La farmacogenetica della terapia ipoglicemizzante orale

Antonio Brunetti, Eusebio Chiefari

Dipartimento di Scienze della Salute, Cattedra di Endocrinologia, Università degli Studi “Magna Græcia” di Catanzaro

SOMMARIO

L’esplosione pandemica del diabete mellito di tipo 2 (DM2), con le sue pesanti conseguenze socio-sanitarie ed economiche, rende impellente la necessità di approcci terapeutici sempre più efficaci. D’altro canto, gli interventi farmacologici attualmente disponibili nella cura dei pazienti diabetici mostrano un’ampia variabilità interindividuale nella risposta al trattamento farmacologico, sottolineando l’importanza di una terapia personalizzata (e per questo maggiormente efficace) per ogni singolo paziente. In tale ambito, sta acquisendo un crescente interesse la farmacogenetica, la disciplina che studia il ruolo dei fattori genetici nella risposta individuale al trattamento farmacologico. Le evidenze attuali indicano che i polimorfismi, o varianti genetiche, costituiscono potenziali fattori di rischio in grado di condizionare la risposta farmacologica e l’efficacia terapeutica degli ipoglicemizzanti orali attraverso meccanismi che implicano il coinvolgimento di proteine e/o enzimi coinvolti nella farmacocinetica e/o nella farmacodinamica di tali farmaci. Per esempio, varianti genetiche nei geni che codificano per i trasportatori di membrana della metformina sono implicate nella variabilità di risposta al trattamento con metformina che si osserva in alcuni pazienti diabetici; invece, le varianti genetiche nei geni che codificano per gli enzimi del citocromo P450 o per il canale del potassio ATP-sensibile sono responsabili della variabilità interindividuale di risposta alle sulfaniluree. La possibilità, in questi pazienti, di una terapia personalizzata sulla base del proprio profilo genetico rappresenta senza dubbio la sfida più ambiziosa ed affascinante della medicina moderna.

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INTRODUZIONE

Il diabete mellito di tipo 2 (DM2) è la patologia metabolica più diffusa al mondo, interessando, attualmente, oltre 380 milioni di individui (http://www.idf.org). La sua incidenza, in rapido e progressivo aumento, rappresenta una delle maggiori criticità sanitarie mondiali per i suoi risvolti sociali ed economici (1). La malattia si associa, infatti, a una miriade di comorbidità, esponendo il paziente al rischio di complicanze croniche micro e macrovascolari altamente invalidanti, quali la retinopatia, l’insufficienza renale e la malattia cardiovascolare (2), la cui gestione assorbe ingenti risorse finanziarie (1). Da qui la necessità di implementare strategie terapeutiche in grado di curare efficacemente la malattia diabetica, prevenendo la comparsa delle complicanze a lungo termine. Con tale finalità, l’Associazione dei Diabetologi Americani (ADA) pubblica annualmente le linee guida per la gestione pratica del paziente diabetico, elaborate sulla base delle più recenti acquisizioni fatte dalla ricerca clinica e di base (3), fornendo le indicazioni circa la scelta del trattamento farmacologico più appropriato (4). Questo approccio standardizzato, pur non risolutivo, ha determinato un sostanziale miglioramento nella cura del diabete, con riduzione della morbidità e della mortalità dei pazienti affetti (5-6). D’altro canto, la comune osservazione che i pazienti diabetici mostrano una grande variabilità nella risposta individuale al medesimo trattamento farmacologico suggerisce l’importanza di una cura personalizzata, nella quale il trattamento più appropriato è indicato dalle peculiarità biologiche del singolo individuo (7).

Il DM2 è una malattia multifattoriale, frutto di una complessa interazione tra fattori genetici predisponenti e fattori ambientali scatenanti (8). Se la componente ambientale, riconducibile essenzialmente alla ridotta attività fisica e all’iperalimentazione, è ampiamente documentata (8), lo studio della suscettibilità genetica si è, invece, rivelato molto ostico ed oneroso. L’introduzione del genome-wide association study (GWAS), nel 2007, ha consentito di studiare migliaia di singole variazioni del DNA (varianti genetiche) nell’ambito di quelle più comuni (minore frequenza allelica >5%) tra gli individui esaminati. Questa metodica, applicata a milioni di individui, ha portato all’identificazione di molteplici varianti genetiche associate al DM2 (9). Tuttavia, nessuna delle singole varianti sinora identificate è di per sé sufficiente a causare la malattia, ma è necessaria la combinazione di molte varianti genetiche tra loro (10-11). Tale combinazione (aplotipo) definisce il profilo genetico dell’individuo. Il fatto che la patogenesi del DM2 richieda il coinvolgimento di più geni in diversa combinazione tra loro, conferma che il DM2, lungi dall’essere una patologia geneticamente inquadrabile in poche forme, è costituito in realtà da un ampio numero di disordini diversi (11). Quindi, un particolare profilo genetico determina uno specifico fenotipo della malattia solo apparentemente identico ad un altro e, nel contempo, può essere responsabile della diversa risposta individuale ai farmaci e della diversa suscettibilità individuale ai loro effetti avversi.

Pertanto, chiarire i meccanismi molecolari riconducibili alla variante genetica è essenziale non solo per stabilirne il ruolo eziopatogenetico, ma anche per identificare nuovi bersagli terapeutici personalizzati. È questo l’obiettivo che si pone la farmacogenetica, una disciplina biomedica che mira a comprendere l’influenza della variabilità genetica sulla riposta individuale ai farmaci. Arricchita dalle più recenti acquisizioni scientifiche sul genoma umano, la farmacogenetica si inserisce, peraltro, nel più ampio contesto della medicina traslazionale che ha il compito di trasferire le informazioni ottenute nella ricerca biomedica pre-clinica alla pratica clinica, offrendo l’opportunità di trattamenti personalizzati sulla base della caratterizzazione molecolare del singolo paziente (Fig. 1).

Figura1_Farmacogenitica

LA FARMACOGENETICA

L’EMEA (European Medicine Agency), il massimo organismo europeo di valutazione dei farmaci, ha definito la farmacogenetica come la scienza che studia le variazioni interindividuali nella sequenza del DNA in relazione alla risposta ai farmaci (http://www.ema.europa.eu). Essa nasce dall’osservazione clinica che individui affetti dalla stessa malattia non sempre rispondono in maniera univoca allo stesso trattamento farmacologico, sia in termini di efficacia terapeutica che di effetti collaterali o reazioni avverse indesiderate. Il suo obiettivo è quello di garantire una terapia personalizzata, su misura per ogni singolo individuo, in grado di ottimizzare l’efficacia e la sicurezza dei farmaci prescritti, prevenendo l’insorgere di problemi gravi e limitando le conseguenze sull’organismo. Già sul finire degli anni Cinquanta il termine “farmacogenetica” veniva coniato da Friedrich Vogel per indicare l’importanza della componente ereditaria nella risposta ai farmaci (12). Tuttavia, elementi di farmacogenetica si fanno risalire addirittura ai tempi dell’antica Grecia, allorquando era noto il rischio di crisi emolitica da favismo, ciò che in tempi più recenti veniva messo in relazione con un deficit genetico dell’enzima glucosio-6-fosfato-deidrogenasi. Le prime evidenze scientifiche sul ruolo delle varianti genetiche nella risposta farmacologica risalgono agli anni Settanta e riguardano l’enzima CYP2D6 della famiglia degli enzimi del citocromo P-450, che ha un importante ruolo nel metabolismo dei farmaci. Tali varianti sono in grado di modificare profondamente l’attività enzimatica, fino anche ad azzerarla, influenzando la velocità e l’efficacia del metabolismo di numerosi farmaci (13). Negli anni successivi, molte altre varianti sono state descritte a carico di geni appartenenti alla stessa famiglia. Tuttavia, non vi è dubbio che il maggiore contributo alla farmacogenetica derivi dal sequenziamento dell’intero genoma umano, realizzato nel 2003, il quale ha consentito di accertare che il 99% del DNA è identico per tutti gli esseri umani e che, pertanto, le differenze fenotipiche tra gli individui, così come la maggiore o minore suscettibilità alle malattie, nonché la variabilità interindividuale nella risposta ai farmaci, dipendono da varianti genetiche che riguardano meno dell’1% dei 3 miliardi di basi pari del DNA.

Figura2_Farmacogenitica

Nella maggior parte dei casi tali varianti consistono nel cambiamento di una singola base nucleotidica e sono definite polimorfismi a singolo nucleotide (SNPs, pronuncia “snips”) (Fig. 2). La capacità che ha la variante di determinare variazioni qualitative e/o quantitative di una proteina è il presupposto di un suo ruolo etiopatogenetico e della possibilità di condizionare la risposta farmacologica e l’efficacia terapeutica di un farmaco attraverso meccanismi sia farmacocinetici che farmacodinamici. Sulla base di queste nuove acquisizioni, i GWAS hanno permesso di identificare numerose varianti genetiche in grado di condizionare sia l’efficacia terapeutica che l’insorgenza di reazioni avverse in seguito all’assunzione di farmaci (14-16).

FARMACOGENETICA DELLA METFORMINA

La metformina, in uso dal 1959, è il farmaco di prima scelta nel trattamento iniziale del DM2. Dopo somministrazione orale essa viene assorbita nel tratto gastrointestinale, si distribuisce rapidamente nei tessuti dell’organismo, ed escreta nelle urine in forma pressoché immodificata, grazie a specifiche proteine di trasporto (i cosiddetti trasportatori dei cationi organici OCT1, OCT2, PMAT, MATE1 e MATE2) situate sulla membrana citoplasmatica di numerose cellule, in particolare intestinali, epatiche e renali (17). La risposta terapeutica alla metformina è altamente variabile e meno dei 2/3 dei pazienti trattati raggiunge il controllo glicemico (18). Ciò significa che l’identificazione delle varianti genetiche associate con tale variabilità costituirebbe un prerequisito fondamentale per l’efficace trattamento di questi pazienti. Tuttavia, gli studi sulla farmacogenetica della metformina sono relativamente limitati, soprattutto perché il suo meccanismo d’azione è ancora poco definito. Finora, la maggior parte degli studi, in questo ambito, ha riguardato il gene SLC22A1 il quale, codificando per la proteina di trasporto OCT1, svolge un ruolo fondamentale nell’assorbimento cellulare del farmaco (19). È stato dimostrato che polimorfismi di questo gene (R61C, rs12208357; G401S, rs34130495; M420del, rs72552763; G465R, rs34059508), riducendo la capacità funzionale di OCT1, sono in grado di alterare la biodisponibilità della metformina e di attenuare la sua risposta ipoglicemizzante in individui sani portatori di tali varianti, sottoposti a test da carico orale di glucosio (20-22). Un altro studio molto recente, ha invece evidenziato come due polimorfismi di SLC22A1 (rs628031 e rs36056065) siano associati ad effetti collaterali gastrointestinali in pazienti diabetici trattati con metformina (23). Nello stesso tempo, altri autori (24-25) hanno dimostrato come la biodisponibilità della metformina aumenti in individui sani portatori di varianti del gene SLC22A2, il quale codifica per il fattore di trasporto OCT2. Varianti di questo gene, essendo in grado di indurre un deficit funzionale del fattore OCT2, riducono la clearance della metformina, aumentandone le concentrazioni plasmatiche con rischio di eventi ipoglicemici.

Variazioni interindividuali nella risposta alla metformina sono state recentemente osservate in individui con varianti genetiche a carico dei geni che codificano per MATE1 (g.-66T→C, rs2252281) e MATE2 (g.-130G→A, rs12943590), implicati nell’estrusione della metformina nelle urine. Una maggiore risposta alla metformina, con riduzione dei livelli di emoglobina glicata HbA1c, è stata descritta in associazione con la variante rs2252281 nel gene SLC47A1 (26-29). Una ridotta risposta alla metformina è stata osservava, invece, nei pazienti carrier della variante rs12943590 nel gene SLC47A2 (28-29). Pertanto, questi risultati suggeriscono che le varianti genetiche di MATE1 e MATE2 sono importanti determinanti della risposta alla metformina nei pazienti diabetici trattati con questo farmaco. Il primo GWAS sull’efficacia glicemica della metformina ha dimostrato che la variante rs11212617 localizzata in prossimità del gene ATM (ataxia telangiectasia mutated) si associa più frequentemente con livelli di HbA1c <7,0% (30). La spiegazione di tale fenomeno risiederebbe nel ruolo che questo gene svolge nell’ambito della resistenza insulinica e del DM2.

Pertanto, varianti genetiche di SLC22A1 e SLC22A2 sono importanti nell’azione terapeutica della metformina, potendo contribuire alla variazione interindividuale nella risposta al farmaco. Inoltre, la genotipizzazione di SLC22A1 e SLC22A2 è utile per predire l’efficacia terapeutica della metformina.

FARMACOGENETICA DELLE SULFANILUREE

Nei caucasici le sulfaniluree sono metabolizzate principalmente a livello epatico ad opera del citocromo CYP2C9, deputato alla farmacometabolizzazione. Recentemente è stato dimostrato che polimorfismi del gene CYP2C9 influenzano significativamente la risposta farmacologica alle sulfaniluree (31), potendo determinare una riduzione dell’attività catalitica nel metabolismo di questi farmaci (32-36), con conseguente aumento della loro biodisponibilità nei pazienti diabetici trattati. In particolare, in alcuni pazienti diabetici con le varianti Ile359Leu e Arg144Cis, nel gene CYP2C9, la clearance della glibenclamide si riduce del 30-80%, rendendo necessario l’impiego di dosi minori di questo farmaco per evitare il rischio di ipoglicemia (31, 37-40). D’altra parte, uno studio su un’ampia popolazione ha confermato che la contemporanea presenza (o la presenza in omozigosi) delle varianti Ile359Leu e Arg144Cis, nel gene CYP2C9, è associata con un miglioramento dei markers del controllo glicemico, in particolare dei livelli di HbA1c (41). Pertanto, la genotipizzazione del gene CYP2C9 è utile per predire gli effetti negativi di tali farmaci e per aiutare il medico nella prescrizione degli ipoglicemizzanti orali.

In condizioni fisiologiche, l’ingresso del glucosio e il suo metabolismo nella cellula beta pancreatica determina un aumento della concentrazione intracellulare di ATP, favorendo la chiusura del canale del potassio ATP-sensibile (K-ATP) con conseguente depolarizzazione della membrana citoplasmatica, ingresso degli ioni calcio nella cellula e rilascio di insulina (Fig. 3). Il canale K-ATP è costituito da due proteine strutturali, quella esterna rappresentata dal recettore delle sulfaniluree (SUR1) e quella interna ATP-sensibile (Kir6.2) (42-43). Varianti genetiche inattivanti il gene KCNJ11, il quale codifica per la proteina Kir6.2, e il gene ABCC8, che codifica per SUR1, sono responsabili del diabete mellito neonatale. Al contrario, mutazioni attivanti di questi due geni provocano iperinsulinismo e ipoglicemia neonatale (44). Le mutazioni a carico di KCNJ11 rappresentano un esempio di farmacogenetica applicata alla personalizzazione della terapia. Infatti, recenti evidenze hanno dimostrato che i diabetici con mutazioni a carico di KCNJ11 rispondono più efficacemente alla terapia con sulfaniluree rispetto a quella con insulina (45-47). Il polimorfismo Glu23Lys (E23K) nel gene KCNJ11 è associato sia con un maggiore rischio di sviluppare DM2, sia con una ridotta risposta alle sulfaniluree (48). Sebbene i dati non siano così evidenti e univoci sull’effettivo ruolo di questa variante, uno studio recente ha confermato la sua associazione con una riduzione della secrezione insulinica e con un’aumentata sensibilità all’insulina, quale risultato di un’attivazione del canale K-ATP (49).

Figura3_Farmacogenitica

Un’associazione tra il polimorfismo Ser1369Ala nel gene ABCC8 e l’efficacia terapeutica della gliclazide è stata riscontrata in pazienti diabetici dopo due mesi di trattamento (50). Infatti, nei pazienti con genotipo Alanina/Alanina gli Autori osservavano sia una maggiore riduzione della glicemia plasmatica a digiuno e dopo 2 ore dal carico orale di glucosio, che una riduzione dei livelli di HbA1c rispetto ai pazienti con genotipo Serina/Serina (50). Da notare che le due varianti, E23K nel gene KCNJ11 e Ser1369Ala nel gene ABCC8, risultano spesso associate tra loro in linkage disequilibrium, formando un aplotipo che aumenta il rischio di sviluppare il DM2 (51). Inoltre, è particolarmente interessante l’osservazione che questo aplotipo mostra una sensibilità diversa agli effetti delle varie sulfaniluree: maggiore alla gliclazide, minore alla tolbutamide, clorpropamide e glimepiride, invariata alla glibenclamide e glipizide (52).

Risultati interessanti sono stati ottenuti dallo studio del gene TCF7L2, che codifica per un fattore di trascrizione che sembra essere importante nella funzione beta-cellulare. Varianti genetiche di questo gene aumentano di circa 1,5 volte il rischio di DM2 negli individui portatori della mutazione (9). In studi recenti è stata riportata l’associazione di 2 varianti del TCF7L2 [rs7903146 (G>T) e rs7903146 (C>T)] con l’efficacia terapeutica delle sulfaniluree (53-55). In particolare, la riduzione dei livelli di HbA1c e della glicemia a digiuno era maggiore nei pazienti diabetici portatori dei gentotipi GG e CC delle 2 varianti (53-55). Invece, i pazienti diabetici col genotipo TT di entrambe le varianti mostravano una minore risposta alle sulfanilurre e andavano incontro più facilmente a fallimento terapeutico (53-55).

FARMACOGENETICA DEI TIAZOLIDINEDIONI (TZD)

Varianti genetiche in grado di influenzare la farmacogenetica degli ipoglicemizzanti oali sono state valutate anche in pazienti in terapia con TZD (pioglitazone e rosiglitazone). In qualità di agonisti del PPAR-g (peroxisome proliferator-activated receptor gamma), i TZD agiscono come insulino-sensibilizzanti, riducendo il rilascio epatico di glucosio e aumentando la captazione del glucosio nel muscolo (56). Il gene PPAR-g è stato ampiamente indagato negli studi di farmacogenetica dei TZD, tanto più che varianti di questo gene sono state associate ad un maggiore rischio di DM2 (9). Tuttavia, gli studi effettuati in questo ambito hanno dimostrato risultati contrastanti probabilmente perché presentavano un numero limitato di campioni esaminati (57). Simile discordanza è emersa dagli studi condotti sulle varianti genetiche del citocromo CYP2C8, responsabile della biotrasformazione del pioglitazone (57). Uno studio recente ha riportato una riduzione dell’effetto ipoglicemizzante del pioglitazone in pazienti diabetici portatori del polimorfismo Ser447X a carico del gene che codifica per la lipoprotein lipasi (58). Un altro studio ha evidenziato che la variante SNP-420 del gene della resistina potrebbe essere un predittore indipendente dell’efficacia terapeutica del pioglitazone sui livelli di glicemia basale e sui valori di HOMA-IR (Homeostasis Model of Assessment-Insulin Resistance) (59). Come è noto, l’impiego dei TZD è spesso gravato dalla comparsa di ritenzione idrica ed edema periferico, con aumentato rischio di insufficienza cardiaca congestizia (60). Pertanto, è evidente come la variante rs296766 del gene AQP2 che codifica per l’acquaporina-2 (il canale per l’acqua regolato dalla vasopressina), e la variante rs12904216 del gene SLC12A1 che codifica per un cotrasportatore Na-K-Cl, rappresentino entrambe un fattore di rischio per lo sviluppo di edema in pazienti in corso di trattamento con TZD (61).

FARMACOGENETICA DELLE METIGLINIDI

Le metiglinidi (repaglinide e nateglinide) agiscono legandosi al recettore SUR1, condividendo, quindi, lo stesso meccanismo d’azione con le sulfaniluree (62). La nateglinide è anch’essa metabolizzata da CYP2C9 e varianti genetiche di CYP2C9 risultano associate a variabilità dell’effetto ipoglicemizzante della nateglinide (63). La repaglinide è, invece, metabolizzata dai citocromi P450 CYP2C8 e CYP3A4 (64). Sebbene con risultati a volte contraddittori, varianti del gene CYP2C8 sono state associate ad una maggiore clearance della repaglinide (65). Il gene SLCO1B1 codifica per un polipeptide che funge da carrier di anioni organici (OATP1B1) e regola l’uptake epatico delle statine. Studi recenti, in questo ambito, hanno riportato il ruolo di alcune varianti del gene SLCO1B1 nella farmacocinetica delle metaglinidi (66-69). Una maggiore efficacia ipoglicemizzante della repaglinide è stata riscontrata in pazienti diabetici portatori delle varianti E23K nel gene KCNJ11 (70) e rs13266634 nel gene SLC30A8 (71). Allo stesso modo, i polimorfismi dei geni NEUROD1/BETA2, PAX4 (72) e UPC2 (73) sono risultati predittivi dell’efficacia ipoglicemizzante della repaglinide. Un’associazione della variante G2677 T/A nel gene MDR1, che codifica per una P-glicoproteina di trasporto, con la variabilità nella farmacocinetica della repaglinide è stata riscontrata recentemente in uno studio cinese, in volontari sani (74).

FARMACOGENETICA DELLE INCRETINE

Il GLP-1 (glucagon-like peptide-1) è un enterormone che stimola fisiologicamente la secrezione di insulina e viene rapidamente degradato dall’enzima DPP-IV (dipeptidil-peptidasi IV). Negli ultimi anni la ricerca farmacologica ha consentito di allestire una serie di molecole in grado di agire su questo meccansimo fisiologico. Oggi, esistono farmaci (exenatide, liraglutide) che mimano l’azione del GLP-1 e altri (gliptine) che bloccano il DPP-IV (75). Varianti genetiche del recettore del GLP-1 sono associate ad un’alterata sensibilità al GLP-1 (76). Inoltre, varianti del TCF7L2, KCNQ1 e wolframina 1 sono associate con la ridotta secrezione incretinica e la ridotta sensibilità recettoriale (77). L’unico studio significativo sulla farmacogenetica delle gliptine ha dimostrato che tre loci (TMEM114, CHST3 e CTRB1/2) influenzano la secrezione insulinica indotta dal GLP-1 durante clamp euglicemico (78).

Figura4_Farmacogenitica

CONCLUSIONI E PROSPETTIVE

La terapia personalizzata, basata sulle diversità genetiche di ogni individuo rappresenta una delle sfide più affascinanti della medicina moderna. I risultati ottenuti con lo studio delle varianti genetiche nei pazienti con DM2 potranno essere utilizzati per la realizzazione di un test farmacogenetico predittivo del tipo di risposta agli ipoglicemizzanti orali, che consentirà di personalizzare il trattamento del diabete sulla base del profilo genetico di ciascun paziente, migliorando globalmente la gestione della malattia e garantendo risultati migliori in termini di efficacia e sicurezza. L’implementazione clinica della farmacogenetica, attraverso l’identificazione delle varianti genetiche individuali, potrà fornire un’alternativa più razionale dell’attuale empirismo terapeutico, essendo in grado di individuare i soggetti responsivi ad una terapia piuttosto che ad un’altra, contribuendo ad evitare il fallimento farmacologico e riducendo parallelamente l’incidenza delle reazioni avverse di un farmaco (Fig. 4). Rimane aperta la questione relativa alla variabilità individuale di risposta ai farmaci determinata dalle modificazioni epigenetiche, come la metilazione del DNA, le modificazioni degli istoni e gli RNA non codificanti, in grado di influenzare l’espressione genica. Di questo sta iniziando ad occuparsi la farmacoepigenetica.

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