Il “Genome Editing”: promesse e speranze per una terapia genica personalizzata

a cura di Francesco Purrello

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Catania 

Sabrina Prudente

IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza,

Unità di Ricerca sulle Malattie Metaboliche e Cardiovascolari,

Istituto CSS-Mendel, Roma

[protected]

>Scarica l’articolo in formsto PDF

Malattie “genetiche” sono definite tutte quelle patologie la cui eziopatogenesi è riconducibile a modificazioni nella sequenza del DNA genomico che sono responsabili di alterata, o assente, funzione genica.

Fin dalla scoperta della struttura del DNA, negli anni Cinquanta, risultò chiaro che la capacità di manipolare il codice genetico avrebbe rappresentato un elemento di straordinario impatto nella ricerca scientifica ma soprattutto nella medicina, risultando di fondamentale importanza non solo a livello conoscitivo per la scoperta e la comprensione delle funzioni dei singoli geni e dell’impatto delle loro mutazioni sulle patologie umane, ma soprattutto a livello terapeutico, per la possibilità di poter intervenire nella correzione dei diversi difetti genetici. Questa intuizione è diventata realtà partire dagli anni Settanta quando gli scienziati hanno imparato a “manipolare” il DNA mediante gli enzimi di restrizione, segnando così la nascita dell’ingegneria genetica, che ha consentito di poter intervenire sul codice genetico (prima di batteri e virus fino ad arrivare poi a quello umano) e in qualche modo modificarlo. Ovviamente, le difficoltà iniziali sono state notevoli e le modifiche genetiche ottenibili erano spesso grossolane, con effetti molto poco controllabili e a volte imprevisti, e risultati spesso di difficile riproducibilità.

La terapia genica inizialmente utilizzata era una terapia di tipo esclusivamente “suppletivo”, consentiva cioè di correggere un difetto genetico mediante la fornitura dall’esterno, ad un individuo affetto da una malattia genetica ed in cui il difetto genico era conosciuto, di extra-copie geniche corrette e funzionanti (DNA terapeutico), che una volta veicolate all’interno delle cellule di interesse erano in grado di supplire al malfunzionamento del prodotto genico difettoso o alla sua completa assenza. Questo prevedeva la preparazione del “DNA terapeutico” mediante tecniche di ingegneria genetica, utilizzando quali vettori virus precedentemente modificati in laboratorio e il cui genoma era opportunamente manipolato in vitro per eliminare i geni virali codificanti proteine dannose per l’ospite, inserendo al loro posto la sequenza nucleotidica del gene terapeutico, codificante per una proteina correttamente funzionante. I vettori, così ingegnerizzati, erano poi trasdotti nelle cellule bersaglio (precedentemente prelevate dal paziente e coltivate in laboratorio), dove risultano in grado di integrarsi stabilmente nel genoma ospite, consentendo così l’espressione dei geni terapeutici una volta che le cellule recipienti erano trapiantate nuovamente nel paziente (approccio ex vivo, Fig. 1a) (1).

28_4_Medicina_4_Fig.1

Laddove invece le cellule in cui correggere il difetto non erano facilmente accessibili per un espianto e successiva reintroduzione dopo correzione con DNA terapeutico, quest’ultimo poteva venire somministrato direttamente al paziente in vivo con diverse modalità (Fig. 1b) (2).

Negli ultimi trent’anni, gli approcci fin qui descritti sono stati variamente utilizzati per tentare di correggere diverse malattie genetiche e circa 2000 studi clinici di terapia genica sono stati avviati in tutto il mondo. Solamente un piccolissimo numero è però riuscito a raggiungere la fase III e al momento l’unico prodotto di terapia genica approvato nel mondo occidentale è quello impiegato per la cura del deficit familiare di lipasi lipoproteica (la LPLD) (3). Gli scarsi risultati ottenuti erano sostanzialmente da imputarsi al fatto che l’utilizzo dei vettori virali presentava diverse e importanti problematiche soprattutto relative ai rischi per il paziente. Infatti, non solo l’inserimento di DNA estraneo nelle cellule è in grado di indurre importanti reazioni a livello del sistema immunitario dell’ospite, ma poiché i vettori virali si inseriscono nel genoma umano in modo parzialmente casuale, quando ciò avviene, questo può avere importanti conseguenze sulla regolazione e l’espressione genica come per esempio l’inattivazione di geni essenziali per la vita della cellula, oppure l’attivazione di proto-oncogeni o l’inattivazione di geni onco-soppressori e determinare in questo modo l’insorgenza di neoplasie nel paziente. Sebbene questo fenomeno sia stato sempre più contenuto grazie all’utilizzo di vettori caratterizzati via via nel tempo da un profilo di integrazione potenzialmente più sicuro, o addirittura dall’utilizzo di vettori non integranti, le problematiche sopra elencate hanno fatto si che nonostante un elevatissimo potenziale di applicazione nei confronti di numerose malattie, l’impiego della terapia genica nella pratica clinica è risultato utilizzabile solo in pochissime situazioni (4).

La possibilità di superare le limitazioni dovute alle tecniche di manipolazione del DNA, che fino a quel momento consentivano si di introdurre un DNA terapeutico ma non di correggere la sequenza di DNA difettosa direttamente nella cellula, ma anche di eliminare gli effetti indesiderati prodotti dalla terapia genica suppletiva, ha spinto i ricercatori a cercare soluzioni per raggiungere l’ambizioso traguardo di poter correggere i difetti genetici “editando” il codice genetico direttamente in situ all’interno delle cellule di interesse. Una scoperta rivoluzionaria che ha cambiato la storia della biologia e della medicina e che si è rivelata fondamentale in questo senso, è stata quella da parte di Mario Capecchi e colleghi (che gli è poi valsa il premio Nobel per la medicina nel 2007) che una sequenza di DNA esogeno di interesse (ad esempio quella di un gene coinvolto nel determinare una malattia), poteva essere introdotta all’interno di una cellula per poi utilizzarla, sfruttando il meccanismo di ricombinazione omologa, per modificare o sostituire una sequenza omologa naturalmente presente nel DNA di una cellula (5). L’utilizzo di questa strategia ha rappresentato la pietra miliare nell’avvento del “gene targeting”, ed è stata utilizzata con enorme successo per targettare sia specifici geni, sia altre sequenze genomiche di interesse, come promotori genici o regioni regolatorie, nelle celule staminali embrionali dei topi che sono le cellule in cui il meccanismo di ricombinazione omologa avviene con maggior frequenza rispetto a cellule somatiche in cui questo meccanismo è utilizzato molto raramente. Mediante questa tecnica è stato quindi possibile ottenere sia topi knock-out (cioè topi in cui uno specifico gene veniva inattivato o eliminato), fondamentali per la comprensione della funzione di geni non ancora nota e topi knock-in (in cui veniva invece o introdotta una mutazione specifica in un gene di interesse o un gene difettoso veniva completamente sostituito con uno corretto), fondamentali anch’essi per studi di caratterizzazione funzionale di geni di interesse, ma soprattutto per lo studio di patogenicità relativamente a mutazioni responsabili di malattie genetiche (6).

Nonostante l’importante successo ottenuto con i topi, questa strategia di targeting presentava notevoli problemi riguardo all’efficienza della ricombinazione. Infatti sebbene questa avvenisse naturalmente nelle cellule, il suo tasso era davvero estremamente basso e limitato ad una piccola percentuale di cellule e questa evidenza ha rappresentato fin da subito un importante scoglio nell’utilizzo di questa tecnica nell’applicazione terapeutica.

La soluzione a questo problema è stata ottenuta grazie alle osservazioni e agli studi pioneristici condotti nell’ambito della ricerca di base sui meccanismi cellulari di riparazione del DNA a partire dagli anni Ottanta. Si era infatti osservato che le cellule sono in grado di riparare danni al DNA (rotture della catena nucleotidica a singolo o a doppio filamento) utilizzando fondamentalmente due meccanismi rappresentati da: i) la giunzione delle estremità non omologhe (non homologous end joining) (7) e ii) la ricombinazione omologa (8). Il primo meccanismo, che rappresenta il sistema di elezione di riparazione da parte delle cellule eucariotiche è attivo durante tutto il ciclo cellulare e fa sì che una lesione prodottasi in un determinato punto del genoma venga riparata dall’aggiunta casuale di nucleotidi che vengono utilizzati per saldare la rottura precedentemente prodottasi. Questo meccanismo, però, se da un lato è in grado di riparare il danno fisico, laddove i nucleotidi (rimossi o aggiunti in maniera casuale per consentire la ricongiunzione delle estremità libere di DNA) vengono inseriti nella sequenza codificante di un gene, possono causarne l’alterazione della cornice di lettura dando luogo ad un prodotto proteico anomalo, o addirittura assente nel caso in cui la sostituzione nucleotidica a seguito della riparazione abbia introdotto un codone di stop.

La ricombinazione omologa invece, che è attiva principalmente durante la fase S e G2 del ciclo cellulare, si avvale della sequenza omologa di DNA presente su un cromatidio fratello, il quale viene utilizzato come “stampo” per correggere in modo preciso il DNA danneggiato, rimpiazzandone esattamente i nucleotidi persi nella rottura. Questo meccanismo di riparazione, sebbene estremamente preciso è però impiegato dalle cellule molto più raramente di quello che utilizza la giunzione delle estremità non omologhe.

L’osservazione che rotture a doppio filamento del DNA fossero in grado di stimolare localmente la ricombinazione omologa ha suggerito agli scienziati che potevano utilizzare in maniera strumentale questo processo in modo tale che provocando rotture in punti precisi del DNA la cellula inducesse l’attivazione del suo apparato di riparazione ad agire su quello specifico danno, introducendo così una modificazione sito-specifica desiderata (9) (Fig. 2). In questo caso, si sarebbero potute ottenere “cellule” knock-out o knock-in (in base alla modificazione indotta) per specifici geni di interesse. Questa intuizione ha segnato la nascita del “genome editing”. La svolta cruciale nel concreto utilizzo di genome editing si è avuta grazie alla possibilità di realizzazione in laboratorio delle cosiddette “nuclesi artificiali”, proteine chimeriche ingegnerizzate ottenute dalla fusione di due porzioni proteiche distinte, una in grado di riconoscere e legarsi ad una precisa sequenza nucleotidica sul DNA di interesse e l’altra capace di tagliare il DNA a doppio filamento, inducendo così la cellula stessa a mettere in moto i suoi normali meccanismi riparativi, consentendo in questo modo il preciso editing desiderato (10).

Le nucleasi artificiali, che a partire dagli anni Novanta hanno letteralmente trasformato la possibilità dell’editing da sogno a realtà, sono ad oggi rappresentate da tre classi diverse di proteine chimeriche i) le “Zinc Finger” (ZNFs), le TALENs e le meganucleasi, che differiscono tra loro nella parte deputata al riconoscimento del DNA e caratterizzate da una sequenza di domini proteici in grado di riconoscere sequenza di uno o tre nucleotidi nelle ZNFs e nelle TALENs e fino a un massimo di 40 nelle meganucleasi (11).

La capacità di assemblaggio dei diversi domini di legame al DNA ha permesso ai ricercatori, in modo via via più efficiente e sempre meno costoso, di poter quindi utilizzare in maniera molto versatile le nucleasi artificiali che, consentendo sempre più sempre di scegliere le specifiche sequenze da traghettare, hanno permesso di utilizzare il genome editing su un numero molto elevato di sequenze e di geni. Dopo i primi incoraggianti risultati ottenuti in vitro, le nucleasi artificiali sono state utilizzate anche in vivo, in diversi modelli animali e cellulari nei quali si sono rivelate estremamente efficienti nella riparazione del difetto genetico (12).

Sebbene l’avvento delle nucleasi artificiali abbia rappresentato un vero punto di svolta sia nell’ambito dell’ingegneria genomica che della terapia genica, consentendo di approcciare la correzione mediante editing in diverse malattie, la vera rivoluzione nel campo del genome editing si è avuta con la scoperta del sistema CRISPR-Cas9 nei batteri. L’acronimo sta per “Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats”, cioè sequenze geniche regolarmente ripetute alle quali sono associati i geni Cas (Crispr associated), i quali codificano nucleasi in grado di tagliare il DNA. Questo sistema, che rappresenta il sistema di difesa dei batteri nei confronti dei virus, scoperto nel 1987 (13), è molto semplice e consta di pochissimi elementi: fondamentalmente la proteina Cas9, una nucleasi capace di tagliare il DNA, ed un RNA “guida” capace di riconoscere ed appaiarsi al DNA che nel batterio dirige l’enzima Cas9 sulla specifica sequenza virale che viene così riconosciuta e tagliata. Il risultato finale è la rottura del genoma virale e la sua completa inattivazione (14). A differenza delle nucleasi artificiali, nel sistema CRISPR-Cas9 la specificità dell’appaiamento al DNA non è mediata da una componente proteica bensì da un RNA guida di circa 20 nucleotidi (sgRNA). Questo elemento si è rivelato determinante per l’incredibile successo biotecnologico scaturito dall’utilizzo di CRISPR/Cas9. Si deve alle ricercatrici Jennifer Doudna ed Emanuelle Charpentier la rivoluzionaria intuizione che ingegnerizzando il sistema CRISPR-Cas9 e sostituendo l’RNA guida batterico con una sequenza specifica di interesse, il sistema potesse essere così utilizzato per editare efficientemente un qualsiasi genoma (15).

Nel 2013 vi fu la prima evidenza sperimentale che il CRISPR-Cas9 fosse efficiente nell’editing di cellule umane (16) e successivamente, grazie alla estrema facilità di sintesi e di utilizzo, l’applicazione di questo sistema è letteralmente esplosa negli ultimi tre anni in tutti i campi della scienza e della biotecnologia (17). L’aspetto più importante e rivoluzionario del sistema CRISPR-Cas9 sta nel fatto che la componente enzimatica del sistema (la Cas9), a differenza delle nucleasi artificiali, non necessita di essere reingegnerizzata ogni qual volta si cambi il target genomico, e l’RNA guida che serve alla Cas9 per riconoscere la sequenza bersaglio da tagliare viene fornito insieme a quest’ultima in uno stesso vettore nel quale si può eventualmente inserire anche una sequenza omologa da rimpiazzare con una difettosa. La semplicità di disegno e di utilizzo ed il costo, davvero irrisorio se paragonato a quello richiesto per la sintesi di nucleasi artificiali, hanno fatto sì che il CRISPR-Cas9 diventasse un sistema alla portata di qualunque laboratorio. Il sistema negli ultimi anni è stato molto perfezionato e attualmente consente addirittura di editare nello stesso momento più sequenze diverse in uno stesso genoma (18). Come era facile intuire, il sistema CRISPR-Cas9, ribattezzato “forbice molecolare” per la sua incredibile precisione di taglio e di editing, ha veramente aperto nuove frontiere e scenari davvero impensabili fino a qualche fa non solo sul versante della bioingegneria ma soprattutto su quello della medicina, ridando nuova linfa alla ricerca sul versante della terapia genica, tanto da essere nominato “breakthrough of the year” nel 2015 (19-20).

Il sistema è stato via via sempre più raffinato cercando di attenuare, se non eliminare completamente, alcuni limiti intrinseci dovuti per esempio alla possibilità di tagli al DNA in punti non previsti e assolutamente non desiderati del genoma oltre alla sequenza bersaglio prescelta (eventi “off target”) (21). Già a partire dal 2013 gli scienziati hanno iniziato ad utilizzare il sistema CRISPR-Cas9 per modificare una vastissima gamma di piante ed animali ottenendo così specie resistenti alle malattie e/o ai cambiamenti ambientali e/o climatici, dimostrando l’incredibile potenza di questo sistema nella modificazione di praticamente qualunque tipo di genoma.

Il sistema CRISPR-Cas9, grazie alla sua semplicità di utilizzo, è stato poi immediatamente impiegato sia in vitro che in vivo, principalmente utilizzando modelli animali ma anche nell’uomo, per il tentativo di correzione genica in una serie di malattie monogeniche (tra cui: la cataratta, la distrofia muscolare di Duchenne, il deficit di A1-antitripsian, la β-talassemia, la fibrosi cistica, l’emofilia, l’iperammoniemia, la sordità, la distrofia muscolare dei cingoli, alcune malattie mieloproliferative, l’immunodeficienza combinata grave e la tirosinemia e non ultima la grave obesità) (22). Gli incoraggianti risultati ottenuti da queste sperimentazioni, supportano il fortissimo potenziale terapeutico di questo sistema non solo nelle malattie genetiche ereditarie ma anche in quelle in cui i difetti genetici vengono acquisiti nel corso della vita, come per esempio le malattie infettive o il cancro. Negli ultimi due anni infatti l’utilizzo di CRISP-Cas9, combinato all’utilizzo di cellule staminali, si è rivelato fondamentale nella messa a punto di una possibile terapia genica da utilizzarsi per curare diversi tipi di neoplasia e gravi malattie infettive come l’HIV come dimostrato dagli importanti risultati recentemente pubblicati (23).

Un’altra possibilità che è stata recentissimamente esplorata mediante l’utilizzo del sistema CRISPR-Cas9, suscitando enorme clamore nella comunità scientifica per le importantissime implicazioni bioetiche ad essa correlate, è quella di poter correggere i difetti genetici direttamente nelle cellule germinali umane (ovuli e spermatozoi) o direttamente sugli embrioni.

Un gruppo di ricercatori cinesi ha infatti messo alla prova nel 2015 l’efficienza di CRISPR-Cas9 nel genome editing in embrioni umani al fine di modificare il gene della beta-talassemia, una gravissima malattia genetica del sangue potenzialmente fatale. Lo studio, che ha letteralmente diviso la comunità scientifica, ha dimostrato che l’editing negli embrioni è effettivamente possibile ma ha anche evidenziato che la percentuale di correzione è stata molto modesta con importantissimi effetti “off target” che hanno invece introdotto mutazioni non desiderate in altri punti del genoma (24) .

Recentissimamente il sistema CRISPR-Cas9 è stato impiegato con successo anche per lo studio in vitro delle varianti di suscettibilità identificate dagli studi di associazione genome-wide in diverse patologie complesse come per esempio il diabete di tipo 2, le malattie metaboliche, l’Alzheimer ed il Parkinson, promettendo importanti risultati sul fronte di una migliore comprensione della loro fisiopatologia ma soprattutto per la messa a punto a breve termine di una loro reale e fattibile “terapia personalizzata” (25-28).

Nonostante gli importanti e straordinari progressi fin qui ottenuti e gli impensabili scenari che l’utilizzo di nuove tecnologie ha spalancato, perché la terapia genica diventi una realtà praticabile in clinica bisogna ancora affrontare e risolvere numerosi problemi.

Il primo riguarda la specificità dell’editing, cioè la capacità di effettuare la modifica nel DNA solo laddove è necessario e non in altri punti del genoma con conseguenze anche devastanti per la salute del paziente. Questo è un limite che, sebbene sia stato sempre più attenuato nel corso del tempo, rimane comunque ancora presente non del tutto superato in moltissime applicazioni. Il secondo riguarda il trasporto del DNA terapeutico e dell’apparato deputato a mettere in atto la modifica all’interno delle cellule da correggere. I metodi impiegati per il trasporto e l’inserimento nella cellula in vivo o ex vivo, specialmente quelli basati sull’utilizzo di vettori virali infatti, sebbene negli ultimi anni questi ultimi siano stati resi sempre più sicuri, non sono ancora privi di rischi rispetto al loro potenziale immunogenico o cancerogeno e alla loro espressione costitutiva e difficilmente controllabile a livello temporale. Un terzo fondamentale elemento di criticità riguarda la tipologia e la modalità di trattamento delle cellule da editare e la percentuale di efficienza dell’editing nelle cellule trattate, sia in vivo che ex vivo. Infatti la non completa conoscenza della biologia cellulare, specialmente quella relativa alle cellule staminali, di giovane introduzione nel campo della terapia genica, rappresenta ancora un importante fattore limitante nella possibilità reale di utilizzo di tale metodologia rispetto alla non predicibilità ai pazienti degli effetti indesiderati ma soprattutto degli eventi avversi. Inoltre nell’approccio in vivo l’impossibilità di correggere tutte le cellule difettose ma solo una parte rappresenta ancora una grossa limitazione all’utilizzo di questa strategia terapeutica.

Poiché la realizzazione di una terapia genica prevede l’intervento di un collaudato team muldisciplinare con diverse competenze (e attualmente solo pochissimi gruppi al mondo sono in grado di fornire tale supporto) la possibilità che tale approccio terapeutico possa in un breve futuro diventare utilizzabile da un importante numero di pazienti rappresenta certamente una sfida riguardo lo sforzo organizzativo importante che dovrà essere sostenuto da parte dei sistemi sanitari nazionali. In ultimo, oltre agli aspetti tecnici e culturali vi è da considerare l’aspetto etico, forse il più importante quando di tratta della salute e dal quale non si può assolutamente prescindere. Ciò soprattutto perché le modificazioni del codice genetico possono essere fissate nel genoma di un individuo (specificatamente quelle che riguardano l’embrione) e potenzialmente trasmesse alla progenie, che è l’aspetto etico. Nella possibilità reale e concreta di utilizzo dei sistemi di editing che in questo momento abbiamo nelle mani e che certamente a breve diventerà sempre più utilizzato nella cura di moltissime malattie, soprattutto di quelle non rare e di considerevole impatto sociale, non ci si potrà evidentemente esimere da un’attenta e consapevole valutazione nel bilanciamento tra possibili vantaggi e potenziali rischi (anche e soprattutto a lungo termine) per la specie umana.

BIBLIOGRAFIA

1. Naldini L. Ex vivo gene transfer and correction for cell-based therapies. Nat Rev Genet 12: 301-315, 2011.

2. Bramson JL, Graham FL, Gauldie J. The use of adenoviral vectors for gene therapy and gene transfer in vivo. Curr Opin Biotechnol 5: 590-595, 1995.

3. Ylä-Herttuala S. Endgame: glybera finally recommended for approval as the first gene therapy drug in the European union. Mol Ther 20: 1831-1832, 2012.

4. Chira S, Jackson CS, Oprea I, Ozturk F, Pepper MS, Diaconu I, Braicu C, Raduly LZ, Calin GA, Berindan-Neagoe I. Progresses towards safe and efficient gene therapy vectors. Oncotarget 6: 30675-30703, 2015.

5. Thomas KR, Capecchi MR. Introduction of homologous DNA sequences into mammalian cells induces mutations in the cognate gene. Nature 324: 34-38, 1986.

6. Capecchi MR. Gene targeting in mice: functional analysis of the mammalian genome for the twenty-first century. Nat Rev Genet 6: 507-512, 2005.

7. Barnes DE. Non-homologous end joining as a mechanism of DNA repair. Curr Biol 11: R455-R457, 2001.

8. van den Bosch M, Lohman PHM, Pastink A. DNA double-strand break repair by homologous recombination. Biol Chem 383: 873-892, 2002.

9. Jasin M, Moynahan ME, Richardson C. Targeted transgenesis. Proc Natl Acad Sci U S A 93: 8804-8808, 1996.

10. Bibikova M, Carroll D, Segal DJ, Trautman JK, Smith J, Kim YG, Chandrasegaran S. Stimulation of homologous recombination through targeted cleavage by chimeric nucleases. Mol Cell Biol 21: 289-297, 2001.

11. Perez-Pinera P, Ousterout DG, Gersbach CA. Advances in targeted genome editing. Curr Opin Chem Biol 16: 268-277, 2012.

12. Urnov FD, Rebar EJ, Holmes MC, Zhang HS, Gregory PD. Genome editing with engineered zinc finger nucleases. Nat Rev Genet 11: 636-646, 2010.

13. Ishino Y, Shinagawa H,Makino K, Amemura M, Nakata A. Nucleotide sequence of the iap gene, responsible for alkaline phosphatase isozyme conversion in Escherichia coli, and identification of the gene product. J Bacteriol 169: 5429-5433, 1987.

14. Barrangou R, Fremaux C, Deveau H, Richards M, Boyaval P, Moineau S, Romero DA, Horvath P. CRISPR provides acquired resistance against viruses in prokaryotes. Science 315: 1709-1712, 2007.

15. M. Jinek, K. Chylinski, I. Fonfara, et al.A programmable dual-RNA-guided DNA endonuclease in adaptive bacterial immunity. Science 337: 816-821, 2012.

16. Mali P, Yang L, Esvelt KM, et al. RNA-guided human genome engineering via Cas9. Science 339: 823-826, 2013.

17. Hsu PD, Lander ES, Zhang F. Development and applications of CRISPR-Cas9 for genome engineering. Cell 157: 1262-1278, 2014.

18. Cong L et al. Multiplex genome engineering using CRISPR/Cas systems. Science  339: 819-823, 2013.

19. Savić N, Schwank G. Advances in therapeutic RISPR/Cas9 genome editing. Transl Res 168: 15-21, 2016.

20. Travis J. Making the cut. Science 80: 1456-1457, 2015.

21. Chu VT, Weber T, Wefers B, Wurst W, Sander S, Rajewsky K, Kühn R. Increasing the efficiency of homology-directed repair for CRISPR-Cas9-induced precise gene editing in mammalian cells. Nat Biotechnol 33: 543-548, 2015.

22. Cox D, Platt RJ, Zhang F. Therapeutic genome editing: prospects and challenges. Nat Med 21: 121-131, 2015.

23. Naldini L. Gene therapy returns to centre stage. Nature 526: 351-360, 2015.

24. Liang P, Xu Y, Zhang X, Ding C, Huang R, Zhang Z, Lv J, Xie X, Chen Y, Li Y, Sun Y, Bai Y, Songyang Z, Ma W, Zhou C, Huang J.CRISPR/Cas9-mediated gene editing in human tripronuclear zygotes. Protein Cell 6: 363-372, 2015.

25. Beer NL, Gloyn AL.Genome-edited human stem cell-derived beta cells: a powerful tool for drilling down on type 2 diabetes GWAS biology. F1000Res 2016 Faculty Rev-1711.

26. Teo AK, Gupta MK, Doria A, Kulkarni RN. Dissecting diabetes/metabolic disease mechanisms using pluripotent stem cells and genome editing tools. Mol Metab 4: 593-604, 2015.

27. Mungenast AE, Siegert S, Tsai LH. Modeling Alzheimer’s disease with human induced pluripotent stem (iPS) cells. Mol Cell Neurosci 73: 13-31, 2016.

28. Soldner F, Stelzer Y, Shivalila CS, Abraham BJ, Latourelle JC, Barrasa MI, Goldmann J, Myers RH, Young RA, Jaenisch R. Parkinson-associated risk variant in distal enhancer of α-synuclein modulates target gene expression. Nature 533: 95-99, 2016.

[/protected]