condotto su 529 soggetti diabetici, ha osservato che negli uomini solo la glicemia post-prandiale prediceva gli eventi cardiovascolari, mentre nelle donne la glicemia a digiuno, la glicemia post-prandiale e la glicemia prima di cena erano predittori. In una estensione a 14 anni dello stesso studio, sono stati valutati gli eventi cardiovascolari e la mortalità totale (19). Quando le variabili glicemiche sono state categorizzate secondo i target dell’American Diabetes Association e valutate separatamente, i risultati hanno mostrato che l’HbA1c (p<0,0001), la glicemia dopo pranzo e la glicemia dopo colazione erano significativamente correlate con la comparsa di eventi cardiovascolari, mentre l’HbA1c, la glicemia dopo pranzo e la glicemia prima di cena erano significativamente correlate con la mortalità per tutte le cause. Quando tutti i parametri glicemici venivano valutati contemporaneamente nell’analisi di Cox, le variabili che rimanevano significative sia per eventi cardiovascolari sia per mortalità totale erano l’HbA1c e la glicemia dopo pranzo (HR per eventi cardiovascolari: rispettivamente 1,7 e 1,5; HR per mortalità totale: 1,8 per entrambe le variabili). Sulla base dell’estensione del San Luigi Gonzaga Diabetes Study, si può quindi concludere che l’emoglobina glicosilata HbA1c e la glicemia post-prandiale hanno un potere predittivo per eventi cardiovascolari e mortalità per tutte le cause (19). Per quanto riguarda il ruolo della glicemia post-prandiale, queste osservazioni non sono state confermate dallo studio HEART2D, che ha randomizzato pazienti con diabete tipo 2 e infarto del miocardio trattati ad una strategia insulinica prandiale o basale, allo scopo di valutarne l’effetto sugli eventi cardiovascolari (23). L’andamento della HbA1c era sovrapponibile nei due gruppi; la strategia prandiale permetteva di ottenere valori di glicemia post-prandiale più bassi, mentre la glicemia a digiuno era più alta. Questo studio non ha evidenziato alcuna differenza in termini di eventi cardiovascolari tra le due strategie terapeutiche, portando gli autori a concludere che il miglior controllo della glicemia post-prandiale e della variabilità glicemica non determina alcun beneficio nella prevenzione degli eventi macrovascolari. Queste conclusioni sono state successivamente confermate da una analisi post hoc dello stesso studio HEART2D, condotta da Siegelaar et al. (55), i quali hanno osservato che ridurre la variabilità glicemica con una strategia di controllo della glicemia post-prandiale non determina alcun effetto nella prevenzione secondaria degli eventi cardiovascolari. A questo va aggiunto il fatto che l’iperglicemia post-prandiale è solo un aspetto della variabilità glicemica, e non rappresenta la sua totalità. Se si correggesse esclusivamente l’ampiezza di variabilità glicemica peri-prandiale, ma si lasciassero liberi di fluttuare i valori glicemici in altri momenti della giornata, probabilmente non si risolverebbe il problema nella sua totalità. Un altro studio italiano il Verona Diabetes Study (56) ha dimostrato, dopo 5 anni di osservazione, che il coefficiente di variazione della glicemia a digiuno è un predittore indipendente della mortalità per tutte le cause, e che la mortalità aumenta con l’aumentare del coefficiente di variazione della glicemia a digiuno; peraltro, la variabilità della glicemia a digiuno non era un marker di progressivo deterioramento del controllo metabolico e non era associata in modo indipendente con un eccesso di mortalità. Secondo questo studio quindi, sarebbe la variabilità glicemica, piuttosto che il grado di controllo metabolico, il grado di scompenso o l’evoluzione verso valori glicemici più alti o più bassi cha ha il maggior effetto sulla sopravvivenza in pazienti anziani con diabete di tipo 2. Queste osservazioni non sono state confermate da uno studio più recente, con ampia numerosità, più di 3000 pazienti, che non ha osservato alcuna correlazione tra variabilità glicemica a digiuno e mortalità nel diabete di tipo 2, pur se in una popolazione con caratteristiche differenti (57).

Considerazioni cliniche complessive

Le ragioni per le quali, a tutt’oggi, manchino solide evidenze sull’importanza della variabilità glicemica nello sviluppo delle complicanze micro- e macrovascolari del diabete, non sono del tutto chiare. Numerosi studi sperimentali in vitro e nell’animale hanno dimostrato chiaramente l’effetto deleterio delle fluttuazioni del glucosio in termini di aumento dello stress ossidativo e aumento della produzione dei livelli di citochine infiammatorie, facendo presupporre un ruolo chiave della variabilità glicemica nella patogenesi delle complicanze del diabete (58). Del tutto recentemente Monnier, basandosi sull’osservazione che la variabilità glicemica non determina un’attivazione dello stress ossidativo nei pazienti in trattamento insulinico, ha ipotizzato che l’effetto negativo della variabilità glicemica possa, in qualche modo, essere attenuato in questi pazienti dall’azione anti-infiammatoria dell’insulina. Questa ipotesi è stata, almeno in parte, confermata da uno studio che ha dimostrato come fluttuazioni della glicemia determinino un aumento dell’escrezione urinaria di 8-iso-PGF2-alfa, un indice di aumentato stress ossidativo, nei pazienti in trattamento ipoglicemizzante orale, ma non in quelli in terapia insulinica (59). Sulla base quindi di queste osservazioni nei pazienti con diabete in trattamento insulinico la variabilità glicemica non avrebbe alcun ruolo per le strategie di trattamento ed il rischio di sviluppo delle complicanze. Oltre alle evidenze ancora molto dubbie sul ruolo della variabilità glicemica nel rischio di sviluppo delle complicanze, un ulteriore aspetto da considerare, è che mentre l’emoglobina glicata rappresenta un chiaro e solido indice dell’esposizione glicemica e tutte le linee guida la indicano come parametro fondamentale ed inequivocabile sul quale basare gli obiettivi e le strategie di trattamento, oggi disponiamo di numerosi indicatori di variabilità glicemica, ma ancora non esiste un chiaro consenso su quali tra questi debbano essere utilizzati nella ricerca e nella pratica clinica. Diversi sono stati nel tempo i parametri proposti per la misura e la valutazione clinica della variabilità glicemica. Al di là di misure più grossolane come il numero delle ipo- e delle iperglicemie registrate e la deviazione standard (DS) dei valori glicemici, altri parametri sono stati via via suggeriti quali il coefficiente di variazione (CV) della glicemia, il GRADE (Glycemic Risk Assessment in Diabetes Equation), il CONGA (Continuous Overlapping Net Glycemic Action), il MAGE, il low blood glucose index (LBGI), lo high blood glucose index (HBGI) e il range del rischio medio giornaliero (average daily risk range ADRR). Rispetto agli altri indici, l’ADRR offrirebbe il vantaggio di essere predittivo degli eventi futuri di ipoglicemia ed iperglicemia in egual misura ed è in grado di predire le conseguenze della variabilità glicemica allo stesso modo sia nei pazienti con diabete tipo 1 sia in quelli con diabete tipo 2; inoltre, non essendo una misura relativa permette di stabilire dei target ben definiti. Sebbene l’ADRR sembra rappresentare un sistema di misura della variabilità glicemica che può essere utilizzato con maggior facilità e frequenza ed il cui risultato potrebbe essere seguito nel tempo offrendo la possibilità di una semplificazione nella raccolta di informazioni clinicamente rilevanti, emerge chiara l’esigenza di esaminare in modo più preciso e standardizzato le relazioni esistenti tra tutti i diversi parametri proposti per misurare la variabilità glicemica al fine di identificarne quelli che sono in grado di fornire informazioni clinicamente utili. Infine, del tutto recentemente, osservazioni preliminari, hanno ipotizzato che più che la variabilità glicemica, sia piuttosto la variabilità dell’HbA1c ad essere associata allo sviluppo di complicanze micro- e macrovascolari del diabete (54).

CONCLUSIONI

In conclusione, sulla base delle conoscenze sin qui accumulate, si può certamente affermare che, pur essendo la variabilità glicemica un fenomeno interessante, non vi sono attualmente elementi per ritenere che sia un parametro rilevante di per sé per lo sviluppo delle complicanze del diabete e che sia necessario il suo trattamento. Nel diabete di tipo 1 sembra si possa escludere un ruolo per la variabilità glicemica nello patogenesi sia delle complicanze micro- che di quelle macrovascolari. Sebbene nel diabete di tipo 2 vi siano dati controversi sul ruolo delle fluttuazioni della glicemia nello sviluppo delle complicanze microvascolari e della iperglicemia post-prandiale nella patogenesi del danno cardiovascolare, ulteriori studi sono necessari per stabilire la reale importanza della variabilità glicemica nelle strategie di trattamento e nel rischio di complicanze in questa popolazione. In aggiunta la definizione di variabilità glicemica rimane ancora difficile e controversa, soprattutto in relazione alla mancanza di consenso sulle modalità per misurarla. Allo stato attuale, quindi, il raggiungimento di una HbA1c a target, soprattutto con scelte terapeutiche che riducano al minimo il rischio di ipoglicemie, rappresenta la strategia più valida ed efficace per la riduzione del rischio di complicanze sia micro- che macrovascolari.

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