Il diabete mellito nelle pancreatopatie

Saula Vigili de Kreutzenberg1, Stefano Del Prato2

1Dipartimento di Medicina, Università di Padova; 2Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università di Pisa

Introduzione

Il diabete mellito “pancreatico” è una condizione di iperglicemia cronica che si sviluppa in seguito ad una malattia acquisita del pancreas, in cui si manifestano alterazioni funzionali sia del pancreas esocrino che del pancreas endocrino. L’American Diabetes Association definì questa forma di diabete “diabete secondario o di tipo 3 (T3cDM)”, anche se attualmente viene inquadrato tra i tipi specifici di diabete dovuti ad altre cause, ovvero secondario a malattie del pancreas esocrino (Tab. 1) (1). Storicamente, la prima descrizione di un caso di diabete secondario a malattia del pancreas risale al 1700, con la descrizione autoptica di un pancreas “…pieno di calcoli, che apparivano saldamente inseriti nel suo parenchima… di varie dimensioni… la loro superficie rugosa, simile a more di pietra. L’estremità destra del pancreas era molto dura e appariva scirrosa”. Oltre cento anni dopo, nel 1889, Minkowski fu il primo a dimostrare che la pancreasectomia sperimentale induceva diabete, nei cani. Il primo intervento di pancreasectomia totale nell’uomo fu eseguito nel 1942. Un successivo più ampio impiego di questa procedura dimostrò che doveva essere attuata una rimozione di tessuto pancreatico superiore all’80% perché si instaurasse il diabete. All’inizio del secolo scorso fu riconosciuto anche un legame tra diabete ed emocromatosi.

I dati di prevalenza di diabete secondario a malattie pancreatiche sono relativamente scarsi, ma probabilmente il diabete pancreatico è una condizione più frequente di quanto comunemente si creda (2-4). In uno studio condotto in Germania, che ha indagato la prevalenza di diabete secondario a pancreatopatia in una coorte di 1868 pazienti diabetici, questa, documentata mediante la presenza di insufficienza del pancreas esocrino e imaging patologico, risultava pari al 9,2% (5). In un’altra coorte di 1922 pazienti con autoanticorpi negativi ed insufficienza pancreatica esocrina ed endocrina, associate a tipiche alterazioni morfologiche pancreatiche, solamente l’8% veniva diagnosticato come diabete pancreatico, mentre l’80% era definito come diabete tipo 2 e il 12% come diabete tipo 1. Di fatto, in questa coorte, il 76% dei soggetti presentava pancreatite cronica, l’8% emocromatosi, il 9% cancro del pancreas, il 4% fibrosi cistica ed il 3% era stato già sottoposto a pancreasectomia (3). In una revisione recente, la prevalenza di diabete pancreatico nella popolazione diabetica occidentale è risultata del 5-10%, nel 75% dei casi associato a pancreatite cronica (6). Non è dunque scontata la diagnosi di diabete pancreatico; se questa forma di diabete non viene sospettata e la diagnosi non viene correttamente posta, vi è il rischio di un’inadeguata terapia medica e di una scorretta gestione del paziente, in cui spesso concomitano altre problematiche nutrizionali e gastroenterologiche (3-4). Inoltre, la maggior diffusione dell’intervento di pancreasectomia e la prolungata sopravvivenza dei pazienti affetti da fibrosi cistica, ma soprattutto l’aumentata prevalenza di pancreatiti croniche suggeriscono che il diabete pancreatico richiederà una sempre maggiore attenzione da parte dei diabetologi e dei gastroenterologi.

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Cause di diabete pancreatico 

Pancreatiti

Pancreatite acuta

La pancreatite acuta è un processo infiammatorio acuto del pancreas, la cui diagnosi viene soddisfatta dalla presenza di almeno 2 dei seguenti criteri: 1. importante dolore addominale epigastrico, spesso irradiato al dorso; 2. incremento dei valori di lipasi o amilasi di almeno 3 volte rispetto al limite superiore di norma; e 3. diagnostica per immagini suggestiva di pancreatite acuta. L’incidenza annuale di pancreatite acuta è compresa tra 13 e 45 / 100.000 persone. I calcoli biliari e l’abuso alcoolico rappresentano le 2 principali cause di malattia e sono responsabili di >90% dei casi, anche se l’esatta patogenesi della pancreatite acuta non è del tutto chiarita. Si ritiene che la risposta infiammatoria sistemica possa rappresentare un importante mediatore della patologia (7); nel 20% dei casi la risposta infiammatoria sistemica porta a necrosi pancreatica fulminante e ad insufficienza multiorgano, con una mortalità del 7-15%. Altre cause, meno frequenti, di pancreatite acuta sono: reazioni a farmaci, ipertrigliceridemia, ipercalcemia secondaria a iperparatiroidismo, infezioni, traumi, malattie vascolari, quali vasculiti emboliche ecc. (7). Una forte componente genetica e fattori ambientali possono anch’essi contribuire alla ricorrenza di pancreatiti acute e a pancreatite cronica. Da un punto di vista istologico si riconoscono 2 tipi di pancreatite acuta: la pancreatite acuta interstiziale edematosa e la pancreatite acuta necrotizzante. L’iperglicemia dipende dall’entità della diffusione del danno pancreatico; un’iperglicemia marcata, che si osserva nel 50% dei pazienti, si associa alle forme più gravi di pancreatite e rappresenta un segno prognostico sfavorevole. In circa il 50% dei pazienti con pancreatite acuta si osservano invece iperglicemia transitoria e glicosuria (5). 

Pancreatite cronica

La pancreatite cronica è un processo infiammatorio caratterizzato da progressiva e irreversibile distruzione del tessuto pancreatico, che interessa inizialmente la porzione esocrina e con il progredire della malattia anche la porzione endocrina. L’evoluzione si accompagna a progressivo rimpiazzo del tessuto pancreatico con tessuto fibrotico (8). Sono state descritte 2 forme di pancreatite cronica: una che interessa i dotti principali, spesso calcolotica ed una che interssa i piccoli dotti. L’incidenza annuale di pancretite cronica varia da 5 a 12/100.000 persone, con una prevalenza di circa 50/100.000 persone. In base alle principali eziologie, è stata proposta una classificazione della pancreatite cronica con l’acronimo TIGAR-O (Tab. 2) (9). L’abuso di alcool è responsabile di oltre l’80% delle pancreatiti croniche nel mondo occidentale e circa il 25% delle pancreatiti acute progredisce verso la cronicizzazione (8).

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Il diabete si sviluppa in circa il 50% dei soggetti con pancreatite cronica. La sua incidenza aumenta con il progredire della malattia; all’esordio della sintomatologia lo 0-22% dei pazienti presenta diabete secondario, ma a distanza di 25 anni dall’esordio di malattia >80% dei pazienti è affetto da diabete secondario. La frequenza di pancreatite cronica è maggiore nelle popolazioni ad elevato consumo di alcool e nei Paesi tropicali, dove la prevalenza di diabete secondario a pancreatite fibrocalcolosa può raggiungere il 90% (2), interessando il 15-20% dell’intera popolazione diabetica. Nella pancreatite fibrocalcolosa dei Tropici il diabete è una complicanza cronica tardiva e si sviluppa circa un decennio dopo l’esordio della pancreatite, in forma solitamente grave che richiede terapia insulinica. L’eziologia comprende uno stato di malnutrizione ipoproteica, tossine alimentari esogene, anomalie del dotto pancreatico e probabilmente predisposizione genetica. La maggior parte dei pazienti mostra un’estesa calcolosi intraduttale al momento della diagnosi. Indipendentemente dalla causa, si può calcolare che, nell’emisfero occidentale, il 60-70% dei pazienti con pancreatite calcifica sviluppa diabete mellito secondario; il 20% presenta ridotta tolleranza al glucosio e un ulteriore 5-8% mostra alterazioni della secrezione insulinica. Tra i pazienti senza calcificazioni pancreatiche, il 30% risulta affetto da diabete mellito, il 25% mostra ridotta tolleranza ai carboidrati e il 25% presenta difetti della secrezione insulinica (5). Va anche ricordato che la pancreatite è una patologia più frequente tra i pazienti diabetici rispetto alla popolazione generale. Tra il 26 e il 74% dei pazienti diabetici tipo 1 e tra il 28 e il 36% dei pazienti diabetici tipo 2 è evidente qualche grado di insufficienza pancreatica.

I pazienti affetti da pancreatite cronica dovrebbero essere monitorati per lo sviluppo di diabete, in particolare quelli ad alto rischio, ovvero con lunga durata di malattia, con intervento di pancresectomia parziale o con esordio precoce di calcolosi del panceras. La valutazione iniziale dovrebbe includere il dosaggio della glicemia a digiuno e dell’emoglobina glicata, determinazioni che dovrebbero essere ripetute annualmente; in presenza di alterazioni di uno e entrambi i parametri, vi è indicazione alla curva da carico orale di glucosio (10). 

Neoplasie pancreatiche

Il cancro del pancreas ha un’elevata incidenza e una prognosi spesso infausta in tutto il mondo. Una condizione di iperglicemia è presente nel 40-50% dei pazienti al momento della diagnosi di cancro del pancreas, mentre una ridotta tolleranza al glucosio si osserva in circa l’80% dei pazienti. La frequenza di diabete nel cancro del pancreas è riportata dal 4 al 64%. 

Il tumore pancreatico più frequente è l’adenocarcinoma, che si associa a scarsa sopravvivenza e nel 75% dei casi, al momento della diagnosi, ha la sola indicazione al trattamento palliativo. La localizzazione del cancro influenza il rischio di diabete: è più elevato nei pazienti con carcinoma della testa, piuttosto che del corpo o della coda. Nel 25-50% dei casi la diagnosi di diabete precede la diagnosi di cancro. Il carcinoma del pancreas ha una maggiore prevalenza nella popolazione diabetica, ma a sua volta il tumore stesso è causa di diabete nei pazienti affetti (11-12). Il rischio di sviluppare diabete è circa 14 volte maggiore nei soggetti con cancro del pancreas, rispetto ai controlli. I meccanismi patogenetici comprendono un’alterata morfologia delle insule, l’occlusione dei dotti pancreatici con conseguente degenerazione cellulare, le pancreatiti tumore-associate e il processo fibrosclerotico. Peraltro, anche adenocarcinomi che interessano solo una piccola porzione di pancreas si possono associare a diabete, suggerendo meccanismi differenti dalla sola riduzione della massa beta-cellulare. Oltre il 60% dei pazienti con alterata tolleranza al glucosio o diabete secondario mostra un miglioramento del metabolismo glucidico dopo chirurgia. 

Nei pazienti affetti da cancro pancreatico, il controllo glicemico può essere difficile anche in corso di trattamento insulinico e lo scarso controllo glicemico si associa ad una prognosi peggiore.

Pancreasectomia

La pancreasectomia parziale, nell’uomo deve interessare >50% del tessuto pancreatico per indurre alterazioni del metabolismo glucidico, in quanto solitamente è sufficiente un 20-25% di tessuto pancreatico residuo per mantenere un’omeostasi glucidica normale. Tuttavia, l’insorgenza di diabete in fase post-operatoria non è correlata solamente all’entità dell’ablazione pancreatica. Per esempio, una precedente storia di pancreatite cronica si associa a maggior incidenza di diabete mellito dopo pancreasectomia subtotale. La pancreasectomia totale si accompagna inevitabilmente a diabete. Le principali cause di pancreasectomia sono i tumori, benigni o maligni, le pseudocisti, le pancreatiti croniche e molto raramente le pancreatiti acute. La prevalenza di diabete nei soggetti sottoposti a pancresectomia aumenta progressivamente con il progredire del follow-up (2, 13).

Fibrosi cistica

La fibrosi cistica è il difetto genetico responsabile di ridotta sopravvivenza più frequente nella popolazione caucasica. La fibrosi cistica è una malattia a trasmissione autosomica recessiva, causata da mutazioni (ne sono state descritte oltre 1900) del gene che codifica per CFTR (cystic fibrosis transmembrane conductance regulator), una proteina che funziona come canale per il cloro e controlla la composizione di acqua ed elettroliti delle secrezioni prodotte dalle ghiandole sudoripare, del polmone, del fegato, dei dotti epatobiliari, dei dotti pancreatici e del tratto gastroenterico. Un difetto dell’azione di CFTR determina l’accumulo di secrezioni dense, che progressivamente determinano ostruzione, distruzione e cicatrizzazione dell’organo interessato. Un’alterata tolleranza al glucosio si riscontra nell’8-75% dei pazienti affetti da fibrosi cistica, mentre il diabete (CFRD, cystic fibrosis related diabetes) si riscontra nel 4-10% dei pazienti (5), con una prevalenza >40% nei pazienti di età >30 anni. È possibile tuttavia che vi sia una sottostima dei dati, in quanto non viene applicato uno screening sistematico. Il CFRD può manifestarsi a qualsiasi età e non è stata dimostrata una correlazione tra la durata di malattia e la gravità dell’intolleranza glucidica. Il diabete è la più comune comorbidità della fibrosi cistica, manifestandosi nel 20% circa degli adolescenti e nel 40-50% dei pazienti adulti (14), in conseguenza dell’aumentata sopravvivenza dei pazienti. L’età media di diiagnosi del CFRD è 18-21 anni, con una leggere predilezione per il sesso femminile. Nella minoranza dei pazienti che mantiene conservata la funzione pancreatica esocrina, il rischio di sviluppare CFRD è ridotto. In questa forma di diabete l’insulino-sensitività periferica ed epatica è stata descritta normale, ridotta o aumentata (15). In presenza di diabete, la progressione della malattia polmonare mostra un andamento peggiore e si osserva maggior mortalità. In corso di esacerbazione di infezione polmonare si può manifestare scompenso iperglicemico acuto, ma la chetoacidosi è rara a causa della funzione beta-cellulare residua e dell’alterata secrezione di glucagone. 

Emocromatosi

L’emocromatosi primitiva è una malattia ereditaria a trasmissione autosomica recessiva che riguarda il metabolismo del ferro. Colpisce circa 1/200-300 individui e interessa prevalentemente una mutazione del gene che codifica per una proteina che regola l’assorbimento del ferro alimentare. I pazienti affetti assorbono cronicamente un eccesso di ferro, che conseguentemente si deposita nelle cellule parenchimali di molti organi, causando eventualmente diabete, una volta definito “diabete bronzino”, cardiomiopatia e cirrosi epatica. Il 75% dei soggetti affetti da emocromatosi sviluppa diabete mellito (5, 16), che solitamente rappresenta una complicanza precoce della malattia e viene spesso diagnosticato circa 1 anno prima dell’emocromatosi. Raramente si associa ad obesità e colpisce il sesso maschile con frequenza 10 volte superiore rispetto al sesso femminile. 

L’emocromatosi secondaria è dovuta ad un eccessivo deposito di ferro che si verifica in una varietà di condizioni, differenti dall’emocromatosi, quali la talassemia maggiore ed altre anomalie emoglobiniche associate a sovraccarico di ferro. La durata di malattia ed il numero di trasfusioni sono altamente correlati al grado di intolleranza glucidica e allo sviluppo del diabete. Nella talassemia maggiore trattata il diabete secondario interessa circa il 5% dei soggetti e quando si sviluppa rappresenta un segno prognostico negativo. Un altro tipo di infiltrazione di ferro nel pancreas si osserva nella popolazione rurale maschile Bantu. La maggior parte dei Bantu ingerisce un eccesso quotidiano di 100 mg di ferro, in seguito all’assunzione di bevande alcooliche conservate in contenitori di ferro. Nei bevitori, la prevalenza di diabete è circa 10 volte superiore rispetto ai Bantu che non consumano alcool. Nell’emocromatosi l’insulinemia basale e la risposta insulinemica a carico orale di glucosio sono spesso alterate ed i livelli di glucagone sono solitamente elevati (17). Nell’emocromatosi sono frequenti l’insulino-resistenza epatica e periferica, la prima probabilmente secondaria anche alla coesistente cirrosi epatica. 

Assetto ormonale e metabolico nel diabete pancreatico

Nella pancreatite, l’incidenza di intolleranza al glucosio è riportata dal 9 al 70%. Questo ampio range è giustificato dalla diversa definizione di “intolleranza glucidica” utilizzata negli studi e dall’estensione del danno tissutale, da cui dipendono sia la gravità che la durata dell’alterato metabolismo glucidico (5, 18). Nella pancreatite acuta l’iperglicemia e la glicosuria solitamente regrediscono entro 3-6 settimane, mentre circa il 10% dei pazienti mantiene un alterato metabolismo glucidico. Non sono noti fattori di rischio per lo sviluppo e la persistenza del diabete dopo una pancreatite acuta, ma in seguito a forma grave, un diabete secondario può manifestarsi nel 60% dei pazienti. L’insulinemia basale e la secrezione insulinica in risposta a stimolo con glucosio o glucagone sono ridotti, ma alla risoluzione del processo acuto frequentemente si osserva una normalizzazione della risposta insulinica (19). I livelli plasmatici di glucagone sono aumentati e tendono a rimanere elevati per almeno una settimana. La combinazione di iperglucagonemia e ipoinsulinemia può raramente indurre lo sviluppo di chetoacidosi e di coma diabetico (19). Nella pancreatite cronica, il tessuto endocrino viene coinvolto nelle fasi più avanzate di malattia. Talvolta il pancreas può assumere un aspetto adenomatoso, dovuto alla completa perdita di tessuto esocrino, in contrasto con la persistenza della sua componente endocrina, che peraltro subisce un riarrangiamento, con una perdita di beta-cellule proporzionalmente maggiore rispetto alle alfa-cellule, invertendo il normale rapporto 2:1. Il numero di cellule delta è solitamente normale, mentre si osserva un certo incremento di cellule PP, secernenti il polipeptide pancreatico. Gli isolotti circondati da normale tessuto acinare tendono a mostrare una normale composizione citologica, suggerendo un effetto trofico da parte del tessuto esocrino. Con la progressione di malattia, il processo fibrotico della pancreatite cronica porta a riduzione della massa beta-cellulare, ad alterazioni della circolazione capillare con conseguente ridotta perfusione delle insule, ridotto rilascio di secretagoghi alla beta-cellula e ridotta secrezione ormonale pancreatica (Tab. 3). Un’alterata secrezione incretinica può contribuire alla disfunzione insulare e all’intolleranza glucidica (4). Altri fattori eziologici precipitanti possono contribuire all’intolleranza ai carboidrati: l’ipertrigliceridemia si associa ad insulino-resistenza, mentre l’acool determina intolleranza al glucosio attraverso un effetto diretto sul fegato. 

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Nei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico pancreatico elettivo per pancreatite cronica, il rischio di diabete mellito non sembra influenzato dall’estensione del tessuto rimosso, ma piuttosto dalla progressione di malattia (18). Nella pancreatite cronica, la secrezione dei fattori incretinici CCK-PZ, gastrina, enteroglucagone, peptide insulinotropico glucosio-dipendente (GIP) e polipeptide intestinale vasoattivo (VIP) è ridotta. Al contrario, alcuni studi hanno dimostrato un esagerato rilascio di peptide glucagone-simile (GLP-1) in risposta all’ingestione di glucosio in pazienti con diabete secondario a pancreatite (20). Un’alterata risposta ai fattori incretinici e agli aminoacidi diventa evidente quando la massa beta-cellulare si riduce del 40-60%. Infine, quando la massa beta-cellulare è ridotta di oltre l’80-90%, si instaurano sia l’iperglicemia a digiuno sia l’alterata secrezione insulinica in risposta a tutti i secretagoghi (21). La secrezione di glucagone in questi pazienti è eterogenea ed è stata descritta sia ridotta che aumentata (22). Con la progressione della malattia pancreatica, la capacità dell’alfa-cellula di rispondere all’ipoglicemia insulino-indotta si attenua. Nel plasma dei soggetti normali sono state identificate almeno 4 varietà di glucagone immunoreattivo (peso molecolare >50.000; 9.000; 3.500; 2.000). Il glucagone a PM 3.500 è di origine pancreatica ed è l’unica forma che risponde allo stimolo con arginina ed è soppressa dalla somatostatina e possiede attività biologica completa. Il deficit della secrezione di glucagone è il principale responsabile delle peculiarità metaboliche e cliniche del diabete secondario a malattia pancreatica (Tabelle 3 e 4) (2). Nei pazienti con pancreatite cronica e secrezine insulinica residua, i liveli plasmatici a digiuno di PP sono normali (22), ma si riducono in presenza di funzione beta-cellulare residua gravemente compromessa. Pertanto, la valutazione della secrezione di PP rappresenta un attendibile indice di funzione endocrina in questi pazienti. La mancata risposta del PP al pasto misto è un indicatore specifico di diabete pancreatico (10). 

Le concentrazioni plasmatiche di somatostatina sono aumentate, sia in condizione basale, sia in seguito a stimolo con glucagone, arginina, pasto misto ed iperglicemia. Nei pazienti sottoposti a resezione pancreatica parziale, la sede dell’exeresi influenza la secrezione endocrina, che non appare particolarmente compromessa nelle pancreasectomia prossimale, specialmente se viene preservato il duodeno (23). Anche le risposte incretiniche vengono inflenzate diversamente: i livelli di GLP-1 aumentano dopo pancreasectomia distale, ma non dopo duodenopancreasectomia, mentre i livelli di GIP si riducono dopo duodenopancreasectomia, ma non dopo pancreasectomia distale (24). La pancreasectomia totale è caratterizzata invece dall’assenza di insulina e C-peptide circolanti e da un’assoluta perdita di glucagone a PM 3.500 (25-26). La persistenza di livelli dosabili di glucagone immunorettivo dipende dalla cross-reattività, anche con anticorpi che sono ritenuti specifici, di molecole glucagone-simili di incerta attività biologica (2, 22, 25). 

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Nella condizione di diabete secondario a pancreasectomia totale o di pancreatite insulino-priva, i livelli ematici di alanina in particolare (27-28), di lattato, piruvato e glicerolo sono più elevati del 50-100% rispetto al diabete tipo 1. Questo quadro metabolico non viene influenzato dalla terapia insulinica o dalla sua sospensione (29), mentre l’infusione esogena di glucagone determina una significativa riduzione dei livelli di lattato, piruvato ed alanina. Il glucagone, infatti, esercita un effetto di stimolo molto importante sulla produzione epatica di glucosio, che è ridotta nei soggetti pancreasectomizzati (30) e sulla gluconeogenesi. In assenza di significativi livelli di glucagone pancreatico, l’insulina esercita un maggior effetto inibitorio sul fegato, determinando una marcata riduzione delle concentrazioni glicemiche in fase post-prandiale. I livelli plasmatici basali di somatostatina dopo pancreasectomia sono normali o lievemente aumentati e la risposta al pasto misto è normale, mentre il PP non è misurabile nel plasma. Tra gli altri ormoni gastroenterici, la gastrina è aumentata, mentre i livelli plasmatici di neurotensina e motilina sono nel range di norma. Sia i livelli di GIP che di enteroglucagone sono normali nei soggetti sottoposti a pancreasectomia; la loro risposta al glucosio è conservata, mentre il pasto misto determina una risposta superiore al normale. L’incremento della sensitività insulinica periferica ed epatica potrebbe contribuire ai frequenti episodi ipoglicemici osservati nei pazienti sottoposti a pancresectomia totale o affetti da pancreatiti gravi (2, 27, 29-30). Quanto si valuta lo stato metabolico complessivo di un paziente con pancreasectomia totale dovrebbero essere considerati anche altri fattori, quali lo stato nutrizionale, il malassorbimento, modifiche delle abitudini alimentari, alterazioni della secrezione degli ormoni gastroenterici, neoplasie locali ricorrenti e metastasi distali, tutti fattori che possono influenzare il metabolismo intermedio. Nei pazienti con pancresectomia totale e marcato deficit di glucagone, la sospensione della terapia insulinica è seguita da un significativo incremento nel plasma di acidi grassi liberi e di corpi chetonici (Tab. 3). Al contrario, la velocità di incremento dei corpi chetonici nei pazienti con diabete secondario a pancreatite cronica o a pancreasectomia parziale con residua secrezione insulinica è inferiore in confronto ai soggetti con pancreasectomia totale o diabete tipo 1 (13). Per quanto riguarda i livelli dei lipidi plasmatici, nei pazienti con diabete seconadrio a pancreatite cronica le concentrazioni di colesterolo, fosfolipidi e trigliceridi sono state descritte sia ridotte sia normali. Le concentrazioni plasmatiche dei lipidi non sembrano peraltro associate alla durata di malattia, all’età del paziente o al tipo di terapia. Risultati contrastanti sono stati riportati nei pazienti con pancreasectomia totale (2). In questi pazienti, il rimpiazzo di glucagone non si associa a significativi effetti sui livelli dei lipidi plasmatici. Sembra che questa variabilità rifletta l’impatto di altri fattori che possono influenzare il metabolismo lipidico, comprese modificazioni dello stato nutrizionale, della dieta, malassorbimento ed introito alcoolico. Alterazioni del profilo aminoacidico, come già detto, sono tipiche del diabete secondario a pancresectomia totale, mentre si hanno meno informazioni in merito alle altre forme di diabete pancreatico. Il deficit di glucagone che si instaura dopo pancreasectomia totale si associa ad aumentati livelli ematici di aminoacidi gluconeogenetici e di aminoacidi del ciclo dell’urea (2). Peraltro, in pazienti con pancreatite cronica o pancreasectomia parziale in buon controllo metabolico le concentrazioni plasmatiche di alanina sono simili a quelle osservate in pazienti diabetici tipo 1 (29). Al contrario, i livelli plasmatici di aminoacidi a catena ramificata non risultano alterati nei pazienti pancreasectomizzati (28). Il ripristino di normali concentrazioni di glucagone in pazienti pancreasectomizzati normalizza il profilo aminoacidico (30). 

Manifestazioni cliniche del diabete pancreatico

I soggetti con diabete pancreatico sviluppano i tipici sintomi dell’iperglicemia, ma presentano anche un maggior rischio di ipoglicemia e minor capacità di recupero (Tab. 4), a causa di un’alterata controregolazione dovuta non solo al deficit di glucagone, ma anche ad un’alterata risposta catecolaminica e a conseguente ridotta produzione epatica di glucosio (2, 30). Gli episodi ipoglicemici sono più frequenti, di maggior durata e gravità; richiedono più spesso il ricovero ospedaliero e sono potenzialmente associati ad un maggior rischio di mortalità, in particolare nei pazienti pancreasectomizzati (31). Lo sviluppo di diabete nei pazienti con pancreatopatia può associarsi a importante calo ponderale, difficile da correggere anche con appropriata terapia insulinica. La persistenza di abuso alcoolico nei pazienti con diabete secondario a pancreatopatia può influenzare il controllo metabolico, in quanto l’alcool inibisce la gluconeogenesi (32), influenza la secrezione ipotalamo-ipofisaria di corticotropina e di ormone della crescita e determina insulino-resistenza, oltre a interferire con lo stato nutrizionale. L’abuso alcoolico dopo pancreatectomia è uno dei fattori di rischio maggiori per ipoglicemia e morte (32). Un’altra variabile che può influenzare il rischio di ipoglicemia è rappresentata dall’introito di nutrienti, che spesso è ridotto, con depositi di glicogeno epatico depleti. 

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Le complicanze iperglicemiche acute, quali la chetoacidosi diabetica e il coma diabetico sono evenienze rare nel diabete pancreatico, anche in assenza di secrezione beta-cellulare residua e sono quasi invariabilmente scatenati da situazioni di stress, come infezioni o interventi chirurgici (31). La deplezione dei depositi di grasso e la ridotta lipolisi epatica possono contrbuire a ridurre il rischio di chetoacidosi. Una simile resistenza alla chetosi è stata osservata nel diabete dei Tropici, in cui la malnutrizione e l’introito estremamente ridotto di grassi insaturi contribuisce alla ridotta sintesi di corpi chetonici. Il diabete pancreatico si associa spesso ad un difficile controllo metabolico, in particolare per l’aumentata frequenza di episodi ipoglicemici ed è stato pertanto definito “diabete instabile” (2); la tabella 5 ne elenca i possibili fattori responsabili (2, 33).

Complicanze croniche nel diabete pancreatico 

Storicamente si è sempre ritenuto che il diabete pancreatico fosse poco suscettibile a manifestare complicanze croniche (2), a causa di assente o meno penetrante predisposizione genetica, di concomitante insufficienza del pancreas esocrino, ridotto introito calorico ecc. Tuttavia, con l’aumento della spettanza di vita, sono stati registrati più casi di complicanze croniche del diabete (31). L’incidenza di retinopatia diabetica nei pazienti con diabete secondario a pancreatite cronica o pancreasectomia (Tab. 3) è del 30-40%, simile a quella osservata nel diabete tipo 1 e correlata alla durata dell’iperglicemia (34). Vi è ancora incertezza per quanto riguarda l’incidenza di nefropatia diabetica nel diabete pancreatico. In una coorte di 86 pazienti con diabete secondario a pancreatopatia, un’escrezione urinaria di albumina >40 mg/24 ore è stata osservata nel 23% dei pazienti (35). Anche l’iperfiltrazione glomerulare è risultata simile a quella osservata nei pazienti diabetici tipo 1 (35). L’incidenza di retinopatia era quasi doppia nei pazienti con microalbuminuria, suggerendo anche nei pazienti con diabete pancreatico l’associazione “oculo-renale”. Nonostante un certo coinvolgimento renale, un’escrezione urinaria di albumina >0,5 g/die o un’insufficienza renale franca sono rari. Casi sporadici di glomerulopatia diabetica sono stati descritti anche in pazienti sottoposti a pancreasectomia totale (36).

La neuropatia viene spesso riferita nel diabete pancreatico e viene riportato un 10-20% di polineuropatia distale o mononeuropatia, mentre segni elettrofisiologici di ridotta velocità di conduzione motoria si riscontrano in >80% dei pazienti con diabete pancreatico (2, 34-35). Sono state descritte anche alterazioni nella funzione dei nervi autonomici. Al contrario di quanto si osserva per retinopatia e neuropatia, non vi è relazione con la durata del diabete. La neuropatia in questa forma di diabete è probabilmente ascrivibile a fattori eziopatogenetici multipli, oltre alla glicemia, quali fumo, alcool e malassorbimento. 

La complicanza macroangioapatica non è frequente nel diabete pancreatico, sebbene sia occasionalmente riportata (Tab. 4). La relativa breve durata del diabete e la sottostante pancreatopatia rendono difficile la stima della prevalenza della macroangiopatia in questi pazienti. In uno studio recente, complicanze macrovascolari, tra cui amputazioni o interventi di bypass vascolare venivano descritte nel 25% dei pazienti con diabete secondario a pancreatite cronica. Un follow-up a lungo termine riportava un 16% di morti cardiovascolari nei pazienti con pancreatite cronica, una percentuale decisamente inferiore rispetto al diabete classico.

Il CFRD può essere complicato da retinopatia (5-16%), nefropatia (3-16%) e neuropatia (5-21%), mentre non vi è evidenza di aumentate complicanze cardiovascolari in questi pazienti.

Le complicanze croniche nel diabete secondario ad emocromatosi mostrano una prevalenza simile a quella del diabete classico. 

La terapia del diabete pancreatico

In corso di pancreatite acuta l’iperglicemia può rappresentare il maggior ostacolo per l’attivazione di un corretto apporto nutrizionale, anche nei pazienti non affetti da diabete mellito. Pertanto, un adeguato apporto insulinico si rende necessario durante nutrizione artificiale, con somministrazione parenterale d’insulina pronta o sottocutanea di analoghi a lunga durata. È comunque raccomandabile una gestione multidisciplinare dei pazienti con pancreatite acuta grave in unità di cure intensive. Nei pazienti con pancreatopatia cronica, la correzione dello stato nutrizionale e l’astensione dall’alcool sono 2 obiettivi primari nella gestione terapeutica (32). In questi pazienti sono spesso raccomandate diete ipercaloriche (>2.500 kcal/die), ricche in carboidrati complessi e a basso contenuto di grassi, in quanto questi nutrienti possono aumentare la frequenza e l’intensità della sintomatologia algica addominale nella pancreatite. Pertanto, l’assunzione di grassi non dovrebbe eccedere il 20-25% dell’introito calorico complessivo. L’assunzione dei pasti, inoltre, deve essere frazionata, suddivisa in 3 pasti principali e 2 o 3 spuntini, con un introito limitato per ciascun pasto. Se necessario, la dieta va supplementata con elettroliti, calcio, vitamina D e potassio. 

Per il controllo della glicemia, i farmaci anti-iperglicemizzanti orali possono essere considerati anche nei pazienti affetti da pancreatite cronica o pancreatectomia subtotale purché sia conservata una soddisfacente risposta del C-peptide allo stimolo. Sarebbe ottimale utilizzare farmaci che non si associno ad ipoglicemia e, nel caso delle sulfoniluree, vanno utilizzate quelle a breve e non a lunga durata d’azione, per evitare il più possibile le crisi ipoglicemiche. In merito al possibile impiego di analoghi del GLP-1 e degli inibitori della dipeptidil-peptidasi-4, che si associano a ridotto rischio di ipoglicemia, permangono dubbi in merito al possibile rischio di pancreatite segnalato con questi farmaci, rischio che permane a tutt’oggi non chiarito e sono pertanto non indicati. La terapia insulinica è l’unica opzione terapeutica nel caso di pancreatectomia totale. Solitamente il fabbisogno insulinico nei pazienti pancreatectomizzati è inferiore rispetto al diabete tipo 1, particolarmente nel periodo notturno, mentre potrebbe essere maggiore il fabbisogno prandiale (Tab. 6). Gli analoghi a lunga durata d’azione sono preferibili ad insulina NPH, in quanto si associano ad un ridotto rischio di ipoglicemia notturna. In pazienti molto motivati e appropriatamente instruiti è stato utilizzato con successo il trattamento mediante infusione continua sottocutanea di insulina, ottenendo un buon controllo metabolico, in assenza di episodi ipoglicemici o chetosici. 

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In ogni caso, qualsiasi sia lo schema terapeutico prescelto, il principale problema gestionale di questo tipo di diabete rimane l’ipoglicemia (2). L’aumentata frequenza e gravità degli episodi ipoglicemici è la possibile conseguenza di svariati fattori, tra cui l’eccesivo dosaggio insulinico, l’alterata controregolazione ormonale, il ridotto assorbimento intestinale o la dieta inadeguata, il consumo di alcool, la concomitante epatopatia, l’insulino-sensitività del paziente. Il rischio di ipoglicemia letale è particolarmente elevato nei pazienti sottoposti a pancreasectomia totale e questo ha stimolato la ricerca di approcci terapeutici chirurgici e medici più sicuri (32). La preservazione del duodeno e del piloro, per esempio, sembra assicuri un controllo metabolico più stabile e un minor numero di ipoglicemie. Più recentemente, è stato proposto l’autotrapianto di insule, per prevenire la dipendenza insulinca (37-38). L’autorapianto di insule si è dimostrato assicurare una funzione beta-cellulare stabile ed un buon controllo glicemico fino a 13 anni dopo una pancreasectomia totale per il trattamento di una pancreatite cronica dolorosa. 

A causa dell’estrema instabilità del diabete pancreatico, l’educazione terapeutica del paziente e l’automonitoraggio glicemico rappresentano due strumenti gestionali essenziali. In questi pazienti, inoltre, potrebbe essere necessario un obiettivo glicemico lievemente superiore, al fine di evitare ipoglicemie frequenti (31) (Tab. 7). Per quanto riguarda le complicanze acute, sebbene la chetoacidosi sia un’evenienza rara, essa si può rapidamente instaurare, qualora si verifichino condizioni di stress e in tal caso vi è necessità di appropriato aggressivo intervento terapeutico. Infine, va tenuto presente che la maggior parte di questi pazienti ha una ridotta spettanza di vita ed il rischio di manifestare complicanze croniche è relativamente contenuto.

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Conclusioni

Il diabete secondario a malattia acquisita del pancreas rappresenta una piccola parte di tutti i casi di diabete, ma probabilmente è più frequente di quanto sia comunemente ritenuto. È importante ricordare che in questo tipo di diabete può essere coinvolta tutta la produzione ormonale pancreatica, ciò che caratterizza l’instabilità del diabete pancreatico. In tale contesto risulta particolarmente temibile il rischio di ipoglicemia, spesso grave e talora letale, soprattutto nei pazienti con diabete secondario a pancreasectomia totale o pancreatite cronica grave. Il corretto equilibrio tra un controllo glicemico sufficientemente adeguato e la mancanza di crisi ipoglicemiche è quindi l’obiettivo terapeutico di questa patologia. Inoltre va tenuto presente che l’allungamento della spettanza di vita può favorire anche questi pazienti lo sviluppo di complicanze croniche del diabete.

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