Valeria Ruotolo, Laura Giurato, Marco Meloni, Erika Vainieri, Valentina Izzo, Luigi Uccioli
Dipartimento di Medicina Interna, Policlinico di Tor Vergata, Roma
INTRODUZIONE
Il piede di Charcot è una condizione clinica che colpisce i pazienti diabetici con neuropatia periferica, caratterizzata nella sua manifestazione iniziale da una condizione infiammatoria che interessa tessuti molli, tendini, legamenti e strutture ossee del piede. La persistenza della flogosi è in grado di determinare un sovvertimento strutturale che nella fase di cronicizzazione della malattia, quando lo stato acuto della flogosi si è risolto, si rende responsabile di gravi deformità del piede. In questa fase le strutture ossee hanno perso i loro originali rapporti articolari ed il piede, nella forma più comune di piede di Charcot, assume un aspetto a dondolo con la comparsa di ulcere tipicamente localizzate al mesopiede.
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FISIOPATOLOGIA
La comprensione delle cause della CN risulta molto difficile per numerose ragioni. La prima é che è una condizione che manca di una univoca e stabilita definizione: non esistono infatti dei markers specifici tipici del processo patologico e quindi mancano dei criteri clinici e/o radiologici definiti su cui basare la diagnosi. La mancanza di criteri standard che la diagnosi si basi su criteri non standardizzati, che dipendono dall’esperienza del clinico di volta in volta coinvolto; il risultato è che, di fronte allo stesso caso clinico, alcuni clinici pi®¥ esperti potrebbero riuscire a fare diagnosi mentre altri non arriverebbero alle stesse conclusioni. Pertanto, molti casi passano inosservati, quando l’estensione del danno è molto limitata. Inoltre, non esistono modelli sperimentali validi e tutte le teorie che riguardano la patogenesi dipendono interamente dall’osservazione clinica di casi conclamati. Può essere difficile determinare quali segni riflettano fattori predisponenti alla malattia e quali invece ne siano la conseguenza; questo problema è potenziato dalla rarità della malattia e dalla variabilità della presentazione clinica. La terza ragione, e forse la più importante, è che non esiste una singola causa, ma una serie di eventi causali che si sovrappongono. L’osteoartropatia neuropatica si verifica per l’influenza di diversi fattori che predispongono alla sua insorgenza. Tali fattori diversi concorrono a determinare non una malattia vera e propria ma un processo, con un comune esito finale. Pertanto, sarebbe più corretto parlare di “Sindrome di Charcot”. Un fattore che suggerisce la molteplicità di processi patologici è la somiglianza della presentazione del quadro clinico con altre malattie che hanno in comune solo un certo grado di denervazione periferica. L’osteoartropatia infatti si può sviluppare potenzialmente in tutti i pazienti di patologie neurologiche caratterizzate da neuropatia periferica, con conseguente perdita dei fisiologici meccanismi protettivi delle articolazioni. Con la progressiva riduzione nel tempo dei casi di sifilide, il diabete mellito è attualmente divenuto la causa principale di artropatia neuropatica. Il dolore profondo nella neuropatia diabetica distale e simmetrica è spesso conservato: questo spiega perché alcune volte l’osteoartropatia di Charcot in fase acuta si presenta con un certo grado di dolore. Il tentativo di correlare l’insorgenza di osteoartropatia di Charcot con il grado di denervazione osservato nel diabete non ha portato a risultati consistenti (1-2). Pertanto c’è un singolo aspetto identificato di danno del nervo che di per sé possa spiegare perché tale condizione colpisca solo una piccola minoranza di diabetici con neuropatia periferica distale e simmetrica. Storicamente sono state formulate due teorie inizialmente contrapposte che spiegavano la patogenesi della CN: la teoria tedesca o neurotraumatica attribuita alla scuola di Volkmann (3) e la teoria francese o neurovascolare attribuita a Charcot (4). La prima suggerisce che articolazioni insensibili siano sottoposte a traumi ripetuti durante il mantenimento della stazione eretta e durante la deambulazione, con conseguenti fratture, complicate da deformità dopo la guarigione (5). La CN quindi è scatenata da un evento traumatico iniziale di osso, articolazioni, legamenti e/o inserzioni tendinee su un piede insensibile che manca riflesso di protezione dal trauma e dal carico. Pertanto i microtraumi della deambulazione superano la capacità di guarigione dei tessuti con un danno macroscopico che include fratture e dislocazioni (6). Alle base della teoria neurotrofica o neurovascolare c’è il concetto formulato da Charcot di una regolazione trofica” delle ossa e delle articolazioni, mediata dal midollo spinale, riguardo l’eziologia dell’artropatia manifestata da pazienti atassici. Charcot credeva che le lesioni del midollo spinale, particolarmente quelle della grigia, fossero responsabili dei disturbi della cute, dei muscoli, delle ossa e articolazioni, associate comunemente alle artropatie luetiche (7). La teoria neurovascolare o neurotrofica suggerisce che la neuropatia autonomica determina un danno del controllo vasomotorio con apertura degli shunts artero-venosi e iperemia; questo aumento di flusso sarebbe responsabile del riassorbimento dell’osso, dell’osteopenia e della debolezza dell’osso. Pertanto, su quest’osso molto fragile, sia spontaneamente che per traumi minori, si sviluppano microfratture e dislocazioni. La teoria neurovascolare ha suscitato molto interesse nel corso degli anni anche non è stato possibile dimostrare alcuna evidenza della veridicità di tale teoria al di fuori di studi osservazionali (8). Johnson nel 1966, osservando pazienti allettati con lesioni spinali, trovò evidenze radiografiche di osteolisi e suppose che ci fosse un riflesso ipervascolare conseguente al danno centrale del simpatico responsabile di un eccessivo riassorbimento dell’osso e quindi di un indebolimento dello stesso che poteva determinare l’artropatia di Charcot (8-9). In supporto a questa teoria, Edmonds et al. hanno riscontrato un significativo aumento di accumulo di isotopi alla scintigrafia nell’osso di pazienti affetti da CN in fase acuta in confronto con pazienti neuropatici senza la malattia. Gli autori attribuivano questa aumentata captazione alla denervazione simpatica (10). Altri autori hanno riscontrato lo stesso pattern di captazione in pazienti affetti da CN in fase acuta, ma lo attribuivano alla distruzione dell’osso conseguente a un processo infiammatorio acuto (11). Sebbene queste teorie possono essere attraenti, non sono in grado di spiegare alcuni aspetti della malattia e in particolar modo la correlazione con la neuropatia. In effetti la CN è spesso unilaterale mentre la neuropatia diabetica è simmetrica, la CN è nella maggior parte dei casi un processo autolimitante, mentre la neuropatia è una complicanza cronica e, infine, mentre la neuropatia è una complicanza relativamente comune nel paziente diabetico, la CN è quadro relativamente raro. Inoltre nessuna spiega il ruolo giocato dall’infiammazione. Charcot era consapevole del ruolo che rivestiva l’assenza di dolore e l’alterata biomeccanica del piede nella patogenesi, ma egli sottolineòanche che l’insorgenza della malattia era caratterizzata da una fase infiammatoria acuta (4). Questa infiammazione acuta lo portò a speculare che, oltre alle conseguenze motorie e sensitive della denervazione periferica, ci dovesse essere un’alterazione di flusso all’osso e quindi un’anomalia “trofica” dell’osso. Questo aspetto potenziale della patogenesi è stato largamente ignorato per tutto il XX secolo, a dispetto dell’evidenza clinica di uno stato infiammatorio acuto. Recentemente si è focalizzata l’attenzione sul legame fra CN e infiammazione. Jaffcoate ha formulato l’ipotesi che nella CN ci sia uno stato di “dis-infiammazione” (12), cio è una risposta infiammatoria locale prolungata ed esagerata in risposta ad uno stimolo infiammatorio. Tale stimolo infiammatorio puòderivare da un trauma accidentale, più o meno riconosciuto dal paziente, ma in alcuni casi da interventi chirurgici sul piede inclusi interventi di rivascolarizzazione (13) o procedure ortopediche (14); è possibile, ma molto difficile da dimostrare, che la CN possa essere scatenata anche da pregressa ulcera o infezione (compresa l’osteomielite) (15). L’infiammazione è mediata dal TNF-α e altre citochine infiammatorie e anti-infiammatorie che sono prodotte dai macrofagi attivati e altre cellule immuni (16). La produzione e il rilascio di citochine è parte di una risposta vantaggiosa del sistema immune dell’ospite per neutralizzare patogeni e favorire la guarigione. Tuttavia i meccanismi immuni che sottendono la risposta infiammatoria devono essere estremamente ben bilanciati per prevenire il deleterio effetto di una iperproduzione di TNF-α e altre citochine che puòdeterminare infiammazione sistemica e danno tissutale secondario (17). L’espressione di queste citochine infiammatorie, soprattutto del TNF è strettamente associata con l’aumentata espressione di altre citochine: il sistema RANK/RANKL/ OPG. Il RANKL (receptor activator of NF-kB ligand) è una proteina appartenente alla superfamiglia dei recettori del TNF, è prodotta da osteoblasti, cellule stromali, linfociti T, cellule endoteliali e fibroblasti; è presente in forma di proteina transmenbrana ed in forma solubile; il RANKL è sufficiente per l’osteoclastogenesi ed è un’essenziale citochina per gli osteoclasti. Il RANK (Receptor activator of NF-kB) appartiene alla superfamiglia dei recettori del TNF (tumor necrosis factors); è espresso sulla superficie degli osteclasti e dei loro precursori, sulle cellule dendritiche, sui linfociti T attivati, sulle cellule endoteliali e sui monociti/macrofagi. Il legame RANKL-RANK stimola l’espressione del fattore nucleare (NF) kB che ha una varietà di ruoli tra cui quello di indurre la maturazione dei precursori degli osteoclasti in osteoclasti maturi. Pertanto il RANKL stimola l’osteoclastogenesi e inibisce l’apoptosi degli osteoclasti. Allo stesso tempo l’NF-kB induce l’aumentata espressione dell’osteoprotegerina (OPG), una glicoproteina secreta dagli osteoblasti e dalle cellule stromali che agisce come recettore esca per il RANKL per neutralizzare i suoi effetti ed evitare un’eccessiva osteolisi. OPG mRNA è espresso in numerosi altri tessuti quali: cuore, polmone, fegato, rene, intestino, tiroide, midollo spinale e arterie. L’omeostasi dell’osso è quindi raggiunta dal bilanciamento del riassorbimento effettuato dal RANKL e il blocco del RANKL da parte dell’OPG. RANKL e OPG hanno anche effetti sul sistema immunitario: ad esempio, i linfociti T attivati possono produrre RANKL e attivare così direttamente gli osteoclasti (come accade nell’artrite reumatoide) (18-20). L’aumentata espressione di questo sistema di citochine è associata a una fragilità dell’osso e alla tendenza quindi a fratture e microfratture evidente in una varietà di condizioni cliniche associate con l’osteopenia come l’osteoporosi indotta da glucocorticoidi, il morbo di Paget, le artriti infiammatorie, alcune neoplasie (mieloma). . stato dimostrato che nella CN in fase acuta esiste uno sbilanciamento tra l’attività degli osteoclasti e degli osteoblasti, con un’eccessiva attività degli osteoclasti e conseguente riassorbimento osseo. Edmonds ha dimostrato che in pazienti con CN in fase acuta esiste un aumento significativo dei markers di riassorbimento osseo (telopeptide carbossi-terminale del collagene di tipo 1- 1CTP) rispetto a pazienti con osteoartropatia cronica, diabetici senza CN e controlli sani; mentre la concentrazione di un marker di neoformazione ossea degli osteoblasti (propeptide carbossi- terminale del procollagene-P1CP) non subisce particolari variazioni in nessuno dei quattro gruppi (21). Questo suggerisce che nella CN in fase acuta esiste un’eccessiva attività osteoclastica, senza un concomitante aumento dell’attività degli osteoblasti. A conferma di questa sbilanciata attività, esiste uno studio immunoistochimico effettuato su biopsie ossee di pazienti con CN in cui si esamina la reattività cellulare ad alcune citochine infiammatorie che mediano il riassorbimento osseo (TNF-α, IL-1, IL-6) e si dimostra che gli osteoclasti di questi pazienti presentano un’alta reattività a tali citochine (22). Un altro elemento a sostegno del fatto che il riassorbimento osseo che si verifica in fase acuta sia mediato dalla sovra espressione del sistema RANK/RANKL, è che lo stesso sistema di citochine è coinvolto nella calcificazione delle cellule muscolari lisce della tunica media delle arterie di piccolo e medio calibro (sclerosi di Monckeberg) di comune riscontro nei diabetici neuropatici. L’aumentata espressione del RANKL stimola la calcificazione arteriosa inducendo l’apoptosi delle cellule muscolari lisce e la differenziazione di precursori cellulari (cellule muscolari lisce, cellule dell’avventizia, periciti) in cellule con potenziale osteogenico (23); a questo punto acquisiscono la capacità di esprimere l’OPG che serve probabilmente a limitare il processo. La prevalenza delle calcificazioni arteriose risulta essere del 20% nei diabetici senza neuropatia, ma molto più alta nei diabetici con neuropatia. Nella CN, comunque, la prevalenza riportata in letteratura è alta, dal 78% al 90%. Infatti le calcificazioni arteriose, seppure presenti nei pazienti che svilupperanno la CN, tendono ad aumentare una volta che si è instaurato il processo. Le calcificazioni arteriose sono associate all’evidenza clinica di denervazione simpatica e sono indotte dalla simpaticectomia terapeutica (9); tuttavia il meccanismo che lega la denervazione simpatica alle calcificazioni arteriose è rimasto oscuro fino a poco tempo fa. Pertanto l’aumentata espressione del sistema RANKL/OPG determina sia l’aumentata osteolisi che la calcificazione arteriosa. Il nostro gruppo di lavoro ha dimostrato la presenza di un’esagerata risposta infiammatoria nella CN in fase acuta (24). Abbiamo analizzato il ruolo dei monociti dosando il rilascio di citochine infiammatorie e anti-infiammatorie, l’espressione di molecole di superficie che rendono i monociti in grado di attivare i linfociti T e la capacità dei monociti di andare incontro ad apoptosi, un importante meccanismo di omeostasi che contribuisce a regolare l’intensità e la durata della risposta infiammatoria. I pazienti con CN sono stati messi a confronto con diabetici neuropatici e controlli sani. Mentre i diabetici e i controlli sani non producevano spontaneamente citochine pro-infiammatorie (TNF-α, IL1-β e IL-6), i pazienti con CN producevano una limitata, ma dosabile, quantità di citochine pro-infiammatorie, ma non di citochine anti-infiammatorie (IL4 e IL10). Quando attivati, i monociti dei pazienti con CN producevano più TNF-α, IL1-β e IL-6 in modo significativo, ma non IL4 e IL10; alla risoluzione del quadro acuto, in questi stessi pazienti si riduceva sia la produzione spontanea che indotta. Quindi nella CN i monociti periferici hanno un fenotipo pro infiammatorio con aumentata produzione di citochine pro-infiammatorie e ridotta secrezione di citochine anti-infiammatorie. Per quanto riguarda l’espressione di molecole di superficie sui monociti, i monociti dei pazienti con CN mostravano un aumento significativo sia nella percentuale di cellule positive a tali molecole che nell’intensità dell’espressione. Queste molecole di superficie sono coinvolte nella presentazione dell’antigene al linfocita T; l’aumentata espressione suggerisce che un aumentato segnale arriva alla cellula T che potrebbe alterare la regolazione del processo infiammatorio; inoltre la cellula T attiva il sistema RANKL/OPG e quindi l’osteolisi. Abbiamo dimostrato infine che nei pazienti con OC esiste una ridotta apoptosi delle cellule infiammatorie. Una volta attivati, infatti, i monociti vanno incontro ad apoptosi. L’apoptosi è un importante meccanismo di omeostasi che regola la durata e l’intensità dell’infiammazione; i monociti di questi pazienti presentavano un’aumentata resistenza all’apoptosi. . importante sottolineare che il TNF-α e l’ IL1-β proteggono dall’apoptosi: questo significa che i monociti reclutati nel sito infiammatorio riescono a sopravvivere perché restano attivi (24). Il segno clinico più importante che permette di fare diagnosi di CN è la presenza di infiammazione locale, soprattutto nelle fasi precoci quando la radiografia standard del piede risulta ancora negativa. . l’infiammazione dell’osso che è associata ad osteolisi che porta a fratture e dislocazioni (osteolisi infiammatoria). Quando la malattia si stabilizza, i segni dell’infiammazione regrediscono e la normalizzazione della temperatura dell’arto coinvolto rispetto al controlaterale è stato il criterio usato fino ad oggi per autorizzare il paziente a riprendere il carico. Solo recentemente si è compreso che il ruolo centrale giocato dall’infiammazione nella diagnosi e nella terapia riflettesemplicemente l’importanza della stessa nell’evoluzione del processo patologico. . interessante notare, comunque, che alla risposta infiammatoria locale correlata alla secrezione di citochine pro-infiammatorie non corrisponde una risposta infiammatoria sistemica: infatti in pazienti con CN in fase acuta presentano normali livelli di leucociti e normali o lievemente aumentati valori di PCR e VES (25). La risposta infiammatoria acuta dunque è mediata dall’aumentata espressione di citochine infiammatorie; le citochine infiammatorie, quali il TNF-α e IL1-β, sono causa di un’aumentata espressione del RANKL, con attivazione del fattore nucleare NF-kB, successiva differenziazione e maturazione degli osteoclasti, lisi dell’osso e future fratture o microfratture, con un ulteriore potenziamento del processo infiammatorio. Dopo una frattura, comunque, il processo infiammatorio è relativamente di breve durata e l’aumento delle citochine infiammatorie avviene nelle prime 48 ore; questo probabilmente accade perché di solito il dolore permette di mettere a riposo l’arto e di risaldare la frattura; pertanto il rilascio di citochine infiammatorie si riduce e lo stimolo infiammatorio cessa. Ma in mancanza del presidio del dolore, il piede affetto non viene immobilizzato e il trauma della deambulazione comporta un perpetuarsi dell’infiammazione in un circolo vizioso. Questo comporta una progressiva osteolisi documentata nella CN che aumenta il rischio di nuove fratture e dislocazioni, fintanto che la malattia rimane attiva e non trattata, con due conseguenze: spostamento del carico su altre ossa e articolazioni e inizio della cascata infiammatoria. Pertanto l’immobilizzazione è necessaria non solo per ridurre i traumi su un osso fragile, ma anche per spegnere il processo infiammatorio (11). Quando il processo si è stabilizzato, non è chiaro quali fattori intervengano e perché in alcuni soggetti sia più rapido che in altri. Il ruolo centrale giocato dall’infiammazione locale e lo stabilirsi di un circolo vizioso pro-infiammatorio, spiega perché la CN è spesso unilaterale (sebbene la malattia coinvolga l’altro arto in 1/4 dei casi); spiega perché la malattia si autolimiti una volta che tale circolo vizioso è interrotto e l’osso riacquisisce la propria robustezza. Ma non spiega la rarità della malattia (colpisce solo l’1% dei soggetti neuropatici). Pertanto esistono dei fattori indipendenti dalla presenza di neuropatia che aumentano il rischio di sviluppare la CN.
MANIFESTAZIONE CLINICHE
La storia naturale dell’osteoartropatia di Charcot è contraddistinta da due differenti fasi di evoluzione clinica: fase acuta attiva e cronica inattiva.
Fase acuta
Rappresenta la fase iniziale di maggiore difficoltà diagnostica e di conseguenza spesso misconosciuta. Il quadro clinico dell’osteoartropatia di Charcot nella sua fase acuta si caratterizza per la presenza di segni specifici di infiammazione. Il piede coinvolto dal processo osteo-articolare presenta edema, iperemia, aumento della temperatura cutanea con differenza di almeno 2 °„C verso il controlaterale. La differenza di temperatura puòarrivare anche a 10 °„C (Fig. 1). Si puòo meno associare una sintomatologia dolorosa locale, sia a riposo che durante il carico, seppur in presenza di neuropatia periferica. Tale quadro clinico puòfar seguito ad un precedente trauma per lo più modesto, spesso considerato insignificante quando riferito dal paziente. Inoltre non è infrequente che potrebbe esserci un ritardo di qualche mese tra il trauma e la manifestazione clinica dell’osteoartropatia di Charcot. In accordo alla presenza o meno di alterazioni radiologiche, la fase acuta attiva dell’osteoartropatia di Charcot potrebbe essere divisa in uno stadio iniziale ed in uno stadio più avanzato. Nella fase iniziale è solo il “sospetto clinico” a guidare la diagnosi. Spesso infatti è caratteristica dall’assenza di segni radiografici, mentre sono presenti i segni clinici dell’infiammazione del piede. Questa fase, se riconosciuta come tale, puòconsentire di limitare la naturale progressione della patologia con lassità dei legamenti, erosione della cartilagine e dell’osso subcondrale, fenomeni di sublussazione e limitata mobilità articolare che caratterizzano la fase più avanzata. L’ulteriore evoluzione del quadro è caratterizzata da dislocazione e frammentazione dell’osso, instabilità articolare fino all’alterazione dell’integrità anatomo-funzionale del piede che rappresenta il passaggio alla fase di deformità o fase cronica dello Charcot.
Fase cronica
La cronicità dell’osteoartropatia di Charcot si caratterizza per evidenti deformità strutturali residue, con instabilità più o meno grave di tipo funzionale, in presenza di una completa remissione dei segni di infiammazione locale ed assenza di differenza di temperatura cutanea rispetto al controlaterale. La fase cronica puòanche esordire con la comparsa di una lesione ulcerativa nella sede di maggiore carico pressorio secondario alla deformità del piede. La localizzazione dello Charcot varia a seconda delle sedi anatomiche interessate dal processo osteodistruttivo con differenze nel percorso clinico della patologia ma soprattutto nella prognosi. La sede più frequentemente coinvolta è il mesopiede con una percentuale maggiore del 50%; il retropiede è interessato nel 28% dei casi, la caviglia nel 19%, mentre l’avampiede nel 3% dei casi.
TERAPIA MEDICA DELLA CN IN FASE ACUTA
Gli obiettivi della terapia consistono nel preservare o raggiungere una stabilità strutturale di piede e caviglia, riducendo al minimo i traumatismi durante la fase infiammatoria e distruttiva; evitare deformità, ulcerazione e coinvolgimento dell’arto controlaterale; garantire l’appoggio plantare per una deambulazione funzionale con calzature e/o ortesi. Il cardine del trattamento nello stadio 0 o 1 della CN è rappresentato dall’immobilizzazione e dallo scarico del piede affetto; questo si ottiene al meglio con il confezionamento di un gambaletto a contatto totale (“Total contact cast”-TCC) (26-30) (Fig. 2). La superiorità del TCC nel trattare il danno dell’osso in un piede insensibile è stata dimostrata ripetutamente; tuttavia occorre prestare attenzione a causa dell’incapacità di questi pazienti di segnalare eventuali dolore e/o lesioni trofiche.
Razionale dell’immobilizzazione e dello scarico
Il quadro clinico della fase acuta della CN è caratterizzato da segni aspecifici di flogosi; poiché nelle fasi molto iniziali della malattia la radiografia standard spesso non evidenzia alcuna alterazione, la diagnosi puòessere ritardata con elevato rischio di comparsa di gravi deformità e instabilità articolari. In stadio 0 soltanto la RM permette di evidenziare un danno iniziale di ossa e articolazioni (28-29, 31). L’immagine di edema della midollare visibile nell’OC in stadio 0 è la stessa che si verifica nel danno da stress dell’osso e risponde alla cessazione del trauma ripetuto allo stesso modo di quanto accada in un piede senza neuropatia; questo supporta l’idea che ci sia una relazione di causa-effetto tra trauma ed edema della midollare in entrambe le condizioni (31). Questo ha indotto molti autori a raccomandare l’immobilizzazione e lo scarico del piede anche in assenza di alterazioni radiografiche (32-33). Pertanto oggi un danno dell’osso senza frattura (edema della midollare all’MRI- Stage 0) è un criterio per scaricare un piede neuropatico edematoso poiché il persistere del carico porta a un’evoluzione della CN (28-29). Chantelau ha seguito il decorso clinico di 24 pazienti con CN in fase acuta, di cui la metà era in fase iniziale e non presentava fratture, mentre l’altra metà era in fase conclamata con fratture. Tutti i pazienti sono stati sottoposti a scarico totale con TCC fino a risoluzione dell’edema. Questo studio dimostra che la diagnosi e il trattamento precoci si associano a una più bassa incidenza di fratture complete e deformità gravi, in confronto con diagnosi e trattamento tardivi (29). In un altro studio di Edmonds e colleghi si dimostra l’importanza dello scarico in fase precoce per arrestare la progressione della CN in fase acuta. Sono stati seguiti nel tempo 12 pazienti con edema acuto del piede, ragiografia standard negativa e che, in base al quadro riscontrato alla MRI, sono stati divisi in tre gruppi: edema della midollare più o meno associato a cisti subcondrali o a fratture subcondrali. Dopo sei mesi di scarico totale, nessuno dei pazienti presentava sublussazioni alla radiografia né deformità clinicamente evidenti e tutti presentavano una riduzione dell’edema (28). Inoltre, a conferma dell’importanza dello scarico, è stato dimostrato che, col persistere del carico su un piede insensibile, queste alterazioni visibili alla MRI progrediscono verso alterazioni di osso e articolazioni visibili alla radiografia standard e gravi deformità di piede e caviglia (28, 34). Esistono diversi lavori in letteratura che pongono l’evento traumatico come fattore scatenante della CN (132, 143,144). Armstrong riporta ad esempio che su 55 pazienti con CN, il 26% era in grado di ricordare un trauma che aveva preceduto l’evento (27). Pertanto possiamo affermare che quando i pazienti in Stadio 0 sono trattati con lo scarico, l’edema della midollare scompare in 3-6 mesi a seconda dell’estensione del danno e della compliance del paziente; la progressione verso lo Stadio I è evitata; la guarigione avviene senza deformità (28-29, 35).
Meccanismo putativo di azione dello scarico e dell’immobilizzazione
Mettendo in scarico un piede nella fase acuta dell’OC, si riduce l’edema e l’infiammazione (11). McGill ha valutato la relazione tra l’andamento clinico e il grado di attività di un piede con CN in fase acuta durante un periodo di 12 mesi in cui 17 pazienti ricevevano lo standard care. Mentre in letteratura è stato ampiamente descritto il decorso clinico della CN, non ci sono elementi oggettivi che offrano dei parametri quantitativi su cui basarsi; questo rende più difficile comprendere l’eziologia e la risposta ai trattamenti. McGill ha dimostrato che l’uso di un TCC riduce l’infiammazione in sei mesi, correlando i parametri clinici (la differenza di temperatura tra i due piedi) con parametri quantitativi (Scintigrafia con Tc), fornendo così un’informazione quantitativa sull’evoluzione della CN in 12 mesi. In questo studio si evidenzia una forte correlazione (statisticamente significativa) tra la differenza di temperatura e la captazione del Tc nel piede affetto rispetto al controlaterale: al 12°„ mese, comunque, il piede affetto manteneva ancora un 30% di captazione (11). Tutte queste osservazioni hanno incoraggiato l’uso dello scarico per trattare questa patologia poiché non solo riduce i traumatismi che inevitabilmente si verificano durante la deambulazione non protetta, ma spegne il processo infiammatorio che altrimenti si amplificherebbe.
Criteri per l’immobilizzazione e lo scarico
In passato si riteneva necessario mettere in scarico un piede con CN in fase acuta solo nello stadio I e II, quando cio è erano visibili chiare alterazioni ossee alla radiografia standard (4). Attualmente, come già detto in precedenza, anche danni dell’osso senza evidenti fratture (come l’edema della midollare) rappresentano un criterio per attuare uno scarico in un piede neuropatico edematoso, poiché il persistere del carico porta ad un’evoluzione del quadro clinico con il manifestarsi di fratture complete (34). Pertanto alcuni autori (34-36) raccomandano l’uso della MRI piuttosto che della radiografia standard per pazienti con edema acuto di un piede neuropatico e concordano con Thompson che suggerisce l’immediato confezionamento di un TCC anche in assenza di fratture evidenti. Chantelau dimostra che mettendo in scarico 12 pazienti con edema della midollare alla MRI e radiografia standard negativa, si otteneva la risoluzione dell’edema e la guarigione in 17 settimane, evitando fratture e deformità; l’edema della midollare infatti suggerisce un danno da stress dell’osso, sebbene manchi il dolore. Una relazione di causa-effetto tra il trauma e queste alterazioni visibili alla MRI è supportata ulteriormente dalla reversibilità di tali alterazioni con l’immobilizzazione e lo scarico, in genere in 3-6 mesi (11). Oggi possiamo dire, come affermava Giurini nel 1991, che la CN puòessere efficacemente curata se trattata in fase 0, prima che avvenga la dissoluzione dell’osso, con lo stesso atteggiamento terapeutico di ogni lesione da stress, cio è con lo scarico e l’immobilizzazione per mesi. Il gambaletto in vetroresina a contatto totale (TCC) e oggi considerato il “gold standard” del trattamento della CN in fase acuta. Lo scopo è proteggere e mettere a riposo il piede durante la fase infiammatoria e distruttiva, finché il quadro infiammatorio non è risolto (37). I vantaggi del TCC sono rappresentati dal fatto che il paziente ha una “forzata compliance”; le pressioni plantari sono ridotte e meglio distribuite; l’edema si riduce. Molti autori raccomandano fortemente l’astensione totale dal carico in Stadio I, mentre l’arto è immobilizzato in un TCC. Chantelau sostiene che un TCC rigido piuttosto che morbido o semirigido è consigliabile per la guarigione dell’osso perché riduce i picchi di pressione plantari, le forze di taglio e i movimenti interframmentari. Tuttavia molti pazienti diabetici con CN tendono a non avere una buona compliance rispetto alle nostre raccomandazioni perché su di essi gravano molte comorbidità: un alto BMI, la perdita di sensibilità propriocettiva, l’ipotensione posturale, il fatto che una sedia a rotelle non sia praticabile in molte case. Pertanto alcuni autori hanno suggerito un carico parziale durante la fase acuta iniziale della CN (26-27, 37). Sinacore ha condotto uno studio retrospettivo su 30 pazienti con CN acuta immobilizzati con un TCC con l’autorizzazione a deambulare con l’aiuto di stampelle; il tempo medio di guarigione era di 3 mesi, con risultati sovrapponibili allo scarico totale (26). Armstrong ha osservato 55 pazienti affetti da diabete tipo 2 e CN in fase acuta e ha permesso loro di deambulare con un TCC senza l’ausilio di stampelle. In tutti i pazienti si aveva la guarigione senza deformità, sebbene in tempi più lunghi rispetto al lavoro precedente (6,5 settimane in pi ù) (27). Pinzur ha dimostrato che 10 pazienti con una CN del mesopiede in stadio I, tutti sovrappeso e con difficoltà a mantenere lo scarico totale con TCC sono guariti in 5,8 settimane e hanno raggiunto una stabilità tale da indossare calzature in 12 settimane. Il TCC deve essere applicato da personale esperto e riconfezionato dopo una settimana dalla prima applicazione, sia che il paziente carichi o meno, per adattarlo alla riduzione dell’edema, al fine di garantire l’immobilizzazione e il contatto totale. Il controllo del TCC deve essere effettuato ogni 2 settimane; il monitoraggio deve essere stretto, con cambio di strategia terapeutica se la deformità progredisce nonostante il gambaletto. L’immobilizzazione per 5-6 mesi non è insolita (19+/-11 settimane), e pazienti con coinvolgimento bilaterale richiedono tempi più lunghi (28+/-15 settimane). Il tempo necessario per tornare a indossare una calzatura è indipendente dalla sede anatomica coinvolta (27). Stabilire la durata del trattamento è reso difficile anche da una chiara definizione di guarigione. Guarigione potrebbe essere definita come assenza di recidive, ma anche la definizione di recidiva non sempre è chiara. Il tempo medio di trattamento di una CN in fase acuta senza fratture è di 3-6 mesi (29, 36). La durata varia a seconda della compliance del paziente al TCC, dell’estensione del danno osseo e della sede. Sinacore dimostra che mesopiede e caviglia necessitano di tempi più lunghi rispetto a retropiede e avampiede. La durata media di trattamento per CN con fratture è di 20 mesi (27, 29, 36). Saltzman in uno studio retrospettivo dimostra che il 23% dei pazienti ha richiesto tempi più lunghi (>18 mesi) e che la prevalenza di Charcot dell’arto controlaterale era del 10,4%. Nessuno dei seguenti fattori influenzava il tempo di necessaria immobilizzazione: l’età, il tipo di diabete, la sede coinvolta, la presenza di nefropatia. Il rischio di amputazione dipendeva dall’abilità di non creare lesioni di continuo perché la presenza di ulcera aumentava il rischio di un’eventuale amputazione. Nella pratica clinica, tuttavia, esistono situazioni in cui lo standard care non è applicabile: pazienti con deficit deambulatori (ictus pregresso, amputazione controlaterale), pazienti con gravi limitazioni visive, grandi obesi o pazienti non “complianti”. Esistono presidi alternativi al TCC in vetroresina che sono rappresentati dai gambaletti removibili, più accettati dal paziente perché gli consente di poterlo rimuovere durante la notte e di controllare l’integrità della cute; inoltre è possibile creare adattamenti personalizzati per alloggiare deformità; all’interno puòessere applicata un’ortesi su misura con materiali comunemente usati (come il ppt). Inoltre, sebbene il TCC rappresenti il presidio di scelta, molti clinici evitano di confezionarlo: infatti è necessario un personale esperto al fine di evitare irritazioni cutanee o addirittura nuove lesioni ulcerative; inoltre, richiede tempi piuttosto lunghi di applicazione e di rimozione. Un esempio di apparecchio di scarico rimovibile è lo stivale pneumatico (Fig. 3): presenta un guscio semirigido per fornire protezione e immobilizzazione e per potenziare lo scarico plantare, distribuendo uniformemente il peso del corpo. Lo stivale pneumatico, inoltre, avendo cuscinetti ad aria nel guscio semirigido, puòdare una conformazione di contatto totale, riduce l’edema e le forze di taglio. I cuscinetti ad aria multipli, gonfiati su misura secondo un indicatore di pressione, garantiscono pertanto una compressione omogenea. La suola è arrotondata (a dondolo) al fine di ridurre ulteriormente la pressione plantare. Alcuni Autori hanno registrato la maggiore riduzione media nelle pressioni di picco dell’avampiede usando lo stivale pneumatico (8). Se si decide di usare un gambaletto removibile nel trattamento di una CN in fase 0 o 1, è fortemente raccomandato di renderlo irremovibile per limitare l’evoluzione del processo distruttivo.
Come monitorare la risposta allo scarico
In passato la risposta all’immobilizzazione e allo scarico di un arto affetto da CN in fase acuta si basava, oltre che sulla risoluzione dei parametri infiammatori (risoluzione dell’edema e del dolore), sul controllo della temperatura attraverso un termometro a infrarossi, monitorando la differenza di temperatura tra il piede affetto e il controlaterale (27, 36); quando tale differenza era stabilmente inferiore a 2°„C per almeno un mese ed erano evidenti segni di consolidamento e rimodellamento dell’osso alla radiografia standard, si poteva ragionevolmente pensare di poter progressivamente autorizzare il carico al paziente (27). Tuttavia questi criteri erano associati a un alto tasso di apparenti recidive (27). Una metodica più fine di follow-up è la Risonanza Magnetica, specie in assenza di fratture; infatti a volte con il ritorno al carico la RM evidenzia un residuo edema della midollare che non è associato a rilevanti sintomi clinici. Pertanto la durata dell’immobilizzazione deve essere determinata dalla RM e probabilmente dovrebbe essere più lunga di quanto suggerito dalla clinica e dalla radiografia standard. Il nostro gruppo di lavoro ha valutato l’efficacia dell’utilizzo della F-18-PET/TC scan come utile strumento per confortare la diagnosi di OC in fase 0, associata alla RM, e come strumento di follow-up per monitorare la risposta allo scarico (38). I 25 pazienti selezionati affetti da CN in stadio 0, sono stati trattati con l’immobilizzazione non fino alla risoluzione dei parametri clinici, ma finché il SUV (“standard uptake value”) risultava inferiore a 2. Da questo studio è emerso che i criteri clinici fino ad oggi utilizzati per autorizzare il carico possono essere fuorvianti: infatti, al momento della remissione clinica del processo infiammatorio, i pazienti mostravano ancora un’ipercaptazione alla F-18-PET/TC scan. La F-18- PET/TC scan puòessere utile per stabilire quando la fase infiammatoria si è conclusa e il carico puòessere autorizzato; autorizzare il carico prematuramente, puòdeterminare delle “false recidive”: in realtà non sono altro che esacerbazioni dello stesso processo infiammatorio che non si era mai del tutto risolto. Pertanto la F-18-PET/TC scan puòessere, insieme alla RM, un’utile strumento di diagnosi della CN; inoltre, offre una visualizzazione della sede del processo infiammatorio ed di eventuali altre localizzazioni durante il follow-up; infine, attraverso il calcolo del SUV (“standard uptake value”), offre un dato quantitativo che permette di valutare l’entità dell’accumulo del tracciante e di stimarne le variazioni in risposta allo scarico. Modificazioni del SUV potrebbero essere utili in futuro anche per testare l’effetto di nuovi farmaci. A nostro parere la PET/TC non sostituisce la MRI nella diagnosi e nella risposta alla terapia dell’OC in fase acuta, ma è uno strumento in più che puòfornire informazioni cliniche aggiuntive. Terapia farmacologica della CN in fase acuta Farmaci che possano inibire il patologico riassorbimento dell’osso rappresenterebbero una ovvia opzione terapeutica in una situazione clinica caratterizzata da un aumentato turnover osseo. I farmaci più comunemente usati in tal senso, esistenti dagli anni Sessanta, sono i bisfosfonati (164). I bisfosfonati sono potenti inibitori del riassorbimento osseo, utilizzati nel trattamento e nella prevenzione dell’osteoporosi e di altre malattie caratterizzate da un aumentato rimodellamento dell’osso. Il meccanismo responsabile dell’attività antiriassorbitiva dei bisfosfonati non è ancora completamente conosciuto, anche se negli ultimi anni sono stati fatti numerosi progressi. Sembra peròormai accertato che l’azione in vivo sull’osso non sia correlata alle proprietà chimico-fisiche dei bisfosfonati. I bisfosfonati si legano tenacemente ai cristalli di idrossiapatite solo quando le superfici ossee sono soggette a rimodellamento e sono così esposte all’ambiente extracellulare. La localizzazione elettiva dei bisfosfonati sembra avvenire al di sotto degli osteoclasti, dove essi raggiungono concentrazioni estremamente elevate. Durante la fase di riassorbimento, l’osteoclasta acidifica la matrice dell’osso causando la dissoluzione dei cristalli di idrossiapatite e quindi la liberazione del bisfosfonato che si era ancorato ai cristalli stessi. Una volta che il bisfosfonato è stato liberato dalla matrice dell’osso, puòvenire a contatto con gli osteoclasti ed inibire il loro potere di riassorbimento. In uno studio non controllato di sei pazienti con osteoartropatia in fase attiva, Selby et al. hanno dimostrato una significativa riduzione di temperatura e dei livelli di fosfatasi alcalina dopo infusione di pamidronato per 10 settimane (39). A parte il numero ridotto di casi trattati, tale studio ha il limite di non avere un gruppo di controllo, di non aver dosato i markers sierici dell’attività osteoclastica e di non aver confrontato l’efficacia del trattamento con quella del semplice scarico dell’arto. Più recentemente è stato pubblicato uno studio randomizzato e controllato, a doppio cieco, a 12 mesi di una singola infusione di 90 mg di pamidronato in 39 pazienti con osteoartropatia attiva. Dopo infusione, i markers di turnover osseo (deossipiridinolina urinaria e isoenzima osseo della fosfatasi alcalina) e la temperatura cutanea sono diminuiti sia nel gruppo di controllo che in quello trattato, sebbene in quest’ultimo la riduzione sia stata più marcata: infatti si è verificata una riduzione di temperatura in 2 settimane in entrambi i gruppi, ma nel gruppo trattato c’ è stata un’ulteriore riduzione nelle 4 settimane successive (40). Un gruppo di lavoro italiano ha condotto uno studio randomizzato e controllato su 20 pazienti con CN acuta di cui 11 trattati con 70 mg alendronato a settimana per os e lo standard care e 9 pazienti trattati solo con lo standard care. La durata del trattamento è stata di 6 mesi. Al tempo zero e dopo 6 mesi è stato condotto uno studio della densità ossea delle regioni lombare e femorale e di entrambi i piedi e sono stati dosati i markers di riassorbimento osseo. Dopo sei mesi di trattamento nel gruppo trattato, oltre a una riduzione significativa di temperatura del piede affetto, la BMD era aumentata non solo a livello sistemico, ma anche a livello del piede e soprattutto a livello delle falangi, sede maggiormente colpita; è quindi ipotizzabile che il trattamento con bisfosfonati sia più efficace laddove il rimaneggiamento dell’osso risulti più accentuato. Inoltre, la riduzione del turnover osseo nel gruppo trattato è dimostrata dall’aumentata BMD e dalla riduzione dei markers biochimici (beta cross-laps, fosfatasi alcalina totale e ossea, OH-prolina urinaria) (41). Un altro farmaco che potrebbe essere utile per le sue proprietà inibitorie sul riassorbimento osseo è la calcitonina. La calcitonina è un peptide di 32 aminoacidi che ha un effetto inibitorio diretto sugli osteoclasti attraverso un meccanismo recettoriale; ad alte dosi (calcitonina di salmone) determina una down-regulation dei recettori e un fenomeno di escape. Il principale effetto sull’attività osteoclastica sarebbe: l’inibizione della motilità citoplasmatica, dell’attività secretoria degli osteoclasti e una riduzione di numero. La calcitonina è meno usata dei bisfosfonati per il trattamento dell’osteoporosi per la sua via di somministrazione parenterale (sottocutanea o intranasale); i vantaggi rispetto ai bisfosfonati consistono nella possibile stimolazione di neoformazione ossea e nel suo utilizzo anche in caso di insufficienza renale. Bem e colleghi ha condotto uno studio controllato randomizzato su 32 pazienti con CN acuta a cui sono stati somministrati 200UI/die di calcitonina intranasale e calcio per os versus calcio per os e standard care. I risultati dimostravano una riduzione significativa del peptide C-terminale del collagene tipo 1 e dell’isoenzima osseo della fosfatasi alcalina nei primi 3 mesi, mentre non c’era differenza significativa tra i due gruppi a sei mesi. Altri farmaci di probabile efficacia potrebbero essere gli antagonisti del TNF-α (Infliximab, Etanercept) così come i corticosteroidi ad alte dosi che riducono l’espressione del NF-kappaB (Metilprednisolone), ma mancano esperienze cliniche. Future terapie mediche antiinfiammatorie potrebbe anche includere inibitori del RANKL (denosumab), NFkappaB e IL1-β, che sono stati usati in studi su animali affetti da artrite infiammatoria. Per quanto riguarda l’elettrostimolazione, è stata testata clinicamente per favorire la guarigione delle fratture nella fase acuta della CN; Grady e colleghi hanno dimostrato che, quando usata nel periodo iniziale dell’immobilizzazione, si aveva un miglioramento dei segni clinici.
TERAPIA DELL ’OSTEOARTROPATIA DI CHARCOT IN FASE CRONICA
Gli obiettivi del trattamento della fase cronica consistono nella riduzione delle pressioni plantari, nel preservare l’integrità della cute e garantire la stabilità del piede. La presenza di osteoartropatia di Charcot aumenta il rischio relativo di ulcerazione di 3,5 volte (pertanto, in fase cronica, il principale obbiettivo della terapia è quello di prevenire l’ulcerazione del piede. Ortesi e calzature Dopo l’immobilizzazione attraverso gambaletto gessato, una volta che il processo attivo si è arrestato e siamo nella fase di quiescenza, il paziente puògradualmente cominciare a deambulare usando un gambaletto removibile e finalmente una calzatura adeguata. . consigliabile eseguire il passaggio ad un gambaletto rimovibile quando il gradiente di temperatura cutanea tra piede affetto e arto controlaterale sia di 1°„ per due settimane consecutive. Il passaggio invece da un gambaletto removibile ad una calzatura definitiva richiede la stabilità per un mese della temperatura dell’arto interessato confrontato con il controlaterale. Nella fase di transizione è possibile anche l’uso di un’ortesi che sostenga il tendine della rotula (“patellar tendon- bearing”) o l’uso di stampelle, al fine di consentire un carico parziale (27). Deve essere posta particolare attenzione nel prevenire fratture neuropatiche dell’osso osteopenico, specialmente dopo un lungo periodo di immobilizzazione. Una precoce ripresa del carico potrebbe, in casi eccezionali, causare la riattivazione della fase acuta nella stessa articolazione o in altre adiacenti. Le caratteristiche delle calzature, in genere, dipendono dal grado di deformità che questi piedi ad alto rischio di ulcerazione presentano. La calzatura ideale è costituita da una suola rigida ad angolo di battuta anteriore per permettere il rotolamento del passo e ridurre il frizionamento a livello metatarso-falangeo; la tomaia deve essere di pelle morbida, deformabile, senza cuciture interne; deve essere extra-fonda, con un’altezza di almeno 4 cm nella regione anteriore per permettere l’alloggiamento delle dita a martello; la calzata, cio è il rapporto tra la pianta e la volta della tomaia, deve essere sufficiente a contenere un plantare senza creare frizioni. La calzatura deve essere allacciata con stringhe o con velcro affinché sia ottimale la presa sul collo del piede, evitando così lo scivolamento anteriore e il fisiologico sollevamento del tallone durante il passo. Ad ogni modo, tutti i piedi con osteoartropatia necessitano di una controlli costanti e calzature adeguate per tutta la vita, al fine di prevenire l’ulcerazione. Per l’esecuzione corretta di tali protesi personalizzate, ci si avvale di pedane computerizzate per l’analisi statica e dinamica del passo. Il plantare ideale è costituito da uno strato interno fatto di materiale morbido, tale da assorbire le pressioni del piede e cio è ridurre lo shock (forze perpendicolari) e lo stress (forze trasversali); questo strato deve essere traspirante e anallergico; uno strato intermedio, elastico e sufficientemente stabile nella forma anche sotto il carico del peso (cio è dotato di “memoria”); uno strato esterno rigido, di supporto, utile per il miglior controllo funzionale del piede. Il plantare deve avere uno spessore minimo per garantire lo scarico, in funzione anche della conformazione del piede: un piede cavo, ad esempi, necessita di un plantare più spesso. Il plantare deve sempre essere fatto a contatto totale, su calco (ossia su misura): il paziente imprime la propria impronta stando seduto; si esegue un calco in gesso dell’impronta stessa; si riveste il calco con materiali termoformabili, lavorabili a caldo; si rifinisce il plantare fino a renderlo idoneo alla calzatura. Ogni plantare devenascere per essere alloggiato in una calzatura, pertanto non è corretto prescrivere l’uno senza l’altra.
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