Farmaci anti-vegf intravitreali e rischio cardiovascolare: un nuovo campo di interesse per il diabetologo?

Elio Striglia, Massimo Porta

Dipartimento di Scienze Mediche, Università degli Studi di Torino

DOI: 10.30682/ildia1804c

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Introduzione

Negli ultimi anni si è enormemente esteso l’utilizzo dei farmaci antagonisti del Vascular Endothelial Growth Factor (VEGF) per via intravitreale nel trattamento dell’edema maculare diabetico (DME) e, più recentemente, della retinopatia diabetica proliferante (RDP). L’introduzione di questi farmaci, frutto di un importante lavoro di ricerca sull’etiopatogenesi di tali condizioni, si è rivelato efficace e superiore alla fotocoagulazione laser di cui costituisce un complemento o un’alternativa nei singoli casi. Tuttavia gli anti-VEGF presentano anche una serie di problemi di ordine economico e normativo, che non verranno trattati in questa sede in quanto di pertinenza più strettamente oculistica, sia più squisitamente medico e diabetologico. Come vedremo, infatti, esiste un potenziale aumento del rischio cardiovascolare nei pazienti cui vengono somministrati. Di conseguenza, il ruolo del diabetologo, che sembrava esaurirsi nell’effettuazione dello screening e nell’affidare i pazienti con retinopatia alle cure esperte dell’oculista, rientra in gioco quando diventa necessario somministrare un farmaco anti-VEGF. È possibile che nel prossimo futuro la collaborazione interdisciplinare preveda anche valutazioni preventive del rischio cardiovascolare dei singoli pazienti, fino a giungere a veri e propri consulti su opportunità e scelte dei farmaci. Il presente aggiornamento vuole essere una messa a punto delle attuali conoscenze sul ruolo del VEGF e dei relativi antagonisti nella terapia della retinopatia diabetica ad alto rischio.

Il Vascular Endothelial Growth Factor (VEGF)

Il VEGF è il principale fattore regolatore dell’angiogenesi in condizioni fisiologiche, come la riparazione delle ferite e la ricostruzione dell’endometrio durante il ciclo mestruale, e patologiche, come la neovascolarizzazione tumorale o retinica in corso di retinopatia diabetica proliferante (RDP) e nella retinopatia della prematurità.

Tale fattore, scoperto da Senger et al nel 1983 (1), inizialmente venne chiamato Vascular Permeability Factor (VPF) per la sua azione favorente l’aumento della permeabilità vascolare. Successivamente, nel 1989, Ferrara e Henzel (2) ne evidenziarono l’effetto mitogeno sulle cellule endoteliali e proposero di chiamarlo VEGF. Tale sostanza viene prodotta ovunque nel nostro organismo, quindi anche nella retina, da macrofagi, piastrine, cellule endoteliali, periciti, cheratinociti, fibroblasti, placenta. Successivi studi chiarirono che non si tratta di una singola molecola bensì di un gruppo di proteine: VEGF-A (la più importante, cui ci si riferisce comunemente), VEGF-B, VEGF-C, VEGF-D (implicate nella angiogenesi embrionale e nella linfo-angiogenesi) e P1GF placentare. Esse sono il risultato di uno splicing alternativo dello stesso gene con 8 esoni. Il primo prodotto di trascrizione è sempre lo stesso ed è indicato come VEGFxxx. La ricombinazione degli 8 esoni porta poi alla sintesi delle diverse forme di VEGF, strutturalmente simili ma dotate di funzioni specifiche. Ulteriori molecole di questa famiglia sono il VEGF-E di origine virale ed il VEGF-F isolato dal veleno di serpenti (3-4).

Il VEGF-A a sua volta esiste in due isoforme, prodotte in base ad un diverso splicing a livello dell’esone 8, denominate VEGF-A 165a e VEGF-A 165b. Il primo è un fattore pro-angiogenico, pro-infiammatorio ed aumentante la permeabilità vascolare mentre il secondo è anti-angiogenico, anti-infiammatorio, cito-protettivo e neuro-protettivo. Nella RDP, ad esempio, si verifica l’aumento dell’isoforma 165a rispetto alla 165b (5).

Tutti i membri della famiglia del VEGF si legano a recettori tirosinkinasici di membrana inducendone la dimerizzazione e l’attivazione tramite trans fosforilazione. I recettori hanno una porzione extracellulare simile alle immunoglobuline, una porzione trans-membrana ed una intra-citoplasmatica. Il VEGF-A si lega a recettori VEGFR-1 (Flt-1) e VEGFR-2 (KDR/FLK1): il 2 media quasi tutti gli effetti del VEGF-A mentre il primo pare modulare l’attività del VEGFR-2. Esiste anche un terzo recettore, VEGFR-3, in grado di legare VEGF-C e VEGF-D (6). Recenti studi hanno scoperto che la Neuropilina-1, proteina trans-membrana priva di attività tirosinkinasica, funge da co-recettore per VEGF-A (7).

L’angiogenesi

L’angiogenesi è la formazione di nuovi vasi da vasi pre-esistenti (8). Si tratta di un fenomeno di morfogenesi che richiede alcuni passaggi obbligati: destabilizzazione delle cellule endoteliali (compreso l’aumento della permeabilità vasale, da cui la prima caratterizzazione del VEGF), transizione (in questo caso delle cellule endoteliali), proliferazione, migrazione (cioè allontanamento dal vaso preesistente), nuova differenziazione in cellule endoteliali costituenti il nuovo vaso (9). Come tutti i fenomeni di morfogenesi, anche l’angiogenesi è controllata da morfogeni, fattori di crescita che agiscono su cellule bersaglio tramite recettori tirosinkinasici, come sono appunto i recettori di VEGF.

I fattori regolatori dell’angiogenesi, con funzione di stimolo o di inibizione, sono molteplici: principalmente il VEGF, le angiopoietine 1-2 (antagoniste tra loro), le efrine ed i loro recettori. Essi agiscono in sinergismo e la loro liberazione è modulata in risposta a stimoli ipossici (10-11).

L’ischemia (stimolo ipossico) provoca un aumento del rilascio di HIF-1 alfa (Hypoxia Inducible Factor-1 alfa) (12). Tale fattore, in presenza di una adeguata quantità di ossigeno, viene idrossilato in prolina dalle prolil idrossilasi (reazione che richiede ossigeno) e viene degradato dalla ubiquitina VHL nel proteosoma nell’ambito di un “ciclo futile”. In caso di ipossia invece, HIF-1 alfa non è idrossilato e quindi neppure degradato ma passa nel nucleo ove si lega ad HIF-1 beta, già normalmente presente nel nucleo, ed insieme stimolano la trascrizione del gene per il VEGF-A, principale diretto responsabile della neo-vascolarizzazione (13) (Fig. 1).

Il momento iniziale quindi, come su specificato, è la destabilizzazione di un vaso preesistente da cui deve iniziare lo sviluppo del nuovo vaso. Tale fenomeno richiede la produzione di angiopoietina 2 da parte delle cellule endoteliali. Essa, agendo sulle stesse cellule, ne causa la transizione a vere cellule mesenchimali capaci di esprimere markers mesenchimali (calponina, snail, transgelina FSP-1). Tali cellule a questo punto si staccano, perdono i rapporti con le cellule di sostegno (periciti) e risultano ad alto rischio di anoikis (in greco “senza casa”), una forma di apoptosi (14) per mancanza del consenso adesivo con le altre cellule e con la membrana basale. Esse tuttavia vengono “salvate” dal VEGF che attiva la via anti-apoptotica di PI3K-AKT e le fa proliferare e migrare a costituire un vaso immaturo (switch angiogenetico e sprouting) (15).

Esistono fattori che si oppongono all’angiogenesi. Uno di essi è la trombospondina prodotta dai fibroblasti e normalmente presente nella matrice extracellulare, che si oppone all’angiogenesi inducendo le cellule proliferanti a liberare in forma solubile il Fas ligando. Questo non ha alcuna attività sulle cellule endoteliali dei vasi maturi ma è in grado di indurre apoptosi delle cellule endoteliali immature dei neovasi che esprimono il Fas recettore sulla membrana cellulare (16). Nei topi null che non producono trombospondina si osserva una spiccata vascolarizzazione e crescita dei tumori (17).

Il VEGF nella retinopatia diabetica

La neovascolarizzazione retinica non fa eccezione a tali meccanismi.

Nel corso dello sviluppo della RD, la perdita della capacità di autoregolazione del flusso capillare retinico e la progressiva occlusione dei capillari soprattutto periferici sono responsabili di una ridotta ossigenazione della retina e quindi dello stimolo ipossico con aumentato rilascio di HIF-1 alfa che stimola la produzione di VEGF-A (18). Contemporaneamente anche AGE, PKC e RAS correlati all’iperglicemia, citochine pro infiammatorie, fattori di crescita, insulina, IGF-1, FGF, PDGF stimolano il rilascio di VEGF-A (19-20) (Fig. 2).

Negli anni Novanta alcuni studi chiarirono che a livello retinico il VEGF è prodotto dalle cellule endoteliali, dai periciti e dall’epitelio pigmentato (21-22). Nel 1994 Aiello et al dosarono il VEGF in 210 campioni di fluidi oculari (umor acqueo, umor vitreo e fluido sub retinico) di 164 pazienti con condizioni di neovascolarizzazione retinica conseguente a RD, occlusione della vena retinica centrale e rubeosi dell’iride, sottoposti a interventi chirurgici quali cataratta e vitrectomia, e li confrontarono con campioni ottenuti da interventi chirurgici dovuti ad altre patologie, riscontrando livelli intraoculari di VEGF più alti nei pazienti con RDP rispetto ai pazienti con RDNP (3,6±6,3 ng/ml vs 0,1±0,1 ng/ml, p=0,008). In particolare, i livelli di VEGF nel vitreo risultarono maggiori rispetto a quelli rilevati nell’umor acqueo negli stessi pazienti (8,8±9,9 ng/ml vs 5,6±8,6 ng/ml, p=0,033), dato indicativo dell’esistenza di un gradiente di VEGF tra camera posteriore ed anteriore. Infine essi osservarono anche la riduzione del VEGF intraoculare dopo trattamento laser, a conferma del ruolo di mediazione del fattore di crescita nella neovascolarizzazione e dell’efficacia della pan-fotocoagulazione nel ridurre lo stimolo ipossico mediante ablazione fotodinamica della retina periferica (23).

Di contro, nella RDP, si ha riduzione del PEDF (Pigment Epithelium Derived Factor), inibitore dell’angiogenesi sintetizzato dall’epitelio pigmentato retinico. L’equilibrio tra PEDF e VEGF-A è essenziale al mantenimento dell’integrità della barriera emato-retinica (BER) mentre una sua alterazione favorisce sia il passaggio della retinopatia diabetica da non proliferante (RDNP) a proliferante (RDP) che lo sviluppo del DME (24).

I neovasi retinici prendono origine da vasi di piccolo-medio calibro ma non dai capillari, da cui invece possono originare i microaneurismi che possono essere considerati come un tentativo abortivo di dare inizio a nuovi vasi. La neoangiogenesi rappresenta quindi il tentativo di rivascolarizzazione di aree ischemiche della retina periferica. Tale tentativo, purtroppo, non porta vantaggi ma risulta addirittura dannoso poiché i vasi sono fragili e facilmente causano emorragie. Inoltre l’angiogenesi si accompagna a fibrosi dovuta ai miofibroblasti derivanti in parte da fibrociti circolanti ed in parte dalle stesse cellule endoteliali per effetto della transizione mesenchimale (25). In un primo tempo tali vasi sono posti sotto la membrana limitante interna ma col tempo la superano e si vanno a collocare tra essa e la ialoide costituendo la cosiddetta “membrana vascolare” che si inserisce sia sulla retina che sul vitreo e può causare importanti emorragie vitreali nonché il distacco trazionale della retina. Nei casi peggiori è anche possibile che i neovasi raggiungano l’iride (rubeosis iridis) e l’angolo irido-corneale ove costituiscono un panno vascolare che ricopre il trabecolato ostruendo il deflusso dell’umor acqueo e facendo aumentare la pressione nella camera anteriore fino a causare glaucoma secondario neovascolare.

In un primo momento il DME è di tipo citotossico, da accumulo intracellulare di sorbitolo, lattati e fosfati, e diventa vasogenico con l’intervento di molecole della flogosi (VEGF-A 165a compreso) che allentano le giunzioni serrate dello strato endoteliale componente la barriera emato-retinica (BER). Il liquido trasudato dai vasi forma piccole raccolte cistiche nello strato interno della retina maculare e tali raccolte si possono estendere alla superficie retinica causando il distacco della neuro-retina (26). Lo sviluppo sia del DME sia della RDP sono facilitati dallo squilibrio tra VEGF-A 165a e 165b a favore del primo (27). Al contrario la somministrazione intravitreale di VEGF-A 165b riduce la neovascolarizzazione retinica (28), coroideale (29) ed aumenta il rilascio di fattori cito-protettivi (30). Inoltre lo stesso fattore risulta essere neuro-protettivo ed anti-apoptotico (31).

I meccanismi implicati sono complessi ed ancora non completamente conosciuti. È possibile che la patogenesi della RDP e del DME possa essere in parte indipendente dal VEGF. Ad esempio, l’attivazione delle piastrine indotta dalle galectine può scatenare una risposta angiogenica indipendentemente dal VEGF (32). Altra via indipendente dal VEGF è quella mediata da TWEAK (TNF like WEAK inducer of apoptosis) che gioca un ruolo nell’angiogenesi dei topi ove è stata osservata la up-regulation del suo recettore Fn14 in caso di retinopatia ischemica (33). Tali vie alternative potrebbero spiegare almeno in parte perché gli anti-VEGF si rivelino inefficaci fino al 50% dei casi di RD (34).

Interventi con farmaci anti-VEGF

Su queste basi, al fine di arrestare il peggioramento della retinopatia e migliorare l’acuità visiva, sono oggi utilizzati i farmaci antagonisti del VEGF. Si tratta di pegaptanib, non più in uso, bevacizumab, ranibizumab, rispettivamente un anticorpo monoclonale ed un frammento di anticorpo, ed aflibercept, una proteina chimerica di fusione (Fig. 3).

Essi sono disponibili per il trattamento della degenerazione maculare senile (AMD), del DME interessante il centro della macula (35) e della RDP (36). Con la somministrazione intravitreale si evitano i possibili effetti collaterali del laser, quali comparsa di scotomi, riduzione della visione periferica e notturna, fibrosi retinica, formazione di cicatrici, rottura della membrana di Bruch, vascolarizzazione coroideale iatrogena, spot foveolare accidentale. Possibili effetti avversi e inconvenienti legati alla terapia intravitreale sono il rischio di endoftalmite (basso rischio) e il maggior numero di sedute necessarie per completare un ciclo terapeutico. Tali farmaci, associati al trattamento laser, sono efficaci nel prevenire l’induzione o il peggioramento del DME che può essere causato dalla pan-fotocoagulazione periferica.

Farmaci anti-VEGF e sicurezza cardiovascolare

Benché la somministrazione intravitreale ne potenzi gli effetti terapeutici locali, la sicurezza degli anti-VEGF iniettati per tale via non è ancora del tutto provata, in particolare per quanto riguarda i rischi cardiovascolari.

Alcune considerazioni vanno poste preliminarmente:

Il rischio di infarto nei pazienti diabetici che non hanno mai subito un evento è simile a quello dei pazienti non diabetici dopo un infarto miocardico (37).

La RD è significativamente associata ad aumento delle patologie cardiovascolari (38).

I pazienti diabetici di tipo 2 con retinopatia hanno un maggior rischio di vasculopatia cerebrale dei piccoli vasi rispetto ai pazienti senza retinopatia, suggerendo che anche il cervello sia sede di microangiopatia diabetica analogamente alla retina e ai glomeruli renali (39).

Il tasso di ospedalizzazione dei pazienti con DME è doppio per patologie cerebrovascolari ed è di 2,5 volte più alto per IMA rispetto a quello dei pazienti diabetici senza DME (40).

La presenza di lesioni retinopatiche anche minime, quali microemorragie, noduli cotonosi e alterazioni del calibro vasale, è riscontrabile anche nella popolazione non diabetica e non ipertesa ed aumenta il rischio di cardiopatia in misura equivalente alla presenza del diabete (41).

La somministrazione per via sistemica dei farmaci anti-VEGF nei pazienti oncologici si associa ad aumento del rischio di ipertensione arteriosa e di trombosi (42). A questo punto diventa necessario chiarire se gli anti-VEGF somministrati per via intravitreale a dosi in media 150 volte inferiori rispetto a quelle in uso per via sistemica (43) possano passare in circolo ed influenzare i livelli di VEGF circolante. Uno studio ha dimostrato che 30 giorni dopo una somministrazione intravitreale, sia bevacizumab che aflibercept hanno una concentrazione plasmatica vicina alla IC50 (concentrazione necessaria a inibire il 50% dell’attività biologica di VEGF) (44). Il ranibizumab ha un’emivita minore e viene eliminato più rapidamente poiché non presenta la componente Fc presente in aflibercept e bevacizumab (45).

Matsuyama et al hanno evidenziato che una singola somministrazione intravitreale di bevacizumab è in grado di ridurre significativamente i livelli circolanti di VEGF e di PEDF già dopo 1 giorno e che tali livelli si mantengono inferiori al basale anche a distanza di un mese. Ciò rende plausibile il manifestarsi di effetti collaterali extra oculari (46). Kamba et al hanno osservato anche la riduzione di NO e di prostaciclina, molecole entrambe vasodilatatrici e favorenti il mantenimento dell’integrità della parete dei vasi. La carenza di tali sostanze facilita la vasocostrizione con aumento della pressione arteriosa e lo sfaldamento delle cellule endoteliali e quindi il verificarsi di episodi trombotici (42).

Risulta peraltro difficile sceverare quanto del rischio cardiovascolare sia attribuibile al diabete ed alla retinopatia e quanto agli effetti di farmaci che agiscono sui meccanismi di formazione dei vasi e sul loro trofismo e permeabilità. Analoghe considerazioni possono venire poste nel caso di pazienti anziani con AMD, spesso già affetti da patologie vascolari legate all’età e allo stile di vita.

Rischio cardiovascolare e farmaci antiVEGF: evidenze cliniche

Il Pan American Collaborative Retina Study Group (PACORES), su 1173 pazienti trattati con bevacizumab intravitreale, ha evidenziato l’incidenza di: 0,6% di ipertensione arteriosa, 1,2% di stroke e 0,4% di infarto miocardico nei 12 mesi successivi alla terapia (47). Un recente studio retrospettivo caso-controllo con follow-up massimo di 73 mesi condotto su oltre 5000 pazienti con AMD trattati con bevacizumab ha dimostrato un aumento del rischio di morte in tali pazienti (OR: 1,69 con CI 95% 1,54-1,84, p<0.001) senza tuttavia specificarne le cause (48). Verosimilmente la morte o gli effetti dannosi sono da attribuirsi al fatto che gli anti VEGF riducono la capacità dei vasi di mantenere un normale trofismo tessutale piuttosto che ad effetti diretti dei farmaci stessi (49).

Negli ultimi anni molteplici rassegne con meta-analisi si sono occupate di questo importante problema portando a risultati spesso discordanti.

Una meta-analisi del 2014 su pazienti con DME, AMD od occlusione venosa retinica (RVO) affermava che, essi non aumentano in modo significativo il rischio di eventi cardiovascolari maggiori (OR: 1,18 con IC 95% 0,81-1,71), il rischio di stroke (OR: 1,61 con IC 95% 0,85-3,05), la overall mortality (OR: 1,53 con IC 95% 0,92-2,56), eventi emorragici non oculari (OR: 1,42 con IC 95% 0,95-2,13), ipertensione arteriosa (OR: 0,97 con IC 95% 0,71-1,32) o infarto miocardico (OR: 0,92 con IC 95% 0,54-1,59). Parimenti non si riscontrava una differenza significativa tra pazienti trattati con ranibizumab a basse dosi e quelli trattati con alte dosi dello stesso farmaco sia per quanto riguarda il rischio di eventi cardiovascolari maggiori (OR: 0,86 con IC 95% 0,62-1,21), che per quanto riguarda il rischio di emorragie non oculari (OR: 0,92 con IC 95% 0,67-1,26) (50). Tale studio evidenziava come bevacizumab vs ranibizumab comportasse un maggior rischio di eventi trombo embolici venosi (OR: 3,45 con CI 95% 1,25-9,54) e come ranibizumab vs controlli senza anti-VEGF si associasse ad un maggior rischio di emorragie non oculari non mortali (OR: 1,55 con CI 95% 1.01-2,44) (50).

Avery e Gordon nel 2016, al contrario, hanno riportato un aumento del rischio di morte nei pazienti trattati con aflibercept o ranibizumab rispetto a quelli trattati con laser o sham (OR: 2,98 con IC 95% 1,44-6,14, p=0,04), un aumento del rischio di eventi cardiovascolari (OR: 2,33, con IC 95% 1,04-5,22, p=0,04), un aumento del rischio di morte vascolare (OR: 2,51 con IC 95% 1,08-5,82, p=0,03) (51). Va sottolineato che essi consideravano solo pazienti in terapia ad alte dosi con somministrazioni mensili per un periodo di 2 anni mentre altri lavori (che non hanno riscontrato tale aumento) hanno incluso anche pazienti trattati in modo meno intensivo per periodi minori o solo al bisogno come più spesso accade nella real life. Una possibile spiegazione di tale aumentato rischio di morte può essere la maggiore incidenza di ictus ischemico. Tuttavia nei pazienti oncologici che assumono anti-VEGF per via sistemica aumenta soprattutto il rischio di infarto miocardico piuttosto che stroke ischemico e tale aumento non pare correlato alla dose di farmaco somministrata (52). Zarbin et al hanno valutato il rischio cardio e cerebrovascolare in pazienti con DME in terapia con ranibizumab 0,3 o 0,5 mg vs sham in una meta-analisi che ha considerato 6 trial clinici di fase 2 e 3 per un totale di 1867 pazienti di cui 1186 trattati con ranibizumab. Essi, contrariamente ad Avery e Gordon, non hanno rilevato un maggior rischio di morte per tutte le cause tra i pazienti in terapia con ranibizumab (53).

Considerando i pazienti con AMD, il bevacizumab è risultato associato ad un marcato incremento del rischio relativo (RR 3,45) di eventi trombotici venosi nello studio di Thulliez, mentre in altri due studi tale RR è risultato compreso tra 2,32 e 2,78 (54-55). Secondo almeno 3 rassegne che mettono a confronto bevacizumab e ranibizumab, il primo comporterebbe un rischio aumentato di eventi sistemici avversi rispetto al secondo, variabile da +20% a +35% (55-56-57). Altre rassegne su pazienti con AMD hanno associato il ranibizumab ad un maggior rischio di emorragie non oculari (58). Tali risultati tuttavia non sono stati confermati da una Cochrane review del 2014 che ha considerato una casistica maggiore includente anche studi non pubblicati (RR: 1,08: 95% IC, 0,90-1,31) (59).

Nel marzo del 2018 infine è stata pubblicata una overview di tutte le principali rassegne con meta-analisi degli ultimi anni (60). Sono state considerate 21 meta-analisi che hanno indagato il problema dedicando particolare attenzione ai criteri di selezione degli studi, al fine di eliminare ogni possibile fattore di confondimento. Gli Autori affermano, in riferimento alla meta-analisi di Avery e Gordon, che l’aumento del rischio di stroke e di morte per cause vascolari osservato potrebbe in parte essere attribuibile a bias quali età avanzata e fattori di rischio cardiovascolari aggiunti (oltre al diabete). Peraltro molti trial avevano escluso i pazienti con patologie cardiovascolari pregresse (bias di selezione). Il fatto che molte rassegne non tengano conto di studi effettuati ma non giunti a pubblicazione è un’altra causa di bias (publication bias) (53). Anche l’interazione tra anti-VEGF e le altre terapie in corso o il fatto che l’angiogenesi diabetica sia in parte indipendente dall’intervento del VEGF (32-33) possono costituire fattori che rendono difficile l’interpretazione dei dati raccolti.

Va ancora segnalato che per varie ragioni i pazienti arruolati nei trial clinici e di conseguenza nelle successive meta-analisi spesso non risultano rappresentativi della popolazione diabetica sottoposta a trattamento con anti-VEGF intravitreali nella vita reale. Per giunta molti trial clinici sono sponsorizzati dai produttori per motivi registrativi, con potenziale bias dei criteri di valutazione. Ad esempio nei trial VIVID e VISTA gli effetti avversi registrati non sono stati attribuiti ad aflibercept se verificatisi dopo 30 giorni dalla sua somministrazione mentre sappiamo che il farmaco è ancora presente in circolo (61). Nel caso del trial RESTORE invece si è agito sui criteri di inclusione dei pazienti selezionando quelli con più basso rischio cardiovascolare.

Conclusioni

Il trattamento con anti-VEGF per via intravitreale non pare aumentare in modo certo il rischio di ipertensione arteriosa e di eventi cardiovascolari, a differenza dall’assunzione sistemica a dosaggi molto più elevati. Tuttavia i limiti legati al disegno degli studi di registrazione, ed anche dei trial clinici indipendenti finora condotti a termine, impediscono una sicura valutazione. Di conseguenza, il diabetologo potrà essere chiamato a valutare caso per caso l’opportunità di somministrare tali farmaci in collaborazione interdisciplinare con l’oculista (collaborazione spesso insufficiente nella realtà), ricordando da un lato l’alto rischio cardiovascolare associato alla RD grave, potenzialmente maggiorato dai farmaci stessi e, dall’altro, il fatto che omettere una terapia indicata può condannare il paziente alla perdita della vista. Si può senz’altro affermare che, prima di iniziare la somministrazione degli anti-VEGF, sarebbe bene valutare il rischio complessivo legato al diabete ed alle eventuali comorbidità presenti, mettendo sui piatti della bilancia la necessità di salvaguardare la vista e i rischi, apparentemente minimi ma ancora poco definiti, di aumentare ulteriormente il rischio cardiovascolare. Va inoltre sempre raccomandata una precisa e puntuale informazione riguardante rischi e benefici di ogni intervento medico nell’ambito di una corretta relazione medico-paziente, come stabilito dalla legge e dal codice deontologico. Il paziente informato ha diritto di scelta e lo esercita in base alla sua personale propensione al rischio. Per quanto riguarda il farmaco preferibile tra quelli in uso, la differente struttura chimica ne influenza l’emivita e gli studi sopra citati evidenziano come bevacizumab sia probabilmente associato a rischi complessivamente maggiori rispetto a ranibizumab e aflibercept, che quindi sembrano preferibili e sono oggi più utilizzati. In particolare, per la sua struttura chimica, ranibizumab ha un’emivita inferiore agli altri due e potrebbe essere preferibile per ridurre i potenziali rischi sistemici. Tuttavia questa rassegna non è in grado di mettere i farmaci a confronto per quanto riguarda gli aspetti più prettamente oculistici. Si ricorda inoltre che gli anti-VEGF intravitreali possono venire associati alla fotocoagulazione laser ma anche in questo caso le indicazioni circa l’opportunità di tale associazione, pur meritevoli di approfondimento, sono state ritenute dagli Autori di pertinenza oculistica e non diabetologica/internistica e pertanto non approfondite in questa rassegna. Infine anche la scelta di farmaci intravitreali alternativi, come gli steroidi, non è scevra da complicanze che vanno considerate nel singolo paziente. In ogni caso è consigliabile la somministrazione della minima dose efficace e con la minima frequenza necessaria ad ottenere gli effetti terapeutici desiderati.

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