Focus on: le diete alternative: una guida per il paziente con diabete
Rosalba Giacco1, Simona Frontoni2, Daniela Bruttomesso3, Giosetta De Simone4, Emanuela Orsi5
1Istituto di Scienze dell’Alimentazione del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), Avellino; 2Dipartimento di Medicina dei Sistemi, Università di Roma Tor Vergata; 3UOC Malattie del Metabolismo. Dipartimento DIMED, Università di Padova; 4Centro Diabetologico Territoriale, Distretto 54 Asl Napoli3sud; 5Servizio di Diabetologia e Malattie Metaboliche – Fondazione Ca’ Granda IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico di Milano
DOI: 10.30682/ildia1801m
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Premessa
L’alimentazione è una delle pietre miliari nella prevenzione e terapia del diabete mellito tipo 2 (DM2). Essa ha come obiettivo primario non solo il miglioramento del controllo glicemico e degli altri fattori di rischio cardio-metabolico (1-2) ma anche la riduzione delle malattie cardiovascolari (MCV) che sono responsabili di circa il 70% della mortalità totale in questi pazienti (3).
La dieta mediterranea è da sempre considerata il gold-standard dell’approccio nutrizionale nel paziente diabetico, per la sua comprovata efficacia non soltanto sul calo ponderale, ma anche sul controllo metabolico e sul rischio cardiovascolare.
Tuttavia, negli ultimi anni, sono state proposte diete alternative a quella mediterranea, per una presunta migliore capacità di ridurre il peso corporeo e di migliorare i fattori di rischio associati al diabete.
Questo documento ha lo scopo di revisionare i dati disponibili in letteratura, relativamente alla dieta vegetariana/vegana, paleolitica e chetogenica, fornendo le migliori evidenze disponibili sul loro ruolo nella terapia nutrizionale del diabete mellito.
Dieta vegetariana/vegana
Negli ultimi anni la dieta vegetariana è diventata oggetto di grande attenzione da parte del mondo scientifico oltre che di quello mediatico perché i risultati di diversi studi epidemiologici suggeriscono che questo tipo di dieta si associa ad un più basso indice di massa corporea (IMC) e rischio di DM2, ipertensione arteriosa, eventi coronarici, alcuni tipi di cancro (4-5) e non ultimo ad una più lunga aspettativa di vita (6). In aggiunta, i risultati degli studi d’intervento, condotti nei pazienti con DM2, riportano che la dieta vegetariana migliora il compenso glicemico e le altre anomalie metaboliche e riduce il fabbisogno dei farmaci ipoglicemizzanti (7). Non è chiaro, però, se i benefici sulla salute osservati nei vegetariani rispetto agli onnivori sono rilevabili in tutte le popolazioni studiate (8), se sono attribuibili all’assenza di carne nella dieta o all’incrementato consumo di alimenti vegetali, al pattern di alimenti consumati nella dieta vegetariana o ad altre componenti dello stile di vita spesso associate al vegetarismo. Inoltre, il termine “dieta vegetariana” include un’ampia varietà di modelli alimentari, alcuni dei quali comprendono selezionati alimenti di origine animale (es. latte e uova) ed altri li escludono completamente come nel caso della dieta vegana, una forma di dieta vegetariana molto restrittiva, basata solo su alimenti vegetali, che rigetta qualsiasi prodotto di origine animale, in alcuni casi perfino il miele. Di contro, l’esclusione completa di alcuni gruppi di alimenti, come avviene nella dieta vegana, potrebbe non assicurare la dose giornaliera raccomandata di nutrienti (macronutrienti e micronutrienti) che una persona sana deve assumere per stare bene in salute. Per stabilire se la dieta vegetariana possa essere raccomandata al paziente diabetico come una valida e sicura alternativa alla dieta convenzionale, il presente documento analizzerà le evidenze scientifiche derivanti dagli studi osservazionali e d’intervento che hanno valutato: a) l’efficacia della dieta vegetariana sul rischio di sviluppare DM2, b) gli effetti sul controllo glicemico e sulle complicanze cardiovascolari del diabete e, infine, c) la sua adeguatezza nutrizionale.
Definizione
Cosa si intende per “dieta vegetariana”? La dieta vegetariana è una dieta basata prevalentemente sul consumo di cereali, legumi, frutta, verdura, frutta a guscio e soia che esclude il consumo di carne. L’utilizzo di pesce, latte e derivati e uova può essere incluso o escluso generando un ampio spettro di pattern alimentari (Fig. 1).
Su questa base, la dieta vegetariana è definita:
- pesco-vegetariana se include il consumo di pesce oltre quello di uova, latte e derivati;
- latto-ovo-vegetariana se include il consumo di uova e di latte e derivati ed esclude quello di pesce;
- vegana se esclude tutti gli alimenti di origine animale (carne, pesce, uova, latte e derivati).
Figura 1
Prevalenza del vegetarismo nella popolazione
La prevalenza di vegetariani nei diversi paesi del mondo è bassa, tuttavia negli ultimi anni il trend è in crescita. In base ad un sondaggio nazionale del 2016 circa il 3.3% degli americani adulti sono risultati vegetariani o vegani e circa il 46% dei vegetariani sono vegani, con una prevalenza maggiore tra i giovani rispetto agli anziani (9). L’istituto italiano di ricerca, Eurispes, riferisce che secondo l’Unione Vegetariana Europea, l’Italia insieme con la Germania ha il più alto tasso di vegetarianismo nell’Unione Europea e che il trend è in aumento rispetto al 6.5% nel 2014 e al 5.7% nel 2015, raggiungendo il 7.1% nel 2016 (10). La percentuale di vegani, che rappresenta la minoranza della popolazione vegetariana, nel 2016 ha raggiunto l’1%, pertanto, attualmente circa l’8% degli italiani sono vegetariani o vegani.
Le ragioni del vegetarianismo sono molteplici, circa il 46.7% è motivato dai benefici sulla salute indotti da questo tipo di dieta e dallo stare meglio, circa il 30 % da ragioni religiose e di sensibilità nei confronti del mondo animale e il 12% circa da ragioni di protezione ambientale.
L’aumentata adesione al modello alimentare vegetariano in Italia è supportato dai dati di consumo della carne: secondo la Coldiretti nel 2015 l’acquisto di carne fresca di bovino è diminuito del 6% e quello di maiale del 9%. Parallelamente vi è stato un aumento esponenziale del consumo di prodotti classici proposti dal menù “vegetariano”, ad esempio l’aumento del 17% nel 2015 delle vendite di soia, riso o latte di mandorla e il rapporto di crescita a doppia cifra di minestre a base di preparati di verdura (38%).
Dieta vegetariana e prevenzione del diabete mellito tipo 2
Gli studi osservazionali riportano un effetto protettivo della dieta vegetariana nei confronti dello sviluppo del DM2 (11). La maggior parte di essi sono stati condotti sugli Avventisti del 7 giorno, un gruppo religioso che è incoraggiato dalla chiesa ad evitare il consumo di carne, pesce, uova, caffè, alcol e tabacco, dei quali circa il 50% consuma una dieta latto-ovo vegetariana, e riportano un rischio di DM2 più basso nei vegetariani rispetto ai non vegetariani (12). I risultati dello studio di Vang (13), uno studio prospettico condotto su 8.401 partecipanti al “The Adventist Mortality Study” (14) e al “Adventist Health Study” (California, USA) (15), mostrano che durante un follow-up di 17 anni, i soggetti che consumavano carne una o più volte la settimana avevano un rischio di DM2 del 29% più alto rispetto a coloro che non ne consumavano e il rischio aumentava al 38% nei consumatori di carne “processata”. Inoltre, l’adesione a lungo termine (17 anni) ad una dieta che includeva consumo di carne una o più volte la settimana incrementava del 74% il rischio di DM2 rispetto a quelli che non ne consumavano mai. Un’analisi ulteriore indicava che parte del rischio era attribuibile al sovrappeso/obesità, infatti dopo l’aggiustamento per peso corporeo e variazione del peso, il rischio di DM2 nei consumatori abituali di carne rispetto ai vegetariani si riduceva dal 74% al 38% ma restava, comunque, più alto. In questa stessa popolazione, il consumo di carne era associato anche ad una mortalità più alta per tutte le cause, solo negli uomini, e per malattia coronarica sia negli uomini che nelle donne (16). L’ipotesi che l’effetto protettivo della dieta vegetariana nei confronti del DM2 possa essere dovuto all’abolizione del consumo di carne è supportata dai risultati di studi condotti su popolazioni onnivore nelle quali il più alto consumo di carne rossa e di carne rossa “processata” si associa ad un aumento del rischio di DM2 (17-19). In particolare, la meta-analisi di Aune et al. (20) riportava un aumento del 21% del rischio di DM2 tra coloro che consumavano carne rossa e del 41% per quella “processata”.
I benefici della dieta vegetariana sul rischio di DM2 non sono attribuibili solo all’abolizione di carne dalla dieta ma anche alla sua ricchezza in alimenti vegetali, una fonte di fibre, polifenoli, vitamine e micronutrienti, molecole con attività biologiche benefiche per la salute, in grado di migliorare la sensibilità insulinica e il metabolismo glico-lipidico. A sostegno di ciò ci sono i risultati del “The Adventist Health Study-2”, uno studio trasversale condotto sugli Avventisti del 7 giorno americani e canadesi, comprendente un campione di oltre 60.000 uomini e donne di diverse etnie, aderenti a diversi modelli di dieta vegetariana (21). In questo studio, l’analisi aggiustata per le variabili confondenti (età, sesso, etnicità, IMC, socio-demografiche e stili di vita) mostra che il rischio di DM2 era più basso del 49% nei vegani, del 46% nei latto-ovo vegetariani e del 30% nei pesco-vegetariani rispetto ai non vegetariani (Tab. 1).
Tabella 1. Rischio Relativo di diabete tipo 2 nei vari gruppi di dieta vegetariana e nei non vegetariani tra gli Avventisti del 7 giorno. Mod da Tonstad S et al., Am J Clin Nutr 2009
I semivegetariani, individui che consumano carne, uova e prodotti lattiero-caseari ≥1 volta al mese e <1 volta la settimana, avevano, invece, un rischio di DM2 intermedio, del 24% più basso rispetto ai non vegetariani. L’analisi, aggiustata per tutte le variabili confondenti eccetto che per l’IMC, mostrava una ulteriore riduzione del rischio di DM2 in tutte le categorie di dieta vegetariana, suggerendo che i benefici di tale modello alimentare sono in parte mediati dal calo ponderale (Tab. 1). Nel sottogruppo della popolazione di neri l’effetto protettivo della dieta vegana e latto-ovo vegetariana era addirittura del 70% e 50%, rispettivamente. In questo studio, parallelamente alla riduzione del rischio di DM2, si osservava anche una riduzione del rischio di ipertensione arteriosa. In sintesi, i risultati dello studio suggeriscono un incremento dell’effetto protettivo passando dal pattern dietetico non vegetariano a quello semi-vegetariano, a quello pesco-vegetariano, al latto-ovo vegetariano fino a quello vegano, che tra tutti risulta il più efficace.
Un aspetto importante da sottolineare è che le diete vegetariane offrono una protezione non solo nei confronti del DM2 ma anche delle malattie cardiovascolari sia nei vegetariani Avventisti che non Avventisti, e della mortalità totale limitatamente agli avventisti (22-23). Al momento l’evidenza dell’efficacia della dieta vegetariana nella prevenzione del DM2 è limitata agli studi condotti sugli Avventisti perché mancano dati su coorti di vegetariani non Avventisti. Tuttavia, come precedentemente detto, l’effetto protettivo di tale tipo di dieta è fortemente supportato sia dai risultati di studi condotti su popolazioni onnivore nelle quali il più basso consumo di carne (24) e il più alto consumo di cereali integrali, frutta e verdura o di pattern alimentari prudenti si associano ad un più basso rischio di DM2 (25-28) che dalla plausibilità dei meccanismi d’azione coinvolti.
Infatti, una dieta a base di alimenti vegetali apporta, in genere, meno calorie rispetto alla “dieta occidentale”, prevenendo il sovrappeso e l’obesità. Inoltre, l’esclusione della carne dalla dieta riduce l’introito di grassi saturi e si associa ad effetti positivi sul profilo lipidico e sul rischio cardiovascolare. Infine, l’elevato consumo di alimenti vegetali incrementa l’introito di fibra e quindi aumenta il senso di sazietà, previene l’incremento del peso corporeo e riduce l’indice glicemico della dieta, e apporta, inoltre, composti bioattivi con proprietà antiossidante e chemio-preventiva.
Dieta vegetariana e controllo glicemico del paziente diabetico
I risultati degli studi d’intervento nei pazienti con DM2 suggeriscono che l’adesione ad una dieta vegetariana offre maggiori vantaggi sul peso corporeo, sul controllo glicemico e lipidico rispetto ad una dieta basata sulle raccomandazioni nutrizionali dell’American Diabetes Society (ADA) e/o dell’European Society for the Study of Diabetes (EASD) (29-30) e si associa ad una maggiore riduzione della dose dei farmaci ipoglicemizzanti.
Nel 2014 è stata pubblicata l’unica meta-analisi disponibile su questo argomento (7) comprendente 6 studi controllati, 5 dei quali hanno valutato gli effetti di una dieta vegana e solo uno quelli di una dieta latto-ovo vegetariana in pazienti con DM2. In tutti gli studi la durata è ≥4 settimane (durata media 23.7 settimane), il campione è rappresentato da 255 pazienti con DM2 con età media 42.5 anni, dei quali 238 vegani e 17 latto-ovo vegetariani. In questi studi la dieta vegetariana è stata comparata con una dieta controllo di tipo onnivoro (31-33) o convenzionale a basso contenuto in grassi (34-35) o con la dieta raccomandata dall’ADA 2003 (36). La meta-analisi mostra che la dieta vegana rispetto a quella di controllo non aveva alcun effetto sulla glicemia a digiuno ma riduceva significativamente l’HbA1c dello 0.39% (95% CI -0.62, -0.15; p<0.001) (Fig. 2) anche se la riduzione era sostenuta essenzialmente da due dei cinque studi. L’entità della riduzione dell’HbA1c indotta dalla dieta vegana è circa la metà di quella ottenuta con l’utilizzo di approcci farmacologici (37-38), essa, però, è clinicamente rilevante perché ha il vantaggio, rispetto alla terapia farmacologica, di non aumentare il rischio di eventi ipoglicemici e di migliorare le altre anomalie metaboliche associate al diabete. Giacché l’HbA1c è un forte predittore di complicanze cardiovascolari, questi risultati sostanziano i benefici delle diete vegetariane nel trattamento del DM2. Inoltre, l’analisi dei singoli studi mostra che il gruppo assegnato alla dieta vegetariana rispetto a quello di controllo tendeva ad avere una maggiore e significativa riduzione del peso corporeo, dei livelli plasmatici del colesterolo-LDL e della microalbuminuria delle 24 ore. Due dei trials inclusi nella meta-analisi sono particolarmente interessanti, sia per la lunga durata dell’intervento che per aver valutato i meccanismi attraverso cui la dieta vegetariana migliora il controllo glicemico (34, 36). Questi due studi valutavano l’effetto di una dieta vegana a basso contenuto in grassi (circa il 10% dell’energia dai grassi, 15% dalle proteine e 75% dai carboidrati) o di una dieta vegetariana (25% dell’energia dai grassi, 15% dalle proteine e 60% dai carboidrati) sul peso corporeo, sui livelli plasmatici di glucosio e lipidi in una popolazione di pazienti diabetici tipo 2 “free living” per un periodo di 74 e 24 settimane, rispettivamente (36, 34). Queste diete erano confrontate con la dieta convenzionale a basso contenuto in energia raccomandata dall’ADA o con quella del Diabetes and Nutrition Study Group (DNSG) dell’EASD, rispettivamente. Sia la dieta vegana che quella vegetariana inducevano una maggiore riduzione del peso corporeo (-4.4 e -6.2 kg, rispettivamente) e dei livelli plasmatici di colesterolo rispetto alla dieta di controllo. In aggiunta, dopo 24 settimane d’intervento, questa dieta migliorava in modo significativo la sensibilità insulinica, le concentrazioni plasmatiche di adipochine e markers dello stress ossidativo rispetto alla dieta di controllo.
Figura 2
Nello studio di Barnard et al. (39, 36) le variazioni del peso corporeo correlavano con le variazioni dei livelli sierici di HbA1c nei pazienti con DM2 sia a 22 che a 74 settimane. In ambedue gli studi la riduzione dei farmaci ipoglicemizzanti era maggiore nel gruppo assegnato alla dieta vegetariana rispetto a quella convenzionale (35% vs 20% nello studio di Barnard et al. 2009 e 43% vs 5% in quello della Kahleova et al. 2011). In entrambi i trials le diete vegetariana e vegana erano ricche in carboidrati derivanti da verdura, frutta, cereali, legumi, alimenti particolarmente ricchi in fibra e a basso indice glicemico. Infatti, nella dieta vegana, l’introito di fibre aumentava fino a 10.8g/die per ogni 1000 kcal mentre rimaneva inalterato nella dieta di controllo. Similmente, nella dieta vegetariana l’introito di fibre incrementava di 6 g/die. In entrambi gli studi l’adesione alla dieta era soddisfacente. Questi risultati dimostrano che una dieta a basso contenuto in grassi e ricca in fibre rappresenta un’utile ed efficace strategia per ridurre il peso corporeo e migliorare l’insulino sensibilità periferica e le anomalie metaboliche nei pazienti con DM2, con una adesione soddisfacente anche a lungo termine (74 settimane).
La sostenibilità a lungo termine della dieta vegana/vegetariana è probabilmente dovuta all’ampia varietà di alimenti disponibili, alla loro alta palatabilità e al maggior effetto saziante. Ovviamente le diete vegana/vegetariana rappresentano dei pattern dietetici estremi che non possono essere facilmente proposti alla maggior parte dei pazienti affetti da DM2 nel mondo occidentale sebbene, come riportato prima, l’adesione ad entrambe le diete durante lo studio fosse soddisfacente. Comunque, un più popolare pattern dietetico seguito per secoli in diversi paesi dell’area mediterranea, la così detta “Dieta Mediterranea” – a basso contenuto in grassi saturi, moderatamente ricca in grassi monoinsaturi e ricca in fibre- quando ristretta in calorie, si è mostrata egualmente efficace nell’indurre un calo ponderale sostenuto (-4.4 kg dopo 2 anni), di entità simile a quello raggiunto con la dieta a basso contenuto in carboidrati e alto in grassi (-4.7 kg). Solo la dieta mediterranea, però, similmente alle diete vegetariane, migliorava la glicemia a digiuno e la sensibilità insulinica in un piccolo gruppo di pazienti con DM2 partecipanti allo studio (40).
È da sottolineare, comunque, che gli studi d’intervento che hanno valutato l’efficacia della dieta vegana/vegetariana sul controllo glicemico nei pazienti con DM2 sono pochi, hanno un numero di partecipanti molto limitato e, in alcuni la durata dell’intervento è di poche settimane. I risultati, inoltre, vanno interpretati con cautela perché i benefici sul controllo glicemico e sugli altri fattori di rischio cardiometabolico non sono consistenti in tutti gli studi e i maggiori effetti si osservano con le diete ristrette in calorie che inducono un calo ponderale, un fattore che notoriamente influenza il controllo glicemico. Sulla base di queste considerazioni l’American Diabetes Association ritiene che, per chiarire l’efficacia delle diete vegetariana/vegana sul controllo del diabete, sono necessari ulteriori studi indirizzati a valutare soprattutto la qualità della dieta, dato che gli studi disponibili sono focalizzati più sugli alimenti che non si consumano piuttosto che su quelli consumati (29).
Dieta vegetariana e controllo delle complicanze del diabete mellito
Le malattie cardiovascolari (MCV) sono responsabili di circa il 70% della mortalità totale nei pazienti affetti da diabete (3). L’utilizzo di diete vegetariane in soggetti con malattia coronarica nota o ad alto rischio di svilupparla hanno mostrato di migliorare i fattori di rischio e ridurre gli eventi cardiovascolari. L’ipertensione arteriosa e la dislipidemia sono due tradizionali fattori di rischio per MCV e ictus cerebrale. L’incidenza di ipertensione essenziale nei pazienti con DM2 è almeno due volte maggiore che nei soggetti non diabetici; infatti, circa il 70% dei pazienti con DM2 presenta elevati valori pressori e l’associazione del diabete con l’ipertensione incrementa il numero di eventi cardiovascolari. Appleby et al. (2002) (41) nella coorte di Oxford dello studio EPIC, osserva che la prevalenza di ipertensione arteriosa e dei livelli di pressione arteriosa sistolica e diastolica erano più bassi nei vegetariani/vegani rispetto agli onnivori. Una review di studi d’intervento, che ha valutato l’efficacia di diete basate su alimenti vegetali sui livelli plasmatici dei lipidi, mostra che l’associazione della dieta vegetariana o vegana con il consumo di frutta a guscio, soia e/o fibre risultava la più efficace nel ridurre le concentrazioni del colesterolo LDL (-35%, un effetto equivalente a quello ottenuto con le statine), seguita dalla dieta vegana e ovo-latto-vegetariana. L’intervento con diete contenenti piccole quantità di carne magra, invece, aveva una efficacia minore sui livelli del colesterolo totale e delle LDL (42). Una più recente review e meta-analisi su questo argomento conferma che le diete vegetariane sono le più efficaci nel ridurre il colesterolo totale e delle LDL e HDL mentre non mostrano alcun effetto significativo sulle concentrazioni dei trigliceridi (43). Ornish et al. (1990) (44) nello studio d’intervento, il Multicenter Lifestyle Demonstration Project (MLDP), mostra, inoltre, che l’intervento con una dieta a basso contenuto in grassi (10%), basata prevalentemente su alimenti vegetali, in pazienti con malattia coronarica, dopo 5 anni determinava un miglioramento della malattia. Nello stesso studio, in un sottogruppo di 55 uomini e 36 donne affetti da malattia coronarica e da DM2, l’intervento con la dieta ricca in alimenti vegetali determinava un miglioramento di tutti i fattori di rischio cardiovascolare paragonabile a quello osservato nella popolazione non diabetica (45). Anche lo studio PREDIMED (46), che ha utilizzato due Diete Mediterranee, una supplementata con olio extra vergine d’oliva e l’altra con frutta secca a guscio, ambedue a basso contenuto in grassi saturi e ricche in alimenti vegetali, ha mostrato una maggiore efficacia della dieta mediterranea sulla riduzione degli eventi CV maggiori (-30%) rispetto alla dieta di controllo in soggetti ad alto rischio CV, incluso i pazienti con DM2 che rappresentavano circa il 50% della popolazione totale.
Circa il 40% dei pazienti diabetici è affetto da complicanze renali. È noto che la quantità e la qualità delle proteine della dieta possono influenzare la funzione renale. Il Nurses’ Healthy Study ha mostrato un peggioramento della funzione renale associato al consumo di proteine animali nelle donne che all’inizio dello studio presentavano un diverso grado di compromissione della funzione renale (47). Solo due studi d’intervento hanno mostrato un miglioramento della funzione renale in pazienti con DM2 trattati con dieta vegetariana: rispetto al controllo, uno studio ha mostrato un miglioramento dell’albuminuria delle 24 ore dopo 4 settimane di dieta latto-ovo vegetariana (33) e l’altro una riduzione significativa della microalbuminuria delle 24 ore (-15.9 mg vs -10.9 mg) dopo 22 settimane di trattamento di dieta vegana (39).
Adeguatezza nutrizionale
Le diete vegetariane e vegane possono essere molto diverse tra loro a seconda della varietà degli alimenti consumati. Sebbene le diete vegetariane si associno ad un più basso rischio di malattie cronico-degenerative, la posizione della Società Italiana di Nutrizione (SINU) circa l’adeguatezza nutrizionale della dieta vegana è piuttosto critica (48).
La dieta vegetariana/vegana rispetto a quella di tipo onnivoro determina una riduzione significativa dell’introito di grassi totali, grassi saturi e colesterolo e un incremento significativo di fibre vegetali, carotenoidi, vitamine C e K, folati, potassio e molecole bioattive con proprietà antiossidante e chemio-preventive. La dieta vegana, però, è carente in alcuni macro-micronutrienti.
Le criticità riguardano i seguenti macro-micronutrienti:
- a) Proteine: l’apporto proteico e la qualità biologica delle proteine nei vegani è lievemente inferiore rispetto a quello degli onnivori. È opportuno, pertanto, aumentare l’apporto proteico del 5-10% rispetto ai livelli di assunzione minimi raccomandati per la popolazione e assicurare l’apporto di aminoacidi essenziali attraverso la combinazione di alcuni prodotti vegetali (ad es. legumi con cereali).
- b) Acidi grassi omega-3: nei vegetariani l’introito di acido alfa-linolenico (ALA), un acido grasso essenziale, è simile a quello degli onnivori mentre quello degli acidi grassi omega-3 a lunga catena, acido eicosopentanoico (EPA) e docosoesanoico (DHA) sono più bassi nei vegetariani e quasi assenti nei vegani. Pertanto, nei vegetariani e vegani è prudente assicurare più alti introiti di ALA attraverso un maggiore consumo di semi di lino, colza, canapa ecc. In condizioni fisiologiche di aumentata necessità quale gravidanza e allattamento al seno o nei soggetti con una ridotta abilità alla conversione di ALA in EPA e DHA, ad esempio pazienti diabetici e o ipertesi, si può aumentare l’introito supplementando la dieta con alghe.
- c) Ferro: l’introito di ferro è più basso o simile a quello delle diete onnivore tuttavia le riserve tissutali e la biodisponibilità tendono ad essere più basse per cui si consiglia di aumentare l’assunzione di ferro nei vegetariani di circa l’80% rispetto a quanto previsto per una dieta omnivora.
- d) Zinco: in ragione della minore biodisponibilità, si raccomanda ai vegetariani di aumentare l’assunzione di zinco del 50% rispetto all’assunzione raccomandata per la popolazione, specialmente quando il rapporto molare fitati/zinco della dieta è elevato.
- e) Calcio: l’apporto di calcio nei latto-ovo vegetariani incontra o eccede l’introito dei non vegetariani mentre nei vegani è di molto al di sotto dei livelli di assunzione raccomandati per cui è necessario un supplemento o il consumo di alimenti fortificati.
- f) Vitamina D: i livelli sierici di vitamina D dipendono dal grado di esposizione al sole e dalla quantità introdotta con gli alimenti. Nei vegetariani e vegani i livelli sierici di tale vitamina sono spesso più bassi rispetto ai non vegetariani. È raccomandato un introito giornaliero di vitamina D da 1.000 a 2.000 UI o anche più. Per evitare deficit è preferibile il consumo di alimenti ricchi in vitamina D quali latte, uova, funghi ecc. o il consumo di alimenti fortificati e quando questi non sono sufficienti, come spesso accade nei vegani, utilizzare un supplemento.
- g) Vitamina B12: tale vitamina non è contenuta negli alimenti vegetali per cui deve essere fornita come supplemento in una o più assunzioni al giorno.
Sulla base di queste evidenze scientifiche, l’adeguatezza nutrizionale della dieta vegana non può prescindere dalla supplementazione di Calcio, Vitamina D e Vitamina B12 mentre nei vegetariani una dieta ben pianificata contenente verdura, frutta, cereali integrali, legumi, frutta a guscio e semi oleosi può essere adeguata dal punto di vista nutrizionale (49).
La posizione della Società Italiana di Nutrizione Umana considera la dieta vegana una scelta accettabile limitatamente ai soggetti adulti sani ma non in altre fasce d’età. La Società Tedesca di Nutrizione sconsiglia l’adozione della dieta vegana nei gruppi di popolazione con bisogni nutrizionali speciali quali appunto le donne in gravidanza e in allattamento, i neonati, i bambini e gli adolescenti (50). Al contrario, l’Academy of Nutrition and Dietetics considera la dieta vegana, se ben pianificata e arricchita con supplementi dietetici e alimenti fortificati in micronutrienti, salutare, nutrizionalmente adeguata e capace di contrastare e curare alcune malattie cronico-degenerative (51). Ritiene, inoltre che essa sia appropriata per tutte le età e le fasi della vita inclusa gravidanza, allattamento, infanzia, adolescenza, negli anziani e atleti e che sia più sostenibile per l’ambiente rispetto alle diete basate su prodotti animali (51).
Conclusioni
La dieta vegetariana/vegana, rispetto ad altri modelli di diete estreme, rappresenta un modello alimentare concreto, adottato da anni da gruppi di popolazioni sulla base di motivi etici.
Le evidenze scientifiche derivanti dagli studi epidemiologici sembrano suggerire un effetto protettivo delle diete vegetariana e vegana sul rischio di DM2 e un miglioramento del controllo glicemico e del profilo di rischio cardio-metabolico negli individui con malattia conclamata.
Gli studi d’intervento indicano che la dieta vegetariana/vegana a basso contenuto in grassi è efficace tanto quanto le diete convenzionalmente utilizzate nei pazienti diabetici, se non di più, sulla riduzione ponderale, il controllo glicemico, la dislipidemia e la funzione renale. Tali evidenze sono basate, però, su pochissimi studi d’intervento gravati anche da limitazioni metodologiche, che non permettono di trarre alcuna conclusione. Pertanto, prima di poter consigliare la dieta vegetariana/vegana come una possibile alternativa alla dieta attualmente raccomandata per la cura del diabete, sono necessari ulteriori studi, su campioni più numerosi di soggetti, indirizzati a valutare soprattutto gli effetti della qualità della dieta piuttosto che la restrizione calorica sul controllo glico-metabolico.
Attualmente gli individui o i pazienti diabetici adulti che per motivi etici desiderino aderire al modello alimentare vegano devono essere informati sul rischio di una possibile inadeguatezza nutrizionale della dieta se essa non è ben pianificata e non include alimenti fortificati con vitamina B12, vitamina D e calcio. Tale precauzione deve essere estesa anche ai gruppi di popolazione adulta con bisogni nutrizionali speciali. L’adozione della dieta vegana in età pediatrica va, invece, sconsigliata perché in tale fascia d’età i fabbisogni nutrizionali sono più alti e più facilmente si può incorrere nel rischio di deficit nutrizionali.
La Dieta Paleolitica
In questi ultimi anni ha destato un certo interesse un tipo di nutrizione che risale all’era paleolitica, precedente all’introduzione dell’agricoltura nella civiltà umana, propria dei nostri antenati cacciatori e raccoglitori (Hunter-Gatherer). Essi si alimentavano (Tab. 2) scegliendo prodotti vegetali e animali, bilanciati in modo differente a seconda della latitudine e delle variazioni climatiche. Le maggiori fonti nutrizionali erano rappresentate dalla carne e da organi di animali, pesci, crostacei, insetti, uova, radici, vegetali frutti di stagione e frutta secca (52).
L’ampia variabilità, nella scelta degli alimenti, spiega perché non esista un unico standard relativo alla dieta paleolitica per come è intesa attualmente, ma ci siano soltanto alcune caratteristiche generali rappresentate dalla presenza di latte solo durante il periodo neonatale e dall’assenza di cereali e legumi introdotti più tardivamente dalle comunità stanziali con l’agricoltura. La dieta Paleolitica ha guadagnato popolarità in relazione ad un supposto beneficio sulla salute, in contrapposizione con le diete “Occidentali (western)”. Le diete così denominate, che sono caratterizzate da alto contenuto di grassi, carni rosse, cibi raffinati e ad alto indice glicemico, hanno dimostrato una correlazione patogenetica positiva con le malattie cronico-degenerative come DM2, obesità e NAFLD e con l’aumento del rischio cardiovascolare (54).
In particolare, è stata proposta l’ipotesi che il cambiamento delle abitudini alimentari da cibi a basso contenuto di carboidrati ad alimenti con elevato contenuto degli stessi, sia in grado di determinare insulino-resistenza, che rappresenterebbe pertanto un meccanismo adattativo. La crescente produzione di prodotti agricoli e i processi tecnologici dell’industria alimentare hanno generato una continua disponibilità di cibi ad elevato contenuto calorico rispetto all’età paleolitica, con un ulteriore aumento del rischio cardiovascolare. Le procedure di lavorazione industriale degli alimenti prevedono, infatti, l’aggiunta di sale e di oli contenenti un surplus di acidi grassi ricchi di omega 6; questo si traduce in un rapporto sfavorevole tra omega 6 e omega 3, fattore in grado di indurre uno stato di infiammazione cronica. Infine, l’elevato contenuto di sale facilita l’insorgenza di ipertensione arteriosa.
Il patrimonio genetico si è rapidamente adattato al cambiamento delle abitudini nutrizionali nel tempo, ma molti sono i soggetti portatori di varianti genetiche che aumentano il rischio di insulino- resistenza e presentano pertanto elevato rischio di sviluppare malattie croniche e patologie cardiovascolari (53).
Tabella 2. Caratteristiche e contenuti nutrizionali delle diverse diete
Studi disponibili
I dati disponibili in letteratura relativi agli effetti della dieta paleolitica sullo stato di salute degli individui che la praticano non sono numerosi, spesso molto brevi e condotti principalmente in soggetti sani.
Nel 1985, in uno Special Article sul New England Journal of Medicine intitolato “Paleolithic Nutrition. A consideration of its nature and current implication” gli Autori, partendo dagli eventi fondamentali dell’evoluzione umana e dalla descrizione delle caratteristiche dell’alimentazione, valutavano l’attualità e l’applicabilità di quei principi nutrizionali alla popolazione americana degli anni Ottanta (55).
Nella tabella 3, vengono mostrate le caratteristiche nutrizionali della dieta paleolitica a confronto con le raccomandazioni nutrizionali vigenti in USA. Nella dieta paleolitica la quota proteica è decisamente elevata, anche in assenza dell’apporto proteico dei derivati del latte. La quota di carboidrati invece non differisce nella quantità ma nella qualità. La dieta paleolitica, infatti, non prevede il consumo di prodotti provenienti dal grano. Inoltre, sempre in relazione alle indicazioni americane, in questo regime alimentare il contenuto di sodio è decisamente più basso, a differenza delle quantità di fibra e di acido ascorbico e di colesterolo che sono più elevate. Nessuna differenza, invece, è evidenziabile per quanto riguarda il contenuto di calcio. Gli Autori concludevano affermando che l’introduzione di alimenti presenti nella dieta paleolitica all’interno della dieta “Western” potrebbe essere utile per modificare abitudini alimentari, correlate con elevato rischio di aterosclerosi e cancro. Tuttavia l’attuazione di questa strategia è limitata a causa delle mutevoli disponibilità dei prodotti nelle diverse stagioni. Va anche sottolineato che non sono ancora disponibili dati definitivi su eventuali carenze di oligoelementi che vi si possono associare.
Tabella 3. Caratteristiche nutrizionali della dieta paleolitica, confrontate con la dieta americana e le raccomandazioni nutrizionali in USA
Una recente meta-analisi (53) ha analizzato l’efficacia della dieta paleolitica sui fattori di rischio per le malattie croniche, confrontandola ad altri regimi nutrizionali. Tra gli studi presenti in letteratura, ne sono stati selezionati quattro, randomizzati e controllati. Nei 159 soggetti arruolati nel braccio a dieta paleolitica rispetto a quello di controllo è stata dimostrata una riduzione della circonferenza vita, dei trigliceridi, della pressione sia sistolica sia diastolica, della glicemia a digiuno e un aumento dell’HDL colesterolo, fattori che caratterizzano la sindrome metabolica, senza, però evidenti modifiche del peso corporeo. Tali studi presentano importanti limiti, essendo stati condotti per tempi brevi (da 2 settimane a 6 mesi), su soggetti sani e senza alcuna valutazione della qualità di vita e sul gradimento di questo tipo di dieta.
Tra i pochi studi effettuati su popolazioni affette da diabete, uno studio svedese randomizzato e di tipo cross-over, ha valutato gli effetti della dieta paleolitica sul controllo glicemico e sui fattori di rischio cardiovascolare (56). Sono stati inclusi 13 pazienti affetti da DM2 (3 donne e 10 uomini), non in terapia insulinica, con un follow-up di 6 mesi. Tutti i soggetti venivano randomizzati a una dieta che ricalcava le linee guida per la nutrizione nel diabete o a dieta paleolitica; dopo 3 mesi, i due bracci venivano incrociati. Il gruppo a dieta standard riceveva informazioni sulle caratteristiche della dieta per il diabete, sul concetto di Indice Glicemico, sulla variabilità e la pianificazione dei pasti. Al gruppo a dieta paleolitica venivano indicati gli alimenti utilizzabili, escludendo derivati del latte e cereali, alimenti raffinati, zuccheri semplici, indicando anche le frequenze di consumo settimanale. All’inizio dello studio e a 3 e 6 mesi veniva effettuato un carico orale di glucosio per la valutazione degli indici di secrezione beta pancreatica e di sensibilità insulinica, un prelievo venoso per valutare l’assetto glicometabolico e lipidico, oltre alla raccolta delle misure antropometriche. I risultati hanno dimostrato che il trattamento con dieta paleolitica determinava un miglior assetto glicometabolico, con miglioramento della sensibilità insulinica, della pressione sistolica (non correlato alla ridotta introduzione di sodio), dell’assetto lipidico, riduzione del peso corporeo e della circonferenza vita. Non c’erano differenze nella calcemia, poiché con le due tipologie di dieta vi era un apporto di calcio sufficiente e comparabile. Inoltre, la dieta paleolitica determinava un minor introito energetico, probabilmente dovuto al maggior potere saziante legato all’assunzione di una quantità maggiore di proteine. La maggiore limitazione di questo studio è la scarsa casistica e il breve tempo di osservazione, che non permette di estrapolare indicazioni nutrizionali più generali su questo tipo di dieta nel soggetto diabetico. Questi dati sono stati confermati in un altro studio (57) condotto su 9 soggetti sani, sedentari, non obesi, che seguivano la propria dieta abituale per 3 giorni, per poi passare alla dieta paleolitica per altri 10 giorni. In questa esperienza, la dieta paleolitica ha determinato una migliore sensibilità insulinica, calcolata con gli indici surrogati (HOMA) e area sotto la curva (AUC), dopo OGTT, senza variazioni significative della glicemia. Inoltre, venivano raggiunti valori di pressione arteriosa e di lipidi più bassi, senza variazioni di peso corporeo. Certamente, anche questo studio presenta il limite della esiguità ed eterogeneità del campione, del ridotto tempo di osservazione, e della mancanza di un gruppo di controllo. Pertanto, non è possibile formulare conclusioni definitive sull’effetto della dieta paleolitica nella popolazione diabetica.
Qualche dato in più riguardante l’effetto della dieta paleolitica sui parametri glico-metabolici è presente nella popolazione obesa. In donne obese in post menopausa, la dieta paleolitica è stata confrontata alla dieta preparata secondo le Nordic Nutrition Raccomandations, con un periodo di follow-up a due anni (58). Il disegno dello studio prevedeva dopo l’arruolamento, una randomizzazione alle due differenti diete, senza restrizione calorica. A 6 e 24 mesi, mediante calorimetria indiretta veniva valutato il dispendio energetico, e venivano raccolti i parametri antropometrici (peso, BMI, circonferenza vita, pressione arteriosa e frequenza cardiaca) e i dati ematochimici (assetto lipidico, glicemia, insulinemia, attivatore tissutale del plasminogeno e inibitore dell’attivatore del plasminogeno di tipo 1). I risultati hanno mostrato che entrambe le diete erano associate ad una riduzione della spesa energetica, della massa grassa, del peso corporeo, della circonferenza vita e dei trigliceridi. Tali modifiche erano più evidenti nel gruppo che seguiva la dieta paleolitica a 6 mesi; ad eccezione della trigliceridemia nessuna differenza veniva però confermata a 2 anni.
Sempre in 10 donne obese in età post-menopausale, è stato condotto uno studio per valutare l’effetto della dieta paleolitica nel ridurre la quantità di grasso ectopico, in particolare nel fegato e nei muscoli. Questo parametro era calcolato mediante spettroscopia in risonanza magnetica protonica (1H-MRS), al basale e dopo 5 settimane dall’inizio della dieta. Allo stesso tempo i soggetti venivano sottoposti a clamp euglicemico iperinsulinemico per valutare la sensibilità insulinica (59). La composizione della dieta prevedeva un 30% di calorie sotto forma di proteine, 40% di grassi, costituiti soprattutto da acidi grassi monoinsaturi, e 30% di carboidrati, senza restrizione calorica. A 5 settimane dall’inizio dell’intervento, tutti i parametri presi in esame si erano ridotti: peso corporeo, BMI, circonferenza vita, pressione diastolica, glicemia, colesterolo totale, trigliceridi, c peptide urinario e HOMA IR. Il contenuto di grasso nel fegato era ridotto del 49% rispetto al basale, ma nessuna differenza veniva osservata per quanto riguarda il contenuto di grassi a carico del tessuto muscolare. Gli autori concludevano sottolineando il miglioramento della insulino-sensibilità epatica, non associata ad un corrispettivo miglioramento nella sensibilità insulinica periferica, valutata con la metodica del clamp e raccomandavano l’esecuzione di trial randomizzati e controllati, di maggior durata, per poter attribuire eventuali benefici della dieta paleolitica nei soggetti con NAFLD.
Un recente studio di intervento ha valutato le modifiche del contenuto di grasso epatico (misurato con spettroscopia protonica in risonanza magnetica) e della sensibilità insulinica (misurata con carico orale di glucosio) e indici surrogati, in 41 donne obese, ciascuna randomizzata a dieta paleolitica o dieta a basso contenuto di grassi, con un follow-up di 2 anni (60). In entrambi i gruppi si otteneva una riduzione del peso, BMI, circonferenza vita, e massa grassa sottocutanea e viscerale. Dopo 6 mesi, la riduzione di grasso epatico, della sensibilità insulinica, dei trigliceridi e del colesterolo totale ed LDL risultava maggiore nel gruppo in trattamento con dieta paleolitica, rispetto a quello con dieta a basso contenuto di grassi, mentre a 24 mesi i risultati erano sovrapponibili nei due gruppi. I benefici a 6 mesi sembravano correlare più con la composizione della dieta paleolitica, più ricca in acidi grassi mono- e polinsaturi, che con la riduzione del peso.
Alcuni studi hanno confrontato l’efficacia della dieta paleolitica rispetto alla dieta mediterranea. In particolare, uno studio svedese ha valutato 29 pazienti maschi con alterazioni del metabolismo del glucosio e in prevenzione secondaria per eventi cardiovascolari, randomizzati a dieta paleolitica ad libitum o a dieta mediterranea, per un periodo di osservazione di 12 settimane. Lo studio aveva l’obiettivo di evidenziare l’introito calorico e il potere saziante associato alle due diete, oltre ai livelli di leptina e del recettore della leptina stessa. L’introito calorico veniva valutato attraverso il diario alimentare e il potere saziante mediante una scala graduata (61). Sette pazienti hanno interrotto lo studio o per peggioramento dello stato metabolico, (2 per ogni gruppo) o per mancata volontà di proseguire con lo schema di dieta (3 solo con dieta paleolitica). Benché i due gruppi mostrassero in generale lo stesso livello di sazietà, la sazietà per caloria introdotta risultava maggiore nel gruppo che seguiva la dieta paleolitica. I livelli di leptina si riducevano del 33% nel gruppo in dieta paleolitica e del 18% nel gruppo in dieta mediterranea, senza differenze in termini di recettori, probabilmente per un miglioramento della sensibilità all’ormone stesso. L’interpretazione data dagli autori faceva riferimento al maggior contenuto proteico, al minor tenore e alla diversa qualità di carboidrati della dieta paleolitica.
In un altro studio, gli Autori hanno voluto analizzare il rischio di adenomi del colon retto incidenti o sporadici associato alla dieta paleolitica e a quella mediterranea. La valutazione degli esiti di 1800 endoscopie, di cui 564 casi e i restanti controlli, e delle abitudini alimentari dei soggetti in esame ha evidenziato che nei pazienti con un elevato consumo di alimenti tipici della dieta paleolitica o di quella mediterranea il rischio di neoplasie incidenti o sporadiche era inferiore rispetto al rischio presente nei pazienti con un consumo inferiore (62). Risultati simili sono stati ottenuti dagli stessi autori in un altro studio, che ha analizzato l’associazione tra consumo di dieta paloeolitica o mediterranea e i livelli di biomarker infiammatori e di stress ossidativo. Anche in questo caso, i livelli più bassi erano evidenti nei soggetti che consumavano le più elevate quantità di alimenti tipici della dieta paleolitica e mediterranea rispetto ai soggetti con consumo più limitato (63).
Infine, è stato recentemente osservato che una comunità di hunter-gatherers, gli Hadza della Tanzania, mostrano una maggiore ricchezza di microbiota intestinale, con marcata biodiversità, rispetto a controlli Italiani, residenti in aree urbane (64). Questi risultati sono di particolare interesse, per le importanti implicazioni tra microbiota e diabete.
Sicurezza e criticità
Dagli studi segnalati finora, risulta evidente che i risultati positivi ottenuti con la dieta paleolitica nel breve termine, tendono a non venire confermati negli studi di maggior durata.
Una delle critiche mosse alla dieta paleolitica è rappresentata dal basso contenuto di calcio, per assenza di derivati del latte. Nello studio di Boers et al. (65), gli autori dimostravano che nei soggetti che consumavano dieta paleolitica a basso introito di calcio rispetto ai controlli, il bilancio dello stesso risultava in equilibrio perché anche l’escrezione urinaria dello ione risultava ridotta. Anche in altri studi viene confermata una riduzione dell’escrezione di calcio dopo dieta paleolitica, con l’ipotesi che il basso contenuto di sale, l’elevata quantità proteica e il potere alcalinizzante possano essere responsabili dell’equilibrio nel bilancio del calcio.
Non sono stati messi a punto indicatori per determinare la motivazione al mantenimento nel tempo di questo tipo di alimentazione. Nello studio di Boers, al termine delle due settimane di studio, l’89% dei soggetti si dichiarava disponibile a proseguire la dieta paleolitica mentre solo il 64% accettava di proseguire la dieta di confronto; in un altro studio al termine del follow-up venivano persi un cospicuo numero di pazienti per la mancata volontà di seguire questo regime alimentare (61).
Seppur molto promettenti, i risultati ottenuti sul metabolismo glucidico non possono essere tradotti in linee guida, per le limitazioni già discusse degli studi che li hanno prodotti (59).
Inoltre, la dieta paleolitica prevede il consumo solo di alimenti stagionali che non subiscono trattamenti industriali, e la loro mancanza in alcuni periodi potrebbe determinare una malnutrizione rispetto a taluni nutrienti come vitamine e sali minerali, per i quali dovrebbe pertanto essere prevista un’integrazione. Infine, non è chiaro se l’assenza di prodotti derivati dai cereali e del latte sia un prerequisito necessario e sufficiente per l’ottenimento di un controllo metabolico ottimale né vi sono dati di sicurezza rispetto all’elevato consumo di proteine nel lungo termine.
In conclusione, sono necessari studi su più larga scala e di durata maggiore per trarre conclusioni definitive sia sull’efficacia della dieta paleolitica nella prevenzione di malattie croniche ed eventi cardiovascolari, sia sui suoi possibili effetti avversi.
La dieta chetogenica
La dieta chetogenica fu introdotta negli anni Venti per la cura dei pazienti pediatrici affetti da epilessia resistente alla terapia farmacologica (66). Nel tempo, a partire dagli anni Sessanta, il principio della dieta chetogenica ha sempre più preso piede anche nella terapia dell’obesità, con l’introduzione della dieta Atkins (67). Più recentemente la dieta chetogenica è stata proposta anche per il trattamento di altre patologie quali diabete, policistosi ovarica, acne e alcune forme tumorali (in quest’ultimo caso, per una possibile riduzione della terapia farmacologica e degli effetti collaterali correlati) (68-69).
Le caratteristiche di questa dieta sono il basso contenuto di carboidrati, corrispondente a un quantitativo giornaliero <50 gr/die, pari circa al 5% del fabbisogno calorico giornaliero, l’alto contenuto di grassi, superiore al 60% del fabbisogno giornaliero e le quantità equilibrate di proteine, senza alcuna limitazione dal punto di vista calorico. Tale regime alimentare induce una condizione metabolica definita “chetosi fisiologica”, da differenziare dalla cheto-acidosi presente nel caso di scompenso metabolico, da cui si differenzia per il mantenimento del pH in ambito fisiologico e per la produzione di livelli più contenuti di chetonemia. I bassi livelli di insulina conseguenti al basso introito di carboidrati determinano un incremento della concentrazione plasmatica di glucagone, con conseguente induzione della lipolisi e maggiore disponibilità di acidi grassi liberi (FFA) circolanti (68). Gli FFA vengono metabolizzati nel fegato a livello della matrice mitocondriale e trasformati in corpi chetonici: l’acido acetacetico e il β-idrossibutirrato, idrosolubili. Dall’acido acetacetico per decarbossilazione enzimatica viene prodotto acetone, che viene eliminato attraverso l’apparato respiratorio (68). L’iperproduzione di acido acetacetico determina la conversione di quest’ultimo verso gli altri corpi chetonici, con comparsa di chetonemia e chetonuria. I corpi chetonici vengono utilizzati come fonte energetica dai tessuti attraverso la via che porta alla formazione da β- idrossibutirrato a due molecole di Acetil CoA, che entrano nel ciclo di Krebs.
È indubbio l’effetto di riduzione del peso corporeo seguente a questo schema dietetico, anche se il meccanismo sottostante è ancora oggetto di dibattito. Inizialmente veniva suggerito che il calo ponderale fosse indotto dalla perdita di energia dovuta all’escrezione dei chetoni. Attualmente, tra le diverse ipotesi, vi è quella della riduzione dell’appetito legato al senso di sazietà per la presenza delle proteine e di sostanze quali gli ormoni gastrointestinali e la leptina (69) o all’effetto diretto di soppressione dell’appetito dovuto ai corpi chetonici. Un ruolo viene anche attribuito all’incremento della lipolisi e degli FFA disponibili, per la riduzione della lipogenesi, e la riduzione del quoziente respiratorio a riposo è il segnale di un più efficiente consumo metabolico dei grassi. Infine, anche la gluconeogenesi, che determina una spesa energetica di circa 400-600 Kcal/die e l’effetto termico
delle proteine, spiegherebbero il calo ponderale ottenuto con la dieta chetogenica.
Un altro effetto positivo legato alla dieta chetogenica (68) è il miglioramento del tono dell’umore, anche se nelle fasi iniziali, nei soggetti che seguono questo regime dietetico, si osserva una tendenza alla sonnolenza. Un altro punto importante è rappresentato dal miglioramento dell’insulino-resistenza e dei parametri glicometabolici nei soggetti diabetici che, in molti casi, devono sospendere la terapia ipoglicemizzante. Questo risultato è stato ottenuto anche con schemi isocalorici chetogenici rispetto a schemi a basso contenuto di grassi.
Di contro, vi sono studi che evidenziano una modifica dell’assetto lipidico in senso aterogeno nei bambini affetti da epilessia non responsiva alla terapia anticonvulsivante (70). In particolare, sottoponendo a dieta chetogenica per sei mesi questi soggetti, si evidenziava al termine dello studio un incremento dei livelli di LDL, VLDL, colesterolo non HDL, trigliceridi e Apo B e una riduzione dei livelli di HDL. Gli Autori concludevano segnalando la necessità di ulteriori studi per verificare se questo stile alimentare potesse nel tempo stimolare la produzione di sostanze infiammatorie e promuovere disfunzione endoteliale e lesioni vascolari di tipo aterogeno.
Studi disponibili
Una review sistematica (71) ha valutato l’efficacia e la sicurezza delle diete a basso contenuto di carboidrati. Sono stati inclusi studi condotti nella popolazione adulta, che aveva seguito per più di 4 giorni un regime alimentare con almeno 500 Kcal/die a contenuto noto di carboidrati e calorie totali. La review ha dimostrato che gli studi presenti in letteratura erano disomogenei per disegno, caratteristiche dei partecipanti, durata del periodo osservato e contenuto di carboidrati. Inoltre, i soggetti che assumevano una quantità pari o inferiore a 60 g/die di carboidrati avevano un’età inferiore o uguale a 53 anni, per cui i risultati ottenuti non sono necessariamente riproducibili in una popolazione con età più elevata. Lo studio ha mostrato che la dieta a basso contenuto di carboidrati si associava a calo ponderale, che correlava con la durata del periodo di dieta e con il contenuto calorico, ma non con il contenuto di carboidrati.
L’effetto della dieta chetogenica sulla composizione corporea, è stato valutato in uno studio in cui 17 maschi sovrappeso o obesi, sono stati sottoposti a schema dietetico ad alto contenuto di carboidrati per 4 settimane, seguito da una dieta chetogenica isocalorica a basso contenuto di carboidrati e a contenuto fisso di proteine, per ulteriori 4 settimane. Lo studio prevedeva anche un programma di attività fisica. Il dispendio calorico è stato misurato attraverso la permanenza in camera metabolica e la composizione corporea mediante DEXA. Lo studio non ha evidenziato un incremento della perdita di grasso corporeo, ma un lieve incremento del dispendio energetico.
Di contro, una review che comprendeva studi sia su modelli animali che su pazienti, e che ha valutato nel lungo periodo la risposta metabolica di una dieta chetogenica a basso contenuto di carboidrati, ha evidenziato che, quando somministrata a ratti di laboratorio, la dieta determina, insieme al calo ponderale, lo sviluppo di nonalcoholic fatty liver disease (NAFLD) e di intolleranza al glucosio (72), quando somministrata a soggetti obesi, si associava oltre che a calo ponderale, anche a una riduzione del contenuto di trigliceridi epatici e a un miglioramento dei parametri metabolici. Va sottolineato che in questo caso la durata dell’esposizione alla dieta era limitata. Gli autori auspicano l’esecuzione di studi a lungo termine per meglio comprendere l’effetto della dieta chetogenica sull’assetto glicometabolico. In un’altra review veniva analizzato l’effetto soppressivo sulla fame della dieta chetogenica e delle diete a bassissimo contenuto calorico (VLED) (73). In particolare, il beneficio clinico della dieta chetogenica veniva evidenziato da un minore senso di fame e maggiore senso di sazietà post-prandiale indipendentemente dal calo ponderale, rispetto alle diete VLED. Il meccanismo sottostante sembra legato all’azione dei corpi chetonici. Obiettivo secondario dello studio era quello di valutare se ci fosse una soglia nella concentrazione dei chetoni che potesse correlare con la soppressione dell’appetito: livelli ematici di beta- idrossibutirrato inferiori a 0.5 mM risultavano efficaci, ma non concentrazioni superiori. Inoltre, si sono studiati gli effetti dei livelli di chetonemia sulle concentrazioni di ormoni regolatori dell’appetito (grelina e colecistochinina), evidenziando che soggetti che presentavano concentrazioni di beta- idrossibutirrato >0.3 mM presentavano soppressione della grelina, mentre nessuna differenza si osservava per diete VLED. Queste osservazioni supportano l’ipotesi che l’effetto di soppressione dell’appetito legato alla dieta chetogenica è legato alla influenza dei chetoni sugli ormoni oressizzanti ed anoressizzanti. Poiché la review considerava un numero esiguo di studi, i risultati emersi dovranno essere confermati con ulteriori osservazioni. Uno studio recente ha valutato le modifiche della composizione corporea e del dispendio energetico in 17 soggetti sovrappeso e obesi di sesso maschile, sottoposti a dieta chetogenica isocalorica (74). Il disegno dello studio prevedeva un primo schema dietetico ad elevato contenuto di carboidrati per 4 settimane, seguito dallo schema isocalorico chetogenetico a contenuto fisso di proteine. La composizione corporea veniva valutata mediante DEXA, mentre il consumo calorico veniva calcolato durante la permanenza per due giorni in una camera metabolica. Con entrambi i regimi dietetici si osservava un calo del peso e della massa grassa, anche se la perdita di grasso era rallentata durante lo schema chetogenico, in coincidenza con il maggior utilizzo di proteine. Il consumo energetico era lievemente superiore con la dieta chetogenica. Non si osservavano variazioni dell’assetto glicemico, pur in presenza di una riduzione della secrezione insulinica, ma un incremento degli FFA disponibili e di glicerolo. Un limite dello studio è la mancanza del gruppo di controllo, oltre alla perdita di peso non intenzionale. Inoltre, durante la permanenza nella camera metabolica era possibile calcolare il dispendio energetico a riposo e per attività della vita quotidiana, mentre al di fuori della camera metabolica i soggetti effettuavano una intensa attività fisica.
Sicurezza e criticità
Dai dati riportati in letteratura, è possibile concludere che la dieta chetogenica nel breve-medio termine, è efficace nel ridurre il senso di fame. Gli effetti sull’assetto lipidico sono discordanti, in quanto i risultati degli studi analizzati depongono sia per lo sviluppo di un profilo aterogeno che per una riduzione dei livelli di colesterolo totale e trigliceridi, pertanto non è possibile dare un giudizio definitivo sul ruolo della dieta chetogenica.
In generale, non è possibile dare un giudizio sull’efficacia e la sicurezza a lungo termine di questi schemi dietetici, per i limiti legati agli studi in termini di durata degli interventi e numerosità del campione. È peraltro stato segnalato il caso di una donna di 51 anni non diabetica, che ha sviluppato chetoacidosi durante una dieta a basso contenuto di carboidrati (75). Secondo gli Autori, la dieta a basso contenuto di carboidrati e ad elevato contenuto di grassi determina un incremento della secrezione di glucagone che, accompagnato a bassi livelli di insulinemia, porta ad un aumento del rapporto fra i due ormoni. La presenza di livelli elevati di FFA, in assenza della inibizione indotta dai carboidrati sul processo beta ossidativo e in presenza di un elevato rapporto glucagone/insulina, genera una elevata concentrazione di acido lattico, causa della chetoacidosi della paziente. Gli Autori pertanto concludono che la chetosi fisiologica presente in corso di diete a basso contenuto in carboidrati potrebbe causare in pazienti predisposti episodi gravi di chetoacidosi, soprattutto se protratte per lunghi periodi.
Infine, va segnalato il Position Statement della Federazione delle Società Italiane di Nutrizione sulla Nutrizione Enterale Chetogena (NEC) come terapia dell’obesità (76). La NEC è una tecnica che prevede la somministrazione ciclica di una soluzione di elettroliti ed aminoacidi in quantità di 30-40 grammi tramite sonda nasogastrica, in continuo e mediante pompa peristaltica. Oltre ai prodotti sopra citati, vengono somministrati inibitori di pompa, lassativi, integratori vitaminici e sali minerali. Gli Autori e rappresentanti delle Società Scientifiche di Nutrizione esprimono un parere negativo su questa pratica, definita “digiuno con scarso apporto proteico”, non priva di pericoli sia a breve (chetosi, perdita di massa magra, squilibri elettrolitici, ecc) che a lungo termine (grave malnutrizione). Inoltre, viene segnalata l’impossibilità di esprimere giudizi sulla reale efficacia di questa tecnica nutrizionale dato l’esiguo numero di studi in merito presenti in letteratura.
Conclusioni
Benché talvolta utili per indurre una rapida riduzione del peso, le diete estreme non hanno dimostrato effetti benefici a lungo termine nel paziente diabetico, né in termini di calo ponderale né tantomeno in termini di riduzione del rischio cardiovascolare. Un corretto approccio nutrizionale nel diabete deve prevedere un’alimentazione varia e bilanciata. Soltanto in questo modo, si può indurre un cambiamento permanente delle abitudini alimentari ed ottenere effetti benefici anche sulla qualità di vita.
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Dieta vegetariana/vegana
Definizione: dieta basata prevalentemente sul consumo di alimenti vegetali e l’esclusione di carne. La dieta è definita pesco-vegetariana se include il consumo di pesce, uova, latte e derivati; latto-ovo-vegetariana se include il consumo di uova, latte e derivati ed esclude quello di pesce e vegana se esclude tutti gli alimenti di origine animale.
Studi nel diabete: riduzione del rischio di diabete mellito tipo 2 e nei pazienti con malattia conclamata riduzione dell’HbA1c, del peso corporeo e miglioramento del profilo lipidico.
Limiti: scarso numero di studi d’intervento e rischio di inadeguatezza nutrizionale della dieta vegana se non adeguatamente pianificata e supplementata.
Dieta paleolitica
Definizione: dieta a moderato contenuto di carboidrati e grassi totali, ad elevato contenuto di proteine e fibre.
Studi nel diabete: miglioramento della sensibilità insulinica e del profilo lipidico, senza apparenti vantaggi su glicemia e calo ponderale.
Limiti: scarso numero di pazienti e breve follow-up.
Dieta chetogenica
Definizione: dieta a basso contenuto di carboidrati, elevato contenuto di grassi totali, moderato contenuto di proteine e basso contenuto di fibre.
Studi nel diabete: scarsi, effetto anoressizzante a breve termine, effetti dubbi su profilo lipidico (possibile effetto aterogeno).
Limiti: popolazioni studiate estremamente eterogenee, prevalentemente soggetti giovani.
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