Alessandro Doria
Research Division, Joslin Diabetes Center, and Department of Medicine, Harvard Medical School, Boston, MA
Introduzione
Gran parte dell’aumento in morbidità e mortalità associato con il diabete, in particolar modo con il tipo 2, è dovuta alle complicanze macrovascolari di questa malattia. Rispetto ai soggetti con normale tolleranza glucidica, i pazienti diabetici presentano un rischio di morte cardiovascolare che è dalle due alle quattro volte più elevato (1-2). L’impatto del diabete sulla malattia coronarica è cosi profondo che i pazienti diabetici che non hanno una storia di infarto miocardico hanno lo stesso rischio di sviluppare un evento coronarico acuto dei pazienti non diabetici che hanno avuto un infarto in passato (3). Inoltre, la presenza del diabete peggiora la prognosi delle sindromi coronariche acute essendo associata ad un aumento della frequenza di complicanze post-infarto (4). Una parte di questo aumento del rischio cardiovascolare è dovuta a fattori frequentemente associati con il diabete quali l’insulino-resistenza, l’obesità viscerale, l’ipertensione, l’aumento del colesterolo LDL e la diminuzione del colesterolo HDL (2, 5). Questi tratti metabolici possono precedere di molti anni l’insorgenza del diabete di tipo 2. Una volta che il diabete è insorto, all’azione di questi fattori di rischio si aggiunge l’effetto proaterogeno dell’iperglicemia attraverso la formazione di prodotti di glicazione, l’attivazione della protein kinase C, l’aumentata produzione di superossido, polioli ed esosamina, e ad altri meccanismi non ancora noti (6-8).
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Anche se tutti i soggetti diabetici sono a rischio di complicanze cardiovascolari, la suscettibilità agli effetti aterogeni del diabete varia da paziente a paziente, in parte in relazione al background genetico. Il ruolo dei fattori genetici nello sviluppo della malattia coronarica è noto da molti anni (9). In uno studio svedese pubblicato nel 1993, il 50% dei gemelli monozigoti di pazienti deceduti per cause cardiovascolari era deceduto a sua volta prima dei 70 anni, mentre la mortalità era solo del 10% in soggetti della stessa età non selezionati sulla base della storia cardiovascolare dei loro gemelli (10). Vari studi hanno dimostrato che i fattori genetici sono importanti per la definizione del rischio cardiovascolare anche nella popolazione diabetica. In uno studio di famiglie con diabete di tipo 2, Wagenknecht e collaboratori hanno riscontrato che il 50% della variabilità del contenuto di calcio nei vasi coronarici (un indice di aterosclerosi) è spiegato da fattori familiari (11). Valori simili di ereditarietà (41%) sono stati ottenuti da studi dello spessore dell’intima carotidea come indice di aterosclerosi subclinica (12). Le stime sono simili se vengono considerate nell’analisi covariate come i livelli di HDL, peso corporeo, e ipertensione. L’ereditarietà del rischio cardiovascolare tra i soggetti diabetici non è quindi dovuta all’aggregazione familiare di fattori di rischio cardiovascolare tradizionali ma ad altri fattori genetici non ancora noti.
L’identificazione delle varianti genetiche che modulano tale suscettibilità potrebbe avere importanti risvolti. In primo luogo, la conoscenza di queste varianti potrebbe fornire ragguagli sui meccanismi attraverso i quali l’iperglicemia favorisce la formazione e la progressione della placca aterosclerotica. A loro volta, queste nuove conoscenze potrebbero suggerire nuovi targets per lo sviluppo di farmaci per la prevenzione ed il trattamento della malattia coronarica che siano efficaci in modo specifico nella popolazione diabetica. In secondo luogo, queste varianti potrebbero essere usate per costruire algoritmi che permettano l’identificazione precoce di individui a rischio cardiovascolare particolarmente elevato, in modo da sottoporli a misure preventive particolarmente aggressive. Infine, queste conoscenze potrebbero permettere la suddivisione dei pazienti diabetici in sottogruppi con diversa sensibilità genetica alle varie terapie disponibili in modo da attuare dei programmi di medicina personalizzata.
Studi di geni candidati
Come nel caso di altre malattie multifattoriali, l’approccio iniziale per identificare questi geni è stato quello di studiare geni candidati scelti sulla base della loro funzione e di ciò che è noto sull’eziopatogenesi della malattia aterosclerotica. Alcuni dei geni candidati che sono stati studiati in tal modo sono riportati nella tabella 1. Questi studi sono stati spesso caratterizzati da una numerosità limitata e frequentemente le associazioni riscontate in uno studio non sono state confermate da studi seguenti. Ciononostante, questo approccio ha generato alcuni risultati interessanti, come per esempio quelli riguardanti il gene per l’adiponectina – una citochina prodotta dal tessuto adiposo avente un’azione insulino-sensibilizzante (13). L’adiponectina ha anche un’azione anti-aterogena diretta sulla parete vasale ostacolante l’adesione di monociti all’endotelio, la proliferazione delle cellule muscolari lisce, e la formazione di foam cells (14). In una metanalisi di quattro studi diversi di pazienti diabetici, un polimorfismo in un introne del gene per questa “adipochina” (rs1501299) è risultato essere associato con un aumento di due volte del rischio di malattia coronarica (15). Tale effetto sul rischio cardiovascolare sembra essere mediato da una diminuzione dei livelli circolanti di adiponectina nei portatori dell’allele a rischio del polimorfismo rs1501299 o di altre varianti in “linkage disequilibrium” con questo (16). Anche i geni codificanti per i recettori dell’adiponectina potrebbero rivestire un ruolo importante come indicato dall’associazione riscontrata in soggetti diabetici americani ed italiani tra malattia coronarica ed alcuni polimorfismi nel gene ADIPOR1 (uno dei tre recettori dell’adiponectina identificato finora) (17). Queste varianti genetiche sono anche associate con un’espressione più bassa di ADIPOR1 (17). L’ipotesi è quindi che l’effetto genetico sul rischio cardiovascolare sia dovuto ad una diminuzione dell’azione anti-aterogena dell’adiponectina nei portatori degli alleli a rischio. Risultati interessanti sono stati ottenuti anche per tre varianti aventi un effetto negativo sulla trasmissione del segnale insulinico: ENPP1 K121Q, IRS1 G972R, eTRIB3 Q84R (18-20). Per la prima di queste varianti, la quale potenzia l’effetto inibitorio sul segnale insulinico della fosfodiesterasi ENPP1, è stata riscontrata un’associazione con un rischio maggiore di eventi cardiovascolari e con un’età più giovane alla loro insorgenza, soprattutto in presenza di obesità (18). Considerate insieme, queste tre sostituzioni amminoacidiche conferiscono un aumento del 18% del rischio cardiovascolare nonché una diminuzione della sensibilità insulinica sia a livello endoteliale che sistemico (21). Nel complesso, questi risultati confermano la ben nota associazione tra insulino-resistenza e malattia coronarica e suggeriscono dei possibili “targets” per lo sviluppo di nuovi agenti farmacologici che possano spezzare questo legame.
Studi genome-wide
Gli studi di geni candidati sono utili, ma, riguardando geni di cui già si sospetta un ruolo nello sviluppo ed evoluzione della placca aterosclerotica, sono diretti ad ottenere conferme piuttosto che a fornire nuove informazioni sui meccanismi del processo aterosclerotico. Negli ultimi 6-7 anni è stato però possibile superare questo paradigma ed estendere lo studio a gran parte dei geni del genoma umano senza doversi necessariamente basare sulle conoscenze disponibili al momento dello studio. Due fattori hanno reso possibile questo nuovo approccio. Il primo è la disponibilità di dati sul linkage disequilibrium (il fenomeno per cui due polimorfismi nella stessa regione del genoma tendono ad essere correlati) lungo tutto il genoma umano. Sulla base di questi dati, generati dal progetto HapMap e più recentemente dal progetto 1000 Genomes, è stato possibile scegliere dei sets di polimorfismi che servano da marcatori di tutti gli altri polimorfismi del genoma umano. Il secondo fattore è stato lo sviluppo di metodi basati su microarray permettenti la tipizzazione di centinaia di migliaia, o addirittura di milioni di questi polimorfismi in un unico assay. La combinazione di questi due fattori ha portato ai cosiddetti “genome-wide association studies” o GWAS, attraverso i quali è possibile studiare la presenza di associazioni tra varianti genetiche e malattie umane, o qualsiasi altra variabile biologica, lungo l’intero genoma, senza dover formulare ipotesi a priori.
Va tenuto presente che l’approccio GWAS non è senza problemi. Dal momento che in ciascuno studio vengono condotti centinaia di migliaia di tests di associazione, è possibile che alcune varianti raggiungano il livello convenzionale di significatività statistica (p<0,05) per puro caso. È quindi necessario usare un livello di significatività molto più rigoroso (come per esempio p<5×10-8, assumendo che vengano testati un milione di polimorfismi). Questo significa che, per mantenere la necessaria potenza statistica, è necessario che la numerosità dei campioni di casi e controlli inclusi nello studio sia molto elevata, cosa che a sua volta determina una notevole complessità organizzativa e la necessità di considerare insieme vari studi attraverso delle metanalisi.
Studi GWAS nella popolazione generale
Tramite l’approccio GWAS sono stati identificati finora più di 40 loci genetici robustamente associati con la malattia coronarica nella popolazione generale (Tab. 2) (22-24). Analizzando questi risultati, si possono notare alcune caratteristiche in comune con i loci identificati nel caso di altre malattie multifattoriali. La prima è che gran parte delle varianti genetiche associate con la malattia coronarica determinano un aumento piuttosto modesto del rischio cardiovascolare, nell’ordine del 10-20%. Il secondo aspetto è che gran parte di queste varianti sono localizzate in zone non codificanti del genoma, il che suggerisce che il loro effetto sul rischio cardiovascolare sia mediato da alterazioni dell’espressione genica invece che da alterazioni della sequenza aminoacidica. Il terzo aspetto è che i geni che sono situati in vicinanza di queste varianti, e che si suppone siano influenzati da esse, spesso non hanno funzioni biologiche facilmente riconducibili ai processi tradizionalmente implicati nella patogenesi dell’aterosclerosi. Tra le eccezioni a questo assioma troviamo il gene LDLR, codificante il recettore per le LDL, il gene PCSK9, il quale codifica per una serin proteasi che è coinvolta nella modulazione dell’espressione del recettore delle LDL che risulta mutata in forme mendeliane di ipercolesterolemia, ed il cluster di geni SLC22A-LPAL2-LPA, che include la sequenza codificante la lipoproteina Lp(a) altamente aterogena.
In tutti i GWAS portati a termine finora, l’associazione più forte con la malattia coronarica è stato osservata in una regione del cromosoma 9p21. La forza di tale associazione, corrispondente ad un aumento del rischio cardiovascolare del 20-30% per ciascun allele a rischio di cui si è portatori, non diminuisce dopo aggiustamento per altri fattori di rischio cardiovascolare. Non sembra quindi che questo effetto genetico sia mediato da pathways aterogeni già note. L’associazione con la malattia coronarica interessa vari polimorfismi localizzati in una regione che si estende per 60 Kb. A causa del forte linkage disequilibrium in questa regione, non è possibile dedurre dai soli dati di associazione quale di questi polimorfismi sia quello che influenza il rischio cardiovascolare. Qualunque sia la variante responsabile, è verosimile che il suo effetto sia dovuto ad alterazioni dell’espressione genica visto che nessuna delle varianti associate con CAD è localizzata in regioni codificanti (25). La regione di 60 Kb dove è localizzato il segnale di associazione include l’estremità 3’ del gene CDKN2B-AS (noto anche come ANRIL), il quale è espresso in molti tipi cellulari coinvolti nel processo aterosclerotico (26-27). Il gene CDKN2B-AS è trascritto in due mRNA: uno più lungo che include gli esoni all’estremità 3’ contenuti nella regione associata con la malattia coronarica ed un mRNA più corto che manca di questi esoni. Sulla base di dati sperimentali, è stato proposto che il rapporto tra questi due mRNA sia alterato nei portatori dell’allele 9p21 a rischio e che tale alterazione abbia un effetto sull’espressione di geni adiacenti attraverso meccanismi di “RNA interference” e “chromatin remodeling”. Particolare attenzione viene data agli effetti potenziali su CDKN2A and CDKN2B, due geni che si trovano a breve distanza ed in parte si sovrappongono a CDKN2B-AS. Questi due geni codificano degli inibitori delle chinasi ciclino-dependenti (CDK), i quali sono coinvolti nel controllo della proliferazione cellulare, dell’invecchiamento, e dell’apoptosi e sono espressi a livelli elevati sia nelle cellule vascolari che in quelle infiammatorie (28-30). A sostegno dell’ipotesi di un ruolo di questi geni, è stata dimostrata una correlazione, anche se solo marginalmente significativa, tra i livelli di mRNA di CDKN2B e quelli dell’mRNA “lungo” di CDKN2B-AS (31). È quindi possibile che la variante 9p21 a rischio predisponga alla malattia coronarica attraverso una diminuzione dell’espressione della forma lunga di CDK2NAB, che a sua volta provoca una diminuzione dell’espressione di CDKN2B e della produzione di inibitori di CDK, la quale promuove un fenotipo proliferativo in cellule coinvolte nel processo aterosclerotico quali ad esempio le cellule muscolari lisce.
Il locus 9p21 influenza il rischio cardiovascolare anche in presenza di diabete. Anzi, dati provenienti dal Joslin Heart Study sembrano suggerire che questo locus abbia un effetto più marcato nei pazienti con diabete di tipo 2 che nella popolazione generale (32). In questo studio, sono stati comparati casi aventi diabete di tipo 2 e stenosi coronarica significativa documentata angiograficamente con controlli anch’essi aventi diabete di tipo 2 ma con storia cardiovascolare negativa e test da sforzo normale nonostante una durata di diabete superiore ai 5 anni. Il rischio di stenosi coronarica è risultato essere aumentato del 45% nei soggetti eterozigoti al locus 9p21 e del 140% nei soggetti omozigoti. Il riscontro di un effetto significativamente più marcato di quello riscontrato nella popolazione generale suggerisce la presenza di un’interazione tra variante genetica e iperglicemia. Questa ipotesi trova conferma nel fatto che gli omozigoti per la variante 9p21 che erano in cattivo controllo metabolico (cioè nel terzile più alto di HbA1c) presentavano un aumento del 400% nel rischio di stenosi coronarica in contrasto con un aumento di meno del 50% nei soggetti che avevano sol uno di questi due fattori di rischio, cioè omozigoti in buon controllo metabolico o non-omozigoti in cattivo controllo metabolico (Fig. 1). Tale interazione tra genotipo e controllo metabolico raggiungeva la significatività statistica ed era presente anche in uno studio prospettico di 475 pazienti con diabete di tipo 2 della Joslin Clinic. Dopo 10 anni di follow-up, gli omozigoti in cattivo controllo metabolico presentavano una mortalità cardiovascolare del 36% in confronto ad una mortalità del 15-20% in tutti gli altri soggetti (Fig. 2) (32).
Questi risultati hanno varie implicazioni. Da un punto di vista epidemiologico, possono spiegare le difficoltà incontrate nel dimostrare un effetto del controllo metabolico sulle complicanze cardiovascolari (4, 8, 33-36).Se veramente il cattivo controllo glicemico ha un impatto significativo sul rischio cardiovascolare solo nel 30% dei soggetti (cioè in coloro che sono omozigoti per la variante 9p21), l’associazione tra cattivo controllo metabolico e complicanze cardiovascolari non può essere che modesta, o addirittura assente, in studi che considerano l’intera popolazione di soggetti diabetici. Da un punto di vista clinico, questi dati indicano che il genotipo 9p21 potrebbe essere impiegato per identificare pazienti particolarmente sensibili al controllo metabolico e sottolineano l’importanza di effettuare clinical trials che testino questa ipotesi. Da un punto di vista eziopatogenetico, suggeriscono che le pathways aterogene sulle quali agiscono il locus 9p21 e l’iperglicemia si intersecano a qualche livello. In questo senso, l’identificazione del gene sul quale agisce la variante 9p21 potrebbe far luce sui meccanismi molecolari, ancora dibattuti, attraverso i quali l’eccesso di glucosio promuove l’aterosclerosi (4, 8, 33). Come è stato discusso in precedenza, la variante 9p21 sembra agire attraverso i geni CDKN2A e CDKN2B, i quali codificano tre inibitori delle chinasi ciclino dipendenti (p16INK4a, ARF, e p15INK4b) coinvolti nel controllo della proliferazione e dell’invecchiamento cellulare (28-30). Tali funzioni, potenzialmente rilevanti per il processo atersoclerotico, sono influenzate anche dall’eccesso di glucosio e da altre caratteristiche metaboliche associate con il diabete quali l’insulino-resistenza (37). Lo studio dei meccanismi di interazione tra locus 9p21 e iperglicemia potrebbe quindi portare all’identificazione di nodi cruciali in queste patwhays da usare come targets per lo sviluppo di nuovi trattamenti preventivi specificamente indirizzati ai pazienti diabetici.
Studi GWAS nella popolazione diabetica
Il fatto che i livelli glicemici modulino gli effetti del locus 9p21 solleva l’ipotesi che possano esistere altri geni la cui interazione con l’iperglicemia o altri aspetti del diabete sia così forte da far sì che il loro effetto sia visibile solo nei soggetti diabetici. Sulla base di questa ipotesi è stato effettuato di recente uno studio GWAS della malattia coronarica limitato a soggetti con diabete di tipo 2. Sono stati inclusi nello studio, organizzato in tre stadi, 1517 casi cardiovascolari e 2671 controlli aventi tutti diabete di tipo 2 e appartenenti a cinque studi diversi: Il Nurse Health Study (NHS), lo Health Professional Follow-up Study (HPFS), il Joslin Heart Study (JHS), Il Gargano Heart Study (GHS), ed un gruppo di casi e controlli reclutati a Catanzaro. Lo studio ha analizzato due milioni e mezzo di polimorfismi distributi lungo il genoma. Uno di questi, localizzato nella regione 1q25, è risultato essere associato con la malattia coronarica in ciascuno dei tre stadi dello studio e raggiungeva la significatività nell’analisi combinata dei tre stadi anche tenendo in considerazione la molteplicità di tests statistici effettuati (Fig. 3) (38). Questo risultato è rimarchevole per due motivi. Il primo è che la forza dell’associazione di questo locus con la malattia coronarica, corrispondente ad un odds ratio di 1.36, è simile a quella del più forte effetto genetico identificato sinora nella popolazione generale (cioè il locus 9p21). Il secondo è che questo effetto genetico sembra essere specifico per il diabete dal momento che non è stata riscontrata alcuna associazione tra il locus 1q25 e malattia coronarica nei soggetti senza diabete dell’NHS e HPFS (odds ratio=0.99). La specificità di questo effetto per il diabete è anche indicata dal fatto che il locus 1q25 è associato con la malattia coronarica anche nella popolazione generale con una forza (OR=1.06) simile a quella che ci si aspetterebbe se l’effetto genetico fosse presente unicamente nel 10-15% della popolazione affetto da diabete (38).
Il polimorfismo associato con la malattia coronarica è localizzato tra il gene ZNF648, sul lato centromerico, ed il gene GLUL, sul lato telomerico. Dal momento che non sono state identificate varianti amminoacidiche in linkage disequilibrium con questa variante, è verosimile che la sua associazione con la malattia coronarica sia dovuta ad un effetto sulla regolazione genica, come è spesso il caso per i geni associati con malattie multifattoriali. A sostegno di questa ipotesi, l’allele a rischio è associato con una diminuzione dell’espressione endoteliale di GLUL (il gene più vicino al polimorfismo in direzione telomerica). Non sono state invece riscontrate associazioni con l’espressione del gene ZNF648 o di altri geni adiacenti. Il gene GLUL codifica una ligasi (nota come glutammina sintetasi) catalizzante la conversione dell’acido glutammico in glutammina (Fig. 4) (39). In un campione di 100 soggetti del Joslin Heart Study, non venivano riscontrate associazioni significative tra il locus 1q25 e livelli plasmatici di acido glutammico o di glutammina. Tuttavia, rispetto ai soggetti omozigoti per l’allele protettivo, gli omozigoti per l’allele a rischio presentavano una diminuzione del 15% nel rapporto tra livelli plasmatici di acido piroglutammico e acido glutammico (38). Una diminuzione di tale rapporto era anche presente nei soggetti con malattia coronarica rispetto ai controlli con normale test da sforzo. Se l’associazione tra locus 1q25 e malattia coronarica veniva aggiustata per il rapporto piroglutammato/glutammato, la forza di tale associazione diminuiva del 50%. L’effetto del locus 1q25 sulla malattia coronarica sembra quindi essere mediato almeno in parte dal suo effetto sul rapporto piroglutammato/glutammato.
L’acido piroglutammico è l’immediato precursore del glutammato nel ciclo del γ-glutamile, la cui funzione è di produrre glutatione, il quale a sua volta è il più importante anti-ossidante dell’organismo umano (Fig. 4). È possibile quindi ipotizzare che la diminuzione dell’attività enzimatica causata del locus 1q25 porti ad una alterazione dell’attività di questa via metabolica e ad una diminuzione della sintesi di glutatione. Dal momento che il diabete è anch’esso associato con una diminuzione della concentrazione di glutatione (40), è possibile che la combinazione dei due effetti, quello del locus 1q25 e quello del diabete, diminuisca la disponibilità di questo anti-ossidante al di sotto di un certo livello critico, rendendo i portatori diabetici dell’allele a rischio più vulnerabili allo stress ossidativo e, conseguentemente, allo sviluppo di aterosclerosi. Studi sono in corso per verificare questa così come altre ipotesi basate sui vari ruoli metabolici di glutammato e glutammina.
Conclusioni e direzioni future
Gli ultimi vent’anni hanno visto un aumento esponenziale nelle ricerche sui fattori genetici coinvolti nella malattia coronarica e nelle complicanze cardiovascolari del diabete. Questo sforzi hanno portato all’identificazione di vari geni aventi un effetto nella popolazione generale e/o nella popolazione diabetica, contribuendo a formulare delle nuove ipotesi sui meccanismi che collegano il diabete allo sviluppo di aterosclerosi. L’identificazione di questi geni offre anche la possibilità di sviluppare algoritmi predittivi personalizzati, anche se i geni identificati finora non sembrano aggiungere molto alla predizione del rischio cardiovascolare fornita ai fattori di rischio tradizionali.
Anche se il progresso in questo campo è stato notevole, rimane ancora molto da fare. In primo luogo, l’approccio GWAS non è stato sfruttato fino in fondo. Mentre sono stati effettuati molto studi GWAS nella popolazione generale, solo uno di questi, quello che ha portato all’identificazione della variante in posizione 1q25, è stato condotto specificamente nei soggetti diabetici. È verosimile che altri fattori genetici, aventi effetti più modesti ma non meno interessanti dal punto di vista meccanicistico, possano essere identificati mediante studi più ampi nella popolazione diabetica. In secondo luogo, in tutti gli studi effettuati finora, sia nella popolazione generale che in quella diabetica, è stato assunto che la regolazione della predisposizione alle complicanze cardiovascolari sia dovuta a polimorfismi relativamente frequenti nella popolazione (cioè con frequenza >5%). Anche se ci sono basi teoriche a sostegno di questa ipotesi (41), non è possibile escludere che varianti meno frequenti, o addirittura rare, svolgano un ruolo ugualmente importante, così come è stato notato per altri caratteri complessi (42). Va notato a questo riguardo che la tecnologia per la sequenziatura del DNA ha fatto passi da gigante negli ultimi anni ed è ora possibile sequenziare ad un costo ragionevole tutte le sequenze codificanti (cioè l’intero esoma) o addirittura l’intero genoma di singoli pazienti. L’applicazione di queste nuove tecnologie allo studio del ruolo di varianti meno frequenti o rare, sostenuta da un aumento della numerosità dei sets di casi e controlli disponibili per questi studi, potrebbe rivoluzionare questo campo di ricerca. Infine, vi sono interi aspetti della genetica che rimangono a tutt’oggi inesplorati per quanto riguarda la malattia coronarica, come per esempio il ruolo dei microRNA o delle modifiche epigenetiche che sono coinvolte nella modulazione dell’espressione genica da parte dell’ambiente e che potrebbero spiegare il fenomeno della “memoria metabolica”, cioè della persistenza nel tempo degli effetti negativi dell’iperglicemia. È possibile prevedere che l’espansione degli studi di genetica in queste nuove direzioni porterà ad una più completa definizione dei meccanismi molecolari che legano il diabete all’aterosclerosi, in modo che questi possano essere tradotti in nuovi strumenti diagnostici e terapeutici atti a diminuire l’impatto negativo di questa malattia nella popolazione.
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