Dissezione coronarica complicata da infarto miocardico acuto (NSTEMI) e da grave chetoacidosi diabetica in giovane affetta da diabete mellito tipo 1

a cura di Francesco Dotta1, Anna Solini2
1U.O.C. Diabetologia, Azienda Ospedaliera Universitaria Senese, Università degli Studi di Siena; 2Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Pisa

Rosalia Bellante1, Filippo Taddei2, Michele Senni2, Roberto Trevisan1

1USC Malattie Endocrine-Diabetologia e 2USC Cardiologia 1,
ASST Papa Giovanni XXIII, Bergamo

[protected]

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Nel mese di dicembre 2016 giunge al Pronto Soccorso dell’ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo una giovane diabetica di tipo 1, di anni 26, in follow-up presso altro centro, per marcata iperglicemia associata a malessere generalizzato, lieve dispnea, vomito e polidipsia insorti da alcuni giorni. La paziente è in terapia con microinfusore e riferisce di non misurare la glicemia da almeno 15 giorni. Si giustifica di non aver avuto il tempo di rifornirsi del materiale necessario per il controllo domiciliare della glicemia, essendosi trasferita da alcune settimane in un altro domicilio.

Gli esami ematochimici eseguiti all’ingresso in PS confermano un quadro di severa chetoacidosi con glicemie >400 mg/dl per cui si disponeva ricovero urgente presso la UO Medicina Interna dello stesso ospedale.

Anamnesi patologica remota: diabete mellito tipo 1 diagnosticato nel 2010, inizialmente trattato con terapia insulinica multiniettiva s.c. e dal 2012 con terapia insulinica mediante microinfusore (la signora era seguita presso un centro diabetologico di un altro ospedale); ipotiroidismo autoimmune in trattamento sostitutivo con L-Tiroxina dal 2010; storia di calcolosi della colecisti, senza episodi di colica biliare. Fin dall’esordio della malattia diabetica la paziente aveva mostrato scarso controllo della malattia diabetica e scarsa aderenza alla terapia insulinica con frequenti episodi di iper/ipoglicemie. Dopo ripetuti episodi di autolesionismo, la giovane era stata trattata con antidepressivi ed era anche stata ricoverata presso una comunità protetta nel 2014. Vista la scarsa aderenza alla terapia insulinica sc tradizionale, lo specialista diabetologo che la seguiva decise di iniziare terapia mediante microinfusore, nel tentativo di garantire una maggiore aderenza alla terapia insulinica. 

Anamnesi fisiologica: fuma circa 20 sigarette/die dall’età di 20 anni; nega assunzione di alcolici. In terapia con estro-progestinici da alcuni anni.

Esame obiettivo: all’ingresso in reparto si presenta estremamente disidratata, astenica e con sensorio ridotto. Presenta inoltre respiro di Kussmaul e alito acetonemico. Temperatura 36.7 °C, pressione arteriosa 120/60 mmHg, frequenza cardiaca 94 bpm, peso era di 64 kg con BMI di 26.3 kg/m2. L’auscultazione di cuore e torace sono nella norma, l’addome è trattabile e la peristalsi presente. All’ispezione addominale, l’agocannula del microinfusore per l’infusione sottocutanea dell’insulina non appare in sede e pertanto viene rimossa. 

Decorso clinico: i parametri ematochimici e clinici confermano la diagnosi di chetoacidosi diabetica in corso di scompenso glicemico cronico (A1c >108 mmol/mol) per cui si procedeva ad adeguata idratazione ed infusione di insulina endovena (Tab. 1).

29_2_Caso_6_Tab.1

Gli esami ematochimici inoltre mostrano leucocitosi neutrofila e rialzo degli indici aspecifici di flogosi per cui (previa esecuzione di Rx torace, emocolture, urinocoltura, tampone nasale risultati successivamente tutti negativi) viene intrapresa terapia antibiotica empirica con amoxicillina/ac.clavulanico. 

L’ECG mostra tachicardia sinusale (Fig. 1), la radiografia del torace è nella norma, mentre l’ecografia dell’addome conferma la presenza di calcoli in colecisti.

Si inizia il protocollo per la correzione del deficit idrico e terapia insulinica ev. 

Nonostante ciò il rapido decadimento delle condizioni di salute, con peggioramento del malessere generalizzato, della tachipnea con persistente chetoacidosi porta alla decisione di trasferire la paziente presso il reparto di terapia intensiva. 

Poco dopo tale trasferimento la pz presenta improvvisa intensa toracoalgia trafittiva, aggravata dalla respirazione profonda. L’auscultazione rileva crepitii secchi, stridenti, come da sfregamento pericardico. All’ECG a 12 derivazioni, registrato in concomitanza del sintomo, comparsa di blocco di branca destro (Fig. 1) non presente all’ECG d’ingresso in PS (Fig. 1). Un ecocardiogramma urgente evidenzia una franca acinesia del setto basale con frazione di eiezione conservata, senza versamento pericardico.

29_2_Caso_6_Fig.1

Il prelievo ematico per la determinazione urgente della Troponina I mostra un valore elevato, pari a 56 ng/ml (v.n. <0.07 ng/ml). Ponendosi la diagnosi differenziale tra sindrome coronaria acuta e miopericardite (i reperti ecografici e obiettivi permettevano, infatti, di escludere una patologia aortica acuta), si intraprende terapia con ASA e.v. e si avvia la paziente a coronarografia.

La coronarografia evidenzia una riduzione di calibro significativa dell’arteria discendente anteriore a livello dell’origine del primo ramo diagonale (Fig. 2), con flusso distale conservato (TIMI 3) e senza ristagno di mezzo di contrasto riferibile a trombosi endoluminale, compatibile quindi con VEROSIMILE DISSEZIONE SPONTANEA LOCALIZZATA. Indenni le altre coronarie, con riscontro alla cineventricolografia di circoscritta area di acinesia segmentaria in presenza di conservata funzione sistolica globale. Viene posta indicazione a terapia medica (antiaggregazione con ASA e anticoagulazione con eparina non frazionata) , monitoraggio in Unità Terapia Intensiva Coronarica (UTIC) e ripetizione di coronarografia di controllo a distanza di qualche giorno.

Durante la degenza in UTIC viene più volte valutata dai medici diabetologi e dalla terapia insulinica infusionale si inizia terapia multiniettiva s.c. con progressivo miglioramento delle glicemie giornaliere.

Dopo 2 giorni dal trasferimento in UTIC presenta nuovamente dolore intenso a livello del collo e della spalla sx che si accentua alla digitopressione e con i movimenti del tronco. All’auscultazione si ripresentano intensi rumori da sfregamento pericardico con ECG ed ecocardiogramma invariati. La sintomatologia dolorosa si risolve nuovamente dopo somministrazione e.v. di ASA 500 mg e morfina 1 mg. La troponina appariva in calo e la PCR invece si manteneva stabile (intorno a 11 mg/dl). Il dosaggio antiaggregante di ASA in corso (100 mg die) viene quindi titolato a livelli anti-infiammatori (500 mg x 3 die e.v.).

Per il peggioramento del quadro di anemia normocitica viene sottoposta ad emotrasfusione di 2 sacche di emazie concentrate. Una EGDS eseguita d’urgenza, il sangue occulto nelle feci e la ricerca di emolisi risultano negativi. L’anemia viene spiegata da metrorragia da sospensione della terapia estroprogestinica. 

Per la persistenza del dolore di tipo pericarditico nei giorni successivi viene intrapresa terapia con colchicina e indometacina, riportando l’ASA a dosaggio di antiaggregazione, fino a progressiva stabilizzazione del quadro clinico e sintomatologico.

Dopo 6 giorni dalla precedente coronarografia, un nuovo controllo coronarografico evidenza “normale aspetto angiografico su IVA per l’intero decorso e persistenza di riduzione di calibro moderata all’ostio del ramo diagonale; flusso ottimale; non indicazione a rivascolarizzazione”.

Viene quindi trasferita in reparto e dimessa dopo 20 giorni di degenza ospedaliera con la seguente terapia: Insulina Lispro 6 UI s.c. a colazione, 8 UI s.c. a pranzo e 8 UI a cena; insulina Degludec 22 UI s.c./die; Bisoprolo 1.25 mg 1 x 2 cp/die; Clopidrogrel 75 mg 1 cp/die; ASA 100 mg 1 cp/die; Colchicina 1 mg ½ cp/die; Ac. Ursodesossicolico 1 x 2 cp/die; Pantoprazolo 40 mg 1 cp/die; Levotiroxina 50 mcg 1 cp/die; Ferro solfato 105 mg 1 cp/die; ac. Folico 5 mg 1 cp/die; Quetiapina 25 mg 1 cp/die; Atorvastatina 20 mg 1 cp/die.

Diagnosi alla dimissione: chetoacidosi diabetica complicata da dissecazione coronarica con infarto miocardico (NSTEMI) e da (mio)pericardite.

1° Quesito

QUANTO E’ FREQUENTE LA CHETOACIDOSI IN PAZIENTI IN TERAPIA CON MICROINFUSORE PER INSULINA?

La diffusione crescente della terapia insulinica mediante microinfusore (CSII) è stata segnalata come possibile causa di chetoacidosi (1). Tale evento avverso è legato a differenti cause, anche se il problema più frequente, che non viene segnalato dai sistemi di allarme di cui sono dotati praticamente tutti i microinfusori, è la dislocazione della cannula dalla appropriata sede sottocutanea.

29_2_Caso_6_Fig.2

La mancata erogazione di insulina, se non riconosciuta rapidamente dal paziente, può portare a chetoacidosi. Anche se tutti i pazienti devono essere adeguatamente istruiti all’utilizzo di procedure che prevedano non solo il controllo della chetonemia, ma anche il conseguente intervento correttivo (1), il caso della nostra paziente segnala come il rischio di chetoacidosi per mancata corretta erogazione dell’insulina possa portare a eventi potenzialmente fatali.

Anche se in letteratura ci sono molte segnalazioni, non ci sono dati chiari sulla reale incidenza di chetoacidosi in pazienti trattati con CSII. Un lavoro del 2012 basato su una “query” sul database FDA per i devices, ha osservato nella popolazione diabetica pediatrica (età compresa tra 1 e 12 anni) 777 eventi avversi collegati a terapia con CSII in un periodo di 14 anni (2). Nel 43% dei casi l’evento avverso aveva portato al ricovero urgente. Dei 614 ricoveri, 516 erano legati a grave iperglicemia o chetoacidosi. Sono stati segnalati 5 decessi. Nella maggior parte dei casi erano riportati problemi tecnici relativi al funzionamento del microinfusore. Purtroppo il lavoro non è stato in grado di riportare la reale incidenza di questi eventi sulla popolazione diabetica americana trattata con microinfusore.

Un altro lavoro retrospettivo sulla popolazione pediatrica svedese ha dimostrato che la incidenza di chetoacidosi era due volte più frequente nei bambini trattati con microinfusore (3.6 casi/100 pazienti anno) rispetto a quelli trattati con la terapia iniettiva tradizionale (1.7 casi/100 pazienti/anno) (3). Gli autori raccomandavano di aumentare l’educazione del paziente in modo tale da ridurre il maggior rischio di chetoacidosi legata all’uso del microinfusore.

Un recente report danese “single-center” ha riportato l’incidenza di chetoacidosi nella popolazione trattata con CSII che è risultato pari a 1 caso di chetoacidosi per 100 pazienti/anno. L’80% dei casi di chetoacidosi erano legati a dislocazione della cannula o ad angolatura del set di infusione (4).

È stato anche osservato che i casi di chetoacidosi legati alla terapia con microinfusore tendono a manifestarsi con maggiore frequenza nel primo anno di terapia con CSII, suggerendo la possibilità che una ancora scarsa conoscenza della nuova tecnologia potesse giocare un ruolo sul rischio metabolico (3-4).

Nel nostro caso la paziente presentava un altro fattore di rischio per la chetoacidosi, oltre al microinfusore: gli atti di autolesionismo e il ricovero in una struttura protetta confermano la presenza di un disturbo comportamentale, un’altra anormalità che è stata segnalata essere presente con maggiore frequenza nei pazienti con chetoacidosi (1). Probabilmente soggetti diabetici con anormalità del comportamento, e disturbi psichiatrici non dovrebbero essere avviati alla terapia con microinfusore. È anche per questo motivo che la paziente viene dimessa con terapia multiniettiva.

2° Quesito

E’ POSSIBILE CHE LA CHETOACIDOSI SI COMPLICHI CON UNA SINDROME CORONARICA ACUTA? SONO STATI DESCRITTI ALTRI CASI DI DEISSEZIONE CORONARICA COMPLICATA DA PERICARDITE IN CORSO DI DKA IN LETTERATURA?

Casi di sindrome coronarica acuta in corso di chetoacidosi, in assenza di coronaropatia preesistente, sono una complicanza rara, ma già descritta in letteratura. Un “case report” del 2011 segnalava in un diabetico di tipo 2, insulino-trattato di 34 anni, la comparsa, a 6 ore dall’ospedalizzazione per un episodio di chetoacidosi, di un dolore toracico con un ECG che dimostrava sopraslivellamento del tratto ST nelle V3-V6 (5). La coronarografia dimostrava coronarie indenni con un trombo occludente la discendente anteriore. Gli autori spiegavano l’evento come una conseguenza dello stato di ipercoagulabilità associato alla chetoacidosi diabetica (6). Un caso di infarto acuto è stato anche riportato in un ragazzo di soli 12 anni (7).

In un ragazzo di 17 anni in chetoacidosi sono state riportate inversioni dell’onda T nelle derivazioni II, III, aVF, V4-V6, suggestive per ischemia miocardica, che sono regredite dopo 2 ore dall’inizio della terapia insulinica e.v. e la correzione del deficit idrico (8). Gli autori spiegano come l’acidosi possa condurre a una sofferenza ischemica transitoria legata a vasospasmo coronarico.

Similmente sono stati descritti in Danimarca due casi di chetoacidosi con elevazione di troponina e CPK senza che la coronarografia mostrasse stenosi significative (9). Gli autori suggeriscono la possibilità che livelli di FFA molto elevati e contemporanea acidosi possano indurre instabilità di membrana e danno cellulare miocardico anche senza chiara necrosi.

Un caso in una giovane donna di 21 anni che presenta molte similarità con il nostro è stato segnalato su Diabetes Care nel 2003 (10). L’aumento della troponina si è verificato dopo 36 ore dal ricovero con segni ECG ed ecocardiografici tipici di necrosi miocardica. Nessuna lesione coronarica è stata però riscontrata alla coronarografia e i colleghi suggerivano il vasospasmo come possibile causa.

Ancora più rari, sono i casi riportati in letteratura di dissezioni spontanee coronariche o pericarditi in corso di DKA. Un case report del 2014 di Tashtoush et al. riporta il caso di una donna di 54 anni, afro-americana, con sindrome coronarica acuta da dissezione coronarica spontanea in corso di esordio di diabete con chetoacidosi. L’evento vascolare si presentava dopo circa 24 ore di acidosi e chetonemia in trattamento infusionale: il riscontro coronografico di una severa dissezione dell’arteria coronaria destra associata ad occlusione trombotica intraluminale e a multiple dilatazioni aneurismatiche della DA e della circonflessa sinistra poneva indicazione per un intervento cardiochirurgico di triplice by-pass (11). La dissezione coronarica spontanea è una rara causa di sindrome coronarica acuta, spesso complicata da morte improvvisa, più frequente nelle giovani donne in gravidanza o nel periodo puerperale. È definita spontanea quando si manifesta in assenza di cause traumatiche o iatrogene. Si devono escludere quindi forme secondarie a traumi toracici, interventi cardiochirurgici, coronarografia o altre procedure interventistiche, nonché l’estensione coronarica di una dissezione aortica. È il risultato di uno slaminamento con separazione delle tre tonache coronariche con creazione di un falso lume tra media e avventizia che comporta uno schiacciamento fino all’occlusione del vero lume, con ostacolo al flusso ematico e conseguente infarto miocardico e morte improvvisa.

Nelle donne in gravidanza e nel puerperio, il maggior rischio di dissezione sembra essere legato alla presenza di infiltrati infiammatori eosinofili nell’avventizia (“periarterite”), i cui granuli contengono numerose sostanze ad azione litica, come collagenasi, perossidasi, fosfatasi acida, proteina basica maggiore. Queste sostanze, alterando l’integrità della parete vasale, insieme alle modificazioni emodinamiche che si verificano durante la gravidanza, favorirebbero la dissezione medio-avventiziale. Durante il parto e nel peri-partum gli eosinofili infiltrano l’utero e aumentano in circolo i livelli di enzimi litici. La presenza di infiltrati eosinofili nelle coronarie dissecate potrebbe quindi essere una manifestazione di un processo sistemico. Inoltre, estrogeni e progesterone possono indurre eosinofilia e rilascio di enzimi litici predisponendo a tal rischio anche donne in terapia contraccettiva. Certamente anche patologie che predispongono ad una infiammazione cronica sulle pareti endoteliali, con perdita dell’integrità delle stesse, giocano un ruolo cruciale sul rischio di dissezione coronarica spontanea (es. ipertensione arteriosa, vasculiti croniche, patologie del connettivo, sindrome da anticorpi antifosfolipidi, LES, sindrome di Marfan) (12).

Anche nell’ambito delle pericarditi in corso di chetoacidosi diabetica si hanno ad oggi pochissimi dati in letteratura, anche se in numero maggiore rispetto alla dissezione coronarica spontanea e più frequenti negli anni passati (13).

Nel 1971 Bennet e Blake hanno descritto anomalie elettrocardiografiche suggestive di pericardite in 7 casi di chetoacidosi diabetica (14). Nessun paziente aveva presentato dolore toracico, solo un paziente presentava un transitorio sfregamento pericardico all’auscultazione cardiaca; la radiografia del torace non mostrava alcuna anomalia e le alterazioni all’ECG regredivano dopo 36-48 h; poiché nessun agente infettivo veniva identificato fu coniato il termine di “pseudo-pericardite” (14).

Secondo Bennet e Blake, tali anomalie elettrocardiografiche potrebbero essere il risultato di un danno subepicardico causato dalla disidratazione con perdita del lubrificante pericardico. In alternativa tali anomalie potrebbero essere la conseguenza della severa acidosi che causa alterazioni metaboliche al livello del miocardio-subepicardio (14). I cambiamenti elettrocardiografici osservati in corso di chetoacidosi diabetica non sono pienamente spiegabili, ma sembrerebbero correlati con lo stadio di alterazione metabolica e soprattutto con i livelli di concentrazione plasmatica di potassio. Tali transitorie anomalie elettrocardiografiche includono depressione del tratto ST, intervallo QT prolungato, anomalie dell’onda T e onda U prominente (15).

Un altro caso di pericardite acuta è stato documentato nel 2012 in corso di diabete mellito all’esordio (16). Un giovane di 31 anni, in corso di grave chetoacidosi, mostrava alterazione elettrocardiografiche di pericardite quali deviazione assiale sinistra e diffusa sopraelevazione del tratto ST concavo associate a dolore toracico trafittivo che si accentuava all’inspirazione profonda e in presenza di sfregamenti pericardici all’auscultazione del cuore. Il rapido trattamento con colchicina e ibuprofene e soprattutto il progressivo ripristino delle alterazione idro-elettrolitiche dopo adeguata terapia infusionale ed insulinica comportavano progressivo miglioramento clinico ed elettrocardiografico fino alla totale risoluzione entro le 48-72 h. Anche in questo caso le possibili cause infettive erano escluse in quanto tutte le indagini virologiche e microbiologiche apparivano nella norma.

Poiché l’infarto miocardico è secondario a occlusione trombotica di un vaso coronarico, è da segnalare che sono stati riportati in letteratura numerosi casi di trombosi arteriose in altre sedi in corso di chetoacidosi. Un caso di chetoacidosi del 2015 in un uomo di 49 anni è stato associato a trombosi arteriose multiple che hanno interessato occlusioni a carico dell’arteria mesenterica superiore, dell’arteria splenica e della arteria femorale dx (17). Un’altra recente segnalazione del 2014 ha evidenziato come una ischemia acuta al piede in un soggetto di 41 anni con chetoacidosi e diabete all’esordio ha portato all’amputazione di gamba (18).

Tutto ciò conferma come la chetoacidosi sia uno stato metabolico pro-trombotico, in parte legato alla disidratazione, che deve essere sempre tenuto presente nel trattamento medico.

Oltre a eventi acuti a livello miocardico durante DKA, bisogna anche tenere presente la possibilità che la DKA aumenti il rischio cardiovascolare a lungo termine nel paziente diabetico. A questo proposito, in un recente studio di popolazione, eseguito a Taiwan in più di 2000 pazienti diabetici con crisi iperglicemiche, senza storia di malattia cardiovascolare precedente l’episodio acuto di iperglicemia/chetoacidosi, è stato elegantemente dimostrato che il rischio di MACE (infarto miocardio, insufficienza cardiaca, ictus e aritmia fatale) era raddoppiato nei 3 anni di follow-up successivo all’episodio iperglicemico rispetto a una popolazione di diabetici senza episodi di grave iperglicemia/chetoacidosi (19). È interessante che il rischio di MACE fosse elevato soprattutto nella popolazione diabetica con meno di 40 anni. Questo dato suggerisce la possibilità che episodi di chetoacidosi o di grave iperglicemia possano essere determinanti nello sviluppo più accelerato della malattia cardiovascolare, soprattutto nella popolazione più giovane.

È stato anche dimostrato in una serie di 96 casi di chetoacidosi, che la presenza di elevati livelli di troponina I in 26 casi (27%) senza una chiara sindrome coronarica acuta era predittiva di un rischio almeno doppio di futuri eventi cardiovascolari (20). Il suggerimento è che questi pazienti a maggiore rischio dovrebbero essere trattati aggressivamente per la riduzione del rischio cardiovascolare globale.

3° Quesito

QUALE MECCANISMO PUO’ PORTARE A DANNO MIOCARDICO E PERICARDICO NELLA CHETOACIDOSI DIABETICA?

La DKA predispone a uno stato infiammatorio e procoagulante e questo potrebbe spiegare l’aumentata incidenza di eventi trombotici durante chetoacidosi (1). In corso di DKA l’incremento di corpi chetonici ben al di sopra dei normali livelli interferisce con la normale funzione cellulare. Recenti studi hanno dimostrato che l’aumento dei corpi chetonici circolanti induce stress-ossidativo in cardiomiociti, eritrociti e cellule endoteliali. È stato dimostrato un ruolo della DKA nella produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS), attivazione di NF-kB e incremento della trascrizione di geni pro-infiammatori (21).

È stato proposto che l’iperglicemia associata a livelli elevati di chetoni porti a una “up-regulation” di numerose NADPH ossidasi (NOX) in particolare dell’isoforma NOX 4, uno dei principali enzimi responsabili dell’aumentato stress ossidativo. Il conseguente aumento di ICAM-1 sulla superficie endoteliale sarebbe responsabile di una aumentata adesione e infiltrazione di Monociti/Macrofagi che portano alla disfunzione endoteliale (22).

La condizione di chetosi incrementa l’ossidazione extra-mitocondriale degli acidi grassi e la generazione di perossido d’idrogeno con conseguente incremento dello stress ossidativo, modificazione del pool di citochine pro-infiammatorie e predisposizione a eventi cardiovascolari da danno endoteliale e aterosclerotico. L’incremento dello stress ossidativo, a sua volta, può incrementare l’ossidazione di LDL e quindi promuovere o aumentare il rischio di aterosclerosi e malattie cardiovascolari anche in pazienti in assenza di fattori di rischio CV.

Va inoltre considerato la fluttuazione dei livelli di citochine prima, durante e dopo la risoluzione del quadro di chetoacidosi. I rapidi cambiamenti di citochine nel tempo, infatti, possono portare a anormalità capillari con conseguente danno e disfunzione delle cellule capillari endoteliali (21, 23).

A questo proposito di recente è stato dimostrato in 17 bambini in chetoacidosi la presenza di elevati livelli di citochine. In particolare erano elevati i livelli di GM-CSF, G-CSF, IL-17 e IL-12p40: queste citochine rivestono un ruolo rilevante nel mediare la risposta infiammatoria mediata da cellule T helper Th17 (24). L’aumento di queste citochine è stato associato in questi pazienti pediatrici alla disfunzione diastolica riscontrata in corso di chetoacidosi.

Alla luce di questi dati è possibile, in caso di chetoacidosi gravi, parlare di Sindrome da Risposta Infiammatoria Sistemica (SIRS) (25) una condizione da considerare in presenza di almeno 2 delle seguenti condizioni:

Frequenza cardiaca superiore a 90 bpm

Temperatura corporea inferiore a 36 o superiore a 38 °C

Tachipnea o bradipnea

Numero di globuli bianchi <4000 o >12.000 mm3.

Anche se la definizione di SIRS in relazione alla sepsi è stata recentemente messa in discussione, appare evidente come in molti casi di chetoacidosi possano essere presenti almeno 2 dei criteri per la diagnosi di SIRS a conferma quindi del ruolo dell’infiammazione sistemica.

CONCLUSIONI

Nel caso della nostra paziente si sono manifestate entrambe le complicanze cardiache sopra riportate (infarto miocardico acuto con dissezione coronarica e pericardite), verosimilmente in correlazione al grave e prolungato stato di chetoacidosi in cui la paziente si trovava e probabilmente anche per la co-presenza di altri fattori di rischio (terapia estro-progestinica, fumo attivo, scompenso glicemico acuto in controllo glicemico medio sempre molto mediocre).

Questo caso inoltre sottolinea l’importanza di somministrare precocemente eparina a basso peso molecolare s.c. con lo scopo di ridurre i rischi tromboembolici in corso di chetoacidosi, come raccomandato dalle principali società scientifiche nazionali e internazionali (1). In uno studio del 2003 di Carl et al., effettuato su 7 adolescenti con chetoacidosi diabetica, venivano confrontate le variazioni dei principali parametri emocoagulativi (proteina C, proteina S, fattore di von Willebrand, fibrinogeno, omocisteina e folati) all’inizio e dopo 6, 24, e 120 ore dall‘inizio del trattamento. I risultati confermavano lo stato protrombotico e di attivazione dell’endotelio vascolare presente al tempo zero e la successiva riduzione di tale stato a 120 ore dall’inizio del trattamento per la chetoacidosi, in concomitanza con il miglioramento del quadro di acidosi e chetonemia (6). Una possibile spiegazione dello stato pro-trombotico è che la DKA rappresenta una malattia infiammatoria con incremento di proteina C-reattiva, citochine e complemento. Ciò si riflette in un’anomala funzione endoteliale, incremento del fattore di von Willebrand, dell’attivatore tissutale del plasminogeno e delle molecole di adesione cellulare con conseguente predisposizione ad incidenti cerebrovascolari e cardiovascolari.

Successivamente al ricovero la paziente ha presentato un graduale recupero sia cardiologico che metabolico. È stata progressivamente scalata, fino alla sospensione dopo 2 mesi, la terapia con colchicina con completa risoluzione sintomatologica e clinica della pericardite. Ha proseguito con insulina multiniettiva s.c. con progressivo miglioramento dei profili glicemici e dei valori di emoglobina glicata (dopo 3 mesi HbA1c pari 62 mmol/mol).

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