La genetica al letto del paziente: come migliorare la salute cardiovascolare nel diabete

a cura di Lorella Marselli

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Pisa

Mario Luca Morieri1,2,3, Alessandro Doria2,3,4

1Dipartimento di Medicina, Università degli Studi di Padova, Padova, Italia; 2Research Division, Joslin Diabetes Center, Boston, Massachusetts, USA; 3Department of Medicine, Harvard Medical School, Boston, Massachusetts, USA; 4Department of Epidemiology, Harvard T.H. Chan School of Public Health, Boston, Massachusetts, USA

DOI: 10.30682/ildia1804g

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INTRODUZIONE

Nonostante le recenti novità di gestione farmacologica dell’iperglicemia e l’intensificazione del controllo dei classici fattori di rischio cardiovascolare, le persone affette da diabete continuano ad avere un rischio di sviluppare un evento cardiovascolare che è da 2 a 4 volte maggiore rispetto a soggetti non affetti dal diabete (1). Per questo motivo la malattia cardiovascolare (CVD), che include la malattia coronarica (CHD), l’arteriopatia periferica e la malattia cerebrovascolare, rappresenta ancora la più importante tra le complicanze del diabete. Il rischio di malattia cardiovascolare aumenta nel diabete di tipo 2 anche per la presenza di numerose altre comorbidità pro-aterogene, oltre all’insulino-resistenza, come l’ipertensione e la dislipidemia, che frequentemente accompagnano questa condizione (2). Se da un lato l’impegno nella pratica e ricerca clinica è indirizzato nel tentativo di arrestare l’avanzata dell’epidemia del diabete (e dell’obesità), al contempo, per tutti quei soggetti in cui non è possibile evitare l’insorgenza del diabete, risulta essenziale spingersi verso lo sviluppo di strategie innovative che possano ridurre l’incidenza e il peso delle complicanze cardiovascolari. Nello specifico, ad oggi, le necessità cliniche e quindi gli obiettivi della ricerca sono volti verso l’individuazione di nuove strategie preventive in grado di colpire quei meccanismi fisiopatologici che legano direttamente le alterazione metaboliche del diabete all’aterosclerosi, strategie che siano quindi ottimizzate per la prevenzione cardiovascolare dei soggetti diabetici.

Come usare la genetica per migliorare la salute cardiovascolare nel diabete

L’approccio seguito da molti gruppi di ricerca, compreso il nostro, per raggiungere tali obiettivi è stato quello di utilizzare e valorizzare gli studi di genetica medica. L’importanza dei fattori genetici nello sviluppo e insorgenza della malattia cardiovascolare è un fatto noto da decenni. Per quanto queste evidenze siano state primariamente raccolte nella popolazione generale (3), diversi studi hanno documentato il ruolo della genetica nell’eziopatogenesi della malattia cardiovascolare anche nei soggetti con diabete. Ad esempio, Wagenknecht e colleghi hanno stimato che tramite l’anamnesi familiare di un individuo si possa spiegare fino al 40% della variabilità del contenuto di calcio coronarico (un affidabile indice di aterosclerosi) (4). Questa stima non veniva modificata dall’aggiustamento per BMI, HDL o ipertensione, suggerendo quindi che i fattori genetici, piuttosto che il cluster familiare degli altri fattori di rischio cardiovascolare, spiegassero tale effetto. Anche l’utilizzo di altri indici sub-clinici di malattia aterosclerotica, come lo spessore medio intimale, hanno riportato stime simili di ereditabilità (41% dopo aggiustamento per altri fattori di rischio) (5). Come illustrato in figura 1, gli obiettivi perseguibili tramite l’identificazione dei fattori genetici responsabili di questa predisposizione familiare sono principalmente tre:

Sviluppare algoritmi preventivi in grado di identificare precocemente i soggetti ad elevato rischio cardiovascolare, per poter iniziare strategie preventive precocemente nella storia naturale del diabete e quindi ritardare o prevenire l’insorgenza di eventi cardiovascolari.

Identificare meccanismi fisiopatologici e vie molecolari attualmente sconosciute, così che si possa migliorare la comprensione dei legami tra alterazioni metaboliche del diabete e aterosclerosi e quindi identificare dei potenziali nuovi target terapeutici per interventi di prevenzione cardiovascolare specifici per le persone con diabete.

Formulare strategie personalizzate di prevenzione cardiovascolare basate sulla suscettibilità, in parte geneticamente determinata, dei pazienti a rispondere diversamente agli interventi farmacologici e non solo.

In questo articolo verranno descritte in ognuna di queste tre aree, le scoperte fatte in ambito cardiovascolare, e in particolare nella malattia coronarica (CHD) che rappresenta la malattia cardiovascolare più studiata. Partendo dalle scoperte fatte nella popolazione generale, verrà poi discussa ampiamente la loro rilevanza nei soggetti con diabete di tipo 2, ponendo particolare attenzione ai potenziali risvolti clinici.

Alla ricerca della predisposizione genetica alla malattia coronarica nella popolazione generale

Negli ultimi 10 anni circa si è assistito ad un importante cambiamento di rotta, una vera e propria inversione del paradigma alla base della ricerca dei fattori genetici coinvolti delle malattie complesse. Infatti, fino al 2006, le limitate tecniche di genotipizzazione permettevano esclusivamente lo studio di pochi geni candidati alla volta, la cui selezione dipendeva dalle nozioni fisiopatologiche note fino a quel momento. Successivamente, l’avvento delle nuove tecnologie, basate su chips, in grado di caratterizzare centinaia di migliaia (o addirittura milioni) di loci genici in una singola analisi, congiuntamente alla caratterizzazione su scala genomica del grado di correlazione tra le varianti genetiche (il linkage-disequilibrium), ha aperto la strada agli studi di associazione genomica, definiti GWAS secondo l’acronimo anglofono di Genome-Wide Association Studies. Questi studi negli ultimi 12 anni hanno permesso di ricercare su tutto il genoma umano la presenza di varianti genetiche che si associassero a condizioni patologiche senza la necessità di definire alcuna ipotesi a priori (6). Questo approccio è stato ampiamente utilizzato nell’ambito delle malattie coronariche e ha permesso di identificare (dati aggiornati a dicembre 2017) 204 polimorfismi a singolo nucleotide (Single Nucleotide Polymorphism – SNP) localizzati su 160 loci genici diversi, tutti significativamente associati con CHD (il livello di significatività in questi studi, per ridurre il rischio di falsi positivi, deve essere almeno pari a 5×10-8, in maniera tale da considerare il numero di ipotesi multiple testate, che sono in media 1 milione) (7-17). Un riassunto di questi risultati è fornito in figura 2, in cui è rappresentato il livello dell’associazione tra ogni SNP e CHD in termini di Odds Ratio (O.R.) sull’asse delle X e ordinati in ordine decrescente di O.R. sull’asse delle Y, dove ogni variante è stata nominata, per semplicità, dal nome del gene più vicino in ogni locus. L’O.R., che generalmente descrive il rischio di sviluppare una malattia nei soggetti esposti ad un determinato fattore rispetto ai soggetti non esposti, in questo caso è riferito al rischio di CHD associato alla presenza dell’allele di rischio rispetto all’allele standard. Quindi, se un O.R.=1 corrisponde ad assenza di rischio, un O.R.>1.00 descrive un rischio aumentato. Ad esempio, ad uno SNP con O.R. di 1.10 per CHD, corrisponde ad un aumento del 10% del rischio di CHD per ogni allele di rischio presente in quel polimorfismo (che possono essere 2, nel caso di omozigoti, 1, nel caso di eterozigoti, oppure 0 nei soggetti senza alleli di rischio). Come si può vedere, in maniera analoga a molte altre malattie complesse, l’effetto di queste varianti risulta modesto, con O.R. prevalentemente inferiori a 1.2 (e decisamente minori agli O.R. ≥2 per i tradizionali fattori di rischio cardiovascolari, come il sesso maschile o il fumo di sigaretta). L’effetto relativamente ridotto di queste varianti può essere spiegato da diversi fattori: 1. il fatto che la maggior parte di esse si trova in regioni non-codificanti del genoma, dove esercita un effetto regolatore sui livelli di espressione del gene piuttosto che influire sulla struttura o funzione della proteina codificata dal gene stesso; 2. la ridotta patogenicità legata al fatto che gli studi GWAS, per questioni di potenza statistica e per il numero comunque delimitato di SNP analizzabili nei micro-array di DNA, sono stati condotti prevalentemente su varianti comuni (con frequenza allelica nella popolazione tipicamente almeno dell’1%), una condizione che di per sé (per un comprensibile effetto di selezione naturale), ne determina la relativa scarsa patogenicità.

Valorizzare la genetica per lo sviluppo di algoritmi di predizione del rischio

L’utilizzo di variabili genetiche per migliorare la capacità di predire l’insorgenza di una malattia è forse una delle applicazioni più ovvie degli studi di genetica. Allo stesso tempo è anche una delle sfide più ambiziose, in quanto richiede l’utilizzo di marcatori con forti livelli di associazione con l’outcome di interesse che, come sottolineato nel paragrafo precedente, non è la norma per i polimorfismi associati a CHD (e neanche per quelli associati ad altre patologie complesse). Infatti la capacità predittiva di ogni singolo SNP risulta molto ridotta se confrontata a quella di altri fattori di rischio tradizionali, come la colesterolemia o la pressione arteriosa. Al contempo però, la scoperta di un numero sempre maggiore di SNP associati a rischio di CHD in maniera indipendente gli uni dagli altri, genera la possibilità di aggregare questi SNP tra di loro, così da stimare in ogni soggetto un punteggio di rischio genetico (o Genetic Risk Score – GRS), in grado di riassumere tutte le singole informazioni apportate da ognuno di questi SNP. I primi studi condotti in questo ambito hanno però portato risultati tutto sommato deludenti. Tale risultato è stato imputato al numero ridotto di marcatori genetici identificati fino al momento in cui questi studi erano stati condotti, e anche alla valutazione rudimentale che era stata attuata per valutare la performance predittiva di questi algoritmi (18). Tuttavia, gli studi più recenti, in grado di sfruttare appieno l’abbondanza dei nuovi loci genetici associati a CHD che sono stati identificati in maniera esponenziale nel corso degli ultimi anni, hanno dimostrato che questa strategia può invece essere vincente (19-21).

Questo aspetto è chiaramente illustrato in uno studio recente che abbiamo condotto sui dati dell’ACCORD – un’ampia coorte di pazienti con diabete di tipo 2 con un elevato rischio cardiovascolare e che erano stati arruolati in questo trial clinico di intervento. Il trial clinico era finalizzato a valutare l’efficacia cardiovascolare di 3 diversi interventi mirati a potenziare il controllo glicemico, il target di pressione arteriosa o del profilo lipidico (22). Tra i 5.360 soggetti bianchi di questa coorte, un GRS per CHD (GRS-CHD) composto da tutte le informazioni genetiche derivate dai 204 SNP raffigurati in figura 2 si associava fortemente alla storia cardiovascolare sia al basale (OR per ogni incremento di una deviazione standard D.S. del GRS-CHD=1.40, 95% C.I. 1.32-1.49, p=3×10-27) così come durante il follow-up. Durante un’osservazione media di quasi 5 anni, ogni incremento di una D.S. del GRS-CHD si associava ad un aumento del 27% del rischio di sviluppare nuovi eventi cardiovascolari (HR GRS-CDH per DS=1.27; IC 95% 1.18-1.37), p=4×10-10) (19). Pertanto, dividendo la popolazione secondo i terzili di GRS-CHD (Fig. 3A), rispetto ai soggetti con rischio basso (primo terzile) il rischio di CHD aumentava del 50% nei soggetti con rischio intermedio, e del 76% in quelli col terzile più alto. Tale associazione è stata poi confermata in una seconda popolazione di pazienti con diabete di tipo 2 e con elevato rischio cardiovascolare (Studio Origin), suggerendo che nel loro insieme, le varianti genetiche identificate nella popolazione generale per la loro associazione con CHD sono valide anche nei soggetti con diabete.

In termini di performance come predittore di CHD, se valutato attraverso metodi classici come l’area sotto la curva ROC (AUC), il GRS-CHD non aggiungeva molte informazioni rispetto a modelli predittivi classici basati sull’utilizzo di informazioni cliniche come età, sesso, anamnesi di CHD, colesterolemia totale e HDL, fumo e ipertensione (differenza di AUC=+0.007, p=0.04). Tuttavia, quando la performance del GRS-CHD veniva valutata utilizzando metodi statistici più avanzati, in grado di valutare la capacità di riclassificare il rischio di ogni paziente, ad esempio utilizzando il relative Integrated Discrimination Index (rIDI) oppure il Net Reclassification Improvement (NRI) (23), il GRS-CHD mostrava un effetto importante nel migliorare l’algoritmo predittivo quando aggiunto ai fattori di rischio tradizionali. Nello specifico, l’aggiunta del GRS portava ad un incremento del rIDI pari all’8% (Fig. 3B) – un valore al di sopra della soglia che l’American Heart Association (AHA) e l’American College of Cardiology (ACC) ha considerato per valutare se fosse conveniente aggiungere o meno un nuovo biomarcatore allo score AHA-ACC per il rischio cardiovascolare (comunemente definito anche ASCVD-risk score) (24). Bisogna inoltre sottolineare che, in maniera analoga a quanto accaduto negli ultimi 10 anni, è molto probabile che con la scoperta di nuovi geni e nuovi SNP associati a CHD, la performance dei futuri GRS continuerà a migliorare (19). Se da un lato il miglioramento delle prestazioni predittive associate a ciascuna variante aggiuntiva tenderà a diminuire progressivamente a causa degli effetti genetici sempre più piccoli che verranno identificati, ciò sarà probabilmente compensato dall’aumentato ritmo nella scoperta di nuove varianti associate a CHD, reso possibile da studi genetici con popolazioni sempre più numerose e grazie alle nuove tecnologie di sequenziamento. Uno sguardo su tale prospettiva è stato evidenziato anche da recenti studi, condotti nella popolazione generale, dove alcuni genome-wide GRS per CHD (basati su oltre 1 milione di varianti) si sono mostrati capaci di identificare una rilevante proporzione di popolazione con rischio di CHD simile a quello conferito da alcune malattie rare come le ipercolesterolemie familiari (25-26). Anche nel caso in cui le prestazioni dei GRS per CHD non dovessero aumentare nel futuro, queste sono già oggi ad un livello per cui potrebbe essere utile una loro integrazione nella pratica clinica. La capacità di identificare i pazienti diabetici con rischio cardiovascolare particolarmente elevato in tempi precoci rispetto alla storia naturale della malattia (teoricamente, già alla nascita) potrebbe consentire una miglior distribuzione delle risorse per strategie preventive più intensificate, oppure potrebbe permettere di pianificare trial clinici con potere statistico più elevato grazie alla selezione di partecipanti ad elevato rischio di eventi cardiovascolari. Nella pratica clinica, discutere e condividere queste informazioni con i pazienti, attraverso personale medico formato e qualificato, potrebbe infine migliorare l’aderenza dei pazienti ai trattamenti preventivi.

Valorizzare la genetica per scoprire nuovi meccanismi di aterogenesi

La ricerca dei meccanismi tramite cui il diabete può favorire l’aterogenesi è stato oggetto di numerosi studi che hanno portato all’identificazione di diversi possibili meccanismi, come l’induzione dello stress ossidativo da iperglicemia, la formazione di prodotti di glicazione avanzata (AGEs) e l’attivazione della protein-chinasi C (27). Tuttavia, nonostante l’importanza di queste vie metaboliche, la loro identificazione ad oggi non ha ancora permesso lo sviluppo di nuove terapie in grado di prevenire la malattia cardiovascolare nel diabete. Se si pensa alla complessità dell’aterosclerosi, è facile immaginare come questi non siano gli unici “ponti” tra diabete e malattia cardiovascolare, e che altri meccanismi che collegano il diabete all’aterogenesi potrebbero esistere e magari essere anche più facilmente “colpiti” da interventi farmacologici. In ambito genetico il pensiero è quindi quello di poter identificare nuovi meccanismi fisiopatologici (e nuovi possibili obiettivi terapeutici) attraverso la comprensione e la valorizzazione dei dati funzionali relativi alle varianti genetiche che si associano a CHD. Per raggiungere questo scopo è importante sottolineare che a differenza dell’obiettivo sul miglioramento della predizione del rischio, non sono in realtà necessarie varianti con effetti genetici ampi sulla malattia CHD. Infatti, l’entità e magnitudine dell’effetto genetico di uno SNP dipende soprattutto dalla gravità della variante genetica (in termini di alterazione della funzione genomica causata dalla sostituzione del nucleotide) piuttosto che dalla importanza della via da essa influenzata. Anche un segnale genetico modesto (ossia con OR molto basso), magari risultato di una “lieve” variazione genomica con effetti molto ridotti, se statisticamente robusto e solido, potrebbe in realtà orientare verso un importante nodo biologico nel legame tra diabete e CHD.

Se si assume che le varianti nella figura 2 agiscono sul rischio di CHD attraverso la loro influenza sui geni vicini, si può facilmente riconoscere che alcuni di questi loci sembrano coinvolgere molecole ben note nel controllo del metabolismo lipidico e quindi nell’aterogenesi (come ad esempio PCSK9, LPA, LPL, LDLR, APOA1, APOB e APOE). Tuttavia, è ancora più interessante osservare come nella stragrande maggioranza dei casi, in molte regioni geniche non è possibile trovare geni candidati con evidenti ipotesi pro-aterogene già note. Ne consegue che i 160 loci attualmente noti per essere associati a CHD e identificati prevalentemente grazie agli studi GWAS, offrono un potenziale senza precedenti per l’identificazione “out of the box” di nuove vie metaboliche e molecolari coinvolte nella malattia cardiovascolare. Un esempio a tal riguardo è il segnale identificato sul cromosoma 9p21 – il primo locus identificato tramite GWAS per essere associato a CHD e che rappresenta ancora oggi uno dei segnali più forti e più replicati (28-30). Le varianti in questo locus, sebbene si stiano ancora chiarendo gli esatti meccanismi di azione, sembrano determinare differenze nell’espressione genica di CDKN2A e CDKN2B – due geni vicini a queste varianti e che codificano degli inibitori delle chinasi dipendenti da ciclina (CDK) (p16 e p15). I prodotti dei geni CDKN2A e CDKN2B controllano la proliferazione e l’invecchiamento cellulare, e risultano particolarmente espressi a livello delle cellule endoteliali ed infiammatorie (31). Le alterazioni del ciclo cellulare in grado di determinare il fenotipo proliferativo delle cellule della parete vascolare, come le cellule muscolari lisce, erano già state implicate nell’aterogenesi (32), ma questi risultati hanno dato nuova forza a quest’ipotesi. In aggiunta, come mostrato in uno studio che abbiamo condotto nel Joslin Heart Study, l’effetto del locus 9p21 sembra essere maggiore tra le persone con diabete di tipo 2 proprio a causa di un’interazione tra l’allele di rischio e lo scarso controllo glicemico (33). Questo condurrebbe quindi all’ipotesi che un fenotipo cellulare caratterizzato da elevata attività proliferativa potrebbe agire come condizione permissiva, o per lo meno favorente, gli effetti aterogeni dell’iperglicemia. Se ulteriormente confermato, le vie molecolari controllate da p16 e p15 diventerebbero un bersaglio per interventi terapeutici potenzialmente in grado di interrompere il legame tra iperglicemia e aterosclerosi. È inoltre interessante notare che questo locus, oltre all’associazione con CHD, risulta fortemente associato anche all’insorgenza di diabete di tipo 2 (34), dove alcune varianti sembrano influire il rischio di entrambe le condizioni (35). Pertanto non si può escludere che futuri trattamenti mirati su queste vie molecolari potrebbero non solo ridurre il rischio cardiovascolare, ma potenzialmente migliorare il controllo glicemico o magari prevenire l’insorgenza di diabete nei soggetti a rischio.

Nel complesso questi risultati evidenziano come l’azione sul rischio cardiovascolare di loci genetici possono essere influenzati dall’assetto glicemico di un individuo, il che conduce all’ipotesi che possono esistere loci e varianti in cui tale interazione sia talmente forte da far sì che l’effetto pro-aterogeno si manifesti esclusivamente in presenza di diabete. Se questa ipotesi fosse vera, l’identificazione di tali varianti e dei geni controllati da esse sarebbe estremamente utile per chiarire l’eziopatogenesi della malattia cardiovascolare secondaria al diabete. Per approfondire questa ipotesi, il nostro gruppo ha quindi condotto uno studio GWAS per CHD in maniera specifica nei soggetti con diabete di tipo 2 (36). Tale studio, grazie alla collaborazione di diverse coorti (Nurses Health Study – NHS, Health Professional Follow-Up Study – HPFS, Joslin Heart Study – JHS, Gargano Heart Study – GHS e Catanzaro Study – CZ), ha permesso di identificare uno SNP (rs10911021) sul locus 1q25 del cromosoma 1, con una associazione che raggiungeva i valori di p=1×10-5 nel set di screening (NHS + HPFS), p=4×10-4 nei set di replicazione (JHS + GHS + CZ) e p=2×10-8 nella meta-analisi di tutti questi set (Fig. 4). L’associazione era tale che l’allele di rischio conferiva, per ogni sua copia, un rischio di CHD aumentato del 36% rispetto all’allele di riferimento, un effetto ben superiore alla maggior parte dei loci per CHD identificati nella popolazione generale. Di grande rilevanza è stata poi l’osservazione che tale SNP non conferiva alcun rischio di CHD (O.R. 0.99) nei soggetti non diabetici arruolati negli studi NHS e HPFS, con una conseguente interazione “SNP x diabete” altamente significativa (2.6×10-4). D’altro canto invece, l’associazione tra questo SNP e outcome cardiovascolari sono stati riscontrati in altri studi condotti in diverse popolazione di soggetti con diabete di tipo 2 (tra cui lo studio Look Ahead, il Kidney Joslin Study e il Gargano Mortality Study), confermando quindi il ruolo diabete-specifico di questo locus per il rischio di CHD (37-38).

In termini di funzionalità e meccanismi di azione, lo SNP con segnale più forte in questo locus (rs10911021) si trova in una regione non codificante ed è quindi verosimile che alla base della sua associazione con CHD ci sia un suo ruolo regolatore sull’espressione dei geni localizzati in quella regione. Coerentemente con questa ipotesi, l’analisi di cellule venose ombelicali umane (HUVEC) raccolte da individui con genotipi diversi per il locus 1q25, ci ha permesso di osservare come i soggetti omozigoti per la mutazione avessero circa il 30% in meno di espressione del gene GLUL (posizionato vicino allo SNP in direzione telomerica) (Fig. 5A) (36). GLUL codifica per la glutammina sintetasi, l’enzima catalizzante la sintesi dell’amminoacido glutammina dal glutammato e ammoniaca (Fig. 5B) (39). Sia la glutammina sia il glutammato sono coinvolti in funzioni essenziali per la cellula, e le alterazioni dei loro livelli nelle cellule endoteliali (o in altre cellule coinvolte nell’omeostasi della parete vascolare) potrebbero influenzare vie metaboliche coinvolte nell’aterogenesi diabetica. Attraverso studi di metabolomica, abbiamo osservato come il locus 1q25 non agisse sui livelli sierici di glutammato o di glutammina, bensì sul rapporto acido piroglutammico/acido glutammico, che risultava significativamente ridotto nei soggetti portatori dell’allele di rischio (36). Attualmente non è ancora possibile dare un chiaro significato a questi risultati, ma poiché l’acido piroglutammico è il precursore immediato dell’acido glutammico nel ciclo γ-glutammilico, si potrebbe ipotizzare che il ridotto rapporto acido piroglutammico/acido glutammico sia un segno di malfunzionamento di questa via molecolare, che è responsabile della produzione dell’anti-ossidante naturale glutatione (Fig. 5B). Pertanto, l’allele di rischio 1q25 aumenterebbe il rischio di CHD attraverso una riduzione dei livelli intracellulari di glutatione, aumentando quindi la suscettibilità allo stress ossidativo, a cui sono particolarmente esposti gli individui con diabete (40). Questa ipotesi, attualmente in fase di studio con ulteriori studi di metabolomica, qualora venisse confermata, ci permetterebbe di indirizzare i futuri investimenti sulla prevenzione cardiovascolare dei soggetti con diabete verso lo sviluppo di strategie terapeutiche in grado di stimolare l’attività di GLUL. Ciò permetterebbe di incrementare le difese naturali contro lo stress ossidativo, con un meccanismo più efficace rispetto al trattamento con agenti antiossidanti, che si è rivelato ripetutamente inefficace nella prevenzione cardiovascolare.

Valorizzare la genetica per personalizzare le strategie terapeutiche

La terza possibile applicazione è rappresentata dall’utilizzo delle variabili genetiche come marcatori per adattare le strategie di prevenzione cardiovascolare in base alle caratteristiche ed esigenze del singolo paziente. Questo approccio, spesso definito anche medicina di precisione, è quindi finalizzato a massimizzare i benefici e ridurre gli svantaggi di un possibile intervento (migliorandone quindi il rapporto costo-efficacia). Seppur spesso enfatizzata e posta sotto i riflettori dai mass media, se si escludono gli ambiti oncologici, la medicina di precisione ha visto in realtà fino ad oggi solo in pochi esempi raggiungere una reale implementazione nella pratica clinica. Un esempio eclatante è sicuramente quello dell’utilizzo preferenziale delle sulfaniluree piuttosto che della terapia insulinica in pazienti con forme mendeliane di diabete neonatale causate da rare mutazioni nel canale del potassio codificate dal gene KCNJ11 (41). Tuttavia ad oggi, nell’ambito della forma comune, poligenica, del diabete i test genetici non vengono utilizzati nella pratica clinica per guidare le scelte terapeutiche.

Oltre a migliorare il rapporto costo-efficacia di trattamenti farmacologici specifici, i marcatori genetici possono essere usati anche per identificare nel suo complesso la strategia migliore per un paziente rispetto ad un altro. Ad esempio il nostro gruppo si è concentrato nel cercare di capire quale fosse il target di emoglobina glicata ottimale per un paziente, in base alle sue caratteristiche genetiche. In altri termini, ci siamo focalizzati sull’identificazione di quei marcatori genetici in grado di rispondere alla domanda su quale possa essere il controllo glicemico ottimale in una persona con diabete. Infatti, se da un lato le meta-analisi dei trial clinici randomizzati hanno dimostrato che il controllo glicemico intensivo possa ridurre il rischio di infarto miocardico e di altri eventi cardiovascolari maggiori nel diabete di tipo 2 (42-43), dall’altro il controllo intensivo può essere gravato da importanti costi psicologici e finanziari e può anche comportare effetti deleteri, compreso un aumento paradossale della mortalità cardiovascolare. Questo aspetto è stato enfatizzato nel trial clinico ACCORD, dove il controllo intensivo della glicemia (HbA1c<6%), rispetto a un controllo standard (HbA1c tra 7 e 8%) determinava una riduzione del 18% degli infarti non fatali, che veniva però controbilanciato da un aumento delle morti cardiovascolari (+29%) tale da rendere necessaria l’interruzione anticipata dello studio (44). La domanda che ci siamo posti è stata quindi se fosse possibile identificare, attraverso lo studio di varianti comuni nella popolazione, dei marcatori genetici in grado di distinguere i soggetti che potessero beneficiare del controllo glicemico intensivo (riduzione di eventi non fatali), senza essere esposti ai rischi (l’aumentata mortalità cardiovascolare). Abbiamo quindi condotto uno studio GWAS nel gruppo di soggetti randomizzati a trattamento intensivo nell’ACCORD, identificando due loci (posizionati sul cromosoma 5q13 e l’altro sul cromosoma 10q26) che erano significativamente associati al rischio di mortalità cardiovascolare (p<5×10-8), in maniera indipendente l’uno dall’altro (45). Questi due loci non avevano alcun effetto sulla mortalità cardiovascolare nel gruppo randomizzato al controllo glicemico standard, per cui risultavano interazioni significative “SNP x trattamento” (p=0.0004 nel locus 5q13 e p=0.004 nel locus 10q26, tabella 1). Un aspetto particolarmente interessante risultava dall’unione delle due varianti in uno score di rischio o GRS (costruito in maniera analoga a quanto descritto nel paragrafo sulla predizione del rischio). Infatti, come mostrato in tabella 2, nei soggetti con GRS=0 (ossia senza alcun allele di rischio) il trattamento intensivo comportava un duplice beneficio, con marcata riduzione sia degli eventi fatali che non fatali (-76% e -44%, rispettivamente). Nei soggetti con GRS=1 (cioè, portatori di un solo allele di rischio) il trattamento intensivo riduceva gli eventi non fatali (-30%), con azione invece neutra sugli eventi fatali; infine i soggetti con GRS ≥2 non traevano alcun beneficio sugli eventi non fatali e anzi erano addirittura esposti ad un incremento di 3 volte della mortalità cardiovascolare se randomizzati a trattamento intensivo. Per quanto l’applicazione clinica di questi risultati richieda prima la loro ulteriore conferma e replicazione in altri studi, le potenzialità dal punto di vista pratico sono ben evidenti. I pazienti con uno score genetico basso potrebbero garantirsi il massimo effetto benefico di un controllo dell’HbA1c più intenso, viceversa, nei pazienti con score genetico elevato si potrebbe suggerire un target di HbA1c modificato o eventualmente un intenso monitoraggio dei segni e sintomi di malattia cardiovascolare.

Per quanto l’obiettivo principale di questo tipo di studi resti quello di ottimizzare e personalizzare i trattamenti preventivi nel diabete, l’identificazione di queste due varianti permette anche di evidenziare nuovi meccanismi coinvolti nell’aterogenesi diabetica. Ad esempio, dall’analisi di un vasto gruppo di biomarcatori sierici disponibili in un sottogruppo dei pazienti ACCORD, il nostro gruppo ha osservato una riduzione dei livelli di glucagon-like peptide 1 (GLP-1) durante il trattamento glicemico intensivo nei soggetti portatori dell’allele di rischio che potrebbe essere in grado di aumentare il rischio di mortalità cardiovascolare (46). Infatti il GLP-1, un peptide derivato dalle modificazioni post-trascrizionali del proglucagone e secreto dalle cellule intestinali L, è noto per le sue attività incretiniche sulle cellule beta pancreatiche in grado di influenzare la risposta anabolica post-prandiale (47), e soprattutto per le sue attività benefiche sulla funzione ventricolare sinistra e per molte altre probabili azioni anti-aterogene (come la riduzione della risposta infiammatoria, dell’aggregazione piastrinica e della proliferazione delle cellule muscolari lisce, e il miglioramento della funzione endoteliale e della stabilità della placca ateromasica) (48). A conferma di queste attività anti-aterogene, i farmaci agonisti del recettore GLP-1 hanno confermato la loro efficacia sulla mortalità cardiovascolare nei pazienti diabetici (49). Nel caso della variante sul locus 10q26, pur non riscontrando associazioni con i biomarcatori finora testati, abbiamo invece trovato, tramite l’analisi di dati di trasctrittomica (del database GTEx – Gentoype Tissue Expression) un’associazione dell’allele di rischio con una più elevata espressione di una metiltransferasi (MGMT, anche nota come O-6-methylguanine-DNA methyltransferase). Oltre alle sue funzioni nelle riparazioni dei danni del DNA, MGMT agisce anche come regolatore negativo per i recettori degli estrogeni (50), a loro volta associati, anche se in maniera non univoca, ad aterosclerosi e trombosi vascolare (51-52). Pertanto questi dati sembrerebbero suggerire nuove interessanti ipotesi, già oggetto di studi attualmente in corso, che potrebbero identificare nuove vie metaboliche coinvolte nell’aterogenesi del diabete. Inoltre, una eventuale conferma del link tra il locus 5q13 e l’asse incretinico del GLP-1, oltre a confermare il ruolo cardioprotettivo di questo peptide, potrebbe anche suggerire nuovi approcci per personalizzare le scelte terapeutiche sulle caratteristiche dei pazienti. Ad esempio i pazienti con l’allele di rischio su 5q13, visti i ridotti livelli di GLP-1 durante il trattamento glicemico intensivo, potrebbero beneficiare in maniera spiccata della terapia con GLP-1 analoghi o DPP-4 (in grado di ridurre la degradazione del GLP-1), aprendo quindi la strada a una nuova applicazione della medicina di precisione.

Ovviamente, anche altri trattamenti e interventi di prevenzione cardiovascolare potrebbero giovarsi di approcci simili. Un esempio riguarda l’utilizzo del fenofibrato, un farmaco ipolipemizzante, studiato per decenni e con risultati contrastanti. Il fenofibrato è stato valutato anche in un trial clinico specifico condotto in circa la metà dei soggetti arruolati nello studio dell’ACCORD, tra i quali si dimostrava solo una lieve tendenza verso un effetto cardioprotettivo con una riduzione di eventi cardiovascolari maggiori (MACE) che non raggiungeva la significatività statistica (53). Secondo un approccio più simile a quello di uno studio di tipo gene candidato, abbiamo identificato nell’ACCORD un’interazione negativa (p=0.01) tra il fenofibrato e una variante con guadagno di funzione per la lipoproteina lipasi (LPL – gain of function, p.S477*) (54). Infatti il fenofibrato riduceva gli eventi cardiovascolari nei soggetti omozigoti per p.S447 (senza mutazione), ma non nei portatori della variante p.S447*, ossia quelli caratterizzati da una attività di LPL più elevata. Questo dato suggeriva che: 1. l’attivazione di LPL rappresenterebbe uno dei meccanismi principali tramite cui il fenofibrato riduce gli eventi cardiovascolari; 2. il trattamento con fenofibrato di quei soggetti con attività di LPL già aumentata (e in questo caso determinata geneticamente) non comporterebbe alcun beneficio cardiovascolare. Così come per i risultati sul controllo glicemico intensivo, non è ancora giunto il momento di tradurre questi risultati nella pratica clinica, ma le potenzialità e utilità di questi approcci risultano eclatanti.

Uno sguardo al futuro

Nel corso degli ultimi 10 anni le nostre conoscenze sul background genetico delle CVD e in particolare delle CHD sono cresciute esponenzialmente. Al contempo, la strada da percorrere per riuscire a tradurre queste informazioni in un risultato clinicamente rilevante per la salute cardiovascolare dei pazienti diabetici sembra ancora lunga. Al pari del percorso da seguire per le altre malattie complesse e multifattoriali, è nostra opinione che il raggiungimento di tale obiettivo debba passare attraverso la risposta a tre importanti domande.

La prima è volta a capire come si possa agevolare l’introduzione nella pratica clinica dei test genetici di rischio cardiovascolare. Diverse aziende avevano mostrato un grande interesse ai tempi dei primi GWAS nello sviluppo e commercializzazione di test genetici atti a predire il rischio cardiovascolare, successivamente però tale interesse si è ridotto a causa della scarsa performance dei primi score (limitati dal numero ridotto di informazioni disponibili in quegli anni). Attualmente tale interesse sta risalendo, proprio grazie alla scoperta di numerosi nuovi marcatori genetici in grado di migliorare le performance degli score di rischio più moderni. Dobbiamo quindi impegnarci nella costruzione dei migliori score possibili e successivamente educare i medici e anche i pazienti sul loro corretto utilizzo. È essenziale ricordarsi infatti che tali strumenti devono essere utilizzati solo dopo adeguate validazioni e che, come tutte le analisi mediche, richiedono conoscenza e consapevolezza per poter essere adeguatamente interpretate.

La seconda domanda invece è volta a capire come si possa accelerare la traduzione di segnali genetici in comprensione dei meccanismi patogenetici di malattia cardiovascolare. Questo processo risulta molto impegnativo proprio per il fatto che, come precedentemente espresso, la maggior parte delle varianti associate a CHD si trovano in regioni non codificanti. Finora, il percorso seguito è stato frammentario, concentrato prima sui geni più vicini come i migliori candidati e poi spostandosi verso i geni sempre più distanti quando i più vicini non davano i risultati attesi. Al contrario dovremmo invece seguire un approccio più sistematico, avvalendoci di altre tecnologie “-omiche”, utilizzando quindi i dati di trascrittomica, proteomica e metabolomica, che oltre tutto sono sempre più facilmente disponibili e di pubblico dominio e i cui risultati andrebbero integrati con quelli dei GWAS fin dall’inizio. Inoltre, per quanto possa essere impegnativo approfondire con studi di biologia vascolare i risultati di un GWAS quando l’unico punto di partenza è spesso rappresentato dalla sola associazione “SNP<->malattia complessa”, è importante capire i vantaggi che la ricerca clinica trarrebbe dal coinvolgimento precoce dei ricercatori di base, garantendo quindi un continuo scambio di informazioni tra ricerca di base e ricerca clinica.

Infine, parlando di medicina personalizzata, la terza domanda è volta a comprendere quando si debba decidere che un algoritmo di trattamento personalizzato sia pronto all’introduzione nella pratica clinica. In altre parole, quale grado di evidenza si deve considerare sufficientemente forte per ritenere un algoritmo di intervento pronto per l’uso clinico? Il mantra nella ricerca genetica è stato per anni “replicazione, replicazione, replicazione”, mentre il più delle volte gli studi clinici sono unici, rendendo le opportunità di replicazione molto scarse, se non nulle. Pertanto, diventerà necessario condurre nuovi trial clinici progettati ad hoc per convalidare gli algoritmi di trattamento personalizzati, oppure, laddove questa strada non fosse praticabile, sarà necessario sviluppare nuovi metodi per imparare a sfruttare i dati osservazionali dalle cartelle cliniche elettroniche e dalle bio-banche.

Rispondere a queste domande si prospetta un compito impegnativo e che richiederà investimenti importanti, ma i potenziali vantaggi, sia dal punto di vista di salute pubblica sia dalla prospettiva delle persone con diabete, ne giustificheranno tutti gli sforzi.

Abbreviazioni

AUC: l’area sotto la curva ROC

BMI: Indice di massa corporea (Body Mass Index)

CHD: Malattia coronarica (Coronary Heart Disease)

CVD: Malattia Cardiovascolare (CardioVascular Disease)

GRS: Genetic Risk Score

GWAS: Genome-Wide Association Studies

HR: Hazard Ratio

NRI: Net Reclassification Improvement

OR: Odds Ratio

PAD: Arteriopatia periferica (Periferal Artery Disease)

rIDI: relative Integrated Discrimination Index

SNP: Single Nucleotide Polymorphisms

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