Fenotipi clinici del diabete di tipo 2 e nuovi farmaci anti-diabete

Fenotipi clinici del diabete di tipo 2 e nuovi farmaci anti-diabete

Giulia Bellei, Angela Vazzana, Alessandra dei Cas, Riccardo C. Bonadonna, Maria Maddalena Micheli

Divisione di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo, Dipartimento di Medicina e Chirurgia, Università di Parma e Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma

DOI: 10.30682/ildia1802b

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PREMESSA

In questa rassegna si propongono alcuni semplici fenotipi del diabete di tipo 2 basati sull’esperienza clinica, e si riesaminano le evidenze accumulate dagli studi clinici controllati randomizzati in questi fenotipi con le classi di farmaci anti-diabete. Dati recentissimi confermano che sono individuabili quattro fenotipi nel diabete di tipo 2, con rischio di complicanze molto diverso l’uno dall’altro. Sembra proponibile un uso preferenziale di nuovi farmaci anti-diabete in alcuni di questi fenotipi di malattia.

Per il trattamento del diabete mellito tipo 2 è attualmente disponibile, in aggiunta alla terapia insulinica, un ampio corredo di farmaci anti-diabete, orali ed iniettivi, ciascuno dei quali agisce su meccanismi patogenetici differenti della malattia. La disponibilità di così numerosi strumenti terapeutici, con molteplici possibilità di combinazione di classi farmacologiche, e il dovere dell’appropriatezza della prescrizione impongono la necessità di operare delle scelte, che tengano conto unitamente delle caratteristiche del farmaco e del singolo paziente. Ciò si traduce, secondo l’ottica della medicina di precisione attualmente praticabile, nell’adottare algoritmi terapeutici basati sulla definizione del fenotipo clinico del paziente.

La fenotipizzazione del paziente diabetico prevede in primo luogo il riconoscimento dell’alterazione patogenetica critica alla base della malattia. In tal senso, essendo il diabete mellito tipo 2 definito dalla presenza di una disfunzione β-cellulare, quasi sempre accompagnata da insulino-resistenza, si possono ipotizzare due principali fenotipi fisiopatologici dell’iperglicemia: da un lato il paziente sovrappeso/obeso, la cui iperglicemia cronica è sostenuta principalmente dalla ridotta sensibilità insulinica tissutale (fenotipo “insulino-resistente”), dall’altro il paziente con particolarmente grave disfunzione β-cellulare (fenotipo “iposecretore”). Queste definizioni vanno intese come prevalenza, ma non unicità, di un meccanismo patogenetico sull’altro. Persino al momento della diagnosi, i pazienti con insulino-resistenza isolata mostrano una funzione β-cellulare pur sempre ridotta, e quelli con deficit β-cellulare isolato hanno insulino-sensibilità anch’essa compromessa rispetto alle persone con normale regolazione del glucosio (dati personali).

Parlare di fenotipo di diabete mellito di tipo 2 significa anche considerare categorie di pazienti con caratteristiche peculiari, dalle quali non si può prescindere per operare specifiche scelte terapeutiche che, oltre a consentire l’ottimizzazione del compenso glicemico, apportino anche un beneficio clinico d’insieme. Pertanto una valutazione terapeutica più complessa va riservata al paziente anziano e al paziente cardiorenale, cioè con pregresso evento cardiovascolare/rischio cardiovascolare elevato e/o con malattia renale cronica. 

Si noti che, fatta salva la mutua esclusione dei due fenotipi fisiopatologici, il singolo paziente, in linea teorica, può essere caratterizzato dalla compresenza da uno a tre dei fenotipi appena elencati (Fig. 1).

In queste categorie di pazienti, alla luce delle raccomandazioni delle recenti linee-guida ADA (1) e dei risultati dei trials randomizzati e controllati di sicurezza cardiovascolare per quelli che possiamo definire “nuovi farmaci” per il diabete mellito di tipo 2 – farmaci incretino-mimetici (2-3) e inibitori di SGLT2 (4-5) – accanto all’obiettivo glicemico, si impone il paradigma terapeutico del “treat to benefit”.

Di seguito discuteremo le principali evidenze scientifiche relative ai nuovi farmaci, argomentandole per semplicità espositiva in quattro principali paragrafi, uno per ciascun fenotipo, ricordando tuttavia che nella pratica clinica le considerazioni che seguono non possono rimanere confinate ad una singola categoria ma devono essere integrate, tenendo conto della complessità del paziente.

Il paziente insulino-resistente

L’obesità è riconosciuta quale condizione critica per lo sviluppo di insulino-resistenza (IR) e di diabete mellito di tipo 2, così come di altre malattie croniche severe, prime tra tutte quelle cardiovascolari (6). Giova ricordare a questo punto che il tipico BMI medio dei pazienti italiani con diabete di tipo 2 si aggira intorno a 30 kg/m2; perciò, in termini stretti, circa il 50% dei nostri pazienti soddisfa il criterio diagnostico dell’obesità (8). Inoltre, anche nel diabete di tipo 2, a BMI più elevato corrisponde un grado più severo di insulino-resistenza. Pertanto, il quartile più elevato di BMI, che nella nostra esperienza corrisponde a un BMI ≥33.0 kg/m2, include pazienti con severa insulino-resistenza.

Nonostante il BMI per sé sia associato ad un aumentato rischio di sviluppare diabete di tipo 2, l’attenzione maggiore va posta alla distribuzione corporea del tessuto adiposo: è stato infatti dimostrato che in adulti obesi il tessuto adiposo viscerale, diversamente da quello sottocutaneo, esercita effetti metabolici negativi a livello dei principali tessuti-bersaglio dell’insulina, così da essere associato a IR e a maggiore incidenza di prediabete e di diabete di tipo 2 (7).

È quindi indiscutibile che il calo ponderale è associato a numerosi benefici metabolici, tanto maggiori quanto più si riduce la quota di tessuto adiposo viscerale piuttosto che sottocutaneo. Vale a dire che in pazienti diabetici sovrappeso/obesi, è bene avvalersi primariamente di farmaci che hanno dimostrato di favorire il calo ponderale ed in particolare la riduzione del deposito adiposo viscerale. Mentre gli inibitori di DPP4 hanno sostanzialmente un effetto complessivo neutro sul peso corporeo (9-11), gli analoghi di GLP-1 e gli inibitori di SGLT2 sono capaci di indurre un calo ponderale significativo, che si riflette in un miglioramento della sensibilità insulinica e in un miglior controllo glicemico (2-5). Gli analoghi di GLP-1 esercitano un effetto anoressizzante per azione diretta sul sistema nervoso centrale e parallelamente agiscono sul tratto gastroenterico, rallentando lo svuotamento gastrico e la motilità intestinale. Attraverso questi meccanismi combinati non solo inducono una perdita di peso corporeo significativa nei pazienti diabetici di tipo 2 e/o obesi (12), ma sembrano esercitare un effetto specifico sul deposito viscerale di grasso. L’effetto di liraglutide (e degli analoghi del GLP-1 in generale) sulla distribuzione corporea del tessuto adiposo è stato recentemente dimostrato in uno studio longitudinale, randomizzato e controllato, in cui 62 pazienti obesi con prediabete o diabete di tipo 2 di nuova diagnosi sono stati randomizzati al trattamento con liraglutide (1.8 mg/die) o all’intervento sullo stile di vita. A parità di perdita di peso corporeo complessivo (pari al 7% rispetto al basale) e di controllo glicemico, liraglutide ha determinato una riduzione significativamente maggiore del tessuto adiposo viscerale, quantificata mediante RMN addominale, e un maggiore aumento della sensibilità insulinica (secondo il Matsuda index), rispetto all’intervento sullo stile di vita, mentre non è stata descritta una differenza significativa tra i due bracci nella riduzione del tessuto adiposo sottocutaneo (13). Evidenze favorevoli circa il calo ponderale e la redistribuzione corporea del tessuto adiposo sono disponibili anche per exenatide, che oltre a favorire un calo ponderale persistente nel tempo (14), si è dimostrato efficace nel ridurre sia il deposito adiposo sottocutaneo (15), sia la quantità di tessuto adiposo viscerale, con parallela riduzione dell’IR in pazienti obesi e diabetici (16). L’evidenza di un analogo effetto di exenatide sul tessuto adiposo è confermata, con le limitazioni del caso, anche dai dati di un recente trial di real-world evidence, che dimostra che un trattamento della durata di 6 mesi con exenatide associato a metformina in pazienti con nuova diagnosi di diabete mellito tipo 2 riduce in maniera statisticamente significativa il deposito adiposo viscerale (17). I meccanismi molecolari alla base degli effetti specifici degli agonisti recettoriali del GLP-1 sul grasso viscerale sembrerebbero mediati da uno specifico recettore di GLP-1 espresso a livello adipocitario (18) e coinvolto nella regolazione del metabolismo del tessuto adiposo, ove promuove la differenziazione dei preadipociti, favorisce la lipolisi, riducendo invece la lipogenesi (19).

Diversamente gli inibitori di SGLT2 determinano calo ponderale inducendo una diuresi osmotica con aumentata escrezione urinaria di glucosio, pari ad una perdita calorica giornaliera di circa 200 Kcal. Anche gli inibitori di SGLT2, oltre a determinare una riduzione del peso corporeo totale, modificano la distribuzione corporea del tessuto adiposo. In uno studio che ha analizzato i dati relativi a 3300 pazienti diabetici di tipo 2, arruolati in cinque diversi trials randomizzati e controllati, il trattamento di breve ed intermedia durata (rispettivamente di 12 e 24 settimane) con empagliflozin rispetto a placebo ha determinato una riduzione significativa del peso corporeo e soprattutto una significativa riduzione di molteplici e validati indici surrogati di adiposità viscerale (20). Un analogo effetto degli inibitori di SGLT2 è stato osservato mediante l’impiego di metodiche di imaging (DXA e RMN) per la quantificazione della massa grassa corporea totale, del deposito viscerale e sottocutaneo, in studi di confronto tra empagliflozin e glimepiride (21), tra canagliflozin e glimepiride (22) ed infine tra dapagliflozin e placebo (23). 

Il paziente iposecretore

La disfunzione β-cellulare che caratterizza il diabete mellito di tipo 2 corrisponde ad un difetto di massa funzionale β-cellulare, cioè ad un insieme di alterazioni estremamente variabili della massa β-cellulare e della funzione di ciascuna β-cellula, che insorgono precocemente nella storia naturale della malattia. La scarsa riserva insulinica è più tipica del paziente diabetico di tipo 2 con lunga storia di malattia, in cui il carattere progressivo della disfunzione β-cellulare si traduce in un deficit severo di secrezione ormonale. Nella pratica clinica è possibile quantificare indirettamente la massa funzionale β-cellulare residua attraverso indici surrogati, quali il dosaggio del C-peptide a digiuno, in assenza di rilevante insufficienza renale, e il calcolo dell’indice HOMA- β (24). Specialmente in quei pazienti in cui si identifica il difetto secretivo β-cellulare quale principale alterazione patogenetica, un’attenzione terapeutica precoce dovrebbe essere rivolta al tentativo di preservare la funzione β-cellulare residua (25). Nella nostra esperienza (8), prendendo a indicatore di secrezione il C-peptide a digiuno, il quartile inferiore nei pazienti con diabete di tipo 2 neo-diagnoticato è <0.75 nmol/l (2.25 ng/ml), un valore che, con tutte le cautele del caso, può essere utilizzato come indice clinico di ridotta secrezione.

I GLP-1 RA stimolano la secrezione β-cellulare per interazione con specifici recettori, espressi ad alta densità a livello della membrana cellulare (26). Studi preclinici di esposizione delle isole pancreatiche alle incretine che hanno dimostrato che il GLP-1 è capace di ridurre l’apoptosi e favorire i processi di proliferazione β-cellulare in modelli animali (27), hanno alimentato l’ipotesi che gli analoghi del GLP-1 potrebbero facilitare il mantenimento o perfino l’aumento della massa funzionale β-cellulare. In tal senso sono stati condotti negli ultimi dieci anni vari trials di valutazione dell’effetto dei GLP-1 RA sulla funzione β-cellulare, mediante l’utilizzo di test statici e dinamici. Nel trial LIBRA si è osservata una relazione significativa tra la terapia con liraglutide ed il miglioramento della funzione β-cellulare in pazienti con neo-diagnosi di diabete mellito di tipo 2, verosimilmente sostenuta però dal calo ponderale ottenuto e/o dal miglioramento del controllo glicemico con conseguente riduzione della glucotossicità, piuttosto che da effetti diretti a livello cellulare di liraglutide (28). Nel più recente trial randomizzato-controllato longitudinale di Santilli et al., il trattamento con liraglutide in pazienti obesi con pre-diabete o neo-diagnosi di diabete mellito di tipo 2 è stato correlato ad un significativo miglioramento della funzione secretoria β-cellulare, stimata mediante ß-index, indipendentemente dal calo ponderale e/o dal controllo glicemico (13). Sulla base di tale risultato gli autori hanno ipotizzato che in pazienti con IFG e/o IGT il trattamento precoce con GLP-1 RA possa contrastare il processo di esaurimento della massa funzionale β-cellulare e quindi prevenire lo sviluppo di diabete manifesto. Tali risultati non sono stati osservati solo in studi di breve durata, infatti nello studio randomizzato-controllato di Van Raalte et al. exenatide in somministrazione sottocutanea bi-giornaliera, confrontata con insulina glargine, si è dimostrata capace di migliorare la funzionalità β-cellulare in maniera durevole nel corso di tre anni di trattamento (29).

Per quanto riguarda gli inibitori di SGTL-2, sono disponibili evidenze dell’effetto protettivo sulla β-cellula in modelli murini, in cui l’inibitore del co-trasportatore sodio-glucosio sembrerebbe capace di preservare la massa funzionale β-cellulare attraverso molteplici meccanismi: indirettamente attraverso la riduzione del danno cellulare da gluco- e lipotossicità e direttamente aumentando l’espressione di fattori di trascrizione chiave per la β-cellula (come MafA e PDX1), stimolando la proliferazione β-cellulare e riducendone l’apoptosi e la fibrosi (30-32). Nonostante queste evidenze, occorre porre cautela nell’utilizzo di questi farmaci in pazienti diabetici a ridotta riserva insulinica per l’aumentato rischio di insorgenza di chetoacidosi diabetica euglicemica, in merito al quale sono state emanate due note di sicurezza da parte della European Medicines Agency (EMA) e della Food and Drug Administration (FDA). Tuttavia la metanalisi condotta da Erodu et al. e analogamente lo studio di Kohler et al. sembrano ridimensionare il reale rischio di chetoacidosi diabetica euglicemica associato alla terapia con canagliflozin ed empagliflozin rispettivamente, evidenziando come l’incidenza di questa complicanza acuta del paziente in terapia con inibitori di SGLT2 sia sostanzialmente simile a quella della popolazione generale e correlata alla coesistenza di noti fattori predisponenti (33-34).

Il paziente anziano

Secondo recenti dati ISTAT la prevalenza del diabete aumenta con l’aumentare dell’età, infatti due terzi della popolazione diabetica italiana è ultrasessantacinquenne (35). In diversi studi pubblicati, la mediana dei pazienti italiani ambulatoriali con diabete di tipo 2 è di 69-70 anni, mentre secondo gli Annali AMD del 2012, oltre il 27% dei pazienti ha un’età superiore ai 75 anni. Pertanto, a seconda che si ponga una soglia di 75 o 70 anni di età, il 27-50% dei pazienti con diabete di tipo 2 va considerato portatore del “fenotipo anziano”. Questo dato epidemiologico si traduce clinicamente in una crescente complessità della gestione e del trattamento della malattia, per la grande eterogeneità delle caratteristiche cliniche, cognitive e funzionali di questa specifica popolazione (36).

L’approccio terapeutico, così come l’intensità di cura, non possono quindi essere univoci, ma devono tener conto della presenza di comorbidità, dello stato funzionale e dell’aspettativa di vita del paziente diabetico anziano. L’obiettivo primario del trattamento ipoglicemizzante nell’anziano è la prevenzione dell’ipoglicemia (36-37), nei cui confronti il paziente anziano presenta una maggiore vulnerabilità, per la ridotta efficienza dei meccanismi controregolatori, la concomitanza di insufficienza renale cronica o insufficienza epatica severa, la politerapia, la coesistenza di un deficit cognitivo di entità variabile e la maggiore possibilità di errore nell’assunzione della terapia (38-39). Il soggetto anziano è inoltre più predisposto a manifestare i sintomi neuroglucopenici dell’ipoglicemia piuttosto che quelli adrenergici, con maggiore difficoltà nel riconoscimento della stessa (40). 

L’ipoglicemia severa è particolarmente temibile per l’anziano in quanto aumenta il rischio di cadute e fratture (41), peggiora il deficit cognitivo fino alla demenza (42-43) e si è dimostrata un fattore di rischio indipendente per eventi cardiovascolari fatali e non (44).

Il target glicemico nel paziente anziano deve essere quindi individualizzato, bilanciando i potenziali rischi e benefici del trattamento (37). 

Molti farmaci ipoglicemizzanti presentano limitazioni di utilizzo nel paziente anziano per il rischio ipoglicemico (sulfaniluree, insulina) o di fratture e scompenso cardiaco (pioglitazone) o per alterazioni della funzionalità renale.

Tra i nuovi farmaci antidiabetici, gli inibitori DPP4 sono stati ampiamente studiati in trials clinici randomizzati e controllati nella popolazione anziana (45-50), dimostrandosi una valida opzione terapeutica nei pazienti inadeguatamente controllati con la sola metformina o con intolleranza o controindicazioni alla stessa. Gli inibitori DPP4 presentano molteplici caratteristiche che risultano particolarmente favorevoli nell’anziano: praticità d’uso (somministrazione orale, senza necessità di titolazione, possibile combinazione precostituita con metformina), effetto neutro sul peso corporeo, ottima tollerabilità, sicurezza cardiovascolare (9, 51-52) e basso rischio ipoglicemico (45-50, 53-55). 

Tutte le molecole appartenenti alla classe possono inoltre essere utilizzate in pazienti con compromissione epatica lieve o moderata ed insufficienza renale anche grave, con necessità di adeguamento posologico per tutte tranne linagliptin (56). 

Infine, quale aspetto d’interesse maggiore nella popolazione anziana, diversi studi preclinici hanno indagato l’impatto degli inibitori DPP4 sulle funzioni cognitive: in modelli murini di malattia di Alzheimer il trattamento con sitagliptin si è dimostrato efficace nel ritardare il deposito tissutale di amiloide (57), mentre il trattamento con vildagliptin è stato associato ad un miglioramento del deficit cognitivo (58). Ad oggi tuttavia poche sono le evidenze in merito nell’uomo: uno studio pilota osservazionale ha valutato l’effetto del sitagliptin in aggiunta alla metformina sulle funzioni cognitive di pazienti diabetici anziani, dimostrando stabilità nella performance cognitiva e funzionale per almeno un anno di follow-up (59). Dato confermato nello studio longitudinale retrospettivo di Rizzo et al. su un database di 240 pazienti diabetici anziani con MCI (Mild Cognitive Impairment), in cui l’assunzione di DPP-4i sembra avere un ruolo protettivo sul declino delle funzioni cognitive (60). 

Invece per quanto riguarda gli analoghi del GLP-1 nella popolazione anziana di età superiore a 75 anni, il razionale d’utilizzo è controverso per la limitata esperienza d’uso. Tuttavia, fatta questa eccezione, per l’elevata efficacia, che risulta superiore a quella dei DPP-4i e uguale o superiore a quella di sulfaniluree e pioglitazone, per le evidenze di protezione cardiovascolare e il basso rischio ipoglicemico, questa classe di farmaci rappresenta un’importante opzione terapeutica che deve essere considerata anche nella popolazione anziana (61-65). 

Una sempre maggiore evidenza in letteratura suggerisce il ruolo neuroprotettivo dei GLP-1 RA in modelli animali: in studi preclinici si sono dimostrati efficaci nel ridurre l’apoptosi, nel prevenire lo stress ossidativo a livello neuronale e nel favorire la plasticità sinaptica (66-67). 

Da recenti trials clinici, è emerso un ruolo benefico di exenatide su sintomi motori e cognitivi di pazienti con malattia di Parkinson, che persiste per almeno 12 mesi dall’esposizione (68-69). Inoltre, in uno studio clinico randomizzato placebo-controllo in pazienti con malattia di Alzheimer, il trattamento con liraglutide è risultato efficace nel prevenire il declino metabolico, cognitivo e l’evoluzione della malattia neurodegenerativa (70).

Dai dati riportati in letteratura la terapia con agonisti recettoriali del GLP-1 sembra essere ben tollerata nella popolazione anziana (61-65), tuttavia nausea e vomito rappresentano gli eventi avversi più frequenti, in particolare per le molecole a breve durata d’azione ed interessano il 20-25% dei pazienti trattati nelle prime settimane di terapia. Devono quindi essere utilizzati con cautela in pazienti fragili, con problematiche nutrizionali, monitorando strettamente l’andamento del peso corporeo. Inoltre la modalità di somministrazione per via iniettiva sottocutanea di questi farmaci, nonostante le formulazioni settimanali possano agevolare la compliance terapeutica, può costituire un ostacolo in presenza di deficit motori, visivi o cognitivi e richiedere l’assistenza di un caregivers. 

La scelta d’impiego di inibitori di SGLT2 nel paziente anziano necessita di un’attenta valutazione medica del rapporto rischio-beneficio. Nonostante da scheda tecnica al momento non sia consigliato l’utilizzo di canagliflozin e dapagliflozin nei pazienti di età superiore a 75 anni e di empagliflozin in quelli con oltre 85 anni per ridotta evidenza clinica, è possibile riconoscere alcuni potenziali benefici di queste molecole anche nell’anziano: la somministrazione orale, il basso rischio ipoglicemico, l’effetto protettivo renale e sulla mortalità e morbilità cardiovascolare (4-5, 71-74). 

D’altro canto occorre comunque particolare cautela nei pazienti a maggior rischio di deplezione di volume, poiché l’aumentata escrezione urinaria di glucosio induce diuresi osmotica con maggior rischio di ipotensione arteriosa ed ortostatica, in particolare in pazienti con lunga durata di malattia, alterazione della funzionalità renale e concomitante terapia diuretica, che deve essere rivalutata al momento dell’introduzione della terapia con SGLT-2i (72).

L’insorgenza di infezioni genitourinarie rappresenta, inoltre, un documentato evento avverso di questa classe di farmaci ipoglicemizzanti, a cui sono maggiormente esposti i pazienti di sesso femminile e di età avanzata (71-72). Altra rara, ma temibile complicanza, insorta in 0.2-0.8 casi ogni 1000 pazienti/anno trattati con SGLT-2i, è la chetoacidosi euglicemica, che può interessare pazienti anziani con esaurimento della riserva funzionale pancreatica secondaria alla lunga durata di malattia (75). Infine il trattamento con canagliflozin – dato non confermato per le altre molecole della classe – si è associato ad una maggiore incidenza di amputazioni alle estremità e di fratture, particolarmente temibili paziente anziano in ragione dell’aumentato rischio di cadute (76). 

Il paziente cardiorenale

È ormai acquisito che nel paziente con diabete di tipo 2 è molto frequente il fenotipo della sindrome cardiorenale cronica, articolabile, da paziente a paziente, in sindrome cardiorenale di tipo 2, 4 o 5 (77).

Il dato clinico è quello di un paziente che, di volta in volta, si può presentare con danno d’organo più impressionante a livello cardiovascolare o a livello renale, ma di fatto, se non in modo sincrono, certamente in modo metacrono, presenta molto spesso entrambi i fenotipi. D’altro canto, la suddivisione tradizionale della medicina per organi e apparati si riflette anche sul modo in cui gli studi controllati randomizzati vengono pianificati, e i loro risultati portati all’attenzione della comunità medica. Pertanto, per comodità di esposizione e di riferimento ai principali studi del settore, anche in questo lavoro articoleremo l’esposizione in un sottoparagrafo dedicato al paziente a elevato rischio cardiovascolare e al paziente con malattia renale cronica.

…a elevato rischio cardiovascolare 

Nel discutere le opzioni terapeutiche per il paziente diabetico con pregresso evento cardiovascolare maggiore o con evidenza di malattia cardiovascolare critica, si devono necessariamente considerare i risultati dei trials di outcome cardiovascolare condotti per i GLP-1 RA (2-3) e gli inibitori di SGLT2 (4-5). 

Il trial EMPA-REG OUTCOME, randomizzato e controllato contro placebo, in doppio cieco, condotto su oltre 7000 pazienti affetti da diabete mellito di tipo 2 ad elevato rischio cardiovascolare, ha dimostrato che empagliflozin si associa ad una riduzione significativa pari al 14% dell’endpoint composito primario (mortalità per causa cardiovascolare, infarto del miocardio non fatale, ictus non fatale). Tale risultato è stato in gran parte trainato dall’importante riduzione della mortalità complessiva per causa cardiovascolare, pari al 38% nel gruppo randomizzato ad empagliflozin rispetto a placebo (4). Nella stessa direzione si pongono i risultati del più recente trial di safety cardiovascolare condotto per canagliflozin, in cui sono stati arruolati più di 10000 pazienti diabetici ad elevato rischio cardiovascolare: si è assistito ad una riduzione significativa del MACE a 3 punti pari al 14% nei pazienti randomizzati a canagliflozin, rispetto a placebo. Tuttavia per canagliflozin la riduzione della mortalità globale complessiva è risultata meno evidente rispetto a quanto dimostrato con empagliflozin in precedenza (13% vs 38% rispettivamente), probabilmente anche in considerazione del rischio cardiovascolare complessivamente minore della popolazione di studio del CANVAS PROGRAM, composta per il 30% da pazienti in prevenzione primaria (5), rispetto a quella di EMPAREG-OUTCOME. In base a questi risultati e alle evidenze derivate da studi di real-word evidence (78), sembrerebbe che i benefici sugli outcome cardiovascolari rappresentino un effetto di classe per gli inibitori SGLT2 e si attendono a tal proposito anche i risultati dello studio DECLARE-TIMI per dapagliflozin. 

Le evidenze disponibili di protezione cardiovascolare più forti per la classe di GLP-1 RA sono a favore di liraglutide e semaglutide. 

Nello studio LEADER gli effetti di liraglutide in termini di prevenzione cardiovascolare secondaria sono stati confrontati con placebo in più di 10000 pazienti ad elevato rischio cardiovascolare, con risultati sovrapponibili a quelli ottenuti con gli inibitori di SGLT2 in termini di riduzione di MACE composito a 3 punti (2). Semaglutide ha a sua volta dimostrato superiorità in termini di protezione cardiovascolare rispetto a placebo nel contesto del trial SUSTAIN6 ove si è registrata una riduzione del MACE del 26% nei pazienti randomizzati a farmaco rispetto a placebo (3).

Statisticamente meno convincenti sono i risultati osservati nel trial ELIXA, in cui lixisenatide dimostra la non inferiorità ma non la superiorità in termini di protezione cardiovascolare rispetto a placebo (79).

Nel più recente trial EXSCEL, exenatide LAR non ha dimostrato in termini statisticamente significativi una riduzione dell’endpoint composito primario, pur risultando superiore rispetto a placebo in termini di riduzione della mortalità per tutte le cause (80).

Sembra essere invece neutro l’effetto degli inibitori DPP4 su morbilità e mortalità cardiovascolare: gli studi di safety cardiovascolare SAVOR-TIMI, EXAMINE e TECOS dimostrano la non-inferiorità rispetto a placebo in termini di sicurezza cardiovascolare rispettivamente di saxagliptin, alogliptin e sitagliptin (9-11). Ciò significa che questi farmaci sono da considerarsi sicuri dal punto di vista cardiovascolare, anche se non capaci di esercitare un effetto protettivo aggiuntivo rispetto allo standard di cura. Discordanti sono inoltre le evidenze relative alla relazione tra terapia con inibitori DPP4 e scompenso cardiaco: nello studio SAVOR-TIMI si è osservato un aumento moderato ma statisticamente significativo del rischio di ospedalizzazione per scompenso cardiaco nei pazienti trattati con saxagliptin. Un trend di rischio analogo si è osservato per alogliptin, ma non per sitagliptin; inoltre la potenziale associazione con il rischio di scompenso cardiaco non trova conferma in studi osservazionali retrospettivi condotti su ampi database né in studi più recenti di confronto di inibitori DDP-4 versus comparatore attivo (81-83).

…con malattia renale cronica

La malattia renale cronica, definita come la presenza di proteinuria persistente e/o ridotto filtrato glomerulare, rappresenta un’importante causa di morbilità e mortalità nella popolazione generale e in particolar modo nel paziente diabetico. D’altro canto il diabete mellito è la principale causa di insufficienza renale terminale (End Stage Renal Disease, ESRD): secondo dati recenti del US Renal Data System Report, il 40% dei pazienti che sviluppa l’ESRD è affetto da diabete (84). Tale dato risulta confermato nella coorte di pazienti afferente al German Chronic Kidney Disease (GCKD) Study, in cui il 35% dei pazienti con insufficienza renale cronica (IRC) moderata (definita in base alla presenza di un GFR compreso tra 30 e 60 ml/min/1,73 m2) sono diabetici (85). Risultano sovrapponibili i dati epidemiologici relativi alla popolazione italiana: nello studio multicentrico, prospettico, osservazionale condotto a livello nazionale Nefrodata, i pazienti diabetici rappresentano il 37,7% dei 1263 arruolati con filtrato glomerulare stimato (eGFR) <60 ml/min/ 1,73 m2 (86).

Malgrado l’intervento farmacologico congiunto sul fronte della prevenzione dei riconosciuti fattori di rischio per malattia renale cronica, molti pazienti diabetici presentano proteinuria e continuano a progredire a nefropatia di alto grado (87-88). È dunque evidente la necessità di nuove strategie terapeutiche in grado di complementare i benefici delle terapie già in uso. 

Diverse molecole appartenenti alla categoria degli inibitori di DPP4 hanno dimostrato in modelli preclinici un’azione protettiva nei confronti dei danni renali del diabete, indipendenti dall’azione ipoglicemizzante.

La dipeptidil-peptidasi 4 (DPP4), conosciuta anche come CD26, è una glicoproteina transmembrana di tipo 2 che si trova sia in forma libera, e quindi rilasciata nel circolo sanguigno, sia ancorata alla membrana. È altamente espressa sulla superficie di diverse tipologie cellulari e ha numerosi altri substrati oltre al GLP-1 e al GIP. Nel paziente diabetico presenta, a seguito di un processo di up-regolazione, elevata espressione a livello renale e potrebbe essere coinvolta nell’eziopatogenesi della nefropatia diabetica (89-90). 

I meccanismi alla base dell’azione protettiva di queste molecole sembrano essere molteplici. In modelli murini linagliptin migliora la fibrosi renale riducendo la transizione epitelio-mesenchimale indotta da TGFb2, riduce l’interazione dei prodotti avanzati della glicosilazione (AGE) con i recettori, portando dunque a una ridotta espressione di specie reattive dell’ossigeno (90). 

Un altro substrato di DPP4 è la chemochina SDF-1, espressa a livello podocitario e coinvolta in meccanismi di riparazione tissutale (91). In un recente lavoro di Chang YP et al., saxagliptin risulta avere un’azione protettiva nei confronti della nefropatia diabetica in modelli preclinici, agendo sui livelli di SDF-1α, di cui è in grado di arrestare la riduzione. L’aumento dei livelli di SDF-1α sembra dunque rallentare la transizione epitelio-mesenchimale dei podociti (92) e favorire la natriuresi, agendo a livello del tubulo distale. Al momento tuttavia le evidenze cliniche di tale azione in pazienti diabetici sono scarse e contrastanti.

Sitagliptin (50 mg/die) si è dimostrato in grado di ridurre il rapporto albuminuria/creatininuria (ACR) dopo 24 settimane di terapia in pazienti diabetici con normo-, micro- o macro-albuminuria (93). Anche il trial SAVOR-TIMI, ha mostrato una riduzione della progressione a macroalbuminuria dopo 2,1 anni di follow-up nei pazienti randomizzati a saxagliptin rispetto a placebo (9). Circa linagliptin un dato incoraggiante proviene da un’analisi pooled di quattro RCT condotti in pazienti diabetici e con albuminuria, già in terapia con bloccanti del RAAS, che ha dimostrato un vantaggio di linagliptin rispetto a placebo nella riduzione dei valori di albuminuria a 24 settimane (94). Questo dato non è stato tuttavia confermato ad esempio dai dati del trial MARLINA-T2D, in cui il braccio randomizzato a linagliptin non ha mostrato vantaggi statisticamente significativi in termini di outcome renale rispetto a placebo (90).

Maggiori informazioni circa l’efficacia nella prevenzione del danno renale di linagliptin saranno disponibili quando termineranno i lavori del trial CARMELINA (CArdiovascular Safety & Renal Microvascular outcomE study with LINAgliptin).

In una popolazione composta da pazienti affetti da diabete mellito di tipo 2 ad alto rischio cardiovascolare liraglutide ha dimostrato un vantaggio in termini di outcome renale, se confrontato con placebo, come dimostrano i dati relativi al trial LEADER, in cui, per valutare l’azione del farmaco a livello renale, è stato considerato un esito secondario composito comprendente insorgenza di macroalbuminuria persistente, persistente raddoppio della creatinina sierica e la necessità di intraprendere una terapia renale sostitutiva. Tale esito si è verificato in un numero inferiore di pazienti nel braccio randomizzato a liraglutide rispetto a placebo, e questo dato è trainato principalmente dalla riduzione della percentuale di macroalbuminuria di nuova insorgenza nel braccio in trattamento con liraglutide (95), mentre l’impatto sulla riduzione del filtrato glomerulare non risulta significativo. Il meccanismo in base al quale liraglutide dovrebbe offrire tale protezione in termini di esito renale non è stato ancora del tutto chiarito, ma sembra su base multifattoriale. Studi su modelli preclinici hanno mostrato che i GLP-1 RA sono in grado di ridurre il livello dei marker di flogosi e lo stress ossidativo e, in questo modo, di contribuire alla prevenzione del danno renale.

Minori evidenze sono ad oggi disponibili per quanto riguarda le altre molecole appartenenti alla stessa categoria.

Una recente metanalisi ha confrontato 77 RCT in cui i pazienti erano randomizzati ad analogo GLP-1 e placebo (o trattamento attivo), per valutare gli esiti in termini di mortalità per tutte le cause, patologia CV, nefropatia e retinopatia diabetica. La diagnosi di nefropatia diabetica è stata posta nell’1% dei pazienti randomizzati a GLP-1 vs 1,5% dei pazienti randomizzati a placebo. Il braccio randomizzato ad analogo del GLP-1 non ha evidenziato una riduzione statisticamente significativa del rischio di sviluppare nefropatia diabetica, e questo dato si è confermato sia negli studi in cui il farmaco era confrontato con placebo sia in quelli versus una molecola attiva (96).

I dati più interessanti in termini di nefroprotezione ad oggi sembrano quelli provenienti dagli RCT sugli inibitori di SGLT2.

Già nel 2013 i dati di Yale J-F et al. hanno mostrato che, in pazienti affetti da diabete mellito di tipo 2 e IRC di stadio 3, il trattamento con canagliflozin si associava ad una riduzione dell’escrezione urinaria di albumina statisticamente significativa rispetto a placebo (97).

Nello stesso anno, nel contesto dello studio CANTATA-SU, canagliflozin veniva posto a confronto con glimepiride allo scopo di valutarne sicurezza ed efficacia. Una sottoanalisi di tale studio ha osservato che canagliflozin era in grado di rallentare il declino della funzione renale rispetto a glimepiride, indipendentemente dagli effetti sulla glicemia (22).

Nel 2016 Cherney et al. hanno effettuato un’analisi aggregata dei dati disponibili su empagliflozin in pazienti con micro e macroalbuminuria, evidenziando una riduzione dell’albuminuria statisticamente significativa in entrambe le categorie di pazienti, indipendentemente da compenso glicemico e pressorio (102).

Analoghi risultati sono stati ottenuti per il dapagliflozin: nel 2016 Heerspink, in un’analisi post hoc di studi con dapagliflozin vs placebo, ha mostrato una riduzione statisticamente significativa dell’ACR già dopo 4 settimane di trattamento. Nella stessa direzione si collocano i risultati di Fioretto, che nello stesso anno ha confronto in un’analisi post hoc gli effetti di dapagliflozin alle diverse posologie di 5 mg e 10 mg vs placebo (98-99).

I dati renali più solidi al momento a disposizione sono quelli provenienti dai due grandi studi di sicurezza cardiovascolare che hanno visto come protagonisti empagliflozin e canagliflozin: EMPAREG OUTCOME (4) e CANVAS PROGRAM (5) rispettivamente.

In una sottoanalisi condotta in seno ad EMPAREG OUTCOME si è cercato di determinare gli effetti renali a lungo termine della molecola. Gli outcomes renali secondari prespecificati includevano incipit o peggioramento di nefropatia (definita come progressione a macroalbuminuria, raddoppio della creatinina sierica, inizio di una terapia renale sostitutiva, morte per cause renali) o nuova insorgenza di microalbuminuria. L’endpoint composito renale si è realizzato nel 14% dei pazienti randomizzati a braccio empagliflozin e nel 20% dei pazienti randomizzati a placebo, con un’interessante riduzione del rischio relativo del 38%. In particolare nel gruppo empagliflozin si è registrata una minore incidenza di comparsa o peggioramento della nefropatia, ridotta progressione a macroalbuminuria, minor ricorso alla terapia sostitutiva renale, invece non è stata osservata una riduzione dell’insorgenza di microalbuminuria in pazienti normoalbuminurici. Per tali ragioni sembrerebbe che l’efficacia di empagliflozin nell’ambito della protezione del danno renale sia da intendersi particolarmente in termini di prevenzione secondaria.

Altro dato rilevante riguarda l’andamento del eGFR: empagliflozin infatti è il primo farmaco ad aver dimostrato un’interruzione della progressione del declino del filtrato glomerulare. I meccanismi alla base dell’azione nefroprotettiva non sono stati ancora del tutto compresi nella loro complessità, analogamente a quanto già osservato per i meccanismi di protezione cardiovascolare. Tuttavia è noto che l’azione degli inibitori di SGLT2 a carico del co-trasportatore SGLT2, espresso a carico della porzione prossimale del tubulo contorto renale, induce, contemporaneamente all’escrezione di glucosio, un minore riassorbimento di sodio. Questo si traduce in un minor stimolo a carico della macula densa, con conseguenti ripristino di un adeguato feedback tubulo-glomerulare, compromesso nella nefropatia diabetica, vasocostrizione a carico dell’arteriola afferente glomerulare e riduzione della pressione intraglomerulare (100-101).

L’azione protettiva a livello renale sembrerebbe qualificarsi come effetto di classe, in base anche ai dati presentati in CANVAS PROGRAM per canagliflozin. Circa l’efficacia in termini di protezione renale di dapagliflozin si attendono i risultati dello studio Dapagliflozin Effect on CardiovascuLAR Events (DECLARE-TIMI 58); ancor più attesi sono i risultati dello studio CREDENCE, specificamente disegnato al fine di valutare la capacità di canagliflozin rispetto a placebo di limitare la progressione della compromissione della funzionalità renale in pazienti diabetici di tipo 2 con malattia renale cronica allo stadio 2 o 3 e macroalbuminuria al basale.

Fenotipi clinici, rischio di danno d’organo e uso dei nuovi farmaci per il diabete di tipo 2

In questo lavoro abbiamo concentrato la nostra attenzione su fenotipi del diabete di tipo 2 a nostro parere individuabili anche durante la normale pratica clinica, che possono suggerire un uso differenziato degli strumenti terapeutici oggi a nostra disposizione. Come già accennato, la figura 1 riassume questa impostazione mostrando che ciascuno dei due fenotipi fisiopatologici, l’insulino-resistente e l’insulino-deficiente, può associarsi sia al danno cardiorenale sia all’età avanzata. Di conseguenza vi è una scala di complessità dei fenotipi dei pazienti con diabete di tipo 2, a cui corrisponde una crescita del rischio delle complicanze cardiorenali.

Una recentissima pubblicazione ha portato fortissime evidenze a supporto della tesi che, nel diabete di tipo 2, esistano dei fenotipi, individuabili con misure semplici, con diverso rischio di danno d’organo, e merita di essere qui ricapitolata (101). Mediante lo studio intelligente di diverse coorti di pazienti di cui sono disponibili anche i dati prospettici, sulla base di parametri che, in teoria, non dovrebbero mancare nell’inquadramento iniziale dei nostri pazienti con diabete (età, sesso, BMI, glicemia e C-peptide a digiuno, HbA1c, anticorpi anti-GAD), nel diabete di tipo 2 sono individuabili due grandi classi di pazienti, una con diabete grave e l’altra con diabete moderato. Il diabete grave si articola a sua volta in diabete insulino-deficiente e in diabete insulino-resistente. Il diabete moderato si articola ulteriormente in diabete correlato a obesità e in diabete correlato all’età avanzata.

A questi 4 sottotipi di diabete di tipo 2, corrispondono rischi diversi di danno d’organo. Il paziente con diabete grave insulino-deficiente è particolarmente vulnerabile alla retinopatia. Il paziente con diabete grave insulino-resistente presenta il rischio massimo di eventi cardiovascolari e renali. Il paziente con diabete moderato correlato all’obesità presenta il rischio più basso di danno d’organo. Il paziente con diabete moderato correlato all’età, pur avendo rischio relativo di danno d’organo solo modestamente elevato, presenta però un rischio assoluto elevato di eventi renali, di eventi cardiovascolari e anche di retinopatia (103).

Pertanto, i fenotipi clinici selezionati in questa nostra rassegna trovano un riscontro molto incoraggiante in questi dati di recente pubblicati, che dimostrano l’associazione fra determinati fenotipi e selezionati esiti clinici. Combinando le diverse evidenze, ci sentiamo di proporre lo schema della figura 2, in cui la distinzione dei pazienti in diversi fenotipi permette anche di individuare i pazienti nei quali l’uso dei nuovi farmaci va considerato con particolare attenzione, in un’ottica che mira in primis alla protezione dal danno d’organo e, specie per quanto riguarda il paziente anziano, alla minimizzazione dei rischi dovuti alla terapia anti-diabete. È indubbio che l’incremento della pura appropriatezza della terapia anti-diabete dovrebbe portare nel nostro Paese a un uso delle nuove classi di farmaci molto più esteso dell’attuale.

Fonti di finanziamento

Questo lavoro è stato sostenuto in parte da fondi di ricerca della Università di Parma a RCB e ad ADC.

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