Rosa Spinelli, Giuseppe Cacace, Michele Campitelli,
Augusta Moccia, Francesco Beguinot
URT GDD-IEOS, Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), Napoli; Dipartimento di
Scienze Mediche Traslazionali, Università Federico II, Napoli
SOMMARIO
I meccanismi epigenetici contribuiscono allo sviluppo ed al funzionamento di tutte le cellule. Per esempio, i processi di differenziamento cellulare, che avvengono durante lo sviluppo embrionale e si concludono poco prima della nascita, sono guidati da continue modifiche epigenetiche: cellule con lo stesso genotipo si trasformano in cellule con profili di espressione genica differenti e, quindi, con funzioni diverse, trasmissibili mitoticamente. L’ambiente intrauterino, influenzato dallo stile di vita materno, funge da ulteriore trigger, guidando l’ontogenesi embrionale in una fase in cui il materiale genetico è particolarmente duttile. Nella stessa prospettiva possono essere considerati i processi di accrescimento, di mantenimento e di invecchiamento, dove però le modificazioni epigenetiche, in gran parte tessuto specifiche, consentono una fisiologica espressione genica, che è anche funzione dell’età biologica dell’individuo. In generale, la nostra macchina biologica riceve e fa proprie sollecitazioni esterne, che sono integrate alle informazioni fissate nella sequenza nucleotidica del DNA (genoma), e risponde ad esse in maniera adeguata (epigenoma), mantenendo l’omeostasi fisiologica. Quando il controllo sfugge e l’omeostasi viene danneggiata, lo scenario cambia e può innescarsi un percorso patologico.
Studi condotti sull’uomo ed in modelli animali hanno dimostrato che alterazioni dell’ambiente intrauterino, interferendo con lo sviluppo fetale, possono influenzare la suscettibilità del nascituro all’insorgenza di malattie croniche non diffusibili, tra cui l’obesità ed il diabete tipo 2. Infatti, è stato dimostrato che alterazioni dell’epigenoma in risposta a fattori ambientali in utero, quali nutrienti, stress, interferenti endocrini ed inquinanti, possono indurre cambiamenti a lungo termine nella struttura e nella funzione degli organi, predisponendo così il neo-nato all’insorgenza di diabete tipo 2 nella vita adulta.
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L’EPIGENETICA: L’INTERFACCIA MOLECOLARE TRA FATTORI AMBIENTALI E DIABETE TIPO 2
Il diabete tipo 2 (DT2) rappresenta il disordine endocrino-metabolico più diffuso nel mondo: colpisce fino al 10% della popolazione dei Paesi industrializzati e rappresenta oltre il 90% di tutti i casi di diabete (1). Inoltre, costituisce un grave problema di sanità pubblica, in quanto l’incidenza del DT2 è in continua crescita, assumendo ovunque, nel mondo, proporzioni epidemiche. Le stime dell’International Diabetes Federation suggeriscono che nel 2025 ci saranno in Italia più di 3,2 milioni di persone colpite da diabete; mentre a livello mondiale gli individui colpiti saranno 380 milioni, con un incremento di oltre il 70% rispetto alle cifre odierne (1). Gli incrementi maggiori sono previsti nei Paesi in via di sviluppo, nei quali, entro il 2025, risiederanno oltre il 75% delle persone colpite dal diabete (2). Questi dati avvalorano i profondi sforzi della ricerca scientifica finalizzati non solo a chiarire la patofisiologia del DT2, ma, soprattutto, ad identificare efficaci misure preventive e nuovi approcci terapeutici.
Le ormai corpose informazioni presenti in letteratura contribuiscono alla classificazione del DT2 come una malattia genetica complessa, multifattoriale, con espressività e penetranza variabile, la cui eziopatogenesi risulta dalle “dinamiche” interazioni tra molteplici loci di suscettibilità (fattori genetici) e ambiente (fattori epigenetici), anche largamente condivisi nei nuclei familiari (3).
L’insorgenza del DT2 è favorita dalla predisposizione genetica. Infatti, il rischio di sviluppare il DT2 nel corso della propria vita è del 40% se si ha un genitore affetto, del 70% se entrambi i genitori sono malati (1). Negli ultimi 15 anni, mediante studi di associazione che hanno esaminato l’intero genoma sono stati identificati circa 100 loci di suscettibilità. Tuttavia, ognuna di queste varianti geniche ha un impatto relativamente modesto sul rischio di malattia (odds ratio 1,1-1,4). Inoltre, pur considerando queste varianti nel loro insieme, si riesce a spiegare meno del 10% della suscettibilità genetica al DT2 (1).
I fattori ambientali che contribuiscono alla suscettibilità al DT2 includono l’esposizione ad un ambiente intrauterino avverso durante “finestre critiche” dello sviluppo fetale, il ridotto peso alla nascita, l’obesità, la dieta, lo stile di vita sedentario, l’esposizione ad inquinanti ambientali e ad interferenti endocrini, il fumo di sigaretta, l’età avanzata, lo stato socioeconomico e l’appartenenza etnica. La riduzione dell’apporto calorico con la dieta, l’esercizio fisico e la diminuzione del peso corporeo, sono in grado di migliorare il fenotipo di malattia, dimostrando, quindi, una chiara relazione di causa-effetto tra DT2 e fattori ambientali (4). In questo scenario, le modifiche epigenetiche svolgono un ruolo importante nella patogenesi del DT2, poiché costituiscono il meccanismo molecolare tramite cui i fattori ambientali alterano l’espressione genica, senza modificare la sequenza del DNA, e contribuiscono al fenotipo di malattia (1-5).
L’epigenoma costituisce l’interfaccia tra i geni e l’ambiente, in virtù della plasticità dei tratti epigenetici e della loro suscettibilità alle influenze ambientali. Esso rappresenta il “luogo” specifico in cui il flusso di informazioni provenienti dall’ambiente è integrato a quelle contenute nella sequenza del DNA, così da coordinare i processi molecolari che determinano le modifiche strutturali e funzionali di cellule e tessuti, contribuendo alla trasformazione del fenotipo, tanto di quello fisiologico che di quello patologico. L’epigenoma può, quindi, essere considerato come un “registratore” molecolare delle esposizioni ambientali, che si susseguono e si accumulano nel corso dell’esistenza di ciascun individuo. Infatti, gli epigenomi dei gemelli monozigoti, molto simili alla nascita, divergono, con l’età, in misura tanto maggiore quanto più gli stessi smettono di condividere ambiente e stile di vita (6).
Le informazioni provenienti dall’ambiente inducono l’epigenoma a modificarsi continuamente e reattivamente in base alle esigenze immediate dell’organismo. Queste risposte dinamiche caratterizzano le cellule somatiche, durante la vita adulta, le cellule staminali tessutali ed embrio-fetali, durante lo sviluppo ontogenetico in utero, e le cellule della linea germinale. In questo modo, esse programmano l’assetto epigenetico individuale, rendendolo trasmissibile verticalmente, da una generazione all’altra. Se il fenotipo fisiologico è il prodotto di milioni di anni di evoluzione e del confronto dinamico tra flusso di informazioni esogene ed il set di informazioni fissate nel DNA, ogni fenotipo patologico va considerato come il risultato della reazione ad un flusso di informazioni quali-quantitativamente troppo diverse rispetto a quelle che nei milioni di anni sono state fissate e tradotte in forma di memoria nucleare e cellulare (7). Si va evolvendo, quindi, un nuovo modello di malattia, nell’ambito del quale i processi epigenetici sono alla base di questa “interazione”, sia durante lo sviluppo fetale che durante la vita adulta (8).
MECCANISMI DI REGOLAZIONE EPIGENETICA: LA STRUTTURA DELLA CROMATINA, LA METILAZIONE DEL DNA E L’ESPRESSIONE GENICA
La natura dinamica e complessa dell’epigenoma è strettamente correlata all’organizzazione tridimensionale della cromatina, il complesso nucleoproteico formato da DNA e proteine istoniche. L’unità fondamentale della cromatina è il nucleosoma, composto da un ottamero istonico (due eterodimeri H2A-H2B e un tetramero H3-H4), attorno al quale si avvolgono 146 paia di basi di DNA. L’accesso al DNA nucleosomale a fattori di trascrizione ed al macchinario trascrizionale, è controllato attraverso transizioni finemente regolate della conformazione della cromatina. Da un punto di vista strutturale, essa può trovarsi in due stati: l’eterocromatina, corrispondente allo stato superavvolto, tipicamente associata con l’inattivazione genica, e l’eucromatina, stato poco condensato, caratterizzata da un’intensa attività trascrizionale.
I principali meccanismi di regolazione epigenetica e controllo della struttura cromatinica comprendono la metilazione del DNA, le modifiche post-traduzionalidegli istoni e gli RNA non codificanti (ncRNA).
La metilazione del DNA è il meccanismo epigenetico più studiato. Di esso si ha già un’ampia conoscenza. È un processo che induce, spesso, silenziamento genico e formazione di eterocromatina. È coinvolto nella regolazione dell’espressione genica, nell’imprinting genomico, nell’inattivazione del cromosoma X, nello sviluppo embrionale e nel differenziamento cellulare. Questa modifica consiste nel legame covalente di un gruppo metilico sul carbonio in posizione 5 dei residui di citosina con formazione di 5-metilcitosina. Nei mammiferi la metilazione avviene, prevalentemente, sulle citosine dei dinucleotidi CpG, comuni nelle regioni promotrici dei geni. La reazione è catalizzata da una classe di enzimi, le DNA metiltransferasi (DNMT). Sono state identificate due classi di DNMT: DNMT1 e DNMT3. La DNMT1 svolge il ruolo di metiltransferasi di mantenimento e trasmette il profilo di metilazione dalla cellula madre alle cellule figlie. Essa è espressa ubiquitariamente nelle cellule somatiche, ad alti livelli nelle cellule in attiva proliferazione. La famiglia delle DNMT3 comprende tre membri: DNMT3a, DNMT3b e DNMT3L. Le DNMT3a e DNMT3b stabiliscono i profili di metilazione nelle prime fasi di sviluppo embrionale e nelle cellule germinali, e, per questo vengono definite DNMT de novo. La DNMT3L, è un enzima inattivo che funziona come fattore di regolazione nelle cellule germinali dove è espresso durante la gametogenesi e gli stadi embrionali. La metilazione del DNA può interferire con l’espressione genica attraverso due modalità. Essa, infatti, può direttamente alterare il legame di fattori di trascrizione alla sequenza nucleotidica metilata o reclutare specifiche proteine che riconoscono e legano le citosine metilate. Queste ultime sono in grado di reclutare istone deacetilasi, istone metilasi e complessi di rimodellamento della cromatina, determinando repressione trascrizionale e formazione di eterocromatina (9-10).
Le code istoniche, in particolare quelle di H3 e H4, sono soggette a numerose modifiche post-traduzionali. Si tratta di modifiche covalenti reversibili, come acetilazione, metilazione, fosforilazione, ubiquitinazione, sumoilazione e ADP-ribosilazione, catalizzate da enzimi specializzati. Le modifiche istoniche più comuni sono l’acetilazione e la metilazione. L’acetilazione degli istoni neutralizza le cariche positive delle lisine e riduce la forza di legame al DNA, che è carico negativamente, causando decompattamento dei nucleosomi e favorendo il legame dei fattori necessari per la trascrizione genica. L’iperacetilazione è associata ad uno stato di trascrizione attiva, viceversa l’ipoacetilazione è correlata alla repressione trascrizionale. A seconda della classe di enzimi attivata, la metilazione degli istoni può essere a carico di residui di lisina o arginina, che possono essere mono-, di- e trimetilati nel primo caso, mono- e dimetilati nel secondo caso. Ogni metilazione istonica ha un diverso ruolo nella regolazione della trascrizione e nella conformazione della cromatina, a seconda della posizione del residuo metilato (8, 10).
La metilazione del DNA può influenzare la metilazione e l’acetilazione degli istoni e vice versa, esercitando un’azione concertata sullo stato della cromatina. Questo sinergismo rende i cambiamenti della struttura cromatinica potenzialmente più stabili, al punto che essi stessi possono essere mantenuti anche dopo la rimozione dello stimolo che li ha causati (5, 8).
Un altro meccanismo di regolazione epigenetica è collegato alla capacità di ncRNA di modulare l’espressione genica a livello trascrizionale e post-trascrizionale. Essi comprendono i microRNA (miRNA) ed i long noncoding RNA (lncRNA). I miRNA rappresentano la classe più studiata. Essi agiscono da repressori trascrizionali, inibendo la traduzione o inducendo la degradazione degli RNA messaggero (mRNA) bersaglio. È stato dimostrato che alcuni mRNA regolati da miRNA sono enzimi epigenetici. Anche i lncRNA contribuiscono al dinamismo dell’epigenoma, servendo come adattatori per complessi proteici modificanti la cromatina e/o regolando lo splicing alternativo ed altre modifiche post-trascrizionali degli mRNA. L’espressione di molti miRNA e lncRNA può essere regolata epigeneticamente, mediante modificazione degli istoni e metilazione del DNA (8). Considerata la reciproca regolazione dei fattori epigenetici, la repressione o la sovra-espressione dei miRNA rappresenta un efficace meccanismo per amplificare e stabilizzare le modifiche dell’epigenoma, così che esse possano essere trasferite da una generazione cellulare all’altra (eredità mitotica) o attraverso le generazioni successive nell’ambito della stessa specie (eredità meiotica) (11).
Alterazioni di uno o più di questi meccanismi di regolazione epigenetica possono attivare programmi di espressione genica aberranti, alterare l’omeostasi cellulare e contribuire allo sviluppo di disordini metabolici come obesità, DT2 e Sindrome Metabolica (MetS) (Fig. 1) (10).
FATTORI EPIGENETICI E DIABETE TIPO 2
Studi di associazione epigenome-wide (EWAS) ed approcci di studio gene-candidato, effettuati sull’uomo ed in modelli animali, dimostrano chiaramente il coinvolgimento dei fattori epigenetici nello sviluppo del DT2 (9-14).
Attualmente i processi biologi tramite cui l’ambiente impatta sul rischio di questa patologia sono stati solo in parte identificati. È noto, tuttavia, che le modifiche epigenetiche in grado di interferire con la funzione beta- cellulare, in termini di vitalità, produzione e secrezione insulinica, e/o di ridurre l’utilizzazione del glucosio da parte del muscolo scheletrico, tessuto adiposo o fegato, rappresentano alcuni dei meccanismi tramite cui l’ambiente contribuisce al rischio ed allo sviluppo del DT2 (4).
Studi su modelli murini hanno dimostrato, per esempio, che lo stile di vita può modificare epigeneticamente geni coinvolti nel controllo della tolleranza al glucosio (12). Tra questi, il gene che codifica per la fosfoproteina arricchita nel diabete (PED/PEA-15), la cui espressione è aumentata negli individui affetti da DT2 e nei parenti di primo grado degli stessi (14-15). Topi transgenici sovra-esprimenti questo gene mostrano una ridotta tolleranza al glucosio. Quando essi sono alimentati con diete ricche di grassi, che forniscono agli animali il 60% delle calorie giornaliere, sviluppano obesità e DT2. Questi dati suggeriscono che l’ambiente è in grado di impattare sulla funzione del gene Ped/pea-15 (14). L’interazione tra il gene Ped/pea-15 e l’ambiente è stata confermata da evidenze successive, in base alle quali la somministrazione della stessa dieta grassa a topi wild-type C57BL/6J, oltre a causare obesità ed insulino-resistenza, aumenta l’espressione del gene Ped/pea-15 attraverso l’iper-acetilazione della lisina 9 dell’istone H3, nella regione promotrice (12).
Come la dieta ipercalorica, anche la scarsa attività fisica rappresenta un fattore di rischio per l’insorgenza di DT2. Infatti, diversi geni coinvolti nel trasporto del glucosio insulino-mediato e nella funzione mitocondriale nel tessuto muscolare scheletrico sono regolati epigeneticamente in risposta all’esercizio fisico. Studi su modelli murini hanno dimostrato che l’esercizio acuto e ripetuto è in grado di aumentare l’espressione del trasportatore del glucosio 4 (Glut4) e di migliorare la capacità di trasporto del glucosio nel tessuto muscolare scheletrico. Questa risposta sembra mediata dall’acetilazione degli istoni nella regione promotrice del Glut4, così che quest’ultima risulta più accessibile all’attivatore trascrizionale MEF2A (Myocyte Enhancer Factor 2-alpha) (9).
Inoltre, studi effettuati sull’uomo hanno dimostrato che la metilazione del DNA rappresenta uno dei potenziali meccanismi molecolari tramite cui specifici geni di rischio per il DT2 determinano la suscettibilità alla malattia e contribuiscono alla sua patogenesi. L’analisi del metiloma di isole pancreatiche umane, ottenute da donatori sani o affetti da DT2, ha dimostrato un’alterazione dei livelli di metilazione nei soggetti diabetici in corrispondenza di 1649 siti CpG, annotati a 853 geni. Di questi, il 13% circa risulta anche differenzialmente espresso nei medesimi individui affetti. L’importanza di questi risultati risiede nel fatto che tra i geni differenzialmente metilati ed espressi vennero identificati anche TCF7L2, KCNQ1, THADA, FTO, IRS1 e PPARG, già noti come loci di suscettibilità per il DT2. Questi dati sono coerenti con quelli forniti da uno studio caso-controllo, in cui è stata analizzata, in maniera indipendente, la metilazione del DNA nelle isole pancreatiche ottenute da individui sani o colpiti da DT2. Quest’analisi ha identificato 276 siti CpG differenzialmente metilati nei soggetti diabetici, annotati a 254 promotori genici, il 27% dei quali corrispondeva ai siti CpG differenzialmente metilati identificati dallo studio precedente (13). Ulteriori studi retrospettivi, condotti anche su coorti di gemelli monozigoti discordanti per DT2, ha avvalorato queste evidenze. Per esempio, geni identificati negli studi sopra elencati, tra cui TCF7L2, KCNQ1, IRS1 e PPARG, risultano differenzialmente metilati anche nel tessuto adiposo sottocutaneo di soggetti diabetici (16).
Quelli riportati in questa rassegna sono solo alcuni esempi di studi genome-wide, utilizzati per l’analisi di malattie poligeneiche e complesse, come il DT2. Negli ultimi dieci anni è cresciuto l’impiego di piattaforme per analisi (epi)genetiche su larga scala, poiché esse offrono la possibilità di ampliare il numero dei geni di suscettibilità identificati e degli epigenotipi specificamente associati alla malattia. L’auspicio è che l’aumento delle conoscenze relative ai geni e alle modifiche epigenetiche associate al rischio di malattia possa migliorare la capacità di predire il DT2, sia in termini di diagnosi precoce che di stratificazione del rischio. I risultati preliminari sinora ottenuti sono promettenti, tuttavia la complessità e gli elevati costi di questi nuovi approcci rappresentano ancora un limite al loro uso sia nell’ambito della ricerca che della pratica clinica.
Infatti, altrettanto numerosi sono in letteratura gli studi riguardanti la regolazione epigenetica di geni candidati per il DT2. Ad esempio il gene che codifica per il co-attivatore 1-alpha di PPAR-gamma (PGC1A), un fattore di trascrizione necessario per il mantenimento della funzione mitocondriale. Studi indipendenti hanno dimostrato che la sua espressione è significativamente ridotta nelle isole pancreatiche (17) e nel tessuto muscolare scheletrico (18) di pazienti diabetici, a causa dell’aumentata metilazione del DNA nella regione promotrice del gene stesso. La metilazione sito-specifica del gene PGC1A contribuisce al fenotipo patologico, in quanto, in soggetti affetti da DT2, è associata ad alterata secrezione insulinica da parte delle beta cellule pancreatiche ed alla riduzione del numero dei mitocondri nelle fibre muscolari scheletriche (17-18).
Un approccio simile è stato usato per studiare gli effetti della metilazione del DNA su due geni di rischio per il DT2: il gene PDX1 (Pancreas/Duodenum Homeobox Protein 1), codificante un fattore di trascrizione necessario per la maturazione e la funzione beta-cellulare, ed il gene KCNQ1 (Potassium Voltage-Gated Channel Subfamily Q Member 1), le cui varianti alleliche sono associate ad una riduzione della secrezione insulinica (19-20). L’alterazione della metilazione del DNA nel promotore del gene PDX1 in risposta all’iperglicemia prolungata potrebbe rappresentare uno dei meccanismi epigenetici coinvolti nello sviluppo del DT2. Infatti, è stato dimostrato un aumento dalla metilazione di due siti CpG nella regione promotrice nelle isole pancreatiche di soggetti affetti da DT2. Questa metilazione sito-specifica è, inoltre, inversamente correlata all’espressione del gene PDX1 e positivamente associata ai livelli di emoglobina glicata nei pazienti diabetici (19). Anche la metilazione del DNA nel promotore del gene KCNQ1 è aumentata nelle isole pancreatiche ottenute sia da feti che da individui adulti affetti da DT2, rispetto a quelle ottenute da donatori sani. La comparazione dei siti CpG differenzialmente metilati nelle isole pancreatiche fetali ed adulte dei diabetici ha rivelato che la regione del promotore del gene KCNQ1 corrispondente al sito di legame per PLAGL1 (Pleiomorphic Adenoma Gene-Like 1), un importante fattore di trascrizione nel pancreas, è maggiormente metilata nei diabetici adulti. Questi risultati sottolineano l’aspetto dinamico della metilazione del DNA e mettono in luce i differenti ruoli regolatori che tale modifica epigenetica può avere nei vari stadi della progressione verso il diabete (20).
Anche emergente è l’interesse per il coinvolgimento dei miRNA nella fisiopatologia del diabete. È stato dimostrato che l’espressione di numerosi miRNA che partecipano al mantenimento dell’omeostasi glucidica, è alterata nelle cellule beta pancreatiche e nei tessuti bersaglio dell’insulina in individui affetti da DT2 (8, 11). Infatti, l’espressione del miR-7 e del miR-375, entrambi regolatori dello sviluppo e della funzione beta-cellulare, è aumentata sia nelle isole pancreatiche di modelli animali di obesità ed insulino-resistenza che in quelle di soggetti diabetici. Inoltre, l’inibizione terapeutica del miR-7 promuove la secrezione insulinica e l’espressione di fattori di trascrizione e molecole di segnalazione importanti per la funzione beta-cellulare. Anche l’espressione di miRNA coinvolti nella trasduzione del segnale insulinico, come il miR-24 ed il miR-144, è alterata in maniera tessuto-specifica nel diabete. L’espressione del miR-144 è aumentata nel tessuto muscolare scheletrico di pazienti diabetici e correla negativamente con l’espressione del substrato 1 del recettore insulinico (IRS1), fondamentale per la trasduzione del segnale (21). Numerose sono anche le evidenze che, in letteratura, dimostrano il coinvolgimento dei miRNA nello sviluppo e nella progressione delle complicanze micro e macro-vascolari, tipiche del diabete (13).
L’iperglicemia rappresenta un modulatore chiave del danno vascolare nel diabete. Infatti, il concetto di “memoria metabolica” è stato introdotto proprio sulla base di dati che indicano che l’esposizione prolungata dei pazienti diabetici all’iperglicemia causa profondi cambiamenti dell’epigenoma umano, che rimangono stabili anche quando i livelli della glicemia stessa sono normalizzati. I meccanismi molecolari responsabili della “memoria metabolica” non sono ancora stati completamente chiariti; tuttavia, esperimenti condotti in vitro ed in vivo, suggeriscono che la metilazione del DNA ed i miRNA medino il mantenimento della “reminiscenza” dello stato metabolico perturbando l’omeostasi fisiologica, e contribuiscano al fenotipo a lungo termine di malattia (2, 11). Utilizzando lo stesso concetto di “memoria metabolica”, è più semplice comprendere come la qualità e la quantità dell’alimentazione materna, durante la gravidanza, possano determinare cambiamenti fenotipici permanenti, fornendo le basi molecolare per l’ereditarietà epigenetica transgenerazionale (2, 13).
EREDITARIETÀ TRANSGENERAZIONALE DEL DT2
Diversi studi epidemiologici hanno mostrato come l’esposizione dei genitori e/o dei progenitori a determinati fattori ambientali, in grado di interferire con lo sviluppo embrionale in utero e/o con la gametogenesi, possa predisporre la progenie a malattie croniche non diffusibili nella vita post-natale. Queste evidenze hanno affascinato molti scienziati, secondo i quali la drammatica trasformazione dell’ambiente operata dall’uomo nel corso di pochi decenni e la diffusione di molecole artificiali, in grado di interferire con i meccanismi epigenetici di programmazione fetale, sarebbero all’origine del “terremoto epidemiologico”, responsabile della pandemia di obesità e DT2, o, più in generale, del rapido incremento e della manifestazione in età precoce di numerose malattie cronico-degenerative. Questa è la grande tematica elaborata nella cosiddetta Ipotesi di Barker (22) e, più recentemente, nella teoria dell’Origine Fetale delle Malattie dell’Adulto (23).
L’Ipotesi di Barker è stata formulata sulla base di dati osservazionali, indicanti l’esistenza di una relazione tra il basso peso alla nascita del feto ed un più elevato rischio di patologie endocrino-metaboliche e cardiovascolari durante la vita adulta (22, 24). Nel corso degli anni, questa ipotesi è diventata una vera e propria teoria, più onnicomprensiva della precedente, in base alla quale molte patologie cronico-degenerative ed infiammatorie dell’adulto, come il DT2 ed alcuni tipi di tumori, sarebbero il prodotto di un’inadeguata programmazione fetale, causata da alterazioni del microambiente uterino e dalla conseguente esposizione del feto a stimoli potenzialmente dannosi durante alcuni momenti critici (finestre) dello sviluppo (22-24). La novità del messaggio contenuto nell’Ipotesi di Barker, è che la vita pre-natale non è completamente protetta nel microambiente uterino. L’esposizione della madre a determinati fattori ambientali è in grado di modificare l’epigenoma fetale, interferire con il normale processo di differenziamento cellulare, alterare la programmazione di tessuti e organi secondo modalità non di rado irreversibili e, a volte, persino trasmissibili da una generazione a quella successiva (25). Si definisce ereditarietà epigenetica transgenerazionale la trasmissione per via germinale di un determinato assetto epigenetico in assenza di una diretta esposizione del soggetto ad agenti (epi)genotossici (25-26). In questo caso, le ripercussioni della programmazione fetale gonadica si vedranno soltanto nelle generazioni successive a quella esposta. Questo suggerisce che alcune delle modifiche epidemiologiche cui stiamo, in questi anni, assistendo potrebbero essere la conseguenza dell’esposizione dei nostri diretti progenitori.
L’Ipotesi di Barker va inserita nell’ambito in un percorso di studi osservazionali cominciati nei primi anni Cinquanta, quando si notò che i figli di donne diabetiche mostravano una maggiore predisposizione al DT2. I feti esposti ad alti livelli di glucosio in utero mostravano, alla nascita, organomegalia e macrosomia, e, con il proseguire dell’età, un’alterata tolleranza al glucosio (fuel mediated teratogenesis) (27). Parimenti importante, l’osservazione dell’aumento del tasso di incidenza di DT2 in età giovanile nelle popolazioni indigene americane e polinesiane migrate in aree e paesi ad alto sviluppo, rispetto a quello registrato nell’ambito delle stesse popolazioni rimaste nei paesi di origine. L’aumentata insorgenza di DT2 tra i nuovi nati risulterebbe, infatti, proprio dall’inadeguata programmazione fetale, indotta da alterazioni dell’ambiente uterino e del metabolismo materno causate dall’adattamento ai nuovi stili di vita (28).
Probabilmente, le osservazioni più esemplificative sono quelle fornite da due grandi studi epidemiologici effettuati sulla carestia olandese e su quella di Stalingrado, nel corso della Seconda Guerra mondiale (27-29). Nel 1974, sul New England Journal of Medicine, viene pubblicato il primo di una serie di studi che descrivevano le conseguenze di un lungo periodo noto come Fame Olandese, verificatosi nei Paesi Bassi e causato dal blocco totale delle importazioni alimentari. Gran parte della popolazione, comprese donne gravide e bambini, fu costretta ad una dieta che forniva un apporto calorico estremamente ridotto (500-800 calorie giornaliere). Grazie alla scrupolosa raccolta di dati, fu possibile studiare, a distanza di decenni, gli effetti che il ridotto apporto calorico di nutrienti nel corso dello sviluppo embrio-fetale aveva determinato nei sopravvissuti. Si osservò che le conseguenze dello “stress nutrizionale” spesso si erano rivelati dopo decenni, senza una precisa relazione con il peso alla nascita, ed erano diversi a seconda del periodo nel quale il feto si era trovato esposto. In particolare, quando le donne gravide furono sottoposte a restrizione calorica nella seconda parte dello sviluppo fetale, i nascituri mostravano un più alto rischio di sviluppare alterata tolleranza al glucosio e DT2; quando la restrizione calorica si era verificata più precocemente, aumentava il rischio obesità e MetS (29). Relativamente alla carestia di Stalingrado, l’analisi della coorte dei sopravvissuti dimostrò che l’incidenza delle patologie croniche era stata minore rispetto a quella registrata nei Paesi Bassi. La spiegazione di questa apparente discrepanza epidemiologica venne identificata nella profonda differenza delle condizioni di vita dei sopravvissuti negli anni immediatamente successivi alle carestie. I sopravvissuti alla carestia olandese avevano potuto recuperare rapidamente il peso perduto, mentre i sopravvissuti alla carestia di Stalingrado avevano, invece, vissuto un’infanzia carente dal punto di vista nutrizionale che, paradossalmente, li aveva preservati dallo sviluppare obesità ed insulino-resistenza.
La carestia olandese e quella di Stalingrado identificano sicuramente un ambiente in utero svantaggioso, soprattutto dal punto di vista nutrizionale. La situazione odierna è differente, infatti, almeno nei paesi occidentali, le donne gravide sono spesso in sovrappeso, a causa di una dieta ipercalorica ed inadeguata. Pur tuttavia, la loro progenie ha un rischio più elevato di obesità ed insulino-resistenza nella vita adulta. È evidente, quindi, che sia un limitato che un eccessivo apporto nutrizionale in utero correlano secondo una curva ad U con l’obesità, il DT2 o la MetS nella vita adulta (27).
Numerosi sono anche i dati epidemiologici a sostegno del concetto secondo il quale l’esposizione al diabete in utero costituisce un altro fattore di rischio determinante nella trasmissione transgenerazionale di DT2. Infatti, per gli indiani Pima, tribù con elevata prevalenza di diabete, l’esposizione in utero al diabete materno rappresenta il principale fattore di rischio per di DT2 in età giovanile, indipendentemente dall’ obesità materna, diabete paterno, età di comparsa del diabete in uno dei genitori, peso ed obesità del neo-nato. Coerentemente, uno studio multietnico caso-controllo, ha dimostrato che l’esposizione a diabete ed obesità materna durante lo sviluppo embrio-fetale è un fattore determinante per lo sviluppo di DT2 nella popolazione giovanile, indipendentemente dall’etnia. Un recente studio epidemiologico effettuato in Danimarca ha, inoltre, dimostrato che individui esposti in utero al diabete tipo 1 materno hanno un maggior rischio di sviluppare DT2, suggerendo che gli effetti a lungo termine dell’esposizione all’iperglicemia sono simili, indipendentemente dal tipo di diabete (27).
Queste evidenze sostengono l’origine ambientale/epigenetica del DT2 ed il modello secondo cui la pandemia di DT2 ed obesità è il risultato di un “circolo vizioso” instauratosi tra l’inadeguata programmazione fetale, favorita dall’esposizione ad un ambiente intrauterino avverso, e la trasmissione del DT2 alle generazioni successive (Fig. 2).
Coloro i quali sono esposti in utero a diabete e/o obesità materna, hanno un rischio aumentato di diventare obesi e sviluppare DT2 in età pediatrica. Questo implica che le donne esposte, che possono essere già obese e/o mostrare alterata tolleranza al glucosio e/o diabete in età fertile, favoriscono l’istaurarsi ed il perpetuarsi del ciclo (27).
CONDIZIONAMENTO INTRAUTERINO E POTENZIALI BIOMARCATORI EPIGENETICI DI OUTCOME POST-NATALI AVVERSI
La Fame Olandese può essere considerata, pur nella sua drammaticità, un valido “esperimento” finalizzato allo studio degli effetti dell’ambiente intrauterino sull’epigenoma fetale. Tuttora, a causa di comprensibili limitazioni nella ricerca sull’uomo anche legate alla difficoltà di disporre di tessuti umani fondamentali per l’omeostasi metabolica, non sono stati completamente chiariti i meccanismi epigenetici tramite cui l’ambiente in utero “programma”, nel nascituro, l’aumentato rischio di sviluppare malattie nella vita adulta, tra cui il DT2. Ciò nonostante, l’implementazione delle tecnologie per l’analisi genome-wide ha aperto nuove opportunità per l’identificazione degli epigenotipi che possono essere indotti durante lo sviluppo fetale. L’analisi epigenetica nel periodo neonatale ha, infatti, un enorme potenziale nella generazione di predittori utili dello stato metabolico. E ciò risponde alla necessità, ormai crescente, di individuare biomarcatori prognostici, predittivi di DT2, anche allo scopo di stratificare i pazienti per grado di rischio di malattia prima che il fenotipo patologico si manifesti, e/o sulla base della loro probabilità di risposta ad un particolare trattamento, così da attuare strategie terapeutiche personalizzate per la prevenzione e la gestione della malattia stessa (8). Questo tema ha una notevole rilevanza clinica, in virtù della crescente prevalenza del DT2 e dell’elevato impatto che le sue complicanze hanno sia sul piano clinico che socio-sanitario.
L’utilizzo degli epigenotipi come biomarcatori nella pratica clinica è fortemente influenzato dalla rilevabilità degli stessi anche in tessuti “surrogato” facilmente accessibili, come le cellule del cordone ombelicale, del sangue periferico o le urine (2). Sebbene le modifiche epigenetiche possano essere tessuto specifiche, studi recenti hanno consentito, almeno in parte, il superamento di questo problema metodologico. Infatti, la comparazione dei metilomi di 30 tessuti umani ha mostrato l’esistenza di profili di metilazione comuni (30). Inoltre, è stato dimostrato che la dieta materna può indurre modifiche simili della metilazione del DNA nelle cellule del cordone ombelicale e nel fegato del nascituro (2). Parallelamente, è stato osservato che i miRNA rilasciati nei liquidi biologici (sangue e urine), ove svolgono un ruolo chiave nei processi di comunicazione cellulare, sono molto stabili e che il loro profilo di espressione può variare in modo specifico in contesti fisiopatologici (21). Ciò suggerisce che i livelli di metilazione in tessuti facilmente accessibili, come il sangue periferico ed il cordone ombelicale, ed i miRNA circolanti possano essere rappresentativi delle modifiche epigenetiche in tessuti metabolicamente rilevanti, e, pertanto, costituire dei biomarcatori potenzialmente utili.
Tobi et al. hanno dimostrato che l’esposizione a restrizione calorica durante la Fame Olandese induceva cambiamenti persistenti nei livelli di metilazione del DNA di geni, imprintati e non-imprintati, con diverse funzioni biologiche. In particolare, essi rivelarono che i livelli di metilazione dei geni IGF2 e INSIGF erano ridotti mentre quelli dei geni IL10, LEP, ABCA1, GNASA e MEG3 erano aumentati in campioni di sangue ottenuti dai soggetti esposti alla carestia durante le fasi precoci dello sviluppo intrauterino, rispetto ai fratelli dello stesso sesso non esposti (31). Poiché studi precedenti avevano dimostrato che i medesimi individui hanno anche un più alto rischio di sviluppare alterata tolleranza al glucosio, DT2, obesità o MetS (29), chiarire come queste modifiche precoci siano collegate all’aumentata suscettibilità a queste malattie metaboliche durante la vita adulta potrebbe rivelarsi utile nello stabilire se questi epigenotipi possano fungere da biomarcatori predittivi dello stato metabolico.
Altrettanto validi, da questo punto di vista, sono i dati ottenuti dall’analisi della metilazione del DNA in campioni di sangue periferico ottenuti da una coorte di Indiani Pima
non diabetici, nati da madri colpite o non da DT2 durante la gravidanza (32). Rosario et al. hanno dimostrato che la metilazione del promotore di geni coinvolti nello sviluppo del pancreas, nel controllo della secrezione e segnalazione insulinica, nei meccanismi di segnalazione coinvolti nella patogenesi del DT2 e del MODY, è alterata nei nati da madri affette da diabete durante la gravidanza. Tutti i soggetti della coorte non erano diabetici al momento dello studio, ma mostravano differenze statisticamente significative nel BMI ed emoglobina glicata. Esse potrebbero riflettere differenze nello stato metabolico, predisponenti allo sviluppo di alterata tolleranza al glucosio e DT2. Tuttavia, studi longitudinali, estesi anche a popolazioni appartenenti ad etnie differenti, sono necessari per verificare se gli epigenotipi identificati possano considerarsi marcatori di rischio precoce per il DT2 (32).
Numerosi altri studi hanno dimostrato che l’esposizione in utero al dismetabolismo glucidico materno o al Diabete Gestazionale altera, nel cordone ombelicale, il profilo di metilazione del DNA dei geni coinvolti nel metabolismo energetico, come LEP e ADIPOQ, e nella crescita come IGF1R e IGFBP3, e di geni imprintati come MEST. Poiché l’alterazione dell’espressione di questi geni contribuisce allo sviluppo di malattie metaboliche nell’adulto, gli epigenotipi identificati potrebbero unirsi alla lista dei potenziali biomarcatori epigenetici di outcome post-natali avversi (32).
Basandosi su queste evidenze, appare vicina la possibilità che la profilazione epigenetica di specifici loci possa contribuire a quantificare il rischio di obesità e DT2 già in epoca neonatale. Emblematico, a questo proposito, è lo studio prospettico effettuato da Godfray et al. su due coorti indipendenti. Esso ha dimostrato che, nel tessuto del cordone ombelicale, lo stato di metilazione del DNA nel promotore del gene che codifica per il recettore nucleare dei retinoidi (RXRA) è predittivo del grado di adiposità in età pediatrica e del rischio di DT2. In particolare, da questo studio è emerso che alti livelli di metilazione di uno specifico sito CpG nella regione promotrice del gene RXRA predicono una maggiore adiposità a 6 e a 9 anni (33). Questi dati avvalorano l’ipotesi che l’identificazione di epigenotipi alla nascita possa avere valore prognostico e rivelarsi utile per monitorare gli esiti di strategie di intervento finalizzate ad ottimizzare lo stato di salute e l’alimentazione materna, con benefici a lungo termine per la prole.
Sebbene i risultati sinora ottenuti siano promettenti, il processo che porta un biomarcatore candidato, come gli epigenotipi descritti in questa rassegna, a diventare uno strumento utilizzabile nella pratica clinica è complesso e va considerato in una prospettiva a lungo termine. Infatti, sono necessari studi prospettici di lunga durata e su ampie casistiche, per dimostrare la capacità del biomarcatore di predire in modo indipendente lo sviluppo/progressione della malattia. Inoltre, occorre effettuare studi di intervento per verificare che esso sia in grado di fornire informazioni di tipo prognostico e di guidare l’intervento terapeutico.
Più promettente appare l’utilizzo di diversi miRNA circolanti come biomarcatori per il diabete (Tab. 1).
Molteplici studi hanno infatti dimostrato che i livelli plasmatici del miR-126 sono ridotti in soggetti affetti o suscettibili al DT2, suggerendo che i livelli circolanti di questo miRNA possano essere utili per verificare la reale suscettibilità al DT2 in individui a rischio di malattia. Questo discorso può essere esteso anche ai miR-15a, miR-29b, miR-126 e miR-223, i cui livelli plasmatici si riducono prima che il DT2 insorga. Uno studio più recente ha, inoltre, identificato i miRNA sierici con potere predittivo per distinguere i pazienti con DT2 obesi da quelli diabetici non obesi (miR-138 o miR-503) (21). Più in generale, sono stati identificati diversi miRNA i cui livelli plasmatici sono correlati al grado di rischio di sviluppare DT2 o complicanze dello stesso, e/o sono utili per monitorare la risposta dei pazienti a trattamenti antidiabetici. Questi studi inseriscono i miRNA circolanti in una prospettiva più a breve termine, relativamente al loro utilizzo come biomarcatori o, forse, come bersagli terapeutici, nella gestione del DT2.
CONCLUSIONE
Come illustrato nei paragrafi precedenti di questa rassegna, il genotipo e l’ambiente post-natale non sono i soli determinanti del rischio di DT2. Infatti, epigenotipi indotti precocemente dall’ambiente intrauterino ed associati a profili di espressione genica alterati in tessuti importanti per il mantenimento dell’omeostasi metabolica, sono responsabili di outcome post-natali avversi, poiché impattano sulla suscettibilità allo sviluppo della malattia in età adulta.
Queste informazioni relative alla genomica ed epigenomica del DT2, offrono una nuova opportunità di identificare predittori utili di rischio di DT2 e di attuare una medicina preventiva efficace, e personalizzata.
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