Esiste l’equivalenza terapeutica di classe in diabetologia?

a cura di Anna Solini1, Agostino Consoli2

1Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Pisa; 2Dipartimento di Medicina e Scienze dell’Invecchiamento, Università degli Studi di Chieti-Pescara “G. D’Annunzio”

DISCUSSANT

Francesco Giorgino1, Cristina Bianchi2, Stefano Del Prato2 1Dipartimento dell’Emergenza e dei Trapianti di Organi, Sezione di Medicina Interna, Endocrinologia, Andrologia a Malattie Metaboliche, Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”; 2Sezione di Malattie del Metabolismo e Diabetologia, Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università di Pisa e Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana [protected] >Scarica l’articolo in formato PDF

Definizioni e premesse

Francesco Giorgino

Il termine di «equivalenza terapeutica» è stato utilizzato per definire il farmaco equivalente, cioè un farmaco che abbia lo stesso principio attivo del farmaco di marca, ma diversi eccipienti, con proprietà attese fondamentalmente uguali. Per questo motivo non sono richieste prove di efficacia clinica, ma soltanto controlli farmaceutici e farmacocinetici, con una differenza tollerata tra il prodotto equivalente e il prodotto di marca inferiore al 20%. Il termine si applica ai farmaci cosiddetti «generici».

Il farmaco «biosimilare» è invece un prodotto biologico ottenuto non attraverso sintesi chimica, ma da cellule o da organismi biologici complessi. Per questo motivo, è possibile che vi siano differenze significative rispetto alla molecola di marca e pertanto la similarità e comparabilità rispetto al prodotto di riferimento va dimostrata attraverso adeguati studi preclinici e clinici.

Tuttavia, il tema dell’«equivalenza terapeutica di classe» non riguarda in realtà né i farmaci generici né i farmaci biosimilari, ma la possibilità che all’interno della stessa classe di farmaci si possano scambiare tra di loro molecole diverse in quanto caratterizzate dallo stesso valore terapeutico. Il tema è emerso in maniera prepotente nel 2016, quando l’AIFA con la determina n. 458/2016 (1) ha chiarito che l’equivalenza terapeutica non riguardava i farmaci generici e i farmaci biosimilari, per i quali l’equivalenza terapeutica è già acquisita, bensì la possibilità di confrontare principi attivi diversi al fine di identificare, per le stesse indicazioni cliniche, aree di sovrapponibilità terapeutica in assenza di differenze cliniche rilevanti in termini di efficacia e di sicurezza. Tale posizione dell’AIFA non esclude l’esistenza di peculiarità di singoli principi attivi, che dovranno essere identificate e garantite nell’uso clinico. L’evidente vantaggio del principio appena enunciato è la possibilità di procedere all’acquisto di farmaci considerati equivalenti dal punto di vista terapeutico e in concorrenza tra loro scegliendo il farmaco meno costoso e riducendo così la spesa sanitaria. La determina AIFA ha evidentemente suscitato clamore. Nella determina venivano anche definiti i requisiti per poter ammettere i farmaci appartenenti alla stessa classe a una valutazione di equivalenza terapeutica, che sono elencati di seguito:

-essere principi attivi per i quali vi sia esperienza d’uso superiore a 12 mesi; -presentare prove di efficacia derivanti da studi che non consentono la dimostrazione di superiorità di un farmaco rispetto a un altro (es. studi vs. placebo) oppure da studi testa a testa che non prevedono un’ipotesi di superiorità (es. studi di equivalenza o di non inferiorità); -appartenere alla stessa classificazione ATC di 4° livello (che identifica il sottogruppo chimico-terapeutico farmacologico); -possedere indicazioni terapeutiche principali sovrapponibili (anche in riferimento alle sottopopolazioni target); -utilizzare la medesima via di somministrazione; -prevedere uno schema posologico che consenta di effettuare un intervento terapeutico di intensità e durata sostanzialmente sovrapponibili tra il farmaco che si vuole scambiare e quello di riferimento.

L’AIFA ha anche predisposto un modulo con cui le singole Regioni potevano richiedere di riconoscere il principio di equivalenza terapeutica tra diversi farmaci e, laddove questo fosse stato accettato, potevano ottenere da parte dell’AIFA l’autorizzazione a effettuare una gara per acquistare il farmaco meno costoso tra quelli per i quali fosse stata riconosciuta l’equivalenza terapeutica.

Tuttavia, nel dicembre 2016, L’AIFA ha ritirato la determina n. 458/2016, con la seguente motivazione: «In seguito al riesame tecnico è emersa comunque l’opportunità di procedere, nell’ottica della definizione di un nuovo modello di governance della spesa farmaceutica, a un confronto anche su ulteriori aspetti della determina nell’ambito del Tavolo sulla farmaceutica, presso il Ministero dello Sviluppo Economico cui partecipano il Ministero della Salute e l’AIFA, nonché le Regioni, le imprese farmaceutiche e le associazioni di categoria» (2). Si intravede quindi la necessità di una negoziazione più articolata che preveda il coinvolgimento di tutti gli stakeholders per un confronto approfondito sul tema. In sostanza, sebbene attualmente la determina sia sospesa, è possibile che AIFA consideri nuovamente una simile posizione nel prossimo futuro.

Va infine richiamato il fatto che il tema dell’«equivalenza terapeutica di classe» non è stato affrontato solo in Italia. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization, WHO) prevede la possibilità che un farmaco che si prevede abbia lo stesso effetto clinico di un prodotto comparatore possa essere scambiato nella pratica clinica. Anche la European Generic Medicine Association (EGA) riconosce la pratica medica di sostituire un farmaco con un altro equivalente in un determinato contesto clinico su iniziativa, o con l’accordo, del medico prescrittore, nonché la possibilità che l’attività regolatoria intervenga nel favorire questo processo.

Esistono anche approcci metodologici scientificamente validati per comprendere come effettuare un confronto tra farmaci differenti e valutare se esiste l’equivalenza terapeutica tra di essi. Viene ad esempio riconosciuto che, sebbene il gold standard sia rappresentato dagli studi clinici testa a testa tra i due farmaci, utilizzando il metodo della adjusted indirect comparison (riconosciuto peraltro da agenzie regolatorie di altri Paesi, quali la Australian Pharmaceutical Benefits Advisory Committee, il National Institute for Clinical Excellence nel Regno Unito, la Canadian Agency for Drug and Technologies in Health, la Food and Drug Administration negli Stati Uniti), si possa stabilire un confronto di efficacia anche tra farmaci che non sono stati oggetto di confronti diretti (3). Ad esempio, conoscendo l’effetto del farmaco A rispetto al farmaco C e l’effetto del farmaco B rispetto al farmaco C, è possibile confrontare l’effetto del farmaco A rispetto all’effetto del farmaco B.

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 Equivalenza terapeutica di classe in diabetologia

Un aspetto importante che rappresenta la base concettuale per riconoscere l’equivalenza terapeutica di classe in diabetologia è rappresentato dal fatto che l’iperglicemia nel diabete di tipo 2 si sviluppa a seguito di specifiche alterazioni fisiopatologiche, che sono a loro volta la conseguenza di alterazioni cellulari e molecolari (4) (Fig. 1).

29_2_Opinioni_4_Fig.1

I farmaci che utilizziamo per correggere l’iperglicemia agiscono correggendo in molti casi queste specifiche alterazioni, e il meccanismo generale è lo stesso per molecole diverse appartenenti alla stessa classe. In base a tale presupposto vi è da attendersi che molecole diverse della stessa classe, agendo con lo stesso meccanismo d’azione, possano produrre risposte cliniche simili e possano quindi avere lo stesso valore terapeutico.

 L’esempio degli inibitori della DPP-4

Gli inibitori della DPP-4 agiscono tutti promuovendo un aumento della biodisponibilità soprattutto dell’ormone incretinico GLP-1, a seguito dalla inibizione dell’enzima DPP-4 che degrada il GLP-1. L’aumentata biodisponibilità di GLP-1 si traduce in una maggiore attivazione di specifici recettori siti a livello di fibre nervose afferenti all’ipotalamo e di organi target: in questo modo si realizza l’aumento della secrezione insulinica, la riduzione della secrezione del glucagone, e la conseguente riduzione della iperglicemia. È certamente vero che gli inibitori della DPP-4 sono molecole diverse, con struttura chimica differente, motivo per cui si riconoscono inibitori peptidomimetici (sitagliptin, saxagliptin, vildagliptin) e non peptidomimetici (linagliptin e alogliptin) (5), che agiscono con un meccanismo di inibizione dell’enzima differente (Fig. 2).

29_2_Opinioni_4_Fig.2

Gli inibitori competitivi (sitagliptin, alogliptin e linagliptin) competono con il GLP-1 per il legame alla DPP-4 e prevengono quindi il clivaggio proteolitico del GLP-1; gli inibitori substrato (vildagliptin, saxagliptin) vengono essi stessi inattivati, evitando che l’attività enzimatica si riversi sul GLP-1. In entrambi i casi, il risultato è il medesimo, cioè la inibizione della inattivazione del GLP-1 (6-8). Un’altra serie di differenze tra i vari inibitori della DPP-4 riguarda la specificità dell’effetto di inibizione, che può riguardare altre dipeptidil-peptidasi come la DPP-8 e la DPP-9. Tuttavia, il rapporto tra l’inibizione della DPP-4 e quella delle altre dipeptidil-peptidasi, o di altri enzimi, sebbene diverso da inibitore a inibitore, è in tutti i casi superiore a 30 volte e in molti casi a 10.000 volte (5); a tutt’oggi, non è quindi chiaro se queste differenze di specificità di inibizione degli altri enzimi hanno una ricaduta dal punto di vista clinico. Anche le caratteristiche farmacocinetiche e farmacologiche dei vari inibitori sono eterogenee (Fig. 3): alcuni di essi non vengono metabolizzati (sitagliptin, alogliptin e linagliptin), altri (in particolare saxagliptin) vengono trasformati in un metabolita attivo a livello epatico; tranne linagliptin, che possiede una pressoché esclusiva eliminazione biliare, gli altri inibitori vengono eliminati attraverso il rene; infine, vildagliptin ha un’emivita più breve rispetto a saxagliptin, sitagliptin e alogliptin (9-10). Tuttavia, la possibilità di ridurre il dosaggio in caso di insufficienza renale e di somministrare vildagliptin ogni 12 ore rendono queste differenze poco rilevanti nella pratica clinica.

29_2_Opinioni_4_Fig.3

La Società Italiana di Farmacologia (SIF) ha recentemente espresso una propria posizione sugli inibitori della DPP-4 (11), raccomandando a una «certa cautela nel definire gli inibitori della DPP-4 una classe terapeutica completamente omogenea». Secondo la SIF, infatti, «la sola valutazione del meccanismo d’azione e dell’indicazione terapeutica possono risultare non sufficienti per confermare la comparabilità terapeutica. Il meccanismo d’azione è una proprietà che evolve di pari passo al progresso delle conoscenze scientifiche e all’acquisizione di nuove caratteristiche farmacologiche dei singoli prodotti anche dopo la loro commercializzazione». E ancora: «occorre confrontare le caratteristiche farmacocinetiche dei singoli principi attivi considerati (peso molecolare, costante di dissociazione e coefficiente di ripartizione lipidi/acqua che caratterizza il passaggio attraverso le membrane, distribuzione del farmaco, meccanismi metabolici ed enzimi coinvolti, grado di idrosolubilità che influenza l’eliminazione renale dei farmaci e possibili altre vie di eliminazione». Infine, la SIF conclude che «solo studi testa a testa controllati e con adeguata numerosità campionaria possono risultare risolutivi nella valutazione di differenze in termini di efficacia, sicurezza ed eventuali interazioni farmacologiche». Nella realtà gli studi di confronto diretto sono pochi. Tra questi, vi è uno studio che ha confrontato direttamente l’efficacia e sicurezza di sitagliptin 100 mg e saxagliptin 5 mg, entrambi somministrati come singola dose giornaliera al mattino in pazienti con diabete di tipo 2 trattati con almeno 1500 mg di metformina (12). Lo studio dimostra che la riduzione dei livelli di HbA1c è della stessa entità (per sitagliptin: -0,62%, IC 95%: -0,69%, -0,54%; per saxagliptin: -0,52%, IC 95%: -0,60%, -0,45%), concludendo che saxagliptin non è inferiore a sitagliptin. Anche il profilo di tollerabilità è risultato sovrapponibile. Se si esamina l’effetto sulla glicemia a digiuno, emerge una lieve maggiore efficacia di sitagliptin, con una riduzione di questo parametro di 5,4 mg/dl superiore rispetto a quanto osservato con saxagliptin. Tuttavia, è da rilevare non solo l’entità minima di tale differenza, ma anche il fatto che questi risultati sono stati prodotti somministrando i farmaci una sola volta al giorno: in considerazione della più breve emivita di saxagliptin rispetto a sitagliptin (Fig. 3), la glicemia a digiuno misurata prima della somministrazione del farmaco è risultata, prevedibilmente, lievemente inferiore per saxagliptin. Verosimilmente, però, non si sarebbe osservata alcuna differenza se i farmaci fossero stati somministrati ogni 12 ore, come avviene nella pratica clinica quotidiana essendo entrambi in associazione precostituita con metformina. Quindi, da questo studio di confronto diretto non emergono elementi sostanziali a sostegno di una diversa efficacia di questi due inibitori della DPP-4.

Gli inibitori della DPP-4 sono stati anche confrontati con le sulfoniluree in vari studi clinici condotti per due anni in pazienti già in trattamento con metformina (13-17) (Fig. 4).

29_2_Opinioni_4_Fig.4

Tranne che per alogliptin, che ha mostrato una maggiore efficacia rispetto a glipizide, in tutti gli altri studi è stata dimostrata la non inferiorità nel ridurre i livelli di HbA1c rispetto alle sulfoniluree. È da rilevare che si tratta di studi indipendenti, in popolazioni non omogenee e con molecole differenti con cui è stata effettuata la comparazione. Quindi, anche i risultati di questi studi supportano il concetto di una sostanziale equivalenza di efficacia anti-iperglicemica dei vari inibitori della DPP-4 quando confrontati con le sulfoniluree in pazienti non adeguatamente controllati dalla sola metformina.

In regimi terapeutici più nuovi, in cui viene esplorata l’associazione di un inibitore della DPP-4 con un inibitore di SGLT-2, i risultati degli studi clinici sono coerenti nel dimostrare la additività degli effetti ascrivibili a queste due classi di farmaci, quali che siano le molecole utilizzate. In questi studi, tutti condotti in pazienti con diabete di tipo 2 in controllo non adeguato con sola metformina, si osservano ulteriori riduzioni nei livelli di HbA1c e nelle percentuali di pazienti che raggiungono il target di HbA1c inferiore al 7,0% sia quando si utilizza saxagliptin in associazione a dapagliflozin, rispetto a saxagliptin o dapagliflozin da soli (18), sia quando si utilizza linagliptin con empagliflozin, rispetto a linagliptin ed empagliflozin da soli (19). Con l’associazione, si continua ad osservare l’effetto sul calo di peso da attribuire all’inibitore di SGLT-2. Quindi anche nei nuovi regimi di associazione i diversi inibitori della DPP-4 mostrano caratteristiche simili in termini di efficacia, come se potessero essere interscambiabili.

Infine, dal punto di vista cardiovascolare i diversi inibitori della DPP-4 hanno dimostrato, anche in questo caso, caratteristiche cliniche sovrapponibili. Se infatti si esaminano i risultati degli studi di outcome cardiovascolare SAVOR, EXAMINE e TECOS, condotti rispettivamente con saxagliptin, alogliptin e sitagliptin in popolazioni di pazienti con diabete di tipo 2 e diverso profilo di rischio cardiovascolare, si nota come in tutti e tre gli studi l’uso dell’inibitore della DPP-4 abbia prodotto un effetto neutro sull’incidenza dell’endpoint primario, rappresentato da morte cardiovascolare, infarto non-fatale e ictus non-fatale, così come sulla mortalità per tutte le cause (Fig. 5) (20-23).

29_2_Opinioni_4_Fig.5

Pertanto, non vi sono differenze sostanziali tra queste tre molecole per quanto riguarda la sicurezza cardiovascolare. Il dato osservato nello studio SAVOR, relativo a un maggior aumento del ricorso all’ospedalizzazione per scompenso cardiaco nei pazienti che assumevano saxagliptin (20) resta di difficile spiegazione, e non è stato peraltro confermato in uno studio retrospettivo condotto su oltre 120.000 pazienti in un setting di pratica clinica real-life (24).

Sulla base di queste evidenze cliniche, relative ad aspetti di efficacia anti-iperglicemica, di tollerabilità e di sicurezza cardiovascolare, la posizione della SIF sulla probabile eterogeneità degli inibitori della DPP-4, seppur suffragata da elementi differenziativi dal punto di vista farmacologico, non sembra essere supportata da evidenze cliniche sostanziali. Va anche richiamato il fatto che uno dei principali vantaggi terapeutici degli inibitori della DPP-4 riguarda la capacità di ridurre l’iperglicemia senza causare ipoglicemie e con un ottimo profilo di tollerabilità individuale. Questa proprietà è comune a tutte le molecole della classe e viene spesso utilizzata nella pratica clinica, soprattutto nei pazienti che sviluppano ipoglicemie in trattamento con sulfoniluree.

Per queste motivazioni, nella Regione Toscana, l’ufficio dell’Health Technology Assessment (HTA) ha recentemente pubblicato un’analisi sulla equivalenza terapeutica degli inibitori della DPP-4, concludendo che tale equivalenza sarebbe dimostrabile, fatta eccezione forse per alogliptin che in aggiunta a metformina sembra avere un profilo di efficacia lievemente maggiore rispetto agli altri inibitori della DPP-4 (25).

 L’esempio degli agonisti del recettore del GLP-1

Nell’ambito delle terapie a base di incretine, è presente anche la classe degli agonisti del recettore del GLP-1. Occorre tuttavia riconoscere che in questo caso non si tratta di una classe omogenea. Infatti, gli agonisti del recettore del GLP-1 presentano una eterogeneità chimica, farmacocinetica e farmacodinamica, in base all’omologia con il GLP-1 umano (albiglutide, dulaglutide, liraglutide, semaglutide) o con l’exendin-4 (exenatide, lixisenatide), alla specifica struttura molecolare, all’emivita nel sangue (da 2-3 ore ad alcuni giorni), alla frequenza di somministrazione (da due volte al giorno a una volta alla settimana), alla modalità con cui è stata prolungata l’emivita per ottenere molecole con frequenza di somministrazione settimanale (coniugazione con albumina per albiglutide, coniugazione con frammento Fc delle immunoglobuline IgG per dulaglutide, incapsulamento in microsfere biodegradabili per exenatide LAR, coniugazione con acido grasso a lunga catena per semaglutide) (26).

Nel caso degli agonisti del recettore del GLP-1, molti studi hanno contribuito a individuare alcune caratteristiche differenziali tra le varie molecole così che si possono individuare due sottoclassi distinte: gli agonisti cosiddetti «short-acting» o prandiali e gli agonisti cosiddetti «long-acting» (Fig. 6).

29_2_Opinioni_4_Fig.6

La principale differenza tra i due tipi di agonisti consiste nella modalità con cui viene attivato il recettore del GLP-1, che è intermittente nel caso degli agonisti «short-acting» e continua nel caso degli agonisti «long-acting». Questo comporta importanti differenze negli effetti di regolazione dei livelli circolanti di insulina e glucagone sia a digiuno che in fase post prandiale, così come nella capacità di rallentare la velocità di svuotamento gastrico. Infatti, gli agonisti «long-acting» sono in grado di stimolare maggiormente la secrezione di insulina e di ridurre i livelli di glucagone a digiuno, mentre gli agonisti «short-acting» agiscono in larga misura rallentando lo svuotamento gastrico e riducendo i livelli di glucagone in fase prandiale (27-28). Per questi motivi, gli agonisti «long-acting» sono più efficaci nel ridurre la glicemia a digiuno e la glicemia media (e quindi i livelli di HbA1c), mentre gli agonisti «short-acting» controllano maggiormente l’escursione glicemica prandiale. Negli studi di confronto diretto, spesso gli agonisti «long-acting» sono risultati più efficaci nel ridurre i livelli di HbA1c rispetto agli agonisti «short-acting» quando non utilizzati in associazione con insulina (29). Vi sono poi differenze tra i vari agonisti del recettore del GLP-1 in relazione alla frequenza di somministrazione, che varia da due volte al giorno a una volta alla settimana, così come in relazione al dispositivo con cui il farmaco viene somministrato; queste differenze possono avere un impatto sulla preferenza della persona con diabete nei confronti di un farmaco rispetto a un altro, e quindi sull’aderenza alla terapia.

Sulla base di queste considerazioni, sembra evidente come, nel caso degli agonisti del recettore del GLP-1, sia difficile non ravvisare differenze significative tra le varie molecole, tali da rendere in questo caso molto difficile la ricerca di una equivalenza terapeutica di classe. Questa potrebbe essere semmai considerata nell’ambito di ciascuna delle due sottoclassi di agonisti «short-acting» e «long-acting» in base al rispettivo meccanismo di azione, ma anche in questo caso vi sono differenze significative tra le varie molecole.

 L’esempio dei farmaci con potenziali effetti «extraglicemici»

Gli aspetti fin qui considerati riguardano la possibile equivalenza terapeutica di classe in riferimento agli effetti anti-iperglicemici dei farmaci anti-diabete. Esiste tuttavia la possibilità che, anche indipendentemente dalla capacità di ridurre la iperglicemia, alcuni farmaci anti-diabete possano esercitare effetti favorevoli a livello cardiovascolare e renale. Questo è quanto suggerito dagli studi EMPA-REG OUTCOME, LEADER e SUSTAIN-6, condotti rispettivamente con empagliflozin, liraglutide e semaglutide in popolazioni di diabetici di tipo 2 ad alto rischio cardiovascolare perché affetti da malattia cardiovascolare pre-esistente, spesso con un pregresso evento (30-33). In questi studi, a fronte di una riduzione molto contenuta dei livelli di HbA1c, sono emersi effetti protettivi sulla riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori (MACE, major adverse cardiovascular events) e, nel caso di empagliflozin nello studio EMPA-REG OUTCOME, anche della ospedalizzazione per scompenso cardiaco (Fig. 7). Sono stati riportati effetti protettivi anche a livello renale, meglio caratterizzati per empagliflozin, con la riduzione di un endpoint composito renale, variamente definito nei tre studi, che considerava la progressione a macroalbuminuria, il raddoppio dei livelli di creatininemia, l’inizio della terapia dialitica e talvolta la morte per cause renali (31-34).

A questo punto, vi è da chiedersi se anche altri farmaci della classe degli inibitori di SGLT-2, come empagliflozin, o della classe degli agonisti del recettore del GLP-1 «long-acting», come liraglutide e semaglutide, possano assicurare lo stesso tipo di benefici extra-glicemici sulla prevenzione cardiovascolare e/o su quella renale. Il quesito appare legittimo, in considerazione del fatto che, allo stato attuale delle conoscenze, i meccanismi con cui gli inibitori di SGLT-2 possono esercitare un effetto favorevole a livello cardiaco e renale (riduzione della glucotossicità, aumento della natriu- resi, riduzione della pressione arteriosa e del peso, riduzione della uricemia, aumento della chetonemia, attivazione del feed-back tubulo-glomerulare, riduzione della pressione intraglomerulare) (Fig. 8) non sembrano differire tra le varie molecole (35). Analogamente, le proprietà degli agonisti del recettore del GLP-1 potenzialmente benefiche per la protezione cardiovascolare (riduzione dei fattori di rischio cardiovascolari quali pressione arteriosa sistolica, peso e infiammazione, protezione del miocardio dall’ischemia, effetti favorevoli sulla funzione endoteliale e sulla progressione della placca aterosclerotica, migliore sopravvivenza delle cellule cardiache) (Fig. 7) sono state descritte con vari farmaci appartenenti a questa classe (36).

29_2_Opinioni_4_Fig.7

È interessante notare come la stessa American Diabetes Association (ADA), nelle raccomandazioni per il trattamento del diabete del 2017 (37), nel riportare la nuova indicazione per empagliflozin per la riduzione del rischio di mortalità cardiovascolare in soggetti con diabete di tipo 2 e malattia cardiovascolare, allude al fatto che vi possano essere simili effetti protettivi anche da parte di altri inibitori di SGLT-2: «whether other SGLT2 inhibitors will have the same effect in high-risk patients with T2D remains unknown». Analogamente, per gli agonisti del recettore del GLP-1, l’ADA solleva il dubbio se non siano da immaginare effetti di protezione cardiovascolare comuni ad altre molecole della stessa classe: «whether other GLP-1 receptor agonists will have the same effect of liraglutide in high-risk patients with T2D remains unknown». Si riconosce in entrambi i casi che i dati non sono disponibili, ma è significativo il fatto che si senta la necessità di considerare la possibilità che effetti simili possano essere osservati con altri farmaci appartenenti alla classe.

A proposito degli inibitori di SGLT-2, va riportato come alcune recenti meta-analisi abbiano evidenziato effetti di riduzione soprattutto della ospedalizzazione per scompenso cardiaco e della mortalità cardiovascolare anche con altre molecole della classe (sebbene spesso senza raggiungere la significatività statistica per la ridotta numerosità degli eventi osservati) (38-39). Tuttavia, in uno studio recente condotto in un contesto clinico «real-life», in cui sono stati impiegati soprattutto canagliflozin e dapagliflozin, è stata osservata una riduzione dell’incidenza di ospedalizzazione per scompenso cardiaco e di mortalità rispetto ad altre terapie ipoglicemizzanti (40). Quindi è probabile che gli effetti protettivi su questi endpoint cardiovascolari possano rappresentare una proprietà comune alla intera classe degli inibitori di SGLT-2.

 Conclusioni

L’esempio degli inibitori della DPP-4, di cui si è trattato, dimostra come nell’ambito della stessa classe di farmaci anti-iperglicemici, sebbene siano presenti differenze dal punto di vista farmacologico, queste non siano tali da tradursi in significativi vantaggi o svantaggi terapeutici. Quindi, la equivalenza terapeutica di classe potrebbe essere presa in considerazione in riferimento agli effetti anti-iperglicemici di questi farmaci. Diversa è la situazione degli agonisti recettoriali del GLP-1, per i quali le differenze farmacologiche si traducono in significative differenze di carattere clinico-terapeutico.

Per quanto attiene invece ai benefici extra-glicemici osservati con empagliflozin o con liraglutide e semaglutide, è verosimile che in questo caso gli stessi benefici possano osservarsi anche con altre molecole della classe, in particolare se ci riferiamo alla prevenzione della ospedalizzazione per scompenso cardiaco (per gli inibitori di SGLT-2) e del processo aterosclerotico (per gli agonisti del recettore del GLP-1 «long-acting»). Tuttavia, è necessario che la eventuale equivalenza terapeutica in riferimento agli effetti di prevenzione cardiovascolare sia degli inibitori di SGLT-2 che degli agonisti del recettore del GLP-1 venga adeguatamente dimostrata attraverso studi clinici ad hoc.

Va richiamato, infine, che «equivalenza» significa: «uguaglianza in genere tra cose di natura o qualità diversa» (41). Quindi, il concetto di equivalenza terapeutica non nega la presenza di differenze tra farmaci, ma ci stimola a “pesare” il reale valore terapeutico dei singoli farmaci per riconoscerne i benefici (o anche i rischi), attraverso il giudizio clinico e la valutazione attenta di ciò che realmente si traduce in un vantaggio sostanziale per il paziente.

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41. Enciclopedia Treccani.

Esiste l’equivalenza terapeutica di classe in diabetologia?

 Cristina Bianchi, Stefano Del Prato

Il diabetologo moderno dispone di un sempre crescente numero di opzioni terapeutiche per il trattamento del diabete tipo 2 e di numerose molecole appartenenti a una stessa classe. La conoscenza di eventuali differenze nell’efficacia e nella sicurezza tra i vari farmaci appartenenti alla stessa classe terapeutica è fondamentale nella pratica clinica, nonché nella tutela della salute pubblica e nella politica sanitaria. La sola valutazione del meccanismo d’azione e dell’indicazione terapeutica possono risultare insufficienti per decretare l’equivalenza terapeutica delle varie molecole appartenenti alla stessa famiglia. È invece necessario il confronto delle caratteristiche farmacocinetiche dei singoli principi attivi considerati, di tutti i parametri che influenzano il percorso di un farmaco all’interno di un organismo (distribuzione, metabolismo, eliminazione del farmaco) e di valutazioni comparative di efficacia e sicurezza; tuttavia mancano spesso studi clinici di confronto testa a testa fra le varie molecole della stessa classe terapeutica e spesso si fa ricorso a metodi statistici che consentono il confronto indiretto tra i vari farmaci (meta-analisi, meta-regressioni…). La dichiarazione di equivalenza terapeutica riflette pertanto un processo complesso e non sempre percorribile. In ambito diabetologico, esperienze passate hanno evidenziato come farmaci appartenenti alla stessa classe non possono essere considerati “equivalenti”; probabilmente queste differenze sono presenti anche fra le molecole delle nuove classi, seppure minori siano ad oggi le evidenze disponibili.

 Biguanidi

Le biguanidi (fenformina e metformina), derivate della guanidina scoperta negli anni Venti nell’estratto della pianta Galega officinalis), sono state ampiamente utilizzate nel trattamento del diabete tipo 2 per decenni. Fecero la loro comparsa come farmaci ipoglicemizzanti alla fine degli anni Cinquanta, ma il loro impiego clinico fu messo in discussione negli anni Settanta dopo la pubblicazione dei risultati dello studio University Group Diabetes Program (UGDP) (1)per i possibili effetti collaterali a esse attribuiti. Infatti, l’uso preferenziale della fenformina (spesso a dosaggi eccessivi) e in particolare la segnalazione di casi di acidosi lattica durante il trattamento, avevano suggerito particolare cautela per questa classe di farmaci (2), che fu addirittura bandita da alcuni Paesi (USA e Canada). Una serie di studi clinici successivi (fra cui l’UKPDS) (3) e le migliori conoscenze sui meccanismi di azione e profilo farmacocinetico, hanno riabilitato la metformina, che oggi rappresenta non solo il farmaco di prima scelta nella terapia del diabete di tipo 2 (4), ma trova indicazione d’uso anche nel diabete gestazionale, nella sindrome dell’ovaio policistico, nella sindrome metabolica e nella prevenzione del diabete mellito tipo 2. Al contrario, la fenformina è stata ritirata dal commercio in molti paesi per l’eccessivo rischio di acidosi lattica, cosa avvenuta in Italia solo nel 2013.

Negli studi clinici di confronto testa a testa, metformina e fenformina mostrano una differente capacità ipoglicemizzante (significativamente maggiore per la fenformina)(5), ma anche un differente rischio di acidosi lattica con un’incidenza pari a 40-64 casi per 100.000 anni-paziente per la fenformina e in misura 10-20 volte inferiore per la metformina (6-8). Quanto osservato è verosimilmente attribuibile al differente profilo farmacocinetico delle due molecole. La metformina ha infatti un’emivita più breve della fenformina (1,5-5 vs. 7-12 ore), è meno lipofilica, per cui non si accumula nel fegato, e viene eliminata immodificata attraverso il filtrato glomerulare e la secrezione tubulare (Tab. 1).

29_2_Opinioni_4_Tab.1

Inoltre, mentre la fenformina aumenta il turnover del lattato e sopprime la sua ossidazione, facilitandone l’accumulo, la metformina pur aumentandone le concentrazioni attraverso la riduzione della gluconeogenesi, ne favorisce l’ossidazione (5, 9-10). In genere sono esposti al rischio di acidosi lattica i pazienti più anziani in cui sono associate altre condizioni predisponenti l’accumulo di lattato, quali l’insufficienza renale avanzata, la grave insufficienza epatica, lo scompenso cardiaco, l’infarto del miocardio e la sepsi. Questa breve disamina è comunque sufficiente a indicare differenze tali da non giustificare l’equivalenza nella classe delle biguanidi.

 Sulfoniluree

Le solfoniluree sono la classe di farmaci ipoglicemizzanti orali da più tempo utilizzata nella gestione del diabete tipo 2. Le sulfoniluree agiscono aumentando la secrezione endogena dell’insulina mediante legame con il dominio extracellulare del canale K+ ATP-dipendente (SUR1/Kir6.2) sulle β-cellule pancreatiche e provocano la depolarizzazione della membrana delle β-cellule con l’attivazione di una cascata di eventi intracellulari che conducono alla secrezione di insulina in modo indioendente dalla concentrazione di glucosio (11-12). Questa categoria di farmaci ha subito, nel corso del tempo una marcata evoluzione farmacologica, tanto da portare a identificare sulfoniluree di prima (tolbutamide, clorpropamide), seconda (glipizide, gliclazide, glibenclamide, gliquidone) e terza generazione (glimepiride, gliclazide MR). Oltre che per il profilo secretorio (13), le sulfoniluree differiscono in termini di selettività tissutale (14), stimolazione della secrezione insulinica durante ipoglicemia (15), rischio di ipoglicemia (16-17) e risposta contro-regolatoria in caso di ipoglicemia (18) a sottolineae la non-equivalenza tra le molecole della stessa classe. Sebbene le sulfoniluree siano efficaci nel migliorare il controllo glicemico, il loro impiego si associa a un aumento di peso e a rischio di ipoglicemia. Il rischio di ipoglicemia, però, varia all’interno della classe con un rischio maggiore per glibenclamide e minore con gliclazide (19-22). Per quanto il miglioramento del controllo glicemico ottenuto con le sulfoniluree possa tradursi in una riduzione del rischio di complicanze micro-vascolari (23-24), differenze fra le varie molecole della classe sembrano emergere in termini di sicurezza cardiovascolare (25-26). Il primo riscontro di un potenziale effetto cardiovascolare negativo è emerso da un’analisi ad interim dello studio UGDP che mostrava un aumento statisticamente significativo delle morti cardiovascolari associate alla terapia con tolbutamide (27), motivo per il quale il braccio di trattamento con tolbutamide fu prematuramente interrotto. Successive meta-analisi hanno confermato un maggior rischio di mortalità cardiovascolare associato all’uso di sulfoniluree rispetto ad atri farmaci ipoglicemizzanti, documentando però un rischio più basso con gliclazide e glimepiride rispetto glibenclamide (26). Sono state proposte diverse ipotesi nel tentativo di spiegare questi effetti potenzialmente dannosi delle sulfoniluree. Uno dei meccanismi proposti è legato alla capacità di alcune sulfoniluree di inibire il “precondizionamento ischemico”, un meccanismo di difesa messo in atto dall’organismo una volta espoto ad un episodio ischemico. Questo fenomeno è largamente mediato dall’apertura del canale del K+ ATP-dipendente a livello del circolo coronarico. Le sulfoniluree potrebbero interferire con questo meccanismo per effetto di una reattività crociata con i canali K+ ATP-dipendenti a livello miocardico (SUR2A / Kir6.2) (28). Peraltro, le diverse sulfoniluree sembrano possedere una diversa affinità per il canale K+ ATP-dipendente cardiaco (29-31), suggerendo che i secretagoghi più selettivi per il recettore SUR1 pancreatico siano più sicuri (32). Più recentemente, lo studio ADVANCE (Action in Diabetes and Vascular Disease: Preterax and Diamicron MR Controlled Evaluation) ha dimostrato che, seppure il miglioramento del controllo glicemico con gliclazide MR non si associasse al migliorato degli outcomes cardiovascolari, l’uso di questa sulfonilurea non comportava aumenti del rischio di mortalità (24). Quindi, anche per la classe delle sulfoniluree vengono a mancare i requisiti per un’equivalenza terapeutica di classe.

Tiazolidinedioni

I tiazolidinedioni (TZD; troglitazone, rosiglitazone e pioglitazone) rappresentano un altro chiaro esempio di mancata equivalenza di classe. Questi farmaci, noti anche come “glitazoni”, sono degli insulino-sensibilizzanti che esercitano i loro effetti attraverso l’attivazione dell’isoforma g del recettore nucleare PPAR (peroxisome proliferator-activated receptor) (33). L’attivazione del PPAR-g modifica la trascrizione dei geni coinvolti nel metabolismo glucidico e lipidico e nel bilancio energetico con conseguente miglioramento della captazione e dell’utilizzazione del glucosio da parte del muscolo scheletrico, riduzione della gluconeogenesi, della produzione epatica di glucosio e della sintesi epatica di trigliceridi. Questi farmaci sono molto efficaci nel ridurre i valori di HbA1c, con un effetto duraturo nel tempo e con un basso rischio di ipoglicemie (34). Effetti indesiderati comuni alle molecole della classe sono l’aumento di peso, la ritenzione idrica, l’edema periferico e un aumentato rischio di scompenso cardiaco. Non sono disponibili studi di confronto diretto fra le tre molecole della classe che, pur presentando una struttura chimica molto simile, differiscono fra loro per la catena laterale legata alla molecola tiazolidin-2-4-dione che spiega le diversità nella biodisponibilità e nel metabolismo di ciascuno di essi. Il rosiglitazone ha un’affinità di legame per PPAR-g 100 volte superiore a quella del pioglitazone, di conseguenza, la dose terapeutica di rosiglitazone (4-8 mg/die) è circa 1/4 della rispettiva dose di pioglitazone (15-45 mg/die). Le maggiori differenze fra le tre componenti della classe sono comunque legate agli effetti avversi evidenziati soprattutto post-marketing. Il troglitazone, prima molecola della classe ad essere commercializzata, è stato presto ritirato dal commercio a causa di una grave epatotossicità. In tempi più recenti è finito nell’occhio del mirino il rosiglitazone che, in alcune meta-analisi (35), è risultato associarsi a un aumento del rischio di infarto del miocardio. Come conseguenza di questa osservazione, il rosiglitazone è stato ritirato dal commercio in Europa e il suo uso è stato ristretto negli USA. Va anche ricordato che i risultati dello studio RECORD (Rosiglitazone Evaluated for Cardiovascular Outcomes and Regulation of Glycemia in Diabetes) non hanno confermato un aumento del rischio cardiovascolare o di morte nei pazienti trattati con questa molecola rispetto al trattamento standard (36), con conseguente rimozione delle restrizione di sicurezza all’impiego di rosiglitazone da parte dell’FDA. Al contrario l’uso di pioglitazone sembra associarsi a benefici cardiovascolari (37). Nello studio PROactive (PROspective pioglitAzone Clinical Trial In macroVascular Events), nonostante l’end-point primario (eventi cardiovascolari maggiori e rivascolarizzazioni periferiche) non abbia raggiunto la significatività statistica (HR 0.90, p=0.095), l’end-point secondario pre-specificato di morte cardiovascolare, infarto non fatale e ictus risultava significativamente ridotto (HR 0.84, p=0.027) (38). Più recentemente, nello studio IRIS (Insulin Resistance Intervention after Stroke), che ha coinvolto pazienti non-diabetici ma con insulino-resistenza e storia di recente ictus ischemico o TIA, il pioglitazone si associava a riduzione del 24% del rischio di infarto del miocardio o ictus fatale o non-fatale (HR 0.76; 95%CI 0.62–0.93; p=0.007) (39), oltre che ad un più basso rischio di sviluppare diabete. La storia di questi farmaci, quindi, ancora una volta suggerisce una cautela estrema nel giudicare l’equivalenza terapeutica di classe.

 Inibitori della dipeptidil-peptidasi 4

Gli inibitori della dipeptidil-peptidasi 4 (DPP4-i – sitagliptin, vildagliptin, saxagliptin, linagliptin e alogliptin), anche conosciuti come “gliptine”, agiscono bloccando l’attività dell’enzima DPP4 e prolungando l’azione delle forme biologicamente attive degli ormoni incretinici endogeni, con conseguente stimolazione glucosio-dipendente della secrezione insulinica e soppressione del glucagone. Il primo DPP4-i ad essere commercializzato è stato sitagliptin, seguito in Europa, da vildagliptin e, a seguire, da saxagliptin, alogliptin e linagliptin. Nonostante le varie molecole di questa classe di farmaci abbiano una simile capacità ipoglicemizzante e un profilo di sicurezza sovrapponibile (neutri sul peso e associati a basso rischio di ipoglicemia) (40-41), presentano un profilo farmacocinetico e farmacodinamico molto diverso fra loro (42-43; Tab. 2).

29_2_Opinioni_4_Tab.2

All’interno di questa classe è possibile distinguere molecole che mimano la struttura dei substrati della DPP4 (sitagliptin, vildagliptin e saxagliptin) e molecole non peptido-mimetiche (alogliptin e linagliptin). Sono tutti inibitori competitivi reversibili della DPP4, ma differiscono nella potenza di inibizione dell’enzima, nella durata d’azione, nel metabolismo e nell’eliminazione. Tutte le gliptine, ad eccezione di linagliptin, sono eliminate dal rene, richiedendo quindi un aggiustamento posologico in caso di riduzione della funzione renale (44). Inoltre, l’interazione tra farmaci è molto bassa per tutte le molecole della classe con l’eccezione di saxagliptin che necessita un aggiustamento della dose in caso di concomitante somministrazione di farmaci che inibiscono il citocromo CYP3A4. Le molecole di questa classe sembrano condividere anche la stessa sicurezza cardiovascolare. Infatti negli studi EXAMINE (con alogliptin) (45), SAVOR-TIMI (con saxagliptin) (46) e TECOS (con sitagliptin) (47) non si è osservato un aumento o una riduzione degli eventi cardiovascolari. Tuttavia, nello studio SAVOR-TIMI è stato osservato un aumentato rischio di ospedalizzazioni per insufficienza cardiaca nei pazienti trattati con saxagliptin (incidenza assoluta 3.5 vs. 2.8%; rischio relativo 27%) (48). Tale associazione non è stata invece evidenziata negli studi condotti con le altre molecole della classe (49). In che misura il dato emerso in SAVOR TIMI rappresenti una caratteristica di saxagliptin rispetto agli altri DPP4i non è completamente chiaro.

Le gliptine sono state oggetto di un Position paper sull’Equivalenza Terapeutica di Classe nell’Ambito degli Antidiabetici da parte della Società Italiana di Farmacologia che dopo attenta analisi degli studi disponibili ha concluso: “Nonostante la condivisione dello stesso meccanismo d’azione e un simile profilo di efficacia, gli inibitori della DPP-4 presentano differenze strutturali e farmacocinetiche per le quali non è sempre possibile trarre conclusioni in mancanza di studi comparativi diretti di efficacia. I dati ad oggi a disposizione suggeriscono una certa cautela nel definire gli inibitori della DPP-4 una classe terapeutica completamente omogenea”.

 Agonisti del recettore del GLP-1

Gli agonisti del recettore del Glucagon-like peptide-1 (GLP-1 RA), sono la classe di farmaci utilizzati per il trattamento del diabete tipo 2 con maggiori differenze nella struttura molecolare, nell’efficacia e nella sicurezza fra molecole della stessa classe, documentati anche da un discreto numero di studi di confronto testa a testa. Il primo GLP-1 RA approvato per il trattamento del diabete tipo 2 è stato exenatide nel 2006. Da allora il numero di molecole e formulazioni disponibili è ampiamente cresciuto, con l’avvento di molecole molto diverse fra loro per struttura di base e durata d’azione. Proprio sulla base di tali caratteristiche è possibile suddividere gli agonisti del recettore del GLP-1 in gruppi differenti, evidenziando già in partenza la non-equivalenza di classe. Se si considera la struttura molecolare di origine, essi possono essere distinti come exendin-like (exenatide e lixisenatide) o analoghi del GLP-1 (liraglutide, albiglutide, dulaglutide e semaglutide); se si considera invece la durata d’azione, che ne condiziona anche la frequenza di somministrazione, essi si dividono in short-acting, quali exenatide (doppia somministrazione giornaliera – bid) e lixisenatide (monosomministrazione giornaliera) o longer-acting, quali liraglutide (monosomministrazione giornaliera), exenatide long-acting realese (LAR), albiglutide e dulaglutide che richiedono invece la mono-somministrazione settimanale. Tutte le molecole si associano a un efficace miglioramento del controllo glicemico (50-51), ma l’entità di riduzione dell’emoglobina glicata non è equivalente fra le differenti molecole della classe, risultando maggiore per liraglutide rispetto a exenatide e albiglutide, e sovrapponibile fra liraglutide e dulaglutide. Inoltre, mentre le formulazioni short-acting sembrano garantire un miglior controllo delle escursioni glicemiche post-prandiali, anche grazie al marcato effetto di rallentamento dello svuotamento gastrico, le formulazioni con emivita più lunga e conseguente minor fluttuazione della concentrazione plasmatica del farmaco, si associano ad una maggiore riduzione della glicemia a digiuno. Anche gli effetti sul peso corporeo non sono sovrapponibili fra le varie molecole della classe, risultando maggiore il calo ponderale ottenuto con liraglutide rispetto ad exenatide LAR, albiglutide e dulaglutide e sovrapponibile fra liraglutide ed exenatide bid (52). Gli eventi avversi più frequentemente osservati con GLP-1RA sono i disturbi gastrointestinali, in particolare nausea, vomito e diarrea. Anche nell’incidenza di tali effetti indesiderati, le varie molecole differiscono fra loro (53). La nausea, ad esempio, compare meno frequentemente con exenatide LAR rispetto a albiglutide, exenatide bid e liraglutide. Dulaglutide si associa meno frequentemente a diarrea, mentre la comparsa di nausea e vomito è sovrapponibile a quella di liraglutide. Entrambe le formulazioni di exenatide e albiglutide si associano a maggior incidenza di reazioni nel sito di iniezione rispetto a liraglutide e dulaglutide. Inoltre, l’immunogenicità delle due formulazioni di exenatide appare superiore rispetto a quella di liraglutide (54) e dulaglutide (55). Più recentemente sono emerse anche differenze tra i vari analoghi per quanto concerne gli effetti cardiovascolari per quanto i diversi studi differiscano per disegno e popolazione arruolata.

Complessivamente però i dati sinora disponibili dimostrano una sicurezza per quanto riguarda gli analoghi exendin-like come dimostrato con Lixisenatide, nello studio ELIXA (Evaluation of Lixisenatide in Acute Coronary Syndrome) (56) e annunciato per exenatide a rilascio continuo sottocute (FREEDOM) (57) e Exenatide LAR (EXSCEL) (58). Al contrario, liraglutide e semaglutide, nello studio LEADER (Liraglutide Effect and Action in Diabetes: Evaluation of cardiovascular outcome Results) (59) e SUSTAIN-6 (Trial to Evaluate Cardiovascular and Other Long-term Outcomes with Semaglutide in Subjects with Type 2 Diabetes) (60) rispettivamente, hanno dimostrato una significativa riduzione dell’end-point cardiovascolare.

In conclusione, anche la classe dei GLP-1 agonisti riconosce sufficiente distinzioni per suggerire cautela nel concludere per una equivalenza terapeutica.

 Inibitori del co-trasportatore renale sodio-glucosio 2 (SGLT2)

Gli inibitori del co-trasportatore renale sodio-glucosio 2 (SGLT2-i) (canagliflozin, dapagliflozin ed empagliflozin; ipragliflozin, tofogliflozin in Giappone) (61), anche conosciuti come “gliflozine” inibiscono il riassorbimento renale di glucosio a livello del tubulo prossimale (62), consentendo un miglioramento del controllo glicemico (63) senza aumentare il rischio di ipoglicemia e favorendo il calo ponderale (64). Le molecole di questa famiglia di farmaci hanno una struttura molecolare molto simile, simili caratteristiche farmacocinetiche con un rapido assorbimento per via orale e un’emivita sufficientemente lunga da garantirne la mono-somministrazione giornaliera (Tab. 3).

29_2_Opinioni_4_Tab.3

Gli SGLT2-i si associano a un certo rischio di interazioni farmacologiche e canagliflozin può aumentare l’esposizione alla digossina e alla ciclosporina. In assenza di studi di confronto testa a testa fra le diverse molecole di questa classe terapeutica, l’efficacia dei singoli componenti è stata valutata tramite confronto indiretto, documentando poche differenza fra i vari SGLT2-i, ma una maggiore riduzione di HbA1c con canagliflozin 300 mg in monoterapia (65-66). Gli effetti indesiderati, quali le infezioni genito-urinarie, l’ipotensione posturale e la chetoacidosi, sono condivisi dall’intera classe di farmaci. Per il canagliflozin è stato inoltre segnalato un maggior rischio di fratture e, recentemente, un aumento del rischio di amputazioni a livello degli arti inferiori (in prevalenza amputazioni distali sino al metatarso). Questo rischio è stato confermato dai risultati di CANVAS (67) con un aumento (HR 1.97, CI 95% 1.41 – 2.75). CANVAS ha anche confermato, nell’insieme, i risultati di EMPA-REG Outcomes. Con quest’ultimo trial era stato osservata una riduzione significativa del rischio per l’endpoint combinato di mortalità cardiovascolare, infarto del miocardio e ictus non fatali (HR 0.86. CI 95% 0.74-0.99) sostanzialmente sovrapponibile a quanto riportato in CANVAS (HR 0.86, 95% CI 0.75-0.97) (68-69). Peraltro, alcune differenze emergono dal confronto tra i due studi soprattutto per quanto riguarda la mortalità cardiovascolare che, nel caso di EMPA-REG risultava marcatamente ridotta (HR 0.62, CI 95% 0.49-0.77) mentre marginale è risultata la riduzione osservata in CANVAS (HR 0.87, CI 95% 0.72-1.06). Va comunque sottolineato che queste differenze potrebbero riflettere le diverse caratteristiche delle popolazioni dei due studi, piuttosto che delle molecole impiegate. Mentre in CANVAS il 35% della popolazione era in “prevenzione primaria” cioè non aveva avuto precedenti eventi cardiovascolari, i soggetti inclusi in EMPA-REG avevano tutti una storia positiva per eventi cardiovascolari. Nel loro insieme i risultati dei due studi sembrano delineare un certo grado di equivalenza tra empagliflozin e canagliflozin, suggerendo un effetto di classe. Questa ipotesi trova un suo rafforzamento nei risultati di CVDReal (KJosoborod Circulation). Lo studio, basato su registri clinici di 6 diverse nazioni, ha confrontato 150.000 pazienti in trattamento con SGLT2 inibitori rispetto a 150.00 pazienti in trattamento con altri anti-iperglicemizzanti, previa selezione mediante propensity score. I risultati hanno mostrato che il trattamento con SGLT2 inibitori senza specifica del tipo, comportava una riduzione del 46% del rischio di ospedalizzazione per insufficienza cardia e morte (HR 0.54; 95% CI 0.48-0.60, p<0.001). Ovviamente, prima di decretare che si tratti di un effetto di classe occorrerà attendere i risultati dello studio DECLARE (70) con dapagliflozin e verificare in che misura gli allert che la Food and Drug Administration ha finora emesso per alcune, ma non tutte, le molecole della classe possano identificare specifiche differenze e quindi particolari precauzioni nella selezione dei pazienti da trattare con l’uno o l’altro farmaco.

 Conclusioni

L’attenta analisi di quanto è storicamente avvenuto per le vecchie classi di farmaci anti-iperglicemizzanti e i dati raccolti per quelle di più recente introduzione in commercio invitano sostanzialmente a una cautela nella generalizzazione dell’efficacia e della sicurezza dei farmaci sia tra le varie classi che all’interno di un’unica classe. L’appartenenza ad una stessa classe terapeutica e la condivisione del medesimo meccanismo d’azione non garantiscono l’equivalenza terapeutica delle singole molecole. Questo peraltro non deve essere letto come uno svantaggio. In un’epoca nella quale tanto maggiore è l’enfasi alla personalizzazione della terapia avere, anche all’interno della stessa classe, delle differenziazioni potrebbe garantire una maggior possibilità d’individualizzazione della terapia, massimizzandone l’efficacia e minimizzando gli effetti collaterali. Ovviamente, tutto questo richiede un’attenta conoscenza delle caratteristiche di ciascuno dei farmaci che possiamo usare e un aggiornamento continuo sui risultati che la ricerca clinica periodicamente propone. D’altra parte, è una caratteristica dello Specialista destreggiarsi attraverso le opportunità terapeutiche. In campo diabetologico, negli ultimi 20-30 anni, queste opportunità sono andate crescendo. Non riconoscere le sfumature che le varie soluzioni terapeutiche offrono vuol dire rinunciare a garantire il migliore trattamento a ciascuna persona con diabete. Pertanto, spetta allo Specialista Diabetologo, l’attenta analisi scientifica, la razionale ed equilibrata valutazione delle caratteristiche delle singole molecole appartenenti ad una stessa classe allo scopo di individuare i principi attivi con le migliori evidenze di efficacia clinica e di sicurezza per garantire la miglior terapia per ogni singolo paziente.

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