Fabrizio Barbetti
Dipartimento di Medicina Sperimentale e Chirurgia, Università Tor Vergata Roma e Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, IRCCS, Roma
IL MODY: CENNI STORICI E CONCETTI GENERALI
Sono passati quarant’anni dall’articolo pubblicato nel 1975 da Robert Tattersall e Steve Fajans su Diabetes dal titolo: “A difference between the inheritance of classical juvenile-onset and maturity-onset diabetes of young people” (1). In quel lavoro erano già perfettamente delineati i concetti che guidano ad una diagnosi clinica di quello che è stato chiamato per alcune decadi M(aturity) O(nset) D(iabetes) (of the) Y(oung) (MODY). In quel lavoro il confronto tra 26 famiglie “MODY” e 35 con “JOD” (juvenile-onset diabetes, ovvero il diabete tipo 1a della classificazione correntemente in uso) risultava evidente che: 1) nell’85% dei casi il probando MODY aveva un genitore con diabete, 2) che nel 46% dei casi vi era una trasmissione “verticale” del diabete attraverso 3 generazioni e 3) la maggior parte dei soggetti affetti non richiedeva trattamento insulinico. Al contrario nei pazienti “JOD” la famigliarità era rara e solo nel 6% dei casi vi erano tre generazioni consecutive con diabete. I dati raccolti autorizzavano alla conclusione che vi fosse una trasmissione autosomica dominante del diabete nelle famiglie MODY (1) (Tab. 1).
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La descrizione da parte di Bottazzo, Florin-Christensen e Doniach della occorrenza di autoanticorpi contro l’isola pancreatica in soggetti con poliendocrinopatia autoimmune (2) era avvenuta solamente l’anno precedente. Non ci si stupisce dunque se la negatività agli autoanticorpi tipici del diabete tipo 1a sia divenuto solo in tempi successivi un parametro fondamentale per sospettare il MODY in un paziente con iperglicemia con insorgenza prima dei 25 anni di età (Tab. 1).
Tra le altre caratteristiche rilevanti dei pazienti clinicamente (e geneticamente) classificati come MODY è quella di essere magri (non è un criterio assoluto), non insulino-resistenti e con deficit di vario grado a carico della beta-cellula pancreatica (vedi classificazione eziologica dell’American Diabetes Association).
Il primo locus MODY è stato mappato sul cromosoma 20q nel 1991 (3), ma l’identificazione delle mutazioni nel gene HNFH4A (precedentemente denominato MODY1) è avvenuta 5 anni dopo (4) assieme a quella riguardante lo HNF1A/MODY3 (5), ma preceduta dalla scoperta delle mutazioni nel gene codificante la glucochinasi (GCK, a lungo denominato MODY2) (6). Nuovi geni MODY rispondenti ai criteri cinici di Tattersall si sono aggiunti nel tempo ed assommano a tutt’oggi a 13. Attualmente si preferisce far precedere il nome del gene alla parola MODY (ad esempio GCK/MODY) sia al fine di evitare confusioni determinate da un uso errato della numerazione attribuita consecutivamente in ordine temporale e la cui lista è soggetta ad allungarsi ulteriormente, sia per evidenziare come uno stesso gene possa determinare anche fenotipi differenti qualora cambi la tipologia delle mutazioni. Un esempio concreto – e ne faremo altri nel corso di questa rassegna – è rappresentato appunto dalle mutazioni nel gene della glucochinasi. Il fenotipo GCK/MODY (iperglicemia in 3 generazioni consecutive di una stessa famiglia; Fig. 1) (7-8) è determinato da mutazioni eterozigoti a perdita di funzione, ma mutazioni eterozigoti attivanti danno luogo a forme famigliari di ipoglicemia (9-10) e mutazioni bialleliche a perdita di funzione a diabete neonatale (11).
I QUATTRO PRINCIPALI GENI MODY
Se vogliamo mantenere un taglio clinico/pratico è importante distinguere tra le forme MODY frequenti (migliaia di casi) e le forme MODY particolarmente rare (poche unità nelle risultanze della letteratura internazionale). Le forme frequenti infatti si annidano in un qualsiasi ambulatorio diabetologico che abbia un bacino d’utenza di media entità ed il saperle riconoscere sul piano clinico consente di poterle avviare ad una diagnosi genetica. Il raggiungimento della diagnosi molecolare ha un impatto significativo su più fronti: 1) impostazione della terapia, 2) prognosi sulle complicanze croniche e 3) counseling genetico.
Quali sono dunque le forme frequenti e quale rilevanza può avere sul piano clinico la loro identificazione?
Se vogliamo rimanere alla nostra penisola, è ormai evidente che le mutazioni che vengono identificate più frequentemente sul piano clinico e confermate sul piano genetico-molecolare sono quelle del gene della glucochinasi (GCK). La ragione di questo risiede sicuramente nella dicotomia esistente tra ambulatori di diabetologia pediatrica e ambulatori di diabetologia dell’adulto, tipica del nostro paese. Il fenotipo GCK/MODY è caratterizzato dal fatto di essere totalmente asintomatico e conseguentemente i pazienti essere identificati nella maggior parte dei casi in modo accidentale. Le mutazioni eterozigoti GCK a perdita di funzione determinano infatti una variazione verso l’alto della soglia glicemica alla quale la cellula beta del pancreas inizia a secernere insulina. Per questo motivo il soggetto portatore della mutazione ha una glicemia costante nel tempo, che si mantiene su valori tra 110 e 130 mg/dl fin dalla nascita (12) (Fig. 1, Tab. 2) per aumentare modestissimamente con l’invecchiamento.
Queste stesse glicemie aumentano in proporzione dopo un carico orale di glucosio per attestarsi a 120’ su valori tipici della “impaired glucose tolerance” (13). L’emoglobina glicata raramente eccede il valore di 6.5% ed eccezionalmente supera il valore del 7%. Per quanto sin qui esposto, è di tutta evidenza come il sospetto di mutazione GCK avvenga prevalentemente in ambiente pediatrico, dove un’iperglicemia “fortuita” di 115-120 mg/dl solitamente induce ad un controllo degli autoanticorpi del diabete tipo 1, che una volta risultati negativi ed accompagnati dalla conferma di una iperglicemia modesta e stabile, porterà al sospetto clinico di GCK/MODY. A completamento del quadro potrà intervenire anche la storia famigliare con un dato anamnestico di “diabete gravidico” (che non è tale) se la madre è portatrice della mutazione o di una iperglicemia modesta e per questo motivo assolutamente negletta se il portatore è il padre. Di qui la necessità, nel caso di un solido sospetto di una mutazione GCK in un determinato paziente, di accertare il dato metabolico dei genitori (o dei figli) in caso di sua mancanza. Un algoritmo basato su 7 punti a cui dare risposta SI/NO è stato recentemente pubblicato da diabetologi pediatri italiani per facilitare la selezione di pazienti da sottoporre ad indagine genetica per mutazione GCK (14). È altresì evidente – per i motivi su esposti – che i pazienti con mutazione GCK a perdita di funzione difficilmente “frequenteranno” l’ambulatorio diabetologico dell’adulto in quanto del tutto asintomatici. Studi recenti condotti in Italia tuttavia, fanno rilevare come uno screening sistematico di soggetti clinicamente inquadrabili come MODY con parametri rigorosi, le mutazioni GCK siano rintracciabili anche nell’ambulatorio diabetologico dell’adulto (15) nella misura del 13% dei casi MODY esaminati. Questa percentuale è di gran lunga inferiore a quella registrata – per le mutazioni GCK – negli ambulatori di diabetologia pediatrica, dove ci si attesta costantemente al di sopra del 60% (8, 15-16). Il fenotipo clinico del portatore di mutazione GCK è così caratteristico che è spesso facile individuare anche i pazienti con mutazioni spontanee (8), vale a dire casi sporadici che non hanno familiarità verticale. Sul piano del “meccanismo di malattia” che porta alla iperglicemia nei soggetti portatori di una mutazione eterozigote a perdita di funzione della GCK, è interessante notare come non vi sia una “graduatoria” di gravità delle mutazioni, come può avvenire in altre condizioni genetiche, ma come una mutazione con perdita totale di funzione da parte di un allele (ad esempio una mutazione che porti ad una proteina profondamente alterata nella sua struttura) sia in pratica del tutto equivalente ad una mutazione che comporti una moderata alterazione della funzione (17). Le mutazioni eterozigoti GCK a perdita di funzione hanno dunque un modesto impatto sul controllo metabolico dei portatori, che mostrano metaboliti ematici normali, ivi compresi i lipidi (18). La conseguenza di ciò è che gli individui portatori non vanno incontro alle complicanze croniche tipiche del diabete (7, 19) e si sconsiglia pertanto qualsiasi terapia, sia nei bambini sia negli adulti. In buona sostanza questa è una delle poche situazioni in cui la diagnosi genetica può “difendere” da inopportune medicalizzazioni. Questo rimane valido anche nei periodi dei “sick days”, così familiari ai diabetologi pediatri. I soggetti portatori andranno incontro ad un leggero e temporaneo aumento della glicemia che non richiede alcuna terapia. Lo stesso dicasi nel caso di una ospedalizzazione determinata da una esigenza di tipo chirurgico per un traumatismo o una patologia acuta, dove risulterà sufficiente monitorare la glicemia. Rimane oggetto di dibattito cosa si debba fare nelle portatrici di mutazioni GCK in età fertile che abbiano una gravidanza. È noto infatti che il genotipo madre-prodotto del concepimento condizioni il peso alla nascita (20), cosa che peraltro non influisce sui parametri fisiologici complessivi nelle successive fasi di crescita (21). Nel caso la madre sia portatrice della mutazione, ma il figlio abbia un genotipo normale, è prevedibile che il neonato nasca in sovrappeso di circa 500 g (20). In una situazione come quella prospettata le beta cellule fetali con genotipo normale “leggono” l’iperglicemia materna e secernono una maggior quantità di insulina determinando un aumento del tessuto adiposo e del peso alla nascita (l’esatto contrario avviene se il feto abbia ereditato la mutazione dal padre e la madre abbia genotipo normale: il peso alla nascita del feto sarà mediamente inferiore di 500 g; 20). Ci si chiede dunque se nella situazione sopra descritta la madre debba essere sottoposta a qualche forma di terapia. La questione è aperta, ma deve essere sottolineato che allo stato non vi è alcuna evidenza epidemiologica che i neonati di madre portatrice di mutazione GCK che siano di genotipo normale e nascano a termine abbiano più complicanze degli altri neonati (22), a parte la possibilità aumentata di una distocia di spalla (22). Nulla invece è stato riportato – a quanto risulta allo scrivente – per quel che riguarda la possibilità di ipoglicemia o ipocalcemia neonatale. Tuttavia uno studio recentemente pubblicato ha evidenziato come gli aborti spontanei sembrino essere più frequenti tra le donne con mutazioni in GCK rispetto a quelle con mutazioni HNF1A (23), prospettando la questione di una speciale attenzione nel periodo del concepimento di queste pazienti.
La seconda causa di MODY in Italia è rappresentata dalle mutazioni nel gene che codifica il fattore di trascrizione HNF1A. Questa forma denominata in passato MODY3 (e più modernamente HNF1A/MODY) è quella che in tutte le rassegne sintetiche viene indicata come la più frequente. Questo è sicuramente vero per il nord Europa e segnatamente per il Regno Unito ed i paesi scandinavi, dove la frequenza relativa di mutazioni HNF1A è più alta rispetto alle altre comuni forme MODY, rappresentando tra il 36 ed il 52% del totale, a seconda delle casistiche (24-25). Al contrario, le mutazioni HNF1A sono relativamente poco frequenti in Italia e, sia che si selezionino i pazienti MODY nell’ambulatorio pediatrico (15-16) che in quello dell’adulto (15), la frequenza relativa non supera il 20%. Vi possono essere due spiegazioni per questo fenomeno: che le mutazioni HNF1A siano effettivamente meno frequenti in Italia o che le mutazioni GCK siano sostanzialmente sotto diagnosticate nel nord Europa. Qualsiasi sia la ragione, è un dato di fatto che le mutazioni HNF1A siano riscontrate con bassa frequenza nel nostro paese. Sul piano clinico il fenotipo HNF1A è solitamente ben distinguibile dal fenotipo GCK (Fig. 2).
L’iperglicemia insorge mediamente nel giovane adulto (tra i 18 e i 22 anni) con l’età di insorgenza del diabete in parte legata al tipo e alla posizione della mutazione (26), una differenza sostanziale con le mutazioni GCK. Le glicemie all’esordio nei pazienti con mutazioni del gene HNF1A (denominato anche TCF1) hanno spesso valori importanti e che peggiorano nel corso del tempo. Il meccanismo di malattia è probabilmente complesso, con una concomitanza di fattori che vanno dalla diminuita trascrizione nella beta-cellula pancreatica di geni importanti nella secrezione insulinica (ad es. Glut2 e Gck) o nella trascrizione del gene dell’insulina (Pdx1, NeuroD1) fino alla ridotta massa beta-cellulare. Tali meccanismi sono stati inferiti da modelli animali manipolati nel gene Hnf1a che tuttavia non ricapitolano il fenotipo umano. È probabile dunque che le nostre nozioni non siano complete, ma quello che è incontrovertibile è il difetto della beta-cellula pancreatica e la sostanziale assenza di insulino-resistenza nei portatori di mutazioni HNF1A/MODY. In effetti, alcuni casi che esordiscono in adolescenza sono indistinguibili sul piano puramente clinico dal diabete tipo 1a, con chetosi e necessità di terapia insulinica. Tuttavia, almeno nell’esperienza italiana, il dato anamnestico di tre generazioni con diabete è solitamente presente (16) e rappresenta un buon viatico alla diagnosi clinica di MODY assieme alla negatività agli autoanticorpi del diabete tipo 1a. Cionondimeno possono esservi casi sporadici con mutazione spontanea: in questo caso i criteri guida sono rappresentati di nuovo dalla negatività agli autoanticorpi ma anche dalla bassa dose insulinica (≤0.5 U/kg) necessaria per un adeguato controllo metabolico. L’alta frequenza di mutazioni HNF1A riscontrate in nord Europa ha fatto si che gruppi di ricerca abbiano testato la capacità di alcuni marcatori di discriminare tra pazienti con mutazione HNF1A ed altre forme di diabete come il tipo 2 (DM2) ed il tipo 1a (DM1). Ad esempio, una delle caratteristiche cliniche dei portatori di mutazioni HNF1A è quella di poter presentare glicosuria renale, ma l’accertamento della medesima può essere sufficientemente indaginoso. Si è preferito quindi puntare sul dosaggio della proteina C reattiva ad alta sensibilità, che nei pazienti HNF1A/MODY è più bassa che in altre forme di diabete ivi comprese i più comuni sottotipi MODY. Tuttavia la PCR ad alta sensibilità si è dimostrata efficace nel distinguere HNF1A/MODY da DM2 (specificità= 70%), ma molto meno nel discriminarlo dalle altre forme (27). Sul piano pratico dunque il suo utilizzo sembra essere ridotto, visto che il vero vantaggio della diagnosi molecolare è fondamentalmente legato alla possibilità di tentare un passaggio alle solfaniluree nei soggetti che siano in terapia insulinica, oltre al poter effettuare un counseling genetico. A questo proposito i pazienti con mutazioni HNF1A rappresentano un limpido esempio di farmacogenetica: è infatti noto che questi soggetti non sono insulino-resistenti (a meno che non siano obesi, cosa rara ma possibile) e che traggano giovamento dalla terapia con farmaci secretagoghi (28-29), ma non con farmaci della classe delle biguanidi. I pazienti con mutazioni HNF1A possono addirittura mostrare una “ipereccitabilità” ai farmaci della classe delle solfaniluree (30-31), forse a causa di un diminuito uptake epatico (32). I dati del gruppo di studio sul diabete della Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica (SIEDP) sul passaggio alla terapia con solfaniluree in soggetti adolescenti con mutazione HNF1A in trattamento insulinico – non ancora pubblicati – fanno ritenere che la terapia orale sia efficace e maneggevole, sia pure con dei limiti nei rari casi in cui sia presente anche obesità. In questa eventualità è possibile prendere in considerazione l’aggiunta alla terapia in atto degli analoghi del GLP-1 (33-34), mentre per ovviare alle crisi ipoglicemiche che possono accompagnare la terapia con solfaniuree, è possibile utilizzare le glinidi (nateglinide, repaglinide), da sole o in associazione con altri farmaci, con ottimi risultati (35).
Il terzo gene MODY in ordine di frequenza è strettamente imparentato con il precedente, al punto di differire solamente per un numero nella denominazione, vale a dire il gene HNF4A, quello risultato poi mutato nella famiglia con 5 generazioni con diabete studiata originariamente da Fajans, il famoso (per gli addetti ai lavori) “RW pedigree” (3). Il fenotipo HNF4A/MODY è sostanzialmente sovrapponibile a quello HNF1A/MODY, con qualche piccola differenza. I pazienti con mutazioni HNF4A presentano ridotti livelli di Apo AII, ApoCIII, Lp-a e dei trigliceridi (36), ma soprattutto in un 50% dei casi presentano macrosomia alla nascita ed ipoglicemia transitoria rispondente al diazossido (37). Questa caratteristica – se presente – li rende facilmente identificabili (38), anche se la macrosomia e l’ipoglicemia può manifestarsi – più raramente – nei portatori di mutazioni HNF1A (39). Le mutazioni in questi tre geni che rappresentano i tre sottotipi MODY più frequenti sono per la maggior parte puntiformi o piccole delezioni/duplicazioni/inserzioni, tutte rintracciabili mediante sequenziamento diretto del DNA del gene di interesse. È infatti ancora frequente, a distanza di 20 anni dalla scoperta di questi tre geni, il rintracciare mutazioni di nuova descrizione. In questo caso specifico è bene che la dimostrazione che la mutazione è causativa e non un polimorfismo raro sia suffragata da molteplici criteri come la co-segregazione del fenotipo diabete con i soggetti portatori della mutazione nella famiglia e l’eventuale analisi mediante software appositi da parte di chi ha effettuato l’analisi genetica, questo al fine di evitare diagnosi molecolari inesatte.
Lo HNF1B/MODY (precedentemente “MODY5”) è caratterizzato dalla combinazione di lesioni del tratto uro-genitale e diabete (40) Fig. 3). Per sua natura le malformazioni uro-genitali (che possono spaziare da cisti renali asintomatiche fino a malformazioni importanti, come il rene a ferro di cavallo, la vagina a fondo cieco e l’utero bicorne) (41-44) sono di solito identificate precocemente in un ambulatorio di nefrologia, visto che il diabete si presenta all’adolescenza o non si presenta affatto. È ormai assodato infatti che le mutazioni nel gene HNF1B rappresentano una larga fetta delle malformazioni renali su base genetica (45) e che i portatori di mutazioni HNF1B possono presentare insufficienza renale. Fanno parte del quadro anche alterazioni del metabolismo epatico (46). Sul piano clinico la gravità del diabete è alquanto variabile. Nel sospetto di una mutazione HNF1B si deve tener conto del fatto che circa un 30% dei difetti in questo gene è rappresentato dalle delezioni, anche di un intero allele, una alterazione che sfugge alla diagnosi molecolare classica basata sul sequenziamento diretto e che viene svelata da una tecnica denominata MLPA. Questi difetti sono sufficientemente frequenti e nel laboratorio presso l’Università Tor Vergata è stata riscontrata la delezione totale spontanea di un singolo allele del gene HNF1B in un soggetto adulto senza diabete e con malformazioni genitali tipo Mayer-Rokitansky-Kuster-Hauser, sindrome in cui sono state riportate in passato larghe delezioni nel braccio lungo del cromosoma 17 (17q12), comprendenti il locus HNF1B (TCF2) (47-48).
GENI MODY “EMERGENTI”: INS (INSULINA; “MODY10”), KCNJ11 (KIR6.2; “MODY13”), ABCC8 (SUR1; “MODY12”)
Dei vari fenotipi clinici legati alle mutazioni in glucochinasi (iperinsulinismo/ipoglicemia e diabete neonatale, oltre al MODY) si è parlato all’inizio di questa rassegna. Per quel che attiene i due geni che codificano rispettivamente la sub-unità formante il poro (KCNJ11) e la sub-unità regolatoria (ABCC8) del canale del potassio ATP-sensibile è noto da tempo che mutazioni bialleliche inattivanti danno luogo ad iperinsulinismo/ipoglicemia (nell’acronimo in lingua inglese HH, o anche Congenital HyperInsulinism, CHI). Circa dieci anni fa è stato scoperto che mutazioni attivanti, eterozigoti di KCNJ11 o ABCC8 sono la causa più frequente di diabete neonatale, sia permanente che transitorio (PNDM e TNDM), che insorge nei primi sei mesi di vita. Da studi successivi è risultato evidente come alcune mutazioni ABCC8 o KCNJ11 fossero identificabili in pazienti nella fascia di età MODY, vale a dire bambini, adolescenti o giovani adulti. Tali riscontri sono stati effettuati sia in casi sporadici con anticorpi DM1 negativi o in casi famigliari in cui vi poteva essere o meno una variabilità di manifestazione clinica in portatori della medesima mutazione (vale a dire ad esempio caso indice con diabete neonatale transitorio e genitore portatore della mutazione con esordio del diabete nell’adolescenza; Fig. 4) (49-53).
Questa scoperta è stata particolarmente rilevante perché la maggior parte (>95%) dei pazienti portatori di mutazioni eterozigoti attivanti di KCNJ11 o ABCC8 possono essere trasferiti con successo dalla terapia insulinica alla terapia con solfaniluree in analogia con quanto viene effettuato con i portatori di mutazioni in questi geni che conducano a diabete neonatale (54-55) (Fig. 4). Pochi anni orsono si è altresì scoperto che mutazioni del gene dell’insulina che comportassero un alterato ripiegamento della molecola (mutazioni proteotossiche) portavano ad apoptosi delle beta-cellula pancreatica e a diabete neonatale (56). Nel lavoro originale erano descritti due casi famigliari in cui i genitori portatori della mutazione (incidentalmente la stessa) avevano esordito non nel periodo neonatale, ma da bambini (1 e 4 anni). Successivamente sempre il nostro gruppo aveva descritto una mutazione spontanea del gene INS in un paziente negativo a 5 autoanticorpi DM1 ed esordio a quasi 3 anni di età (57) e collaboratori danesi una famiglia con mutazione nel peptide segnale con un albero famigliare tipicamente MODY (58). Sfortunatamente i portatori di mutazioni ad effetto proteotossico del gene INS non hanno – al momento – alternative alla terapia insulinica. Vi sono poi mutazioni eterozigoti del gene INS che portano ad iperinsulinemia o iper(pro)insulinemia famigliare (59), ma visto che raramente a questa tipologia di mutazioni si associa diabete, né l’iperinsulinemia né l’iperproinsulinemia famigliare rientrano nella categoria “MODY”.
È bene sapere che alcune varianti di geni MODY (ad es. KCNJ11, ABCC8, GCK e PDX1) sono associate al DM2. Queste varianti tuttavia non sono da sole sufficienti a causare iperglicemia, ma possono solo “concorrere” a determinarla, esse vengono riscontrate infatti anche in soggetti normoglicemici.
GENI MODY RARI
Le mutazioni nei geni PDX1 (“MODY4”), NEUROD1 (“MODY6”), KLF11 (“MODY7”), CEL (“MODY8”), PAX4 (“MODY9”) e BLK (“MODY11”) sono rarissime e ricoprono un interesse prevalentemente scientifico, ma per la scarsa rilevanza sul piano clinico-pratico non verranno trattate in questa rassegna. È probabile tuttavia che con la diffusione delle metodiche di next generation sequencing (NGS) a fini diagnostici, tali rare forme vengano più spesso identificate. In un recente articolo su 11 mutazioni MODY identificate in una casistica indiana costituita da 56 pazienti classificati clinicamente come MODY, 2 erano varianti nel gene NEUROD1, 1 nel gene PDX1 ed 1 nel gene PAX4 (60). È bene tuttavia sottolineare che nel caso di mutazioni di nuova descrizione la conferma della patogenicità con studi in vitro dovrebbe essere la regola.
CONCLUSIONI
Basandosi sui criteri standard, la diagnosi clinica di MODY non è particolarmente difficoltosa: 2 o meglio 3 generazioni in verticale con diabete, caso indice negativo agli autoanticorpi DM1 e con diagnosi di diabete prima dei 25 anni sono un buon viatico per inviare la famiglia ad un laboratorio per la genetica molecolare del diabete, mentre per i casi dubbi sarebbe logico chiedere un parere esperto. Criteri “best practice” sono stati formulati per le tre forme MODY più comuni, vale a dire GCK, HNF1A e HNF4A (61); tali criteri coincidono con quelli descritti in questa rassegna, che cerca di suggerire anche i criteri per lo HNF1B ed invita a pensare anche ai geni KCNJ11, ABCC8 e INS come concreta possibilità, soprattutto per casi sporadici con diagnosi precoce e negatività agli autoanticopri DM1.
Quali altri strumenti possono venirci in aiuto per individuare un paziente MODY? Allo stato attuale neppure metodiche avanzate hanno identificato nuovi marcatori metabolici del MODY (8) e –reciprocamente – piattaforme “-omics” di varia natura non hanno prodotto sino ad ora marcatori validi – oltre agli autoanticorpi e all’HLA – che aiutino ad identificare i soggetti con DM1 o a rischio di svilupparlo (62).
Pertanto i criteri clinici ben collaudati rimangono la miglior risorsa per fare diagnosi di MODY ed individuare i candidati allo screening genetico.
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Ringraziamenti
Si ringraziano tutti i componenti del Gruppo di Studio sul diabete della Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica, di cui mi onoro di far parte, preziosi collaboratori da oltre vent’anni. Un ringraziamento particolare al Prof. Giuseppe Chiumello che mi ha introdotto al Gruppo, al Dr. Dario Iafusco, che ha condiviso con me molte “avventure” di ricerca e ai giovani emergenti, che ancora mi chiedono consigli.
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