Guai a trascurare la retinopatia!

Guai a trascurare la retinopatia!

Massimo Porta, Elio Striglia

Centro Retinopatia Diabetica, Dipartimento di Scienze Mediche, Università di Torino

DOI: 10.30682/ildia1801h

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Nel mese di ottobre 2017 giungeva alla nostra osservazione una donna di 66 anni affetta da diabete tipo 2 noto da 15 anni con retinopatia diabetica non proliferante (RDNP) di grado moderato riscontrata in occasione dell’ultimo screening cui si era sottoposta due anni prima.

Anamnesi fisiologica: non fumo; assunzione moderata di bevande alcoliche (beve saltuariamente un bicchiere di vino ai pasti); menarca all’età di 10 anni; una gravidanza a termine all’età di 30 anni con nascita di un maschio di 3,0 kg; non aborti; menopausa a 54 anni. La paziente riferisce di esser sempre stata “grassoccia” e di aver lavorato come impiegata per 30 anni. Da poco è in pensione e conduce uno stile di vita sedentario.

Anamnesi familiare: non familiarità per patologie cardiovascolari. Il padre è deceduto a 80 anni per neoplasia polmonare e negli ultimi anni aveva sviluppato diabete tipo 2 trattato con ipoglicemizzanti orali. La madre di 90 anni è vivente. La paziente ha due fratelli e una sorella. Un fratello è iperteso con alterata glicemia a digiuno.

Anamnesi patologica remota: ha superato le malattie esantematiche infantili senza complicazioni. Tonsillectomia a 7 anni; parotite a 8; appendicectomia a 19. Nessun altro ricovero per problemi di salute. Nega coronaropatia o stroke. Non allergie note.

Diagnosi di diabete tipo 2 all’età di 49 anni in seguito alla comparsa di poliuria e ripetuti episodi di cistite. Inizialmente è stata trattata con terapia dietetica e incremento dell’attività fisica, dato anche il sovrappeso (BMI 28). Dopo alcuni mesi, vista l’inefficacia di questi provvedimenti, è stata aggiunta metformina 500 mg x 2. A causa del perdurare dello scompenso glicometabolico, col tempo è stato necessario incrementare progressivamente la terapia che comunque rimane basata su ipoglicemizzanti in associazione, senza insulina.

La paziente è seguita dal medico curante e solo occasionalmente si sottopone a visite specialistiche presso un Centro di Diabetologia. Nel corso dei 15 anni dalla diagnosi di diabete ha effettuato solo quattro screening per retinopatia diabetica, di cui l’ultimo 2 anni or sono. Ammette che per vari motivi non riesce a seguire correttamente la dieta e di non controllare regolarmente la glicemia.

Da circa 4 anni riscontro di ipertensione sisto-diastolica di grado lieve-moderato in terapia con ACE inibitore e dieta iposodica. ECG sempre in ritmo sinusale e privo di alterazioni di significato patologico.

Anamnesi patologica prossima: riferisce recente aumento di peso, astenia, formicolii alle estremità e calo della vista che la preoccupa in quanto ama la lettura e il cucito. Per tali motivi, su prescrizione del curante, ha prenotato un controllo presso il nostro Centro Retinopatia Diabetica.

Un mese fa circa ha eseguito esami ematochimici e urine che porta in visione:

glicemia a digiuno 140 mg/dl, HbA1c 78 mmol/mol (9,3%), colesterolo totale 212 mg/dl, colesterolo HDL 107 mg/dl, colesterolo LDL 64 mg/dl, trigliceridi 190 mg/dl, creatinina 1,05 mg/dl, microalbuminuria 154 mg/24h, glicosuria 3+.

Attualmente è in terapia con dieta iposodica, metformina 500 mg x 3, sitagliptin 50 mg, pioglitazone 30 mg, enalapril 5 mg, ASA 100 mg, simvastatina 10 mg.

Al presente screening di retinopatia: si presenta in buone condizioni generali, apiretica, eupnoica, PAO 170/105 mmHg, FC 80 bpm regolare, Sat O2 97% in AA, BMI 30.

Durante lo screening vengono eseguiti il controllo dell’acuità visiva e del cristallino per la presenza di opacità, la tonometria ad insufflazione e l’esame del fundus in midriasi con retinografie digitali in 2 campi (temporale e nasale).

Attualmente: visus OD 7/10, OS 6/10, non cataratta, tonometria OD 15 mmHg, OS 16 mmHg.

L’esame del fundus mostra retinopatia diabetica non proliferante (RDNP) grave (pre-proliferante) bilaterale con diffuse emorragie ed essudati duri paramaculari bilaterali suggestivi per edema maculare diabetico (DME) (Fig 1).

Viene quindi eseguito esame OCT (tomografia ottica a luce coerente) che conferma la presenza di DME con ispessimento retinico centrale >400 micron. In considerazione della gravità della retinopatia e della presenza del DME, la paziente è inviata a consulenza urgente e lo specialista oculista prescrive un ciclo di iniezioni intravitreali di farmaci anti-VEGF.

 

La Retinopatia Diabetica (RD)

La RD rappresenta la più comune complicanza cronica microvascolare del diabete e si associa spesso alla nefropatia (1) il cui primo segno è dato, come nel nostro caso, dalla presenza di microalbuminuria.

Mediamente il 30% dei pazienti sottoposti a screening presenta RD (2).

La sua importanza può essere desunta da alcune osservazioni: il diabete è la principale causa di cecità legale (residuo visivo non superiore a 1/20 nell’occhio migliore) in età lavorativa nei Paesi industrializzati e comporta un rischio di cecità 25 volte superiore a quello della popolazione generale. Inoltre la RD comporta uno scadimento della qualità di vita ed ha alti costi economici e sociali.

La Tabella 1 riassume gli stadi evolutivi della RD con le lesioni caratteristiche di ciascuno.

Sia la retinopatia non proliferante (RDNP) che la proliferante (RDP) possono essere complicate dal DME. All’esame del fundus quest’ultimo può essere valutato solo come apparentemente assente o presente ma è l’OCT che permette di obiettivarlo. Infatti le fotografie del fundus, se non eseguite in stereoscopia, non forniscono la certezza diagnostica né consentono di valutare lo spessore retinico (3). In base al coinvolgimento del centro della fovea il DME viene distinto in “centrale” e “non centrale”. Su tale base è posta indicazione al trattamento con farmaci anti-VEGF nel primo caso o fotocoagulativo nel secondo. Va sottolineato che la mancanza di calo visivo non esclude la RD. Persino la RDP può svilupparsi mantenendo, almeno nelle prime fasi, la normale acuità visiva, soprattutto se la macula non è coinvolta da fenomeni trazionali o se non sono presenti emorragie intravitreali. Viceversa l’edema maculare si associa più precocemente a riduzione dell’acuità visiva e della percezione del contrasto e dei colori.

Negli ultimi anni il DME è diventato più comune della RDP. Ciò a causa del minor numero di casi di RDP osservati nei pazienti con diabete tipo 1 grazie al migliorato controllo metabolico e pressorio, a sua volta reso possibile dalle nuove terapie, e alla maggiore consapevolezza di malattia nei pazienti (4). Al contrario l’edema maculare è più frequente nel diabete tipo 2 e, con l’aumento di quest’ultimo, è diventato prevalente.

La RD presenta tutti i requisiti richiesti ad un programma di screening secondo i criteri WHO (5): malattia di elevato impatto socio-sanitario, lungo periodo asintomatico, presenza di popolazione target, conoscenza della storia naturale, possibilità di arrestarne l’evoluzione, basso rischio e favorevole rapporto costo/efficacia delle procedure di screening, loro ripetibilità e accettabilità da parte delle persone cui lo stesso è rivolto.

In alcuni Paesi, come Gran Bretagna, Islanda e Svezia, esistono programmi strutturati di screening per la RD. In Italia la procedura riveste carattere opportunistico, nel senso che è lasciata alla libera iniziativa dei medici curanti e dei Servizi di Diabetologia. Purtroppo i dati ARNO-Diabete mostrano che, nel 2012, nel nostro Paese solo circa il 10% dei pazienti diabetici era sottoposto a esame del fundus in un anno (6), mentre il rapporto del 2017 riferisce uno sconfortante ulteriore calo a 8,6% (7).

La precocità e la giusta cadenza dei controlli migliorano i risultati ottenuti nel prevenire o mantenere sotto controllo la RD. Infatti nei Paesi ove esiste un programma di screening nazionale la retinopatia diabetica non è più la prima causa di cecità in età lavorativa (8).

Le nostre attuali linee guida prevedono che lo screening venga effettuato:

alla diagnosi: nei pazienti con diabete tipo 1, per dare il messaggio; nei pazienti con diabete tipo 2 in quanto, dato il lungo periodo asintomatico in cui la malattia può rimanere non diagnosticata, più del 10% dei pazienti presenta RD alla diagnosi (9)

in assenza di RD all’ultimo controllo: almeno ogni 2 anni

in caso di RDNP lieve: dopo 6-12 mesi

in caso di RDNP moderata o più avanzata: invio all’oculista.

(Raccomandazioni di forza A basate su evidenze di livello VI).

È quindi importante informare i pazienti sull’importanza dei controlli periodici. Sovente essi non hanno la percezione del rischio di cecità a cui sono esposti e non si presentano ai controlli, ancorché convocati (10). Non è chiara la motivazione di questa ridotta disponibilità ad aderire ai controlli finalizzati alla conservazione di un bene prezioso come la vista. Condizioni socio-economiche precarie e scarsa scolarità sono sicuramente implicate (10-11) ma è interessante un esperimento nel quale perfino l’offerta di ricompense economiche sotto varie forme è risultata inefficace (12).

La nostra paziente che già due anni prima aveva una RDNP moderata si sarebbe dovuta sottoporre ad ulteriori controlli che però non furono effettuati.

 

1° Quesito

Come valutate il compenso glicometabolico e pressorio della paziente, specialmente ai fini della possibile evoluzione della RD?

Il valore di HbA1c di 78 mmol/mol (9,3%) esprime lo scarso controllo glicometabolico in atto almeno negli ultimi mesi. In base alle linee guida, gli obiettivi terapeutici dovrebbero essere:

glicemia a digiuno 70-130 mg/dl

glicemia post prandiale <180mg/dl

HbA1c entro 7% (53 mmol/mol)

(Raccomandazione di forza A basata su evidenze di livello 1).

Importanti studi (13-14) hanno dimostrato che un controllo intensivo della glicemia riduce l’incidenza di RD e la sua progressione nonché la necessità di terapie oculistiche. È stato anche dimostrato che i benefici di un lungo periodo di buon compenso rimangono anche se questo viene meno, per cui si parla di “memoria metabolica” (15) o “legacy” nel caso del diabete tipo 2 (16).

Dai dati dell’UKPDS, si è calcolato che per ogni punto percentuale di riduzione della HBA1c si ottiene una riduzione del rischio di inizio di RD del 35%, del rischio di progressione di RD in atto del 15-25% e del rischio di cecità del 25% (17). Il miglioramento del compenso glicemico ha effetti benefici sulla RD indipendentemente dal tipo di terapia con cui viene raggiunto (13).

Due meta-analisi hanno peraltro in parte ridimensionato l’importanza del controllo glicemico nel prevenire le complicanze oculari, almeno nel diabete tipo 2 (18-19), sottolineando come i benefici del controllo glicometabolico si limitino alla prevenzione primaria della RD ma non alla riduzione della sua progressione e soprattutto del danno visivo finale. Entrambi i lavori hanno invece sottolineato come il controllo intensivo della glicemia aumenti il rischio di episodi ipoglicemici gravi. Inoltre il rapido calo della HbA1c può essere accompagnato da un paradossale peggioramento della retinopatia che da non proliferante può passare a proliferante. Il fenomeno è denominato “early worsening” ed è attribuito a fattori quali la riduzione del flusso capillare retinico, che si verifica al ridursi della glicemia (20) in una retina già ischemica, l’effetto dello shear stress sulla parete dei vasi (21), il maggior rilascio di IGF-1 dal fegato in caso di inizio/intensificazione della terapia insulinica (22). Tale fenomeno ha tuttavia carattere transitorio, della durata di 6-12 mesi nel caso in cui il compenso glicometabolico venga poi stabilmente mantenuto nel tempo (23).

Al momento dello screening la paziente aveva una pressione arteriosa di 170/105 mmHg.

L’obiettivo terapeutico dovrebbe essere 130/80 mmHg o meno, considerando tuttavia che una pressione sistolica <120 mmHg non fornisce ulteriori vantaggi protettivi cardiovascolari e nel prevenire/rallentare lo sviluppo della RD (24). Lo studio INVEST ha inoltre evidenziato un aumento della morbilità e della mortalità per tutte le cause se la sistolica è minore di 110 mmHg (25). Kajiwara (26) e Jin (27) hanno evidenziato l’esistenza di una correlazione positiva tra pressione arteriosa e RD. Ancor prima lo studio UKPDS 38 (28) aveva dimostrato che il controllo della pressione riduce l’incidenza e la gravità delle lesioni retiniche e del DME. Tuttavia una recente Cochrane (29) afferma che la terapia anti-ipertensiva riduce solo moderatamente l’incidenza della RD e non ne modificherebbe la progressione.

Riguardo l’assetto lipidico, l’obiettivo terapeutico dovrebbe essere mantenere il colesterolo LDL <100 mg/dl (<70 mg/dl in caso di eventi cardiovascolari pregressi o di multipli fattori di rischio), colesterolo HDL >40 mg/dl nei maschi e >50 mg/dl nelle femmine, trigliceridi <150 mg/dl. La paziente pertanto presenta colesterolo LDL e HDL a target ma trigliceridi in eccesso. Per quanto sia ormai assodata la correlazione tra ipercolesterolemia e rischio cardiovascolare, non altrettanto si può affermare nei confronti della RD. Benché verosimile, tale correlazione non è certa (30). L’ipercolesterolemia invece è associata a DME (2).

La nefropatia lieve, anche in fase iniziale, aumenta il rischio di RD nei pazienti con diabete tipo 2 e microalbuminuria ed emoglobina glicata elevata sono fattori predittivi di una futura RD grave (31).

 

2° Quesito

Quali modifiche della terapia proponete per un miglior controllo glicometabolico e pressorio e una migliore efficacia protettiva verso la RD?

Innanzitutto è necessario migliorare il controllo glicometabolico e soprattutto pressorio. Benché, come discusso sopra, gli effetti sulla progressione di una retinopatia di grado severo siano scarsi o nulli e nonostante un miglioramento rapido possa addirittura provocare il fenomeno “early worsening”, un intervento sul controllo metabolico è comunque mandatorio. A maggior ragione è necessario riportare a target i valori pressori. Non vi è una classe particolare di farmaci che abbia dimostrato efficacia sulla progressione della RD. Gli ACE inibitori e i sartani al più ne prevengono l’insorgenza (32-33) ma è verosimile che ridurre la pressione idrostatica nel circolo retinico possa avere effetti positivi sull’edema maculare di questa paziente.

La paziente sta assumendo un antiaggregante (ASA 100 mg).Tale farmaco trova indicazione al fine di ridurre l’alto rischio di patologie cardiovascolari associato al diabete, aumentato ulteriormente dalla presenza di ipertensione e RD. L’efficacia degli antiaggreganti nel prevenire eventi cardiovascolari nel diabete è tuttavia dibattuta. Infatti la somministrazione di basse dosi di aspirina inibisce in modo incompleto la COX-1 nel paziente diabetico, forse a causa di un aumentato turnover piastrinico (34) e una meta-analisi evidenzia che l’effetto protettivo dell’antiaggregante è bilanciato dal maggior rischio emorragico (35). Inoltre i benefici dell’ASA sono solo marginali nel rallentare l’evoluzione della RD e solo nelle forme lievi iniziali (solo microaneurismi) mentre non è di alcuna utilità in caso di RD con maggiori livelli di gravità (36-37).

Pertanto, non ci si può aspettare che l’ASA migliori l’evoluzione del quadro retinico nella nostra paziente.

Date le numerose ed estese emorragie retiniche presenti ci si potrebbe anzi domandare se esso non aumenti il rischio di sanguinamento intraoculare. In realtà l’aspirina non aumenta tale rischio a livello retinico neppure nel caso di RDP con neo vasi fragili. Pertanto la retinopatia avanzata non costituisce una controindicazione all’antiaggregante (38).

La paziente potrebbe beneficiare, considerata l’ipertrigliceridemia, dell’aggiunta di fenofibrato, ipolipemizzante che grazie al suo metabolita acido fenofibrico è attivo nel ridurre la trigliceridemia.

I pazienti in terapia cronica con fenofibrato hanno dimostrato minore necessità di trattamenti laser sia per RDP che per DME secondo le conclusioni dello studio FIELD (39-40), dato confermato dallo studio ACCORD che ne ha dimostrato l’utilità nel migliorare la prognosi della RD indipendentemente dall’associazione con statine. Il meccanismo d’azione del fenofibrato è indipendente dagli effetti sui lipidi circolanti e sembra dovuto ad altri effetti del farmaco che è noto abbassare i livelli circolanti di fibrinogeno, PCR ed altre molecole della flogosi quali IL-1 beta, TNFalfa, Lp-PLA2 (41-42). Il fenofibrato riduce la trascrizione del fattore NF-kB e quindi il rilascio di IL-1beta a livello retinico (43) e sembra prevenire la neurodegenerazione retinica riducendo la reazione gliale e l’apoptosi delle cellule gangliari nonché la downregulation del trasportatore per il glutamato/aspartato (44).

Purtroppo non vi è ancora indicazione in Italia e nel resto dell’Europa all’uso del fenofibrato per la prevenzione e il trattamento della RD mentre in altri Paesi (es. Australia dal 2013) esiste indicazione in tal senso (45).

La paziente è in terapia con tre tipi diversi di ipoglicemizzanti orali: biguanidi, glitazoni e inibitori di DDP4.

Il pioglitazone dovrebbe essere precauzionalmente sospeso in considerazione del fatto che induce ritenzione di fluidi con sviluppo di edemi periferici. I meccanismi implicati in questo effetto collaterale sono molteplici: attivazione della PKC (46), squilibrio nel rilascio di VEGF, aumento del riassorbimento tubulare di sodio, alterato assorbimento intestinale di elettroliti (47). Molteplici studi hanno cercato di chiarire se l’assunzione di glitazoni si associ anche a maggior sviluppo di DME. Uno studio retrospettivo del 2005 su 30 pazienti evidenziava la riduzione sia degli edemi periferici che del DME in alcuni pazienti dopo 3 mesi dalla sospensione del glitazone e gli Autori attribuivano tali effetti alla sospensione del farmaco (48). I limiti dello studio erano però la scarsa numerosità campionaria e la mancanza di casi di controllo. Di ben maggiori dimensioni lo studio di Iskandar che considerava 103.368 pazienti tra il 2000 e il 2009 confrontando lo sviluppo di DME tra pazienti in terapia con glitazoni contro casi che non li assumevano. Tale studio evidenziava un’associazione statisticamente significativa tra DME e glitazoni sia a 1 anno che a 10 anni (49).

La letteratura riporta segnalazioni di DME spontaneamente regrediti dopo sospensione del farmaco. Fra questi, Liazos et al nel 2008 riportavano il caso di un paziente che a distanza di 8 mesi dall’inizio di terapia con rosiglitazone manifestava edemi periferici, aumento ponderale (+8 kg) ed accusava una marcata riduzione del visus dall’occhio sinistro con DME obiettivato mediante OCT. A distanza di 3 mesi dalla sospensione del farmaco si osservava la riduzione degli edemi e del peso (-6 kg) nonché la scomparsa del DME e il miglioramento dell’acuità visiva (50).

Il quadro è comunque complesso. Mentre alcuni studi mettono in correlazione i glitazoni con il rischio di DME, altri affermano che potrebbero avere un effetto preventivo sullo sviluppo dei neovasi e quindi della RDP. Shen et al. hanno considerato 124 pazienti trattati con rosiglitazone e 158 controlli effettuando un follow-up medio di 2,8 anni dei due gruppi. I pazienti in terapia con rosiglitazone hanno mostrato un minor peggioramento della RD con un più lento passaggio alla fase proliferante. Tale azione anti-angiogenica sarebbe da riferire a inibizione della proliferazione delle cellule endoteliali, maggiore apoptosi delle medesime, minore espressione di VEGF e inibizione dei recettori per lo stesso (51). Una recente analisi post hoc dello studio ACCORD, benché di limitata numerosità, sembra infine escludere che i pazienti in trattamento con pioglitazone abbiano maggior tendenza a sviluppare DME (52). Utile è quindi considerare di volta in volta la possibilità di sospendere il farmaco, almeno prudenzialmente, in caso di comparsa di DME soprattutto se con riduzione dell’acuità visiva.

Gli inibitori di DPP-4 o gliptine esplicano la propria azione inibendo l’enzima dipeptidil peptidasi -4 (DPP-4) determinando un aumento dei livelli circolanti delle incretine GLP-1 (Glucagon Like Peptide-1) e GIP (Glucose-mediated Insulinotropic Polypepetide), prodotti rispettivamente dalle cellule L dell’intestino tenue distale e del colon e dalle cellule K di duodeno, digiuno ed ileo. Tali molecole potenziano sintesi e secrezione dell’insulina e inibiscono la secrezione del glucagone (53). L’assunzione di gliptine non si associa a rischio ipoglicemico né ad aumento ponderale (54). Tre recenti trial hanno confermato la sicurezza cardiovascolare delle gliptine (55-56-57) ma non la loro efficacia protettiva in termini di riduzione del rischio di incidenti cardiovascolari, evinta peraltro mediante meta-analisi (58).

Per quanto riguarda gli effetti sulla RD, gli studi sinora condotti hanno fornito risultati contrastanti. Secondo uno studio recente, gli inibitori di DPP-4 causano l’accumulo di SDF-1 alfa (Stromal cell-Derived Factor 1 alfa) a livello retinico con conseguente aumento della permeabilità vascolare e stimolo dell’angiogenesi attraverso la via della fosforilazione della VE caderina (Vascolar Endothelial Cadherin) (59). Altri studi al contrario affermano che tali farmaci riducono significativamente la progressione della RD (60) e attribuiscono ad essi effetti protettivi e antiossidanti sulla neuroretina (61).

Sul fronte degli incretino-mimetici, un case report del 2014 riferisce la completa risoluzione di DME a un mese di distanza dall’introduzione di exenatide in una paziente affetta da diabete tipo 2 in scarso controllo glicometabolico (62). Secondo alcuni studi, exenatide riduce il rilascio di mediatori della flogosi e promuove il rimodellamento vascolare retinico (62-63). Di contro, due GLP-1 analoghi, semaglutide e liraglutide, presentano problematiche simili in base ai risultati di due RCT condotti al fine di valutarne la sicurezza in termini di non inferiorità rispetto a placebo, su pazienti con diabete tipo 2 ad alto rischio cardiovascolare. Il trial SUSTAIN-6, della durata media di 104 settimane su circa 3300 pazienti randomizzati a farmaco o placebo, ha evidenziato una riduzione del rischio di morte cardiovascolare, IMA non fatale, stroke e nefropatia ma, al contrario, un aumento statisticamente significativo del rischio di emorragie vitreali, cecità, necessità di trattamenti con farmaci intravitreali e fotocoagulazione nel gruppo trattato con semaglutide (HR 1,76 con IC 95% 1,11-2,78; p=0,02) (64). Il trial LEADER ha preso in considerazione 9.340 pazienti con un follow-up mediano di 3,8 anni, confrontando liraglutide e placebo. Anche questo studio ha concluso per la sicurezza cardiovascolare e renale del farmaco, evidenziando al contempo un maggior numero di eventi retinici rispetto al gruppo di controllo. A differenza del SUSTAIN-6 tale osservazione non ha raggiunto la significatività statistica (HR 1,15 con IC 95% tra 0,87-1,52; p=0,33) (65).

Restano quindi ancora incerti gli effetti a lungo termine di tali farmaci sulla retina. Gli stessi Autori dei due studi sono concordi nell’affermare la necessità di ulteriori studi dotati di maggiore potenza e di più lungo periodo di osservazione.

 

3° Quesito

L’oculista prescrive un ciclo di somministrazioni intravitreali di anti-VEGF. Perché?

Il VEGF (Vascolar Endothelial Growth Factor) gioca un ruolo importante sia nella formazione dei neovasi retinici che nella patogenesi del DME. Inizialmente la patogenesi del DME è di tipo citotossico per accumulo intracellulare di sorbitolo, lattati e fosfati, ma diventa successivamente vasogenica causata da molecole della flogosi (VEGF compreso) che allentano le giunzioni serrate della barriera emato-retinica (BER) interna. Il liquido trasudato dai vasi forma piccole raccolte cistiche nello strato interno della retina maculare che si possono estendere verso l’esterno causando il distacco della neuroretina (66). L’ipossia è il principale, ma non unico, fattore di stimolo al rilascio di VEGF. La riduzione della capacità di autoregolazione del flusso capillare retinico (67) causa una minore ossigenazione della retina stimolando il rilascio di HIF-1 alfa che a sua volta stimola il rilascio di VEGF (68). Anche altri fattori stimolano il rilascio di VEGF: AGE, PKC, RAS, e un ruolo importante gioca la diminuzione del PEDF (Pigment Epithelium Derived Factor), inibitore dell’angiogenesi prodotto dall’epitelio pigmentato. L’equilibrio tra PEDF e VEGF è essenziale al mantenimento dell’integrità della BER e la sua alterazione (cui contribuiscono altri fattori neurotrofici) facilita sia lo sviluppo del DME che il passaggio alla DRP (69).

I farmaci intravitreali (anti-VEGF e steroidi) vengono somministrati al fine di ridurre lo spessore della retina edematosa e migliorare l’acuità visiva o almeno prevenirne il peggioramento. Sono disponibili da alcuni anni e presentano l’indiscusso vantaggio di minori effetti collaterali e maggiore durata di azione locale rispetto alla via di somministrazione sistemica.

Gli anti-VEGF sono indicati nel trattamento del DME con coinvolgimento del centro della macula, come nel caso della nostra paziente, mentre se il centro non è coinvolto rimane di prima scelta il trattamento laser focale (Tab. 2).

Gli anti-VEGF oggi utilizzati in caso di RD sono tre: bevacizumab, ranibizumab e aflibercept.

Il bevacizumab (Avastin) è un anticorpo completamente umanizzato che lega tutte le isoforme di VEGF-A e trova largo impiego in oncologia. Dei tre è il più economico e con il miglior rapporto costo/efficacia (70) ma la mancanza di trial di registrazione specifici ne limita le applicazioni oftalmiche al regime off-label.

Il ranibizumab (Lucentis) è un frammento Fab derivato da un anticorpo monoclonale umanizzato che lega le isoforme attive del VEGF A. Inizialmente è stato approvato per il trattamento della degenerazione maculare umida legata all’età (DMLE), l’edema maculare secondario ad occlusione venosa retinica e la neovascolarizzazione coroideale secondaria a miopia patologica e più recentemente anche per la RD con edema maculare.

L’aflibercept (Eylea) è una proteina ricombinante di fusione costituita da porzioni dei recettori 1 e 2 di VEGF fusi con la porzione Fc di IgG1. Lega tutte le isoforme di VEGF A-B.

Gli anti-VEGF migliorano l’acuità visiva dei pazienti con DME centrale ma la loro efficacia è incostante e dipende anche dall’acuità visiva all’inizio della terapia. Se il deficit iniziale è lieve, i 3 anti VEGF risultano di simile efficacia mentre in caso di più grave deficit visivo il più efficace sembra essere l’aflibercept (71).

Usualmente sono somministrati una volta al mese per i primi 3 mesi e poi secondo necessità. Ulteriori somministrazioni sono previste come mantenimento al bisogno e con intervalli maggiori. In termini di sicurezza non sono emerse differenze significative tra i tre farmaci (71).

In passato il trattamento del DME era basato sulla fotocoagulazione retinica focale-griglia. Numerosi studi hanno confrontato i farmaci anti-VEGF contro la fotocoagulazione in caso di DME, osservando come questi farmaci ottengano maggiore riduzione dello spessore retinico e miglioramento dell’acuità visiva rispetto al laser che può al massimo mantenere la funzione residua (72-74).

Recentemente si è iniziato ad utilizzare gli anti-VEGF anche come trattamento di prima scelta per la RD proliferante al posto della fotocoagulazione (75). Infatti con la terapia intravitreale si evitano i possibili effetti collaterali del laser che rimane una terapia demolitiva: comparsa di scotomi, riduzione della visione periferica e notturna, fibrosi retinica, formazione ed estensione delle cicatrici, rottura della membrana di Bruch, neovascolarizzazione coroideale iatrogena, accidentale spot foveolare. I possibili problemi legati alla terapia intravitreale sono il maggior numero di sedute, la scarsa accettabilità da parte dei pazienti, il rischio basso ma non assente di endoftalmite.

In caso di RDP associata a DME centrale, a maggior ragione, si tende a preferire inizialmente un farmaco anti-VEGF poiché questi agenti sono efficaci come antiangiogenici e sull’edema e aiutano a prevenire il peggioramento dell’edema maculare che può essere indotto dalla panfotocoagulazione periferica.

Conclusioni

Il caso clinico presentato è paradigmatico di come un cattivo controllo della glicemia e della pressione arteriosa, unito al mancato follow-up di una retinopatia già di grado moderato, possa condurre a gravi rischi per la funzione visiva. È altresì indicativo della scarsa sensibilizzazione verso tali rischi sia da parte della paziente che soprattutto dei curanti, che avrebbero dovuto provvedere a controlli e terapie più tempestive senza pericolose manifestazioni di inerzia. Gli episodi di screening effettuati dalla paziente, pur sufficienti a identificare una situazione di pericolo, non sono stati seguiti da provvedimenti efficaci. Purtroppo gli studi ARNO confermano quanto la componente retinopatica sia trascurata nell’assistenza dei cittadini italiani con diabete (6-7). Oltre ad una maggiore sensibilizzazione degli operatori ed amministratori sanitari, oltre che dei decisori politici, sarebbe utile prevedere percorsi dedicati ad aumentare la consapevolezza dei pazienti per stimolare condotte utili a prevenire le complicanze del diabete (76). Una maggiore diffusione territoriale dei Centri Retinopatia Diabetica e l’istituzione di un Registro Nazionale dei pazienti diabetici sarebbero iniziative utili a questo riguardo. Il caso clinico ripropone inoltre l’importanza del dialogo che sempre deve intercorrere tra specialisti nella gestione di una patologia multiorgano quale appunto è il diabete.

 

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