Focus on: differenze di genere nelle complicanze croniche del diabete di tipo 2

Focus on: differenze di genere nelle complicanze croniche del diabete di tipo 2

Giuseppina Russo1, Giovannella Baggio2, Ilaria Teobaldi3, Angelo De Pascale4, Daniela Bruttomesso5

1Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università di Messina; 2Dipartimento di Medicina Molecolare, Università di Padova; 3MDA Endocrinologia e Malattie del Metabolismo, AOUI-Verona; 4IRCCS Azienda Ospedaliera Universitaria San Martino – IST, Dipartimento di Medicina Interna Cattedra di Endocrinologia, Genova; 5UOC Malattie del Metabolismo, Dipartimento DIMED, Università di Padova

DOI: 10.30682/ildia1801l

 

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Introduzione

Dall’inizio degli anni Novanta numerosi autori, prevalentemente in campo cardiologico, hanno sottolineato come le donne siano meno studiate, meno trattate, eppure più ammalate di malattie cardiovascolari (CVD), che sono la prima causa di morte per il genere femminile (1-2). Tuttavia, tutti i grandi trial che hanno descritto i fattori di rischio per malattie CVD nelle ultime decadi, hanno preso in considerazione casistiche in cui le donne erano per nulla rappresentate o solo in piccola percentuale (3). Inoltre, negli ultimi 40 anni si è assistito ad una importante riduzione della mortalità per malattie CVD nell’uomo (-40%), ma non nella donna, in cui il trend di riduzione è iniziato in ritardo, dall’inizio degli anni 2000 in poi, ed è stato meno evidente rispetto a quanto osservato nel sesso maschile (4).

Da queste premesse è nata la Medicina di Genere, una dimensione della medicina che studia l’influenza del sesso (accezione biologica) e del genere (accezione sociologica) sulla fisiologia, fisiopatologia e patologia umana (5).

È soprattutto in ambito cardiovascolare che sono state descritte importanti differenze di genere in diversi aspetti della patologia. Nella presentazione clinica degli eventi maggiori, ad esempio, l’infarto miocardico raramente si presenta nelle donne con il tipico dolore retrosternale gravativo, mentre prevalgono dolori atipici (addominali, interscapolari, al giugulo) oppure sintomi vaghi quali astenia, ansia, dispnea lieve o angoscia. Anche la mortalità per infarto in fase acuta e durante ospedalizzazione è superiore nelle donne ed alcune patologie cardiache come la sindrome di Takotzubo, la rottura del cuore, la dissezione coronarica incidono per il 90% solo nelle donne. La donna, inoltre, è meno studiata con coronarografia, e meno trattata con PTCA, stent o bypass aorto-coronarico (1, 4-5). Anche lo stroke è più frequente nel sesso femminile, nel quale è gravato da una maggiore mortalità e minore possibilità di recupero (6-7). In tutte queste patologie il diabete ha una grande importanza, a fianco dell’ipertensione, fibrillazione atriale, fumo, sindrome metabolica, emicrania con aura, uso della terapia anticoncezionale, gravidanza e parto.

Anche nel diabete, infatti, vi è evidenza di importanti differenze di genere nelle complicanze sia micro-che macriangiopatiche. Tuttavia, queste evidenze spesso riportano risultati contrastanti in larga parte ascrivibili a differenze metodologiche e nelle caratteristiche della popolazione valutata, il che rende gli studi difficilmente paragonabili tra loro. Inoltre, gli studi che abbiano cercato di trovare una spiegazione “fisiopatologica” a tali differenze sono ancora oggi molto limitati.

In questa rassegna vengono discusse le evidenze disponibili sulle differenze di genere nelle complicanze a lungo termine del diabete di tipo 2 (T2DM).

 

 

Differenze di genere nella macroangiopatia diabetica

Il diabete è un potente fattore di rischio CVD sia negli uomini che nelle donne.

Così come nella popolazione generale, anche nei soggetti con diabete il rischio CVD è, in termini assoluti, maggiore tra i maschi che tra le femmine, tuttavia, evidenze raccolte negli ultimi 20 anni dimostrano come il rischio relativo associato al diabete sia costantemente maggiore in quest’ultime (Fig. 1) (8-13). Una meta-analisi di Peters et al. (13), ha infatti dimostrato come le donne con diabete di tipo 2 (T2DM) abbiano un rischio di coronaropatia aumentato del 44% rispetto agli uomini. Questa meta-analisi, che ha analizzato i dati di 858.507 persone, di età compresa tra 20 e 107 anni, suddivise in 64 coorti provenienti da diverse parti del mondo e, con un follow-up di 5-30 anni, ha calcolato che il rischio di coronaropatia negli uomini con diabete è di 2.16 volte (IC 90% 1.82-2.56) maggiore rispetto a quelli senza malattia, mentre per le donne diabetiche tale rischio è 2.86 volte (CI 2.35-3.38) maggiore di quello delle pari-sesso senza diabete (13). Analogamente, Kalyani et al. (14) hanno dimostrato, in una popolazione di 11.517 persone con età inferiore a 60 anni, seguita per 7-15 anni e senza coronaropatia all’arruolamento, che gli uomini senza diabete avevano un rischio di coronaropatia (Hazard Ratio, HR) 2.43 volte maggiore rispetto alle donne (HR 2.43, CI 1.76-3.35), dopo correzione per i principali fattori di rischio CVD.

Tuttavia, quando veniva esaminato il sottogruppo con diabete, tale differenza di genere si annullava (HR 0.89, CI 0.43-1.83).

 Figura 1. Mortalità cardiovascolare in uomini e donne con diabete. Mod da (8)

 

 

Anche il rischio relativo di stroke è maggiore nelle donne affette da diabete, come dimostrato da un’altra recente meta-analisi di Peters et al. (15) che ha esaminato l’incidenza di stroke fatale e non fatale in 775.385 soggetti, suddivisi in 64 coorti, seguiti per 5-32 anni (dal 1961 al 2002). Confrontando l’incidenza di stroke in soggetti con e senza diabete, il rischio relativo (RR) era di 2.28 (CI 1.93-2.69) nelle donne e di 1.83 (CI 1.60-2.08) negli uomini (Fig. 2).

 

 

Figura 2. Rischio relativo (RR) per qualsiasi tipo di stroke, paragonando individui con e senza diabete; pooled analysis corretta per altri fattori di rischio. Mod da (15)

 

L’eccesso di rischio di stroke legato al diabete nelle donne sembra particolarmente evidente soprattutto nelle fasce di età più giovani, tanto da arrivare a essere oltre 8 volte maggiore nelle donne con T2DM di età compresa tra 35 e 54 anni (16). Inoltre, nel sesso femminile, il diabete si associa ad un’aumentata mortalità intraospedaliera per stroke ischemico (odds ratio: 1.32; 1.06-1.64), mentre questa differenza non si osserva nella popolazione senza diabete (17). È da segnalare, tuttavia, che almeno un ampio studio di popolazione, il Korean Heart Study, condotto su una coorte di 408.022 pazienti seguiti per 10 anni, non ha trovato alcuna differenza di genere nel rischio CVD associato al diabete, un risultato non facile da spiegare, cui possono aver contribuito non definiti fattori etnici o razziali (18).

Ancora molto limitate sono ad oggi le evidenze sulle potenziali differenze di genere nell’ambito dell’arteriopatia periferica, anche se dati del Framingham Study indicano un rischio di claudicatio significativamente maggiore nelle donne diabetiche rispetto a quelle senza diabete, con uno scarto maggiore che tra i partecipanti di sesso maschile (19).

Inoltre, la macroangiopatia diabetica presenta, nel sesso femminile, degli aspetti distintivi di ordine fisiopatologico, clinico, epidemiologico, razziale e sociale (Tab. 1) ancora solo parzialmente indagati (9-11).

 

Tabella 1. Caratteristiche peculiari della macroangiopatia diabetica nella donna

Ad oggi sono state infatti formulate diverse ipotesi per spiegare l’eccesso di rischio CVD nelle donne con diabete, e queste includono: l’esistenza di fattori di rischio peculiari al sesso femminile, il maggior impatto di alcuni fattori di rischio, pur comuni ai due sessi, per potenziamento di specifici fattori o clustering, differenze di ordine biologico, disparità nel trattamento e/o disparità nella risposta al trattamento (Tab. 2).

 

Tabella 2. Possibili meccanismi patogenetici alla base del maggior rischio CVD nella donna con T2DM

Già lo studio INTERHEART (20), un ampio studio internazionale che ha incluso 15.152 casi e 14.820 controlli provenienti da 52 paesi ha dimostrato come il diabete fosse un fattore di rischio “più forte” nelle donne rispetto agli uomini (OR 4.3, 95% CI 3.5-5.2 vs 2.7, 2.7-3.0). Tra gli studi recenti, diversi hanno analizzato la relazione tra fattori di rischio CVD e diabete nei due generi. Esaminando per 8 anni l’incidenza di infarto miocardico, stroke o altre malattie CVD in 8365 soggetti, Schottker et al. (21) hanno dimostrato che il diabete era associato ad un rischio CVD aumentato sia nei maschi (HR 2.36 [CI 1.81-3.09]) che nelle femmine (HR 2.62 [CI 1.96-3.55]). Tuttavia, dopo aggiustamento per i fattori di rischio CVD, HR si riduceva a 2.09 (CI 1.61-2.71) nell’uomo e crollava a 1.71 (CI 1.25-2.35) nella donna, suggerendo che nella popolazione femminile il diabete possa esercitare i suoi effetti negativi tramite un aumentato peso dei classici fattori di rischio CVD, da soli o in sinergia tra loro. Come esempio dello speciale impatto della combinazione di multipli fattori di rischio nel sesso femminile può essere presa la sindrome metabolica (SM) che è più frequente nelle donne con diabete a prescindere dai criteri utilizzati per la sua diagnosi (22) e questo può condizionarne il rischio CVD. Infatti, nel Singaporean National Heart Survey, l’incidenza di eventi CVD (per 1000 person years) era 21.5 in donne con diabete e SM, 5.3 in donne con diabete senza SM, 21.4 in uomini con diabete e SM e 22.5 in uomini con diabete senza SM (23).

Inoltre, gli stessi fattori di rischio potrebbero avere un impatto diverso nei due sessi, come dimostrato dallo studio DAI, uno studio italiano su 11.644 uomini e donne con T2DM senza coronaropatia al baseline seguiti per 4 anni (24). Questo studio ha confermato la maggiore incidenza, in termini assoluti, di coronaropatia negli uomini rispetto alle donne con diabete (28.8% vs 23.3%). Inoltre, ha identificato fattori di rischio diversi nei due sessi: ipertensione e compenso glicemico negli uomini, dislipidemia diabetica nelle donne, area geografica e microangiopatia in entrambi i sessi (Fig. 3). Al contrario, nelle donne, il cattivo compenso glicemico sembra condizionare maggiormente il rischio di stroke. Infatti, Zhao et al. in 30.154 pazienti con nuova diagnosi di diabete seguiti per 6.7 anni, hanno dimostrato che nelle donne ogni punto percentuale di aumento della HbA1c era associato ad un aumento del rischio di stroke del 6%, ma questo non si riscontrava negli uomini (25).

 

 

Figura 3. Predittori indipendenti dell’incidenza di cardiopatia ischemica in uomini e donne con diabete di tipo 2. Mod da (24)

 

Senza dubbio i fattori ormonali giocano un ruolo chiave nel condizionare il dimorfismo sessuale anche nel diabete. Dati dal Rancho Bernardo Study indicano, ad esempio, che nell’uomo bassi livelli di testosterone sono un fattore di rischio di cardiopatia ischemica, mentre nella donna accade l’opposto: elevati livelli di testosterone ne aumentano il rischio (26). I fattori ormonali potrebbero incidere sul rischio CVD anche in modo indiretto, modificando la distribuzione del grasso corporeo (27). L’obesità addominale aumenta il rischio CVD e tale effetto è più spiccato tra le femmine che tra i maschi. Numerosi studi hanno dimostrato che l’obesità addominale ha una prevalenza maggiore tra i diabetici tipo 2 rispetto ai non diabetici e quasi doppia nelle donne rispetto agli uomini con T2DM (40). L’eccesso di obesità addominale in donne con T2DM è stato anche confermato dallo studio Multifactorial Intervention in Type 2 Diabetes – Italy (MIND.IT), uno studio italiano che ha reclutato una coorte di 2465 pazienti con T2DM, con l’obiettivo di valutare gli effetti del trattamento intensivo dei fattori di rischio CVD rispetto alla “usual care” (28). Anche l’ipertensione arteriosa ha una prevalenza maggiore ed una più stretta associazione con il rischio di infarto nel sesso femminile: un aumento del 10% della pressione sistolica si associa infatti ad un aumento del rischio CVD del 30% fra le donne e del 14% fra gli uomini (29). Anche nel T2DM è stato dimostrato come l’ipertensione abbia un impatto negativo sul sistema CVD maggiore nelle donne che negli uomini (20). Riguardo al ruolo della dislipidemia sul rischio CVD, il colesterolo LDL (LDL-C) resta il principale fattore di rischio CVD nel T2DM, anche tra le donne, tuttavia la dislipidemia aterogena (elevati livelli di trigliceridi e bassi livelli di colesterolo HDL, presenza di LDL piccole e dense) sembra avere un impatto maggiore nel genere femminile. Numerosi studi (28, 30-33) hanno dimostrato che le donne diabetiche hanno, rispetto alle non diabetiche, livelli elevati di trigliceridi e LDL-C e bassi valori di HDL-C. È inoltre emerso che nelle donne con T2DM prevalgono sottoclassi di HDL (α-3 HDL) che potrebbero essere meno “atero-protettive” sia sul piano del traffico del colesterolo che su quello della regolazione del processo infiammatorio (34-35).

Alcuni studi, inoltre, dimostrano che la donna diabetica conserva un eccesso di rischio CVD anche escludendo l’effetto di fattori di rischio classici come dislipidemia, ipertensione, o obesità addominale. In effetti, anche se le evidenze vanno considerate parziali, vi è prova che nella donna diabetica vi sia una maggiore tendenza alla ipercoagulabilità (elevati livelli di fibrinogeno, fattore VIIc e plasminogeno), a turbe della vasodilatazione endotelio-dipendente, ad uno stato pro- ossidante e pro-infiammatorio (11, 27).

Un’altra delle ipotesi per spiegare il maggior rischio CVD nelle donne con diabete è che vi sia una disparità nel trattamento dei fattori di rischio maggiori. Il minor raggiungimento dei target per i fattori di rischio CVD nelle donne rispetto agli uomini con T2DM è riportato in modo consistente sia nella letteratura mondiale sia negli studi eseguiti in Italia (27-28, 31-33). A tale riguardo, Rossi et al. (31) hanno valutato le potenziali differenze di genere nella cura del T2DM analizzando i dati degli Annali AMD, un’iniziativa che ha coinvolto circa un terzo dei centri diabetologici italiani con lo scopo di monitorare nel tempo un ampio set di indicatori di outcome e di processo. Questi Autori (31) hanno dimostrato, in una coorte di 415,294 pazienti (45.3% donne, 54.7% uomini) con T2DM seguiti da 236 centri diabetologici, un maggior rischio (+14%) di avere HbA1c ≥9.0%, un maggior rischio (+50%) di avere un valore di BMI ≥30 kg/m2 ed un maggior rischio (+42%) di avere livelli di LDL-colesterolo ≥130 mg/dl nelle donne con T2DM. Analizzando più in dettaglio le differenze di genere nella gestione dei livelli di LDL-C, inoltre, è stato osservato come la discrepanza uomo/donna nel controllo di questo fattore di rischio fosse più evidente nelle pazienti più anziane e con maggior durata di malattia, a prescindere dal trattamento ipolipemizzante, che era paragonabile nei due sessi (32). La presenza di un profilo di rischio CVD meno vantaggioso nelle donne con diabete tipo 2 rispetto agli uomini e la maggior frequenza di fallimento terapeutico fra le donne è emerso anche dallo studio RIACE (33), uno studio osservazionale prospettico che ha indagato l’impatto della filtrazione glomerulare su morbilità e mortalità in una popolazione di 15.773 pazienti con diabete tipo 2 seguiti presso 19 centri antidiabetici italiani. Dati confermati anche dallo studio MIND.IT (28) che ha dimostrato come il controllo della glicemia e dei maggiori fattori di rischio CVD fosse meno soddisfacente nelle donne rispetto agli uomini con T2DM.

Diverse evidenze internazionali hanno imputato il mancato raggiungimento dei target al. fatto che i principali fattori di rischio CVD siano sotto-trattati nelle donne rispetto agli uomini con T2DM (27, 36). Tuttavia, questa tendenza non emerge dai dati italiani. Infatti, i dati degli Annali AMD (31), così come quelli degli studi RIACE (33) e MIND.IT (28) della società italiana di diabetologia, sono tutti concordi nel dimostrare come, in Italia, nei pazienti seguiti dai servizi di diabetologia, il mancato raggiungimento dei target nelle donne con T2DM non sia riconducibile a differenze nella quantità o nella qualità della cura erogata, che in questi studi appare assolutamente paragonabile nei due generi.

Al di là delle disparità di trattamento, le possibili ipotesi per spiegare perché le donne con T2DM raggiungano in minor misura i target dei fattori di rischio CVD restano numerose: la persistenza della percezione che le donne hanno un rischio CVD stabilmente inferiore agli uomini, la sotto-rappresentazione delle donne nei trial farmacologici fin qui eseguiti, la maggior tendenza fra le donne a sospendere i farmaci per l’insorgere di effetti collaterali. Inoltre, mentre non pare esistere una “resistenza” all’azione delle statine o dei farmaci anti-ipertensivi specifica per il sesso femminile (37-38), esiste una segnalazione di una minor efficacia antiaggregante dell’aspirina (39). Anche le ipotesi di una specifica predisposizione su base “biologica” alla macroangiopatia, così come la possibilità che interazioni geni-genere (40) possano influenzare il peso dei fattori di rischio o la loro risposta al trattamento sono a tutt’oggi da dimostrare. Va infine segnalato che peculiarità nei sintomi di stenocardia nella donna e la bassa sensibilità e specificità dei test da sforzo possono ritardare la diagnosi e l’accesso alle terapie e quindi contribuire allo svantaggio per il sesso femminile che ancora persiste in questo ambito.

 

 

Differenze di genere nella neuropatia diabetica

La neuropatia diabetica, una delle complicanze croniche più comuni ed invalidanti della malattia, è caratterizzata da un ampio spettro di alterazioni funzionali e strutturali dei nervi periferici che condizionano un quadro clinico proteiforme, di cui la neuropatia periferica simmetrica distale (Diabetic peripheral neuropathy, DPN) è la forma più comune (41-43).

Gli studi che ad oggi hanno indagato le differenze di genere nella DPN hanno mostrato differenze in termini di prevalenza, progressione e severità della neuropatia.

Com’è noto, la prevalenza della DNP varia in base al metodo utilizzato per la diagnosi ed all’eventuale esecuzione di indagini strumentali, il che rende difficile paragonare tra loro gli studi a disposizione. Seppur con queste limitazioni, vi è evidenza di una maggiore prevalenza della DPN nel sesso maschile (44-46). In uno dei primi lavori, Albers et al. (47), in 429 pazienti con diabete tipo 1 e tipo 2, ha infatti dimostrato una minore ampiezza, una rallentata velocità di conduzione ed una maggiore latenza all’esame della velocità di conduzione nervosa negli uomini rispetto alle donne con diabete. Inoltre, nello studio BARI 2D (48), la prevalenza di DPN, indagata utilizzando il Michigan Neuropathy Screening Instrument (MNSI) in 2.368 soggetti con T2DM e malattia coronarica, era significativamente maggiore negli uomini rispetto alle donne (52.6% vs. 46.2%, p=0.005). Dati confermati anche da uno studio Iraniano che mostrava un OR maschi/femmine per DPN di 2.9, dopo valutazione sia clinica sia con la velocità di conduzione nervosa (45).

Tuttavia, non tutti gli studi sono concordi, dal momento che alcuni Autori non hanno dimostrato alcuna differenza di genere (49-50), mentre altri hanno mostrato una maggiore prevalenza della DPN, soprattutto della sua forma sintomatica, nelle donne. Tra i partecipanti al Canadian First Nation Community (51), il sesso femminile era una variabile indipendente associata alla neuropatia, con un OR di 2.7 volte maggiore (95% CI 1.163-6.220; p<0.05) rispetto al sesso maschile e le donne riportavano più frequentemente i sintomi della neuropatia come addormentamento, formicolio e perdita della sensibilità ai piedi. Inoltre, Valensi et al. hanno descritto una maggiore prevalenza di neuropatia severa, accertata mediante parametri elettrofisiologici, nelle donne rispetto agli uomini con T2DM (16.4% vs 1.3%, p<0.05), senza differenze legate al genere nelle forme più lievi (52).

In particolare, il maggiore coinvolgimento del sesso femminile viene riportato negli studi che hanno indagato la neuropatia dolorosa (53-54), tra cui un ampio studio dei medici di medicina generale Inglesi che ha dimostrato come una percentuale maggiore di donne (38% vs 31%, p<0.0001) riportasse i sintomi della neuropatia, nonostante questa complicanza fosse più frequente negli uomini (19% vs 23%, p<0.0001). Le donne avevano infatti un rischio del 50% maggiore di sviluppare i sintomi dolorosi della neuropatia (OR 1.5; 95% CI 1.4-1.6%) (63). Anche i dati dello studio National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) riportano una maggiore prevalenza dei sintomi della DPN nelle donne rispetto agli uomini con diabete (34.4% vs 31.0%) (55), ed un trend analogo è stato osservato in un ampio studio cinese sulla prevalenza delle complicanze microangiopatiche (56).

Gli uomini con diabete, inoltre, sembrano sviluppare la neuropatia più precocemente rispetto alle donne, come suggerito da uno studio su 1705 pazienti con diabete tipo 2, in cui l’intervallo tra la diagnosi di diabete e l’identificazione della DPN era minore negli uomini rispetto alle donne (7.7 vs 9.2 anni, p<0.01), nonostante non vi fossero differenze di prevalenza della neuropatia tra i due sessi (57). Risultati simili sono stati riportati in uno studio retrospettivo su 376 soggetti con diabete tipo 2, dove gli uomini sviluppavano la neuropatia circa 4 anni prima rispetto alle donne (p=.0006) (Fig. 4) (58).

 

 

Figura 4. Età dei pazienti con diabete di tipo 2 all’esordio della neuropatia. Mod da (58)

 

I dati italiani del Verona Diabetic Foot Screening Program (59), contribuiscono a spiegare le differenze riportate negli studi epidemiologici, dimostrando come la prevalenza della neuropatia era di 2.2% negli uomini e 5.5% nelle donne (p<0.001) quando la DPN veniva valutata tramite questionario, mentre era del 30% senza differenze tra i due generi quando veniva valutata con un metodo clinico più “oggettivo” come il MNSI. Sfortunatamente, uno dei più ampi studi sulla neuropatia, condotto in Italia da Fedele et al. (60), che ha coinvolto oltre 8000 pazienti, non ha specificatamente indagato l’effetto del genere sulla prevalenza e/o severità della DPN.

Differenze legate al genere sono state riportate in modo consistente anche nella progressione della neuropatia diabetica. In una meta-analisi di venti studi con 15.385 casi di amputazione in soggetti con diabete tipo 2 e piede diabetico, gli uomini avevano circa il doppio del rischio di amputazione alle estremità rispetto alle donne (61). Infatti, gli uomini sviluppano più facilmente le ulcere e più frequentemente vanno incontro ad amputazioni alle estremità, mentre le donne mostrano maggiori tassi di mortalità legata alle amputazioni (62-63) (Fig. 5).

Le origini di queste differenze di genere identificate negli studi epidemiologici sulla neuropatia diabetica sono molteplici ed includono fattori genetici, legati allo stile di vita, alla compliance al trattamento e/o alle co-morbilità. Anche il diverso pattern ormonale può giocare un ruolo di rilievo dal momento che sono stati riportati degli effetti specifici degli androgeni sul sistema nervoso (64-65) e bassi livelli di testosterone sono di frequente riscontro nei pazienti con diabete tipo 2 (66-67). Recentemente, inoltre, in modelli animali di DPN (topi BTBR ob/ob maschi e femmine), l’analisi di espressione genica su tessuto nervoso ha identificato una disregolazione dei pathways infiammatori solo nei topi femmina, suggerendo potenziali differenze di genere nei meccanismi fisiopatologici alla base del danno neuropatico (68).

 

Figura 5. Incidenza di amputazioni alle estremità (A) e mortalità associata alle amputazioni (B) per etnia e sesso (per 100.000 pazienti con diabete). Mod da (62)

 

 

Differenze di genere nella Nefropatia diabetica

La nefropatia diabetica (Diabetic Kidney Disease, DKD) è una delle principali cause di malattia renale cronica e ESRD ed è associata ad un aumento della mortalità CVD (43).

Quando si esplora però l’effetto del genere sulla funzione renale è necessario ricordare che le formule più utilizzate per la stima del GFR, CKD-EPI e MDRD, includono il sesso tra le variabili prese in esame, partendo dall’assunto che negli uomini la funzione renale è influenzata dalla maggiore massa muscolare e dalla più elevata produzione di creatinina.

L’effetto del genere nella DKD è ancora più dibattuto, dal momento che alcuni studi hanno indicato il sesso maschile come fattore di rischio indipendente (69-70), mentre altri quello femminile (71) ed altri ancora nessuna differenza (72-73).

Negli uomini è stata dimostrata una maggiore suscettibilità allo sviluppo ed alla progressione della DKD (74). Infatti, anche nel diabete, il sesso maschile, sembra un fattore di rischio di progressione verso la ESRD e la terapia dialitica (75-78), sebbene con risultati talvolta discordanti (79).

Anche i dati relativi alla mortalità nei pazienti con DKD appaiono legati al genere: la mortalità durante trattamento dialitico cronico sembra infatti maggiore nelle donne con diabete, soprattutto se anziane (79-80) come anche confermato dai dati in donne francesi con T2DM nei primi 4 anni dopo l’avvio della dialisi (81) e dai dati del Swedish National Diabetes Registers (82). Un maggior grado di infiammazione e di stress ossidativo o differenze nelle modalità di trattamento nei due generi sono stati i fattori chiamati in causa per spiegare queste differenze (79-82).

Com’è noto, le due espressioni della DKD, ridotto eGFR e albuminuria, possono essere associate ad un diverso set di fattori di rischio, incluso il genere e la differente prevalenza del fenotipo albuminurico/non albuminurico negli uomini e nelle donne con T2DM potrebbe in parte spiegare il diverso rischio associato al genere in questi studi. Già lo studio UKPDS (The United Kingdom Prospective Diabetic Study) aveva identificato il sesso maschile come uno dei predittori indipendenti di albuminuria (83), un trend confermato anche da dati italiani. Nel già citato studio RIACE, il fenotipo non albuminurico era infatti più frequente nelle donne, mentre nel sesso maschile si riscontrava più frequentemente la micro/macroalbuminuria (84-85). Gli stessi dati sono stati confermati negli oltre 120.000 pazienti con diabete tipo 2 del database degli Annali AMD, dove il sesso maschile era associato al fenotipo albuminurico, ed anche in questo studio il profilo di fattori di rischio CVD appariva distinto nei soggetti con albuminuria rispetto a quello dei soggetti con una riduzione dello eGFR (86-87). Inoltre, nei dati longitudinali a 4 anni sull’insorgenza di DKD in pazienti che non presentavano questa complicanza al baseline (88), il sesso maschile era un fattore protettivo nei confronti del declino del GFR (Relative risk ratios, RRRs 0.77, p=<0.001 sesso maschile), mentre era un fattore di rischio (RRR 1.36, p<0.001 per il sesso maschile) per lo sviluppo di albuminuria. Infatti, un altro aspetto importante da considerare è che, al di là del compenso glicemico, anche altri fattori di rischio per DKD potrebbero avere un peso diverso nei due generi, come dimostrato anche nella popolazione non diabetica (89). Alcuni Autori, ad esempio, non hanno dimostrato alcun impatto della dislipidemia diabetica, noto fattore di rischio per DKD (90-91 nelle donne (92-93) e Guo et al. (94) hanno osservato una maggiore associazione dell’iperuricemia con la DKD limitatamente nel sesso maschile.

Numerosi sono i potenziali meccanismi alla base delle differenze di genere riscontrate nella DKD. Senz’altro tra questi vi sono le influenze ormonali: è stato infatti suggerito come gli estrogeni possano avere effetti protettivi sullo sviluppo della malattia renale (95-97), con effetti opposti riportati per il testosterone (98-99). Inoltre, differenze di genere sono state documentate nella risposta ai farmaci bloccanti del sistema renina-angiotensina (RAS) (100). Differenze anatomiche, così come alcune differenze nella riposta emodinamica intrarenale, anche in corso di iperglicemia potrebbero inoltre giocare un ruolo di rilievo (101-103). Infine, dal momento che numerosi geni sono stati chiamati in causa nella DKD (104), anche il background genetico e la presenza di interazioni geni-genere potrebbero conferire una diversa suscettibilità alla DKD, come suggerito da Tien et al. che ha dimostrato un più alto rischio nelle donne diabetiche carriers dell’allele ACE D, ma non negli uomini (105).

 

 

Differenze di genere nella Retinopatia diabetica

La retinopatia diabetica (RD) è senza dubbio una delle più comuni complicanze del diabete ed è, ancora oggi, la principale causa al mondo di cecità tra gli adulti in età lavorativa (43).

Alcuni studi hanno specificatamente indagato le differenze di genere nell’ambito della RD. Uno di questi, condotto su oltre 50.000 pazienti con diabete tipo 2 in Sud Arabia, ha dimostrato una prevalenza maggiore nel sesso maschile sia di RD che di edema maculare (retinopatia, 21.5% nei maschi e 17.3% nelle femmine; edema maculare 6.4% nei maschi e 4.8% nelle femmine), sebbene i dati di prevalenza variassero in base all’età (106). Anche lo studio UKPDS ha dimostrato che il sesso maschile era un fattore di rischio indipendente sia per l’insorgenza di RD che per la sua progressione verso le forme più severe (107-108). Questo trend è supportato anche dai dati su Indiani Pima (109) e dal Wisconsin Epidemiological Study of Diabetic Retinopathy, che ha trovato un maggior rate di “miglioramento” RD nelle donne rispetto agli uomini con diabete (110). Anche dati recenti, riportati in uno studio tedesco che ha valutato la prevalenza ed i fattori di rischio per la RD in una coorte di oltre 6.000 pazienti con T2DM seguiti prospetticamente dal 2000 al 2013, hanno identificato il sesso maschile tra i predittori indipendenti di questa temibile complicanza (111) ed una prevalenza due volte maggiore nel sesso maschile è stata inoltre confermata dai dati dello studio NHANES, recentemente pubblicati (112) (Fig. 6).

 

 

Figura 6. Stima della prevalenza della retinopatia diabetica in soggetti con età maggiore di 40 anni nella popolazione nel National health and Nutrition Examination Surveys (NHANES) 2005-2008. Mod da (112)

 

Tuttavia, non tutte le evidenze sono concordi ed un ampio studio in USA non ha trovato alcuna differenza nella prevalenza dell’edema maculare in base all’età o al genere (113). Inoltre, una meta-analisi (114) condotta su 35 studi che coinvolgevano 22.896 pazienti diabetici sia tipo 1 che tipo 2 non ha dimostrato alcuna differenza di genere nella prevalenza della RD in toto, né quando i diversi stadi della RD venivano considerati separatamente. Che non vi sia una netta prevalenza di genere in questa complicanza è confermato anche da molte altre evidenze, riassunte in una recente review sull’argomento (115), che conclude come l’associazione tra sesso maschile e RD, frequentemente identificata nel T2DM di breve durata, tenda ad indebolirsi col progredire della durata della malattia (116-117), influenzando così le stime di prevalenza. Inoltre, le evidenze ad oggi disponibili sulle potenziali basi fisiopatologiche in grado di spiegare le differenze di genere identificate sono molto limitate.

 

CONCLUSIONI

L’impatto del genere nella gestione del T2DM e delle sue complicanze croniche è oggi molto dibattuto. Differenze di genere possono riguardare lo sviluppo e la progressione sia della micro- che della macroangiopatia, così come i fattori di rischio che le sottendono.

Esistono ormai evidenze consistenti sulle differenze di genere nella macroangiopatia diabetica: l’impatto del diabete sulle complicanze CVD è diverso negli uomini e nelle donne, e queste ultime presentano un rischio relativo maggiore per morbilità e mortalità per malattie CVD, con un pattern di fattori di rischio che appare diverso nei due generi, legato a differenze ormonali, nel metabolismo glucidico e lipidico e ad una diversa distribuzione del grasso corporeo. Dobbiamo ormai avere ben chiaro in mente che le donne con T2DM, anche a parità di cura erogata, non raggiungono i target dei fattori di rischio consigliati dalle società scientifiche al pari degli uomini, anche se le ragioni di questa disparità sono ancora oggetto di indagine. Inoltre, le differenze nella presentazione clinica della malattia possono ritardare la diagnosi e l’avvio di procedure salva-vita. L’ipotesi, infine, suggerita da alcuni studi, che i diversi fattori di rischio CVD possano avere un peso differente a seconda del sesso e del distretto vascolare interessato è un affascinante campo di ricerca ancora aperto.

Differenze di genere sono state riportare anche nella microangiopatia diabetica, anche se ad oggi gli studi che hanno esplorato questo aspetto sono ancora pochi e spesso controversi. Per lo più si tratta di studi epidemiologici, mentre le potenziali differenze nella fisiopatologia delle complicanze microangiopatiche, solo raramente indagate, richiamano al ruolo specifico degli ormoni sessuali sul tessuto adiposo e più in generale sul tessuto vascolare. Nell’uomo dobbiamo temere la DPN che viene prima e prima evolve verso il piede diabetico e, forse, la RD soprattutto all’inizio della storia naturale della malattia, mentre sulla nefropatia diabetica i dati contrastanti potrebbero essere spiegati dal fatto che la prevalenza di genere è diversa nelle diverse forme/stadi di DKD.

Infine, in generale, nelle donne vi è una maggiore mortalità legata sia alle complicanze micro- e macroangiopatiche del diabete, sia alle procedure che usualmente si attuano nelle fasi critiche di queste patologie (stent, bypass, amputazioni, dialisi). La sensazione è che le donne arrivino tardi alla procedura e questo le esponga ad un rischio di morte maggiore rispetto agli uomini, ma la conferma di questa ipotesi ha necessità di studi disegnati ad hoc a questo scopo.

In questi ultimi anni l’attenzione al genere in medicina sta crescendo e sia le società scientifiche, sia le Istituzioni che la letteratura internazionale, incluse le grandi riviste quali Science e Nature (118-119), ripetutamente ci sollecitano a porre nell’Agenda “il genere”, segno che è ormai necessario recuperare il tempo perduto per migliorare l’assistenza degli uomini e delle donne ad elevato rischio CVD, come i nostri pazienti con diabete.

 

 

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