Ipoglicemia: fisiopatologia e clinica
Francesca Porcellati, Paola Lucidi, Anna Marinelli Andreoli, Geremia B. Bolli, Carmine G. Fanelli
Dipartimento di Medicina, Sezione di Endocrinologia e Metabolismo, Università di Perugia
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INTRODUZIONE
L’ipoglicemia è la complicanza più comune e di gran lunga la più temuta dai pazienti in terapia con insulina e sulfoniluree. L’ipoglicemia è praticamente assente con altri trattamenti (insulino sensibilizzanti, incretine, gliflozine). L’ipoglicemia è responsabile di una significativa compromissione dell’attività intellettuale e fisica e, se prolungata e/o grave, può determinare una neuroglicopenia così marcata da poter causare convulsioni, coma, danni neurologici permanenti e, infine, morte. Anche nei casi di ipoglicemia lieve (trattata e risolta dal paziente), la disfunzione cognitiva dura diverse decine di minuti dopo il recupero della normoglicemia. Pertanto, i pazienti che desiderano guidare una macchina o utilizzare macchinari, dovrebbero astenersi dal farlo per almeno una o due ore dopo l’episodio di ipoglicemia. L’ipoglicemia aumenta il rischio di eventi cardiovascolari (1-2), di demenza (3), di fratture (4) e la mortalità (5). Riduce anche la qualità della vita (6-7), genera paura rispetto al trattamento anti-iperglicemizzante (8) e, di conseguenza, costituisce un limite al raggiungimento di un buon controllo glicemico. Direttamente e indirettamente, l’ipoglicemia aumenta la spesa del diabete (9). La prevenzione del rischio di ipoglicemia è quindi un obiettivo importante che pazienti e diabetologi devono perseguire costantemente nel corso della terapia, soprattutto se intensiva. Ne consegue che oggi la definizione di un buon controllo glicemico o di un controllo glicemico ottimizzato non significa solo raggiungere e mantenere una glicemia quasi normale con emoglobina glicata <7,0%, ma anche minimizzare il rischio di ipoglicemia. Di conseguenza, gli operatori sanitari dovrebbero tenere a mente non solo l’importanza complessiva del livello di emoglobina glicata raggiunta da un determinato trattamento, ma anche il rischio ipoglicemico che tale terapia può comportare per quel determinato individuo con diabete.
Dimensione del problema nel diabete mellito di tipo 1 (DMT1)
L’ipoglicemia lieve, se ricorrente, ha implicazioni cliniche rilevanti. Infatti, l’ipoglicemia ricorrente lieve, moderata in poco tempo induce inconsapevolezza dell’ipoglicemia e altera la contro-regolazione glucidica. Questo a sua volta predispone i pazienti a ipoglicemia grave. Il numero di episodi lievi di ipoglicemia risulta indubbiamente sottostimato dai pazienti. La drammaticità dell’ipoglicemia grave (la necessità di assistenza da parte di una terza parte e/o la necessità di ospedalizzazione) rendono ragione di un facile richiamo dai pazienti o dai loro familiari. Di contro gli episodi di ipoglicemia lieve, spesso notturni e generalmente trattati dal paziente stesso possono essere facilmente dimenticati. La frequenza di ipoglicemia lieve può essere stimata in circa 0,7-2 episodi/paziente a settimana (10-11).
Nel DCCT, la frequenza di ipoglicemia grave, aumentava di ~ 3 volte nel braccio in terapia insulinica intensiva rispetto a quello in trattamento convenzionale (~0,6 vs ~0,2 episodi/anno paziente (12). In uno studio osservazionale eseguito da parte del gruppo di studio dell’ipoglicemia nel Regno Unito, il tasso di ipoglicemia grave variava da 1,1 a 3,2 episodi/anno-paziente in base alla durata del trattamento con insulina (<15 anni e >15 anni, rispettivamente) (10). Questo dato, risulta sostanzialmente più alto di quanto riportato nello studio DCCT (12), indicando come i tassi di ipoglicemia sono spesso più elevati nelle popolazioni non selezionate rispetto a quelle reclutate negli studi clinici in cui, quasi sempre, le persone con fattori di rischio per ipoglicemia grave rappresentano fattori di esclusione.
In uno studio retrospettivo multicentrico osservazionale italiano l’incidenza di ipoglicemia grave è stata di 0,49 episodi/anno paziente (13). Il rischio relativo di ipoglicemia risultava più alto nei pazienti con precedenti episodi di ipoglicemia grave (3.71; 2,28-6,04), neuropatia (4,16; 2,14-8,05), lunga durata (>20 anni, 2,96; 1,60-5,45), e politerapia (1,24; 1,13-1,36).
Attualmente, l’incidenza dell’ipoglicemia è ridotta grazie all’uso di analoghi dell’insulina (rispetto all’era DCCT in cui era disponibile solo l’insulina umana sia prandiale che ritardo, quest’ultima NPH), pompe per insulina e implementazione di un’educazione strutturata. Le riduzioni sono dell’ordine del 15-75% nelle persone con perdita dei sintomi che di solito sperimentano la maggior parte degli episodi di ipoglicemia grave. Le riduzioni degli eventi ipoglicemici per queste persone sono accompagnate da un miglioramento della sintomatologia dell’ipoglicemia, nel senso di un recupero dei sintomi che vengono percepiti prima e per un calo più modesto della glicemia (14).
Diabete mellito di tipo 2 (DMT2)
Nella letteratura internazionale, il numero di eventi di ipoglicemia grave varia da 0 a 0,73 episodi per paziente-anno (15) con notevole differenza tra gli studi. Per esempio, lo studio di Kumamoto, che ha valutato pazienti di tipo 2 non obesi trattati con insulina, non ha riportato episodi di ipoglicemia grave in otto anni di osservazioni (16). In altri studi, come quello del gruppo VA CSDM (17) e lo UKPDS (18), la frequenza dell’ipoglicemia grave risultava molto più bassa di quella riportata nello studio DCCT. Uno studio da parte del gruppo di studio dell’ipoglicemia nel Regno Unito ha trovato una frequenza di ipoglicemia grave pari a 0,7 episodi e 0,1 episodi per paziente/anno in terapia insulinica >5 anni e <2 anni, rispettivamente (10). Nello studio italiano Hypos-1 il rischio di ipoglicemia grave era di 0,09 eventi per 100 paziente/anno (variando da 0,04 paziente/anno eventi per la terapia con farmaci orali non secretagoghi a 0,29 paziente/anno eventi per la terapia insulinica basal-bolus), mentre il rischio di ipoglicemia sintomatica risultava pari a 9,3 eventi per paziente/anno (19). La frequenza di ipoglicemia aumenta con la durata di malattia e la conseguente progressione del deficit di secrezione endogena di insulina, a cui si può associare una compromissione della controregolazione glucidica analogamente a quanto osservato nel diabete di tipo 1 (20-21). Il fisiologico processo d’invecchiamento, l’eventuale presenza di comorbilità, la polifarmacoterapia, così come l’intensificazione del controllo glicemico e l’utilizzo di insulina e sulfoniluree, aumentano il rischio di ipoglicemia (19).
Definizione di ipoglicemia
L’ipoglicemia nelle persone con diabete include tutti gli episodi caratterizzati da valori glicemici bassi al punto tale da esporre l’individuo a un potenziale danno (22-23). L’ipoglicemia nel diabete è classificata in cinque distinte categorie: 1) ipoglicemia grave); 2) ipoglicemia sintomatica documentata; 3) ipoglicemia asintomatica; 4) probabile ipoglicemia sintomatica; 5) pseudo-ipoglicemia (22-23) (Tab. 1).
L’individuazione di un valore puntuale che definisca l’ipoglicemia non è semplice perché le soglie glicemiche per la generazione dei sintomi dell’ipoglicemia (e della controregolazione glucidica) sono influenzate dai livelli glicemici medi prevalenti, dei giorni/settimane precedenti che, qualora influenzati da ipoglicemie ricorrenti, si spostano a valori sensibilmente più bassi (24-27). Tuttavia, ai fini della prevenzione degli episodi di ipoglicemia grave e della sindrome da ridotta percezione dei sintomi all’ipoglicemia, è stato definito come ipoglicemia un valore di glicemia il cui livello dovrebbe allarmare il soggetto e spingerlo a ricontrollare a breve la glicemia e, eventualmente, correggere con l’assunzione di carboidrati (22). Questo valore di glicemia, rilevato all’automonitoraggio glicemico (sangue capillare) o in corso di monitoraggio sottocutaneo in continuo del glucosio è stato stabilito a ≤70 mg/dl (≤3,9 mmol/l) è valido anche per la definizione di ipoglicemia nei bambini (28) ed è stato accettato dalle principali agenzie regolatorie come FDA (29) e EMA (30). Più recentemente, è stato proposto che un valore di 54 mg/dl (3,0 mmol/l) rilevato all’automonitoraggio glicemico (sangue capillare) o in corso di monitoraggio sottocutaneo in continuo del glucosio (per almeno 20 minuti) o in seguito a determinazione su plasma, identifichi una ipoglicemia clinicamente importante, che dovrebbe essere riportata negli studi clinici nei quali siano impiegati farmaci per il trattamento del diabete. Ciò consentirebbe di catturare episodi ipoglicemici di maggiore rilevanza clinica e di confrontare più adeguatamente l’efficacia degli interventi terapeutici nel ridurre tali eventi negli studi clinici (31) (Tab. 1). Infine, del tutto recente è la proposta di espandere la classificazione della definizione di ipoglicemia grave a tutte quelle condizioni in cui la glicemia risulti <50 mg/dl (2,8 mmol/l) (32) senza la richiesta di assistenza da parte di terzi (requisito necessario attualmente per la definizione di ipoglicemia grave) che, nel caso in cui dovesse essere recepita dalle società scientifiche e enti regolatori, costituirebbe un secondo criterio di definizione di ipoglicemia grave.
Cervello come organo sensore del glucosio e generatore delle risposte neuroendocrine all’ipoglicemia
Il glucosio rappresenta il substrato energetico obbligato per il metabolismo cerebrale, però il cervello non è in grado di produrlo e possiede riserve minime di glicogeno tali da sostenere la funzione cerebrale solo per pochi minuti. Pertanto, è richiesto un continuo apporto di glucosio dalla circolazione arteriosa.
Il passaggio del glucosio circolante nelle cellule cerebrali è un processo insulino-indipendente che richiede la presenza di proteine di trasporto che facilitano la diffusione trans-membrana del glucosio con il risultato di stabilire una relazione lineare tra le concentrazioni di glucosio nel plasma e i livelli di glucosio cerebrali (33). Recentemente, questa relazione è stata documentata anche nell’ambito dei valori ipoglicemici nei soggetti sani e in soggetti con diabete di tipo 1 (34). Estrapolando questa relazione lineare al di sotto dei livelli plasmatici di circa 45 mg/dl (2,5 mmol/L), il glucosio cerebrale si avvicina a zero a un livello glicemico di circa 21 mg/dl (1,2 mmol/L) (34). Il primo trasportatore del glucosio in questo processo è il GLUT1 (isoforma 55-kDa), localizzato in microvasi della barriera emato-encefalica. Trasporta il glucosio dal lume capillare all’interstizio cerebrale. Una volta che il glucosio raggiunge l’interstizio, viene trasportato nei neuroni e nelle cellule gliali tramite i trasportatori GLUT3 e GLUT1 (45-kDa) (35). L’espressione di GLUT1 nell’endotelio dei microvasi può essere regolata, in parte, dalla glicemia media prevalente. In effetti, il trasporto e l’utilizzo del glucosio cerebrale e l’espressione di GLUT1 (isoforma 55-kDa) sono stati trovati essere aumentati in ratti cronicamente ipoglicemici (36).
Il cervello è considerato il centro principale per il rilevamento dell’ipoglicemia (37-40), anche se è stato documentato come cellule sensori del glucosio (glucosensori) si trovino anche nella periferia, es. vena porta (41). I sensori di glucosio si trovano in molte aree del cervello, tuttavia, l’ipotalamo, in particolare l’ipotalamo ventromediale (IVM), sembra costituire il centro glucosensore principale nel nostro organismo (42).
L’induzione di ipoglicemia sistemica durante la prevenzione della glucopenia nel IVM, mediante infusione di glucosio intra-carotidea, sopprime il rilascio di ormoni controregolatori di circa 85% (43). Nel IVM, dove appunto ci sono i neuroni “sensori” del glucosio (42, 44), si riconoscono due sottotipi di neuroni definiti come neuroni eccitati dal glucosio (GE) e inibiti dal glucosio (GI), le cui attività sono aumentate (aumento della depolarizzazione ed aumento della loro frequenza di scarica) e ridotte, rispettivamente, da un aumento del glucosio extracellulare (45). I neuroni GE richiedono i canali del K+ sensibili all’ATP (KATP) per rilevare il glucosio (46), in maniera simile alla cellula-β pancreatica, e attivare la controregolazione glucidica (47-49). (Per una revisione dettagliata delle tecniche di neuroimaging funzionale e metabolica e del metabolismo cerebrale durante l’ipoglicemia, vedi bibliografia [50]).
Risposte neuroendocrine all’ipoglicemia
Il mantenimento della concentrazione plasmatica di glucosio oltre una determinata soglia, sotto la quale si determina neuroglicopenia, è cruciale per la funzione cerebrale (e per la sopravvivenza dell’organismo intero). Diversi meccanismi cooperano per prevenire l’ipoglicemia negli esseri umani, specialmente in condizioni avverse, come il digiuno prolungato, l’insufficienza di organi vitali (rene, cuore, fegato) o dopo la somministrazione di farmaci che riducono la glicemia. Questi meccanismi protettivi includono, in primo luogo, l’attivazione di ormoni controregolatori (51-52), in secondo luogo la generazione di sintomi specifici (53), infine una risposta comportamentale, verosimilmente mediata dall’attivazione dei neuroni oressigeni NPY/AGRP nel nucleo arcuato dell’ipotalamo, che promuove l’assunzione di cibo (54).
Queste risposte fisiologiche sono sequenziali e configurano la gerarchia della contro-regolazione (55) (Fig. 1). Gli studi di fisiologia in soggetti non diabetici dimostrano che il primo meccanismo di difesa dall’ipoglicemia è la soppressione della secrezione endogena di insulina che limita l’iperinsulinemia portale e l’ipoglicemia limitando la soppressione della produzione epatica di glucosio. Questo rende più efficienti gli effetti degli ormoni controregolatori. Il secondo meccanismo è un’aumentata secrezione di ormoni controregolatori, anche se ormoni distinti possono essere importanti in momenti diversi (fase precoce e/o tardiva) e coinvolgere diversi meccanismi (aumento della produzione di glucosio, soppressione dell’utilizzo del glucosio, o entrambi) (56). Una maggiore disponibilità di substrati (ad esempio acidi grassi) può inoltre contribuire alla controregolazione dell’ipoglicemia (57). Il terzo meccanismo è l’attivazione di risposte comportamentali volte alla correzione dell’ipoglicemia mediante l’ingestione di carboidrati. La generazione e la percezione dei sintomi dell’ipoglicemia sono passaggi fondamentali in questo terzo meccanismo difensivo all’ipoglicemia.
I sintomi dell’ipoglicemia sono classificati come autonomici (ansia, palpitazioni, tremore mediate dalle catecolamine, e fame, sudorazione, parestesie mediate dall’acetilcolina) (53) e neuroglicopenici (vertigini, parestesie, visione offuscata, difficoltà di concentrazione, astenia). Fra questi due estremi, si collocano una varietà di segni e sintomi, dai disturbi visivi alla sonnolenza, confusione, disturbi comportamentali, incapacità a svolgere compiti semplici, incoordinamento motorio, parola rallentata, fame, deficit neurologici focali (diplopia, emiparesi). Le convulsioni sono più frequenti in età pediatrica che adulta. Sintomi aspecifici, cioè non specificamente attribuibili all’attivazione autonomica e/o alla neuroglicopenia, sono l’astenia, la cefalea, secchezza delle fauci, nausea e vomito. I sintomi autonomici sono in gran parte il risultato dell’attivazione neurale simpatica, piuttosto che della midollare del surrene (58).
Gli ormoni controregolatori (glucagone, adrenalina, cortisolo, ormone della crescita) vengono rilasciati a una soglia di glicemia (arteriosa) di circa 65 mg/dL (~3,5 mmol/l), i sintomi (sia autonomi che neuroglicopenici) compaiono solo dopo quando la glicemia diminuisce a circa 54-50 mg/dl (~ 3,0-2,8 mmol/l) e la funzione cognitiva si deteriora a concentrazioni di glicemia di ~ 52-45 mg/dl (~ 2,9-2,5 mmol/l) (55, 59) (Fig. 1). Tuttavia, come sopra menzionato, queste soglie di glucosio non sono fisse ma piuttosto dinamiche e influenzate dalla glicemia antecedente prevalente in modo tale che le soglie di glucosio si spostino verso il basso (cioè a concentrazioni di glucosio plasmatico più basse) dopo una recente ipoglicemia di poche ore prima, o ricorrente (per esempio giornaliera, nei pazienti con DMT1) o cronica (come nei pazienti con insulinoma) (60-63, 25, 64, 27, 24, 26). In questi casi, le risposte all’ipoglicemia richiedono che la glicemia raggiunga livelli più bassi del valore soglia fisiologico. Ciò aumenta il rischio di ipoglicemia grave perché la disfunzione cognitiva insorge prima che il paziente abbia sintomi e corregga l’ipoglicemia assumendo carboidrati (65).
L’importanza clinica di questa osservazione deriva dal fatto che i pazienti possono o meno sperimentare sintomi di ipoglicemia, a seconda del loro recente controllo antecedente della glicemia. Ad esempio, se i pazienti hanno avuto episodi ricorrenti di ipoglicemia, è probabile che non siano in grado di riconoscere l’ipoglicemia (inconsapevolezza dell’ipoglicemia) o che ne siano consapevoli a una concentrazione plasmatica di glucosio inferiore a quella usuale (54-50 mg/dl). D’altra parte, le persone con diabete scarsamente controllato, hanno soglie per queste risposte spostate verso l’alto a livelli di glucosio più alti del normale (66).
Le modificazioni neurocognitive associate all’ipoglicemia interessano soprattutto processi quali l’attenzione, sia selettiva che sostenuta, la coordinazione visuo-motoria, i tempi di reazione, la flessibilità mentale e aspetti della memoria a breve termine.
Una considerazione pratica che non può essere ignorata, sulla base dei risultati di questi studi, è che nelle persone anziane l’ipoglicemia può sfuggire alla diagnosi. Infatti, l’ipoglicemia può non essere rilevata perché può presentarsi con sintomi aspecifici come vertigini, disturbi visivi o instabilità (80) o, a causa del precoce deterioramento neurologico e cognitivo, con segni di disfunzione cerebrovascolare, neurologica o cognitiva.
Fisiopatologia dell’ipoglicemia
L’iperinsulinemia terapeutica, assoluta o relativa, a seguito di insulina esogena durante la terapia insulinica o dopo terapia con farmaci secretagoghi è la causa scatenante dell’ipoglicemia nel diabete. Tuttavia, quando persone con T1DM e soggetti non diabetici sono esposti sperimentalmente a una iperinsulinemia di pari livello, l’ipoglicemia è più grave e prolungata nel primo gruppo (67).
Chiaramente, i meccanismi di difesa contro l’ipoglicemia sono compromessi nel T1DM (51). Il difetto più comune è la ridotta risposta del glucagone all’ipoglicemia (51). Anche negli adolescenti con DMT1 di recente insorgenza, la risposta di glucagone all’ipoglicemia risulta attenuata entro il primo anno di malattia, mentre non lo è la risposta di adrenalina (68).
La perdita di risposta del glucagone all’ipoglicemia nelle persone con diabete di tipo 1 sembra essere un difetto della cellula-α pancreatica selettivo per l’ipoglicemia. In effetti, la risposta ad altri stimoli diversi dalla glicemia come gli aminoacidi, all’arginina e all’alanina è ampiamente mantenuta (69). Quindi la cellula-α pancreatica sintetizza e secerne glucagone (per esempio anche in modo esagerato durante deprivazione insulinica nel DMT1, contribuendo alla chetoacidosi) ma perde la sua vitale funzione fisiologica di rispondere all’ipoglicemia.
Attualmente, il/i meccanismo/i che sottendono alla secrezione difettosa di glucagone in risposta all’ipoglicemia nelle persone con DMT1 non è/sono noto/i. In queste condizioni, è la risposta dell’ormone adrenalina, che assume fondamentale importanza per la prevenzione e/o correzione dell’ipoglicemia (51). Tuttavia, molte persone con DMT1 soffrono anche di una risposta ridotta di adrenalina, specialmente dopo ipoglicemia ricorrente (70), e/o in presenza di durata di malattia superiore a 10-20 anni (60). I difetti combinati dell’assenza della secrezione di glucagone e la ridotta risposta di adrenalina nel contesto di iperinsulinemia terapeutica configurano la sindrome clinica della controregolazione glucidica difettosa che rappresenta un forte fattore predittivo di episodi di ipoglicemica grave durante terapia insulinica intensiva (71-72).
L’ipoglicemia nel DMT2 è meno frequente rispetto al DMT1 a causa della resistenza all’insulina e di una controregolazione efficace, almeno nelle persone con una breve durata del diabete. Con l’aumentare della durata e il progressivo deterioramento della funzione delle cellule-β pancreatiche, la risposta di glucagone all’ipoglicemia può risultare deficitaria in modo simile al DMT1 (73, 10). Pertanto, l’ipoglicemia occorre anche nel DMT2, specialmente se il trattamento è diretto al raggiungimento degli obiettivi della terapia intensiva con insulina e/o sulfonilurea (74-76). Inoltre, l’ipoglicemia antecedente riduce le risposte autonomiche e sintomatiche alla successiva ipoglicemia anche nel DMT2 allo stesso modo del DMT1 (73).
Le persone anziane hanno maggiori probabilità di sviluppare ipoglicemia iatrogena rispetto ai non anziani (77). Una ragione è che gli anziani sani presentano una ridotta risposta di glucagone, adrenalina e una ridotta intensità dei sintomi autonomi all’ipoglicemia rispetto ai soggetti più giovani (78). L’intervallo glicemico che normalmente esiste tra percezione soggettiva dell’ipoglicemia e l’insorgenza della disfunzione cognitiva (allungamento dei tempi di reazione) è sostanzialmente perso nei più anziani (60-70 anni) rispetto ai giovani (22-26 anni) (79). Di conseguenza, nei pazienti più anziani, durante la caduta della glicemia, la disfunzione cognitiva può presentarsi quasi simultaneamente alla percezione soggettiva dei sintomi di allarme autonomici dell’ipoglicemia, con il rischio di compromettere o ritardare una risposta appropriata di tipo comportamentale difensiva quale quella di assumere dei carboidrati.
Negli anziani con diabete di tipo 2 in terapia insulinica, è stato osservato che l’espressione e la percezione dei sintomi ipoglicemici sono diversi da quelli osservati nei soggetti diabetici più giovani (80). La disfunzione cognitiva (prolungamento dei tempi di reazione) tendeva ad essere maggiore nelle persone con diabete di tipo 2 con età >65 anni (77). È interessante notare che, non solo l’ipoglicemia causa disfunzione cognitive, ma una grave disfunzione cognitiva raddoppia il rischio di ipoglicemia grave (81). A tale riguardo, un fattore aggiuntivo che interferisce con il riconoscimento e il trattamento dell’ipoglicemia nelle persone anziane affette da diabete è che il danno cognitivo generalizzato si verifica più frequentemente negli anziani. In uno studio, le persone con diabete di tipo 2 trattate con insulina, di età pari o superiore a 75 anni, erano generalmente in grado di gestire il diabete con insulina correttamente e di identificare le misure da adottare in caso di ipoglicemia (assunzione di spuntini o bevande zuccherate), sebbene un sottogruppo di individui con compromissione cognitiva, che rappresentava circa un quarto del gruppo totale, mostrava difficoltà maggiore nell’intervento correttivo ed era peraltro incline ad intensificare il trattamento (82).
Inconsapevolezza dell’ipoglicemia o sindrome della perdita dei sintomi all’ipoglicemia (hypoglycaemia unawareness)
Si stima che nel 17-36% delle persone con diabete di tipo 1 la capacità di avvertire i sintomi di allarme dell’ipoglicemia sia compromessa con il risultato di percepire i sintomi in maniera attenuata o di non percepirli affatto. Generalmente, questo fenomeno tende ad aumentare con la durata del diabete (12, 83-85). Nel diabete di tipo 2, circa il 6-8% delle persone sviluppa questa condizione, essendo più frequente nei soggetti in terapia intensiva (86-87). Una alterata capacità di avvertire i sintomi di allarme dell’ipoglicemia nelle persone con diabete è in gran parte il risultato di episodi di ipoglicemie antecedenti e ricorrenti che attenua la risposta autonomica all’ipoglicemia e, con questa, anche i sintomi.
La mancata capacità di avvertire i sintomi di allarme dell’ipoglicemia impedisce al paziente di correggere l’ipoglicemia all’esordio prima della comparsa della neuroglicopenia e dell’ipoglicemia grave. Infatti, questa condizione, se presente, espone il soggetto a un rischio stimato di ipoglicemia grave iatrogena aumentato di circa 6 volte nel diabete di tipo 1 (88, 84) e di 9 volte nel diabete di tipo 2 (86).
Sindrome di Cryer (Ipoglicemia associata a deficit del sistema autonomico – HAAF)
Studi sperimentali in soggetti volontari sani hanno dimostrato che due episodi di ipoglicemia insulinica moderata e di breve durata (~ 50 mg/dl, ~2.7 mmol/l per 90 minuti, un episodio al mattino, l’altro nel pomeriggio) (24), o un singolo episodio di ipoglicemia notturna (63, 25), attenuano le risposte ormonali (compresa la risposta di adrenalina) e dei sintomi all’ipoglicemia insulinica indotta il giorno successivo. Osservazioni simili sono state condotte nel DMT1 (64) e nel DMT2 con lunga durata di malattia (73).
Ulteriori ricerche hanno stabilito che la prevenzione meticolosa dell’ipoglicemia nelle persone con diabete di tipo 1 con breve durata di malattia e che soffrono di ipoglicemie ricorrenti è seguita da un rapido recupero dei sintomi (sia autonomici che neuroglicopenici) e delle risposte controregolatorie (in particolare adrenalina, meno glucagone) (70). Risultati simili sul recupero dei sintomi sono stati successivamente confermati in persone con una durata più lunga del diabete (60, 89-90). Sulla base di queste osservazioni, Cryer ha proposto il concetto di ipoglicemia associata a un deficit del sistema autonomico (Hypoglycemia-Associated Autonomic Failure – HAAF) nel diabete, ipotizzando che l’ipoglicemia antecedente sia la causa primaria sia della controregolazione glicidica difettosa sia della inconsapevolezza dell’ipoglicemia, instaurando un circolo vizioso in cui l’ipoglicemia antecedente può favorire il verificarsi di una successiva ipoglicemia (24, 91-92, 15, 20). Infatti, l’ipoglicemia ricorrente che si verifica inevitabilmente nel corso della terapia insulinica per effetto sia dell’iperinsulinemia iatrogena, dovuta alla non fisiologica sostituzione dell’insulina (nel sottocute invece che a livello portale) e della controregolazione glucidica difettosa, causa una riduzione ulteriore della secrezione di adrenalina e la condizione di inconsapevolezza dell’ipoglicemia. Sia la risposta attenuata di adrenalina che l’inconsapevolezza dell’ipoglicemia, a loro volta, favoriscono l’ipoglicemia ricorrente (Fig. 2).
L’ipoglicemia associata al deficit del sistema autonomico è in gran parte un disturbo ampiamente funzionale distinto dalla classica neuropatia diabetica autonomica (26). È interessante notare che l’ipoglicemia antecedente compromette anche il controllo autonomico della funzione cardiovascolare (92). Oltre all’ipoglicemia antecedente, HAAF, oggi nota anche come “sindrome di Cryer” (93) si associa anche all’attività fisica e al sonno (94-95). Infatti, l’attività fisica determina una attenuazione della risposta autonomica nelle ore successive, con rischio di ipoglicemia spesso durante la notte, mentre durante il sonno l’attivazione del sistema autonomico in risposta all’ipoglicemia è attenuata con minore probabilità di risveglio del soggetto.
I meccanismi alla base della HAAF hanno polarizzato l’interesse di molte ricerche, anche se non sono stati ancora definiti. Per quanto riguarda gli elementi essenziali della HAAF, cioè la controregolazione glicidica difettosa e l’inconsapevolezza dell’ipoglicemia, le evidenze sono a supporto di ipotesi che includono un aumento della captazione cerebrale di glucosio, un possibile ruolo di un mediatore sistemico come il cortisolo (l’aumento della concentrazione di cortisolo durante ipoglicemia antecedente sarebbe responsabile di una risposta autonomica attenuata durante una ipoglicemia successiva, una sorta di adattamento allo stress antecedente), una ridotta sensibilità beta-adrenergica (96), alterazioni dei meccanismi glucosensori ipotalamici e, infine, l’attivazione di una rete di aree cerebrali in cui durante l’ipoglicemia aumenta l’attività sinaptica e che potrebbe coinvolgere aree cerebrali interconesse che comprendono la corteccia prefrontale mediale, la corteccia laterale prefrontale orbitale, il talamo e il globo pallido (91, 97-98). Per esempio, utilizzando la PET è stato dimostrato in persone con diabete di tipo 1, con e senza inconsapevolezza dell’ipoglicemia e deficit della controregolazione, che l’ipoglicemia moderata (47 mg/dl, 2,6 mmol/l) si associava a una diversa captazione cerebrale regionale del [(18F)]-fluorodesossiglucosio (FDG). In particolare, i soggetti con inconsapevolezza dell’ipoglicemia presentavano una captazione di FDG attenuta nell’amigdala e nella corteccia occipitale (99). Considerando che l’amigdala è notoriamente l’area cerebrale coinvolta nella acquisizione ed espressione della paura e promuove la messa in atto di comportamenti di reazione al pericolo o a situazioni minacciose (l’ipoglicemia è una situazione minacciosa) attivando la risposta autonomica e endocrina allo stress, gli autori interpretano la ridotta attivazione dell’amigdala in soggetti con inconsapevolezza dell’ipoglicemia come la premessa meccanicistica per una ridotta attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e diminuita risposta controregolatoria all’ipoglicemia in questo gruppo (99).
Aspetti clinici dell’ipoglicemia
Oltre a causare HAAF, che ne rappresenta una importante complicanza, l’ipoglicemia, in relazione alla gravità, durata e frequenza (acuta vs ricorrente) e presenza di comorbilità, può causare importanti e pericolose conseguenze, di natura psicologica, neurologica, cognitiva e cardiovascolare (23). Le conseguenze psicologiche a breve termine possono essere ansia, irritabilità e/o imbarazzo, mentre a lungo termine stress, depressione, paura dell’ipoglicemia (che può rappresentare una barriera al raggiungimento di un buon controllo glicemico), isolamento sociale, conflitti nelle relazioni con altre persone in famiglia e nell’ambiente di lavoro o scolastico. Le conseguenze neurologiche includono coma, emiplegia transitoria, convulsioni e il danno che può direttamente derivare da questi eventi come quello relativo a traumi e fratture (100).
L’impatto a lungo termine dell’ipoglicemia sulla funzione cognitiva non è completamente accertato e molti fattori, come l’età di esordio, la durata del diabete, il grado di controllo glicemico e la presenza di complicanze microvascolari possono influire sul suo reale impatto. Nello studio DCCT/EDIC, l’aumentata frequenza di ipoglicemia grave nel gruppo in terapia intensiva (vs terapia convenzionale) non era associata a deficit cognitivi in pazienti che erano stati seguiti per una media di 18 anni (101). Invece, deficit cognitivi associati all’ipoglicemia grave sono stati dimostrati nei bambini nei quali l’ipoglicemia si presentava prima dei 5 anni (102). Questi dati suggeriscono che il cervello dei bambini piccoli in via di sviluppo è più vulnerabile agli effetti deleteri della ipoglicemia grave. Negli anziani con diabete di tipo 2 l’ipoglicemia può essere associata a demenza (3). Questa a sua volta si può associare ad un aumentato rischio di ipoglicemia (103).
Negli ultimi anni, è stato dato molto rilievo alle possibili connessioni tra ipoglicemia e rischio cardiovascolare. L’ipoglicemia può aumentare il rischio cardiovascolare e la mortalità attraverso diversi meccanismi (2). Infatti, l’ipoglicemia stimola il rilascio di catecolamine che aumentano la contrattilità miocardica e la gittata cardiaca con aumento del consumo di ossigeno. Quest’ultimo può essere tollerato nel giovane con coronarie indenni, ma induce ischemia miocardica in pazienti con malattia delle coronarie, frequente nel DMT1 di lunga durata e nel DMT2 (104). Diversi studi hanno dimostrato che l’ipoglicemia è associata ad un significativo allungamento dell’intervallo QT corretto (QTc) in soggetti con e senza diabete (105-106). Altre anomalie elettrocardiografiche osservate durante l’ipoglicemia comprendono una diminuzione dell’intervallo PR e depressioni del segmento ST moderate (106). Queste modificazione all’ECG sono dovute all’aumentato rilascio di catecolamine durante l’ipoglicemia. Il prolungamento del QTc in particolare potrebbe portare ad un alto rischio di tachicardia ventricolare e morte improvvisa (107). Il beta-blocco previene questo tipo di alterazione elettrocardiografica (107). Un altro effetto della aumentata risposta adrenergica all’ipoglicemia è l’ipopotassiemia che, a sua volta, amplifica le anomalie della ripolarizzazione cardiaca. Anche la neuropatia autonomica è associata ad un aumento della mortalità. Gli effetti dell’ipoglicemia antecedente sulla regolazione autonomica cardiaca potrebbero contribuire alla comparsa di eventi avversi cardiaci (92).
È stato dimostrato che le concentrazioni plasmatiche di numerosi marker infiammatori comprendenti la proteina C-reattiva (CRP), l’interleuchina 6 (IL-6), l’interleuchina 8 (IL-8), il fattore di necrosi tumorale alfa (TNF-α) e l’endotelina-1 aumentano durante l’ipoglicemia (108-109). L’aumento di queste citochine infiammatorie potrebbe avere un ruolo nel danno endoteliale e nel determinare anomalie della coagulazione, con conseguente aumento del rischio di eventi cardiovascolari. La rigidità della parete dei vasi aumenta durante l’ipoglicemia in pazienti con diabete di tipo 1 con durata di malattia maggiore rispetto a quelli con una durata più breve (110). Inoltre, l’aumento dei livelli di adrenalina durante ipoglicemia determina un aumento dell’attivazione piastrinica, della mobilizzazione dei leucociti e della coagulabilità del sangue (111).
L’infiammazione, l’attivazione piastrinica, lo stato procoagulativo e la disfunzione endoteliale sono strettamente interdipendenti. Queste anomalie potrebbero potenzialmente essere fattori aggravanti e contribuire ad aumentare il rischio cardiovascolare durante l’ipoglicemia grave, specialmente nei pazienti con malattie cardiovascolari preesistenti, con lunga durata di diabete e grave neuropatia autonomica. Pertanto l’ipoglicemia può aumentare il rischio di eventi cardiovascolari, specialmente in sottogruppi di pazienti. Per esempio, nello studio ACCORD (74), in pazienti con diabete mellito di tipo 2 a elevato rischio cardiovascolare, l’associazione tra ipoglicemia e mortalità è risultata essere complessa, dal momento che tra i partecipanti che avevano sperimentato almeno un episodio di ipoglicemia, il rischio di morte era più basso nei partecipanti del gruppo trattato intensivamente rispetto al gruppo in trattamento standard. Quindi, è verisimile che l’ipoglicemia grave in un paziente con controllo glicemico non adeguato, quale quello di un controllo non intensivo, determini effetti più devastanti in misura di un aumento del rischio di gravi eventi cardiovascolari e morte rispetto a paziente in controllo ottimizzato. Una spiegazione per questa osservazione potrebbe risiedere nel fatto che la risposta della controregolazione all’ipoglicemia e la risposta di adrenalina, che come si è detto e influenzata dalla glicemia media prevalente nel senso che aumenta con l’iperglicemia cronica e diminuisce con l’ipoglicemia cronica, potrebbe essere stata più robusta nel gruppo in terapia standard generando una maggiore risposta adrenergica e una maggiore espressione di fenomeni pro-aterotrombotici di cui sopra, con rischio aumentato di aritmie cardiache e di ischemia miocardica, rispettivamente (112-113). La mortalità risultava più elevata nei soggetti più anziani, con una durata più lunga del diabete, con valori di HbA1C più elevati e un elevato rapporto albumina/creatina.
L’impatto economico dell’ipoglicemia
L’ipoglicemia è associata a costi significativi e rappresenta un onere economico molto rilevante per i sistemi sanitari nazionali. I costi dell’ipoglicemia comprendono i costi diretti, indiretti e intangibili. I costi associati all’ipoglicemia grave sono più elevati a causa della necessità di ricovero ospedaliero e di assistenza da parte dei servizi di emergenza/ambulanza rispetto a quelli associati all’ipoglicemia non grave. Tuttavia, poiché l’ipoglicemia non grave è più comune, i costi reali dell’ipoglicemia risultano rilevanti e generalmente sottostimati (114). L’ipoglicemia in ambiente ospedaliero è associata ad un aumento dei costi principalmente a causa del trattamento e del prolungamento dei tempi di degenza (115-117). In alcuni paesi europei, il costo medio del trattamento per un singolo episodio di ipoglicemia grave è stato stimato variare da € 1.677 (118) a € 1.911 (119) e, per il caso in cui l’ipoglicemia grave richieda il ricovero ospedaliero, variabile da € 1.300 a € 3.300 (115) a € 5.317 (119). Il costo totale associato all’ipoglicemia in Italia (costi diretti e indiretti) è stato stimato in 107 milioni di euro all’anno (120).
Sebbene il confronto del costo economico dell’ipoglicemia tra i diversi paesi sia complesso a causa delle differenze nei sistemi sanitari, è evidente come sia l’ipoglicemia grave che quella non grave aumentino notevolmente i costi economici per ciascun sistema sanitario, sottraendo così risorse che potrebbero essere utilizzate per migliorare l’assistenza alle persone con diabete. È stato di fatto stimato come, prevenendo un ricovero per ipoglicemia grave, si rendano disponibili risorse economiche per curare 2 persone con diabete per un intero anno.
Inutile dire che non è possibile stimare i costi intangibili dell’ipoglicemia perché riguardano aspetti più soggettivi e di natura psicologica con ripercussioni pesanti sulla qualità della vita per le persone con diabete (121, 7).
Principi generali di prevenzione dell’ipoglicemia
Considerato il fatto che l’ipoglicemia nel diabete è essenzialmente una complicanza iatrogena, i regimi terapeutici dovrebbero mirare non solo a raggiungere obiettivi glicemici necessari a prevenire le complicanze micro-e-macrovascolari a lungo termine, ma anche a ridurre al minimo il rischio di ipoglicemia. La prevenzione dell’ipoglicemia grave è ovviamente l’obiettivo primario, ma la prevenzione dell’ipoglicemia lieve/moderata è altrettanto importante in quanto, soprattutto se ricorrente, avvia il ciclo vizioso di “adattamento” all’ipoglicemia stabilendo la condizione di HAAF (inconsapevolezza dell’ipoglicemia e controregolazione difettosa) e rischio di ipoglicemia grave.
Al fine di minimizzare il rischio di ipoglicemia, è utile considerare i seguenti punti. Innanzitutto, la necessità che i pazienti siano istruiti sul rischio di ipoglicemia come verrà sottolineato successivamente L’educazione del paziente dovrebbe includere informazioni sul rischio di ipoglicemia legato all’uso dell’insulina/sulfoniluree, sui fattori di rischio, nonché sull’uso dell’auto-monitoraggio glicemico per l’accertamento dell’ipoglicemia e le modalità di trattamento. Ogni visita dovrebbe includere una valutazione approfondita degli episodi ipoglicemici per determinarne la gravità e, per gli episodi non gravi, definirne la presentazione clinica (sintomatica vs asintomatica), determinarne la frequenza e accertarne i fattori di rischio che vi abbiano contribuito. In secondo luogo, è fondamentale individualizzare gli obiettivi glicemici per il singolo individuo, secondo i principi del trattamento intensivo e non intensivo (122). Occorre prestare attenzione alle patologie concomitanti, come le malattie cardiovascolari, che possono peggiorare a causa dell’ipoglicemia. Ciò è particolarmente rilevante per i pazienti con diabete di lunga durata nei quali la malattia cardiovascolare e la neuropatia autonomica possono rappresentare fattori aggiuntivi e aggravare le conseguenze dell’ipoglicemia. Infine, sono ben noti i fattori di rischio che possono predisporre all’ipoglicemia. Tra questi, la storia di pregressi episodi di ipoglicemia grave, l’inconsapevolezza dell’ipoglicemia, un valore basso di HbA1c (dovrebbe far sospettare la presenza di ipoglicemie ricorrenti) e la concomitanza di neuropatia autonomica. Pertanto, nei pazienti con fattori di rischio per l’ipoglicemia, l’obiettivo glicemico della terapia non dovrebbe essere la normoglicemia o A1C <7,0%. Invece, il target glicemico dovrebbe essere definito a un livello un po’ più elevato, HbA1c >7,0%, comunque da individuare e adattare nel singolo soggetto, in base agli obiettivi della terapia non intensiva (122). Un approccio simile, che preveda un obiettivo glicemico con HbA1c >8,0% dovrebbe essere adottato anche per i pazienti anziani fragili o per le persone con breve aspettativa di vita in terapia insulinica.
Prevenzione dell’ipoglicemia nel diabete di tipo 1 in terapia intensiva
L’ipoglicemia è favorita dalla presenza di fattori di rischio e di fattori precipitanti (Tab. 2 e Tab. 3). Tra i fattori di rischio, la storia di pregressi episodi di ipoglicemia grave e l’inconsapevolezza dell’ipoglicemia sono i più importanti perché aumentano notevolmente il rischio di ipoglicemia grave (circa 6 volte), mentre, gran parte dei fattori precipitanti possono essere corretti fornendo un’adeguata educazione al paziente. Infatti, il paziente ben informato è in grado di gestire meglio sia il controllo della glicemia sia la prevenzione dell’ipoglicemia.
Il paziente deve essere informato e conoscere le caratteristiche dei preparati insulinici utilizzati, nonché i tempi della giornata a maggior rischio di ipoglicemia; dovrebbe essere istruito sull’utilità dell’autocontrollo glicemico come guida nella scelta della dose di insulina; dovrebbe essere in grado di stabilire il potenziale impatto glicemico dei pasti in relazione al loro contenuto di carboidrati; dovrebbe essere in grado di gestire correttamente l’esercizio fisico; e dovrebbe essere consapevole degli effetti ipoglicemici dell’alcol. Altre misure comportamentali che il paziente deve conoscere sono quelli di controllare la glicemia in presenza di sintomi suggestivi di ipoglicemia, come correggere correttamente l’ipoglicemia con carboidrati a rapido assorbimento, portare sempre con sé bustine di zucchero, tenere sempre il glucagone a domicilio e rendere consapevoli i familiari o gli amici del rischio di ipoglicemia addestrandoli a iniettare glucagone o chiamare un’ambulanza per il ricovero in caso di perdita di coscienza; non mettersi alla guida immediatamente dopo un episodio di ipoglicemia poiché alcuni aspetti cognitivi, alterati durante l’ipoglicemia, si risolvono completamente solo dopo 1-2 ore; infine, misurare la glicemia prima della guida. In ambulatorio, ad ogni visita, è importante rivalutare il controllo glicemico con particolare attenzione agli eventi ipoglicemici e alla loro frequenza. Se si sono verificate ipoglicemie è necessario comprendere la relazione temporale tra l’evento ipoglicemico e la somministrazione di insulina (prandiale vs basale), la dose di insulina, il contenuto di carboidrati del pasto precedente, se l’ipoglicemia era stata preceduta dall’attività fisica o da ingestione di alcol. È importante sapere se il paziente è in grado di riconoscere l’ipoglicemia all’esordio; quali sono i sintomi avvertiti e a che valori di glicemia questi sintomi si manifestano per escludere che il paziente sia affetto da inconsapevolezza dell’ipoglicemia; stabilire se è presente l’ipoglicemia notturna (sudorazioni notturne, incubi, cefalea mattutina potrebbero essere tutte manifestazioni di ipoglicemie inavvertite verificatesi durante la notte); stabilire se l’ipoglicemia viene corretta in modo appropriato o se si siano verificati episodi di ipoglicemia grave.
Attenzione particolare deve essere dedicata da parte degli operatori all’ispezione dei siti di iniezione al fine di escludere la presenza di aree di lipoipertrofia. In particolare, nei casi di inspiegabile ipoglicemia, un motivo potrebbe essere rappresentato dalla rotazione del sito di iniezione da una zona con lipoipertrofia a un’area non lipoipertrofica (per le stesse dosi di insulina) con il risultato di favorire un aumentato assorbimento di insulina e anche l’ipoglicemia.
Per minimizzare il rischio di ipoglicemia nel diabete di tipo 1 è importante che il trattamento con insulina riproduca il più fedelmente possibile la fisiologia della secrezione insulinica endogena dei soggetti non diabetici (123; 122). Questo obiettivo può essere raggiunto più facilmente con analoghi dell’insulina piuttosto che con le insuline umane. Gli analoghi dell’insulina attualmente disponibili, sia ad azione rapida che a lunga durata hanno proprietà farmacocinetiche e farmacodinamiche che consentono il raggiungimento di obiettivi glicemici intensivi con un minor rischio di ipoglicemia rispetto alle preparazioni di insulina umana sia nel periodo postpandiale che a digiuno. Gli analoghi dell’insulina a lunga durata degludec e glargine U-300, più recentemente commercializzati determinano un’ulteriore riduzione del rischio di ipoglicemia notturna rispetto a glargine U-100 e detemir (124) e sono una buona opzione per le persone in terapia con glargine o detemir in cui l’ipoglicemia notturna rappresenti un problema significativo. L’insulina degludec è stata confrontata con l’insulina glargine U-100 in uno studio, con disegno cross-over, che ha arruolato persone con diabete di tipo 1 e di tipo 2 che presentavano fattori di rischio per l’ipoglicemia dimostrando un rischio ridotto, per entrambe le popolazioni, di ipoglicemia sintomatica, ipoglicemia notturna e ipoglicemia grave (125-126).
Per le persone che soffrono di inconsapevolezza dell’ipoglicemia, frequenti episodi di ipoglicemia clinicamente significativa o ipoglicemia grave, la terapia insulinica mediante microinfusore (CSII) può risultare particolarmente utile (127). Quindi, questa opzione terapeutica dovrebbe essere presa in considerazione e proposta al paziente. Inoltre, se integrata con la determinazione in continuo del glucosio interstiziale in tempo reale (RT-CGM), riduce il tempo trascorso in ipoglicemia (<63 mg/dl, 3,5 mmol/l) e contribuisce alla diminuzione della HbA1c nei bambini e negli adulti con diabete di tipo 1 (128-129).
Sebbene l’effetto dell’uso del CGM sul rischio di ipoglicemia grave non sia stato accertato, i pazienti che soffrono di HAAF e di gravi episodi di ipoglicemia notturna possono beneficiare della funzione di sospensione della erogazione di insulina (LGS) del microinfusore (130), come peraltro sostenuto recentemente dal NICE (istituto nazionale britannico per l’eccellenza nella salute) (131) o, per i soggetti che soffrono di inconsapevolezza dell’ipoglicemia, della più avanzata funzione di sospensione predittiva (prima che si arrivi all’ipoglicemia) dell’erogazione basale di insulina attivata dal sensore (132).
Prevenzione dell’ipoglicemia nel diabete di tipo 2
Il rischio di ipoglicemia nel diabete di tipo 2 è associato all’uso di insulina e sulfoniluree. Altri agenti anti-iperglicemizzanti comunemente usati presentano un basso rischio di ipoglicemia. La maggior parte dei pazienti con DMT2 viene inizialmente avviata a un trattamento non insulinico, anche se, nell’arco di alcuni anni molti di questi pazienti andranno incontro a un fallimento terapeutico (133). Il trattamento insulinico deve essere preso in considerazione ogni qualvolta le altre forme di terapia non permettano di raggiungere il target glicemico individuale. Inoltre, in pazienti scompensati (HbA1c >9%) il trattamento insulinico all’esordio, anche temporaneo, garantisce un’efficacia terapeutica. Oltre alla sua efficacia nel controllo della glicemia, un trattamento precoce con insulina potrebbe risultare vantaggioso in termini di protezione β-cellulare e remissione clinica del diabete per un periodo più prolungato rispetto a altri farmaci (134). Il mantenimento della funzione β-cellulare, vale a dire la presenza di una riserva insulinica residua, non è solo vantaggioso in termini di controllo glicemico, ma è anche importante nel prevenire l’ipoglicemia perché la secrezione di insulina si riduce durante l’ipoglicemia e, nello stesso tempo, rappresenta un segnale fisiologico per la secrezione di glucagone (135).
L’insulina può essere iniziata in un’unica somministrazione giornaliera di una formulazione basale la cui dose è titolata per correggere l’iperglicemia a digiuno, il principale fattore che contribuisce all’iperglicemia quando il valore di HbA1c è superiore all’8,0% (136). L’insulina basale è preferibile a quella prandiale (egualmente efficace nel ridurre l’A1C) perché comporta un rischio minore di ipoglicemia (137-138). L’insulina NPH ha dimostrato di essere efficace quanto glargine o detemir nel ridurre l’HbA1c con obiettivo glicemico del 7,0%, ma si associa a un rischio più elevato di ipoglicemia notturna (139-140). Per questo motivo gli analoghi dell’insulina a lunga durata d’azione, dovrebbero essere utilizzati come insulina basale nel diabete di tipo 2. Nei soggetti nei quali la terapia con insulina basale permette di raggiungere l’obiettivo di glicemia a digiuno, ma nei quali i valori di HbA1c si collocano sopra il 7,0% la causa va individuata nell’iperglicemia post-prandiale. In queste circostanze, un analogo dell’insulina ad azione rapida deve essere aggiunto ogni volta che viene consumato un pasto ricco di carboidrati (141). Sicuramente un’alternativa attraente, è quella che vede l’associazione dell’agonista recettoriale del GLP-1 all’insulina basale al fine di controllare l’iperglicemia postprandiale, nel contempo riducendo il rischio di ipoglicemia e contenendo l’incremento ponderale (142-143).
La combinazione di insulina e sulfoniluree, anche se costituisce una possibile associazione nell’ambito delle raccomandazioni di terapia ipoglicemizzante per i pazienti con diabete di tipo 2 (127), dovrebbe essere evitata perché veicola il più alto rischio di ipoglicemia. Va notato che l’ipoglicemia indotta dalla sulfonilurea può essere di lunga durata e pericolosa per la vita. Il rischio di ipoglicemia grave associato all’uso della glibenclamide è superiore a quello di altri tipi di sulfoniluree (144). Inoltre, oltre ad aumentare il rischio di ipoglicemia, la terapia con sulfonilurea potrebbe aumentare il rischio di eventi cardiovascolari rispetto ad altri farmaci anti-iperglicemizzanti (145). L’elevata frequenza di ipoglicemia grave indotta dall’utilizzo delle sulfoniluree rimane tuttora una pesante realtà clinica, ed è paradossale ricordare come la categoria numericamente più colpita risulti essere quella degli anziani, ove il fisiologico processo d’invecchiamento, l’eventuale presenza di comorbilità, polifarmacoterapia, barriere psico-fisiche e sociali possono rappresentare un pericoloso background in grado di condizionare per se un elevato rischio di ipoglicemia e delle sue conseguenze.
In contrasto con le sulfoniluree, l’uso di agenti insulino-sensibilizzanti come la metformina, GLP1-RA, inibitori della dipeptidil peptidasi-4, pioglitazone e inibitori di SGLT2 sono particolarmente vantaggiosi nel ridurre il rischio di ipoglicemia nel diabete di tipo 2. La tabella 4 riassume un approccio generale per prevenire l’ipoglicemia nel diabete.
Trattamento della condizione di inconsapevolezza dell’ipoglicemia
La condizione di inconsapevolezza dell’ipoglicemia può essere trattata con l’istituzione di un programma di prevenzione meticolosa dell’ipoglicemia, che inizialmente può basarsi sull’innalzamento degli obiettivi glicemici a digiuno, prima dei pasti e durante la notte nell’ordine di ~40 mg/dl (1,2-2,2 mmol/l) per un breve periodo di tempo, di solito 2-3 settimane. Generalmente, l’eliminazione delle ipoglicemie durante questo periodo ripristina ampiamente la consapevolezza dell’ipoglicemia nella maggior parte dei soggetti (70, 90, 146). Questo approccio è entrato nella pratica clinica (standard di cura) come un modo efficace per correggere la condizione di inconsapevolezza dell’ipoglicemia e per ridurre il rischio di ulteriori episodi di ipoglicemia (127). Tra le altre strategie per il trattamento dell’inconsapevolezza dell’ipoglicemia si richiamano forme di interventi psicoeducativi finalizzati a migliorare l’accuratezza dei pazienti nel riconoscere e interpretare i sintomi indicativi di variazione della glicemia, e di comprendere altri fattori utili ad evitare l’ipoglicemia grave (blood glucose awareness training, BGAT) (147). Il programma BGAT ha dimostrato di produrre benefici a lungo termine con riduzione di episodi di ipoglicemia grave e degli incidenti automobilistici (148). Un programma di terapia insulinica intensiva per il diabete di tipo 1 basato su un intervento educativo strutturato ha dimostrato di migliorare il controllo glicemico, la qualità di vita, la consapevolezza dell’ipoglicemia e di ridurre la frequenza di ipoglicemia (dose adjustment for normal eating, DAFNE) (149). Dati preliminari molto interessanti vengono dal programma (DAFNE-HART, hypoglycemia awareness restoration training), che incorpora un intervento psicologico sull’educazione delle persone con diabete ed è stato progettato specificamente per trattare l’inconsapevolezza dell’ipoglicemia nei pazienti nei quali questa condizione sia presente nonostante sia ottimizzata la (auto)-gestione della terapia insulinica (150). Pertanto, sembra che un programma educativo strutturato che incorpori interventi psicologici sia uno strumento terapeutico utile per migliorare e, eventualmente mantenere la consapevolezza dell’ipoglicemia in quelle persone con tendenza a manifestare l’ipoglicemia. Approcci basati sulla tecnologia, come il monitoraggio continuo della glicemia in tempo reale (RT-CGM), possono avere il potenziale di ripristinare la risposta di adrenalina all’ipoglicemia nelle persone con diabete di tipo 1 con inconsapevolezza dell’ipoglicemia (151). Per pazienti selezionati l’uso del CSII e del RT-CGM può essere l’approccio migliore. Una recente revisione sistematica e una meta-analisi che ha valutato gli interventi educativi, tecnologici e farmacologici volti a ripristinare la consapevolezza dell’ipoglicemia negli adulti con diabete di tipo 1, hanno dimostrato l’efficacia di un approccio a gradini nella gestione dei pazienti con alterata consapevolezza dell’ipoglicemia, iniziando con l’educazione strutturata delle persone, che può, ove possibile, incorporare interventi psicoterapeutici e comportamentali, progredendo verso l’uso della tecnologia mediante l’uso di sensori e pompe per insulina (14).
Trattamento dell’ipoglicemia
Il trattamento dell’ipoglicemia nelle persone in grado di deglutire segue la ben nota “regola del 15”, che consiste nel dare 15 g di carboidrati a rapido assorbimento, come 150-200 ml di succo di frutta puro o altra bevanda contenente zucchero o zucchero disciolto in acqua. Le glicemia deve essere ripetuta 15 minuti dopo l’ingestione dello zucchero e il trattamento andrà ripetuto, fino a tre volte a intervalli di 15 minuti, se necessario, fino a quando la glicemia risulti >70 mg/ dl (4,0 mmol/l). Per le persone che non sono in grado di deglutire o incoscienti, l’assunzione di zucchero per os deve essere evitato a causa del rischio di aspirazione. Invece, andrà somministrato da parte di un parente glucagone i.m. (1 mg negli adulti, 0,5 mg nei bambini). Dopo il recupero dello stato di coscienza, andranno assunti carboidrati complessi. In alternativa al glucagone e nei casi di grave ipoglicemia (coma, convulsioni), deve essere somministrato glucosio per via endovenosa 16-20 g (per es., 50 ml di glucosio 33% o 80-100 ml di glucosio al 20%) in pochi minuti e ripetuto fino recupero dello stato di coscienza, eventualmente seguito da infusione continua alla velocità di 60-80 ml/h (generalmente necessaria nelle ipoglicemie gravi causate dalle sulfoniluree) fino a quando la glicemia è stabile e il paziente è in grado di alimentarsi.
Conclusioni
L’ipoglicemia nella persona con diabete riconosce essenzialmente una causa iatrogena. Le sue conseguenze cliniche coinvolgono una molteplicità di organi e apparati e possono essere devastanti. L’ipoglicemia paga un contributo rilevante in termini di morbilità, rischio di mortalità e aggravio della spesa sanitaria. Ultimo, ma non meno importante, l’ipoglicemia impatta in maniera pesante sulla qualità di vita delle persone con diabete, e ostacola il raggiungimento del buon controllo glicemico. La ricerca negli ultimi decenni ha enormemente ampliato la conoscenza delle cause, dei rischi e delle conseguenze dell’ipoglicemia. I progressi dell’industria farmaceutica e della tecnologia hanno consegnato alla pratica clinica preparazioni insuliniche e devices che hanno permesso la riduzione del rischio di ipoglicemia permettendo ai pazienti di migliorare la qualità di vita. Tuttavia, l’educazione dei pazienti per prevenire, riconoscere e trattare tempestivamente l’ipoglicemia, rimane un fattore chiave per la riduzione del rischio a lungo termine dell’ipoglicemia. Considerando che l’ipoglicemia è il fattore limitante nel raggiungimento dell’obiettivo glicemico ottimale, la selezione degli obiettivi glicemici in ogni paziente deve essere individualizzata al livello più basso di HbA1c che non causi ipoglicemia grave, che preservi la consapevolezza dell’ipoglicemia, che eviti le complicanze micro- e macrovascolare a lungo termine e mantenga una buona qualità della vita.
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