Il trattamento dell’ipercolesterolemia nel paziente con diabete
Angelo Avogaro
Dipartimento di Medicina, Cattedra di Malattie del Metabolismo, Università degli Studi di Padova
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Introduzione
La stampa scientifica e divulgativa hanno propagato l’idea che il colesterolo sia dannoso: nulla di più falso. Il fatto che l’organismo umano produca colesterolo, già di per sé, esclude che il colesterolo possa essere dannoso: è l’uomo stesso, attraverso stili di vita scorretti, che lo ha reso dannoso. Un po’ come l’insulina che svolge un ruolo fondamentale nella regolazione del metabolismo intermedio: sono i suoi livelli costantemente elevati indotti da sovrappeso e obesità che l’hanno resa dannosa. Il colesterolo svolge un’azione fondamentale nella sintesi delle membrane cellulari, degli ormoni steroidei, dei sali biliari e della vitamina D: per una trattazione più approfondita sul metabolismo del colesterolo si rimanda ad eccellenti revisioni già pubblicate sull’argomento (1). Elevati livelli di colesterolo non sono solo secondari a scorretti stili di vita ma anche ad alterazioni genetiche quali l’ipercolesterolemia familiare omozigote e l’ipercolesterolemia familiare eterozigote. A prescindere dal ruolo positivo del colesterolo, i grandi studi epidemiologi hanno dimostrato un’associazione inequivocabile tra livelli di colesterolo e malattia cardiovascolare (CV), che rimane la causa più frequente di morte nel mondo occidentale (2). La causalità dell’associazione tra elevati livelli di LDL colesterolo e formazione della placca aterosclerotica è stata dimostrata da numerosi studi in vitro e nell’animale (3). Tale causalità è stata poi supportata da studi di randomizzazione mendeliana che hanno dimostrato che varianti in oltre 50 geni associati a bassi livelli di LDL colesterolo erano associate ad un più basso rischio CV (4).
Il paziente affetto da diabete mellito di tipo 2 è particolarmente esposto alla malattia CV (CVD) e presenta un’incidenza significativamente superiore di CVD rispetto ai soggetti non affetti da diabete. L’eccesso di mortalità per CVD non è limitato solamente ai pazienti con diabete mellito di tipo 2 ma si osserva anche in soggetti affetti da diabete di tipo 1: Lind e colleghi hanno dimostrato che nei pazienti con diabete di tipo 1 il rischio di morte CV è significativamente più elevato rispetto alla popolazione generale, indipendentemente dal genere (5). Ciò si traduce in una riduzione dell’aspettativa di vita: in media un paziente diabetico di 50 anni ha una riduzione di circa 6 anni e nei pazienti diabetici tipo 1 la riduzione è di circa 12 anni, nonostante il miglioramento del compenso glicemico. Nel paziente diabetico di tipo 1 il rischio aumenta progressivamente con l’aumentare del numero di fattori di rischio passando da 1.82 in pazienti con diabete ma senza fattori di rischio, rispetto ai controlli, a 12.34 in pazienti diabetici con 5 fattori di rischio per malattia CV.
Il paziente diabetico presenta alterazioni quanti/qualitative del colesterolo: un aumento del colesterolo nelle lipoproteine a densità molto bassa (VLDL), un aumento delle lipoproteine a bassa densità (LDL) piccole e dense, una riduzione del colesterolo veicolato a lipoproteine ad alta densità (HDL). Nella determinazione del rischio CV si fa sempre più riferimento al colesterolo non-HDL (colesterolo totale – HDL-C) che rende ragione della presenza di tutte le lipoproteine aterogeniche. Abitualmente il colesterolo non-HDL è superiore di circa 30 mg/dl rispetto al colesterolo LDL. La predizione dell’aumento di rischio per cardiopatia ischemica sulla base del valore di colesterolo non-HDL è del 26% maggiore rispetto a quello del colesterolo LDL, e il suo valore è oramai raccomandato come target da numerose linee guida internazionali.
Trattamento della dislipidemia con inibitori della Idrossimetilglutaril-CoA reduttasi (statine)
Numerosi trials di intervento hanno dimostrato che il trattamento con statine nel paziente diabetico riduce significativamente la mortalità, motivo per cui si è assisitito ad uno shift nel paradigma del trattamento dell’ipercolesterolemia: da “High is bad” a “The lowest the best” (Fig. 1). Una meta-analisi di questi trials ha evidenziato una riduzione del 9% della mortalità per tutte le cause per ogni mmol (38,66 mg/dl) di riduzione del colesterolo LDL, una riduzione del 13% della morte per cause cardiovascolari, e una riduzione del 21% degli eventi cardiovascolari maggiori (6). Tra le persone con diabete gli effetti positivi del trattamento con statine erano indipendenti dalla presenza o meno di malattia CV pre-esistente. Questi risultati sono il presupposto per cui l’American Diabetes Association (ADA) raccomanda nel paziente diabetico un trattamento ipocolesterolemizzante di prima linea con una dose massima tollerata di statine (7). Anche le linee guida SID/AMD (www.standarditaliani.it/skin/www.standarditaliani.it/pdf/STANDARD_2016_June20.pdf), con livello della prova I e forza della raccomandazione A, affermano che la terapia con statine è la terapia di prima scelta per: a) i pazienti iperglicemici con livelli di colesterolo LDL non a target con il solo intervento non farmacologico, b) i pazienti con sindrome coronarica acuta, indipendentemente dai valori di colesterolo LDL: in questi pazienti la terapia con statine va iniziata già in fase acuta e proseguita per almeno 6 mesi ad alte dosi. È bene comunque ricordare che indipendentemente dalla statina impiegata, un raddoppio della dose produce un’ulteriore riduzione del colesterolo LDL di circa il 6%. L’uso di statine ad alta intensità è molto probabile che riduca il colesterolo LDL di circa 80 mg in pazienti con livelli iniziali pari a 160 mg/dl, ma solamente di circa 40 mg/dl in pazienti con livelli iniziali pari a 80 mg/dl. Indipendentemente dai livelli iniziali di LDL colesterolo, è stato calcolato che la riduzione di quest’ultimo di circa 80 mg/dl per 5 anni in 10.000 pazienti previene un episodio CV maggiore in circa il 10% di pazienti ad alto rischio e in circa il 5% in pazienti a basso rischio (8).
Valutazioni seriali del distretto coronarico con IVUS (intravascular ultrasound) hanno dimostrato una relazione diretta tra riduzione del colesterolo LDL e riduzione del volume della placca (9): la possibilità che il trattamento con statine ad alta intensità possa favorire la regressione della placca supporta il trattamento con statine ad alta intensità in paziente con malattia CV in atto. Purtroppo rimane ancora non chiaro il perché, a parità di riduzione del colesterolo LDL, la regressione si osservi solamente in poco più dei due terzi dei pazienti. Questi dati sono comunque particolarmente rilevanti per quanto riguarda i pazienti con diabete: a tal proposito è bene ricordare che la riduzione della placca grazie al trattamento con statine è marcatamente inferiore in pazienti con elevati livelli di HbA1c (10) e, comunque, la presenza di diabete rimane uno dei maggiori determinanti la mancata riduzione della placca aterosclerotica (11).
Se la terapia con statine a dosaggio pieno non è in grado di raggiungere valori ottimali di colesterolo LDL, si può considerare l’associazione con ezetimibe che riduce l’assorbimento intestinale di colesterolo (Fig. 2). Tale associazione è supportata dai risultati dello studio IMPROVE-IT che ha dimostrato, nei pazienti diabetici, una riduzione del colesterolo LDL del 14% rispetto al 2% osservata nei soggetti senza diabete, indicando quindi che, se un effetto dell’associazione vi è stato, è stato osservato solamente nei pazienti con diabete (12). Purtroppo lo studio EUROASPIRE IV ha evidenziato che tra i pazienti con diabete mellito e malattia coronarica solo il 28.5% presenta livelli di LDL colesterolo a target e solo il 24% livelli a target sia di LDL sia di non-HDL colesterolo (13). La terapia con statine è inoltre gravata dal problema dell’intolleranza: è stato riportato il rischio di miopatia in circa 1 caso su 10.000 trattati (14). Una meta-analisi che ha incluso più di 125.000 pazienti analizzati ad un follow-up medio di 4.4 anni, l’interruzione della terapia con statine è stata del 13.3%, mentre del 13.9% nel gruppo trattato con placebo ([OR] = 0.99, 95% C.I. = 0.93 a 1.06); questa percentuale era simile sia per i trattati in prevenzione primaria sia secondaria(15). Altre stime indicano invece la prevalenza dei disturbi muscolari da statine nel 25-30% dei pazienti (16). I meccanismi che sottendono alla miopatia da statine non sono ancora del tutto chiariti: la miopatia è sicuramente reversibile una volta interrotto il trattamento ed è dipendente dai livelli circolanti del farmaco.
Un altro effetto avverso clinicamente importante è il diabete indotto da statine. Il problema è emerso in seguito ai risultati di meta-analisi che hanno dimostrato un aumento del rischio di nuovo diabete dal 10 al 12% in pazienti in trattamento con questi farmaci (17). L’associazione appare legata ad alcune varianti genetiche del 3-idrossi-3-mettilglutaril-CoA reduttasi (HMGCR), enzima target delle statine, in particolare agli SNIP rs17238484 e rs12916 (18). I dati ottenuti da 223.463 individui hanno dimostrato che ogni SNIP rs17238484-G allele era associato ad una riduzione media dell’LDL colesterolo pari a 2.32 mg/dl, ma ad un consensuale aumento medio del peso corporeo di 0.30 kg, ad un aumento medio dei livelli di insulina del 62% e della glicemia del 23%. L’allele rs17238484-G si associava ad un aumento del rischio di diabete del 2% (OR 1.02, 95% CI 1.00-1.05); l’allele rs12916-T ad un aumento del 6% (1.06, 1.03-1.09). I soggetti più a rischio di sviluppare diabete sono generalmente più anziani, più obesi, meno attivi fisicamente, con livelli di HDL più bassi, e con maggiori livelli di trigliceridi, HbA1c e glicemie postprandiali (19). Le statine ad alta intensità sembrano essere più propense rispetto a quelle a media e a bassa intensità nel favorire l’insorgenza di nuovo diabete.
La diabetogenicità del trattamento con statine sembra peraltro essere un problema trascurabile nel paziente già diabetico: come riportato da una sottoanalisi dello studio JUPITER, persone con fattori di rischio per diabete in trattamento con rosuvastatina presentavano un aumentato rischio di nuovo diabete (HR pari a 1.88) rispetto a coloro senza fattori di rischio per diabete (HR 0.18) (20). Al contrario il trattamento con rosuvastatina riduceva significativamente l’end-point primario, cosicché gli autori del lavoro hanno calcolato che, in termini assoluti, nei pazienti con fattori di rischio per diabete, il trattamento con rosuvastatina mentre causava 54 nuovi casi di diabete, evitava 134 eventi cardiovascolari. Per coloro senza fattori di rischio per diabete la rosuvastatina non causava nuovo diabete a fronte di ben 86 eventi CV risparmiati. Tra le ipotesi che giustificherebbero l’azione diabetogenica delle statine possono essere considerate le seguenti: 1. una riduzione dei glucotrasportatori GLUT4 ma non dei GLUT1; 2. La deplezione di coenzima Q10 (CoQ10) con conseguente riduzione della fosforilazione ossidativa mitocondriale; 3. Un’aumentata sintesi di interleuchina 1 b; 4. Una riduzione della secrezione insulinica secondaria ad una riduzione degli isoprenoidi (19). È evidente come ancora molta ricerca debba essere fatta per comprendere in pieno i meccanismi sottostanti la diabetogenicità delle statine.
Trattamento con inibitori della proprotein convertase subtilisin/kexin type 9 (PCSK9)
Fino al 2003 si riteneva che l’ipercolesterolemia familiare, un disordine genetico autosomico dominante, fosse determinato solamente da alterazioni dei geni codificanti il recettore delle LDL o dell’apoproteina B. In quell’anno vennero invece individuati alcuni casi di ipercolesterolemia determinati da mutazioni gain-of-function della PCSK9, anche queste trasmesse con modalità autosomica dominante (21). Al contrario mutazioni loss-of-function della PCSK9 erano caratterizzate da livelli di colesterolo estremamente bassi con una significativa riduzione del rischio CV. In seguito a tali osservazioni si identificarono i livelli circolanti di PCSK9 come importanti regolatori dei livelli di LDL colesterolo. Oggi l’inibizione della sintesi di PCSK9 rappresenta un’efficacissima arma terapeutica per ridurre i livelli di LDL colesterolo e di conseguenza il rischio CV. Per approfondire le conoscenze della biologia della PCSK9 si rimanda a rassegne specifiche sull’argomento (22). In sintesi le LDL sono il principale trasportatore di colesterolo nel sangue e sono rimosse dal circolo dai recettori epatici delle LDL che riconoscono l’apolipoproteina B100 come ligando. La rimozione avviene via endocitosi mediante vescicole ricoperte di clatrina regolate dalla PCSK9. Sia le LDL sia il loro recettore sono trasportati nei lisosomi dove sono definitivamente degradati se legati alla PCSK9 o possono essere riciclati se non legate alla PCSK9. Pertanto a bassi livelli di PCSK9 corrispondono elevati livelli di recettori LDL e viceversa. Le statine promuovono la sintesi sia di PCSK9 sia di recettori LDL e questo spiega l’incapacità delle statine di ridurre ulteriormente le concentrazioni di colesterolo LDL. Oggi sono commercialmente disponibili anticorpi monoclonali anti-PCSK9, alirocumab e evolocumab, mentre sono in fase di sperimentazione inibitori peptidici e piccoli RNA interferenti (inclisiran) (23).
Sia evolocumab sia alirocumab sono stati valutati per efficacia in numerosi trials di fase 2 e 3. Per alirocumab è in corso un trial di sicurezza CV, l’ODYSSEY, mentre è stato recentemente pubblicato il FOURIER lo studio di sicurezza per evolocumab (24). Come studi recenti di randomizzazione mendeliana hanno dimostrato che varianti nei geni della PCSK9 hanno un effetto significativo sul rischio per malattia CV, analogamente, è stato osservato che alcuni genotipi loss-of-function della PCSK9 si associano ad un aumentato rischio di diabete soprattutto in persone con prediabete (25). La presenza di varianti geniche di PCSK9 e di HMGCR associate a riduzione delle LDL riduce il rischio di infarto o morte cardiaca di circa il 20% e aumenta il rischio di diabete di circa il 12%. I rapporti negativi tra PCSK9 e metabolismo glucidico si limitano solamente a diversi genotipi. A livello b-cellulare la PCSK9 riduce l’espressione dei recettori per le LDL ma ciò non sembra interferire con la secrezione insulinica nonostante le alterate concentrazioni intracellulari di colesterolo (26). È stato però dimostrato che un peggior compenso metabolico si associa ad aumentati livelli circolanti di PCSK9 (27); sia alirocumab sia evolocumab non modificano però i livelli di HbA1c (28-29). Per quanto riguarda l’efficacia nel ridurre il colesterolo LDL, la riduzione ottenuta nei vari trials nei pazienti con diabete è stata analoga a quanto riportata nei pazienti senza diabete (Fig. 3), all’incirca -60% se confrontata con placebo e -40% se confrontata con ezetimibe (28, 30-32). Risultati analoghi sono stati osservati anche in paziente con prediabete senza riscontrare per altro un’aumentata incidenza di nuovo diabete (29, 33).
Oltre alla riduzione marcata del colesterolo LDL e non-HDL, gli inibitori della PCSK9 sono in grado di aumentare moderatamente il colesterolo HDL e di ridurre, sempre moderatamente, i trigliceridi. Questi farmaci inducono invece una riduzione rilevante della Lp(a), una lipoproteina aterogenica.
Per quanto riguarda la sicurezza CV, nello studio FOURIER sono stati arruolati pazienti con diabete e storia di precedente malattia CV. L’end-point primario era un composito di morte CV, infarto miocardico, stroke, ricovero per angina instabile, o rivascolarizzazione coronarica. L’hazard ratio (HR) per l’end-point primario è stato pari a 0.83 (95% CI 0.75-0.93; p=0.0008) per i pazienti con diabete e 0.87 (0.79-0.96; p=0.0052) per i pazienti senza diabete. Dato importante è stato il non osservare un’aumentata incidenza di nuovo diabete in pazienti con pre-diabete.
Dai dati registrativi con anticorpi monoclonali anti-PCSK9 era emersa una notevole preoccupazione per l’aumento, nei pazienti trattati, di alterazioni neuro cognitive (34). Questo dato è stato escluso dai dati degli studi FOURIER e ODYSSEY e, in particolare, dallo studio Evaluating PCSK9 Binding Antibody Influence on Cognitive Health in High Cardiovascular Risk Subjects (EBBINGHAUS) disegnato specificatamente per valutare l’impatto di questi farmaci sui tests neuro cognitivi (35). In 1204 pazienti seguiti mediamente per 19 mesi non si sono osservate differenze per la memoria spaziale, per le capacità di funzioni esecutive tra trattati e non trattati. Non si osservava inoltre alcuna correlazione tra livelli di LDL colesterolo e funzioni cognitive. Ovviamente questa associazione deve essere esclusa in studi con follow-up molto più lunghi e, soprattutto, in pazienti diabetici con eventuali episodi di ipoglicemia.
Per quanto riguarda altri effetti avversi, rispetto agli standard di cura correnti, non sono state riportate differenze significative né per quanto riguarda le alterazioni muscolo-scheletriche né per lo stroke (34).
Conclusioni
Il trattamento dell’ipercolesterolemia rimane uno dei caposaldi del profilo di rischio CV, particolarmente nel paziente con diabete, in quanto è stata osservata una significativa riduzione degli eventi anche in prevenzione primaria (36-37). Il trattamento dell’ipercolesterolemia diventa imperativo in pazienti diabetici con storia di pregresso evento CV; purtroppo, soprattutto nei pazienti con diabete, i livelli di LDL colesterolo rimangono ben al di sopra dei target raccomandati (<70 mg/dl). In questi pazienti l’uso degli anticorpi monoclonali deve essere considerato una volta che l’associazione di statine ad alta intensità più ezetimibe non abbiano comportato una riduzione del colesterolo LDL al di sotto dei target raccomandati ovvero che via sia un’intolleranza all’uso delle statine. Il raggiungimento di livelli di LDL colesterolo pari a 60 mg/dl si associa a regressione della placca aterosclerotica e, pertanto, l’uso degli inibitori della PCSK9 sarebbe ottimale nei pazienti con coronaropatia aterosclerotica in atto, specie se giovani.
Vi sono però due punti molto importanti da considerare. Il primo è che, come dimostrato dallo studio GLobal Assessment of Plaque ReGression with a PCSK9 AntibOdy as Measured by IntraVascular Ultrasound (GLAGOV), 1/3 dei pazienti non presenta alcuna regressione della placca: è chiaro che sarà necessario comprendere meglio le basi fisiopatologiche di questa osservazione (38). Il secondo è che raggiungere livelli di LDL colesterolo estremamente bassi, mantenendo però elevati i livelli di HbA1c, vanifica la capacità terapeutica degli inibitori della PCSK9 di far regredire la placca aterosclerotica (10). L’esperienza di ciascuno di noi nell’uso di tali farmaci crescerà col tempo compatibilmente con le restrizioni amministrative.
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