Dieta e diabete: il lungo viaggio da Celso alla nutrizione basata sull’evidenza

Gabriele Riccardi, Angela A. Rivellese, Giovanni Annuzzi, Brunella Capaldo, Rosalba Giacco, Olga Vaccaro

Dipartimento di Medicina Clinica e Chirurgia, Università Federico II, Napoli

Lettura in occasione del Premio Celso tenutasi a Rimini al 51° Congresso della Società Italiana di Diabetologia

Auro Cornelio Celso è uno scrittore enciclopedico romano (prima metà del I sec. d.C.), autore di un vasto trattato, Artes, del quale resta per intero il De Medicina, completo riassunto della medicina e della chirurgia secondo le norme ippocratiche. In questa opera sono indicate alcune norme di comportamento per il mantenimento della buona salute che ancora oggi mantengono inalterata la loro validità. Se ne possono citare alcune, a puro titolo di esempio, più vicine al nostro campo di interesse clinico:

– le infermità si curano con i rimedi, non con l’eloquenza;

– non bisogna mai trascurare l’esercizio fisico, giacché l’inattività indebolisce il fisico e fa invecchiare precocemente;

– e venendo al mangiare, utile non è mai una ripienezza soverchia; tuttavia, dannosa è spesso anche un’eccessiva astinenza.

Il riscontro di antiche radici alla base di molte, ma non tutte, le raccomandazioni sullo stile di vita induce spesso a considerare l’ambito della prevenzione e della terapia non farmacologica come una sorta di territorio extramoenia della medicina clinica, che affonda le sue radici più nell’esperienza personale e nel buon senso del medico che in principi solidi costruiti sull’evidenza prodotta dagli studi clinici.

Contrastare questa visione erronea è stato uno dei principi ispiratori della nostra attività clinica e scientifica. Abbiamo, nel corso degli anni, concentrato le nostre energie sulla validazione delle raccomandazioni nutrizionali, spesso contrastanti, che nel corso degli anni sono state emanate da società scientifiche, agenzie per la salute nazionali o sovrannazionali o da esperti utilizzando, come unico criterio di veridicità, l’evidenza prodotta da studi clinici controllati nell’uomo, sobbarcandoci, in molti casi, in prima persona “l’onere della prova” eseguendo la necessaria sperimentazione clinica.

I risultati di questa ricerca pluriennale costituiscono il canovaccio di questa rassegna sull’intervento non farmacologico per la prevenzione e la terapia del diabete. Quattro sono le problematiche che verranno affrontate; la scelta è motivata sia dalla loro rilevanza clinica sia perché intorno ad esse si è particolarmente focalizzata l’attività di ricerca del nostro gruppo:

Caratteristiche degli alimenti in grado di influenzare la risposta glicemica postprandiale.

Il ruolo del colon nella modulazione della glicemia a digiuno.

Interazione tra geni e ambiente nella regolazione del metabolismo energetico.

La chirurgica bariatrica nei pazienti diabetici con obesità di alto grado.

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Caratteristiche degli alimenti in grado di influenzare la risposta glicemica postprandiale

Il ruolo delle fibre vegetali

Diversi componenti della dieta sono in grado di influenzare la risposta glicemica postprandiale. Tra questi, un ruolo di primo piano è sicuramente svolto dagli alimenti ricchi in carboidrati. Il loro impatto è modulato non solo dalla quantità ingerita ma anche dalle caratteristiche dell’alimento e del pasto nel suo complesso. Infatti, la risposta glicemica ad un pasto dipende in larga parte dalla velocità di digestione e assorbimento a livello intestinale dei carboidrati in esso contenuti per cui essa sarà tanto più elevata quanto più questi processi sono rapidi. Pertanto, rallentare la velocità di digestione e assorbimento dei carboidrati rappresenta un’importante misura per ridurre il picco glicemico postprandiale. A questo riguardo, la quantità ed il tipo di fibre vegetali contenute nel pasto hanno una importanza notevole. 

Il nostro gruppo si è interessato dei possibili effetti metabolici delle fibre vegetali sin dagli inizi degli anni Ottanta dimostrando, per la prima volta, che una dieta ricca in fibre alimentari, prevalentemente di tipo idrosolubile contenute in legumi, vegetali e frutta, è capace di per sé, indipendentemente dal contenuto in carboidrati e da altre caratteristiche della dieta, di migliorare il controllo glicemico di pazienti con diabete mellito, specie in fase postprandiale. Al fine di controllare in maniera accurata la composizione della dieta, questo studio era condotto in corsia metabolica su pazienti ricoverati (1). Dopo questi primi importanti risultati, abbiamo effettuato altri studi di intervento controllati variando la quota di fibre vegetali della dieta in pazienti ambulatoriali per valutare l’impatto metabolico di questa misura nutrizionale anche in condizioni di vita abituale. Questi studi ci hanno consentito di chiarire la rilevanza clinica e i possibili meccanismi di azione di un incremento del consumo di alimenti ricchi in fibre vegetali nella dieta delle persone con diabete o a rischio di questa patologia.

In particolare, in pazienti diabetici di tipo 1 l’incremento di circa 30 g al giorno del contenuto in fibre della dieta, lasciando invariate tutte le altre caratteristiche nutrizionali, migliorava il controllo glicemico a lungo termine (6 mesi) come dimostrato da una significativa riduzione non solo delle glicemie misurate mediante autocontrollo domiciliare ma anche dell’emoglobina glicata. Il miglioramento del compenso era accompagnato da una significativa riduzione degli eventi ipoglicemici (0,8 +/- 0,7 vs 1,7 +/-1,2 eventi per mese, p<0,01) e questo contrasta con quanto avviene quando i valori glicemici sono abbassati mediante un incremento del dosaggio insulinico (2).

La dieta ricca in fibre, proprio per le sue capacità di modulare la digestione e l’assorbimento non solo dei carboidrati ma anche di altri nutrienti, quali i lipidi alimentari, è in grado di influenzare positivamente anche la risposta lipidica postprandiale in pazienti con diabete mellito tipo 2. Con questo tipo di dieta si osserva, infatti, una riduzione particolarmente nel periodo postprandiale delle concentrazioni delle lipoproteine ricche in trigliceridi, che costituiscono un fattore di rischio cardiovascolare indipendente particolarmente importante proprio nei pazienti con diabete mellito (3). Anche una dieta ricca in fibre basata esclusivamente sui cereali integrali è capace di modulare la risposta dei trigliceridi postprandiali con una riduzione significativa di circa il 40% (4).

Le fibre vegetali non sono l’unico componente della dieta in grado di migliorare la risposta metabolica a un pasto.Oltre al contenuto in fibre, altre caratteristiche del pasto sono in grado di modulare la risposta glicemica e, tra queste, svolgono un ruolo particolarmente importante sia la composizione chimica dei carboidrati (ad esempio il fruttosio induce una minore risposta glicemica del glucosio e dei suoi polimeri quali l’amido) sia le caratteristiche chimico-fisiche degli alimenti che condizionano l’accessibilità dei carboidrati all’azione degli enzimi digestivi (questa è ridotta, ad esempio, per la pasta o il riso parboiled grazie a una pellicola di amido lentamente digeribile che circonda l’alimento e alla presenza di un fitto reticolo proteico che circonda i granuli di amido) (Fig. 1) (5). 

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Grassi della dieta e regolazione glicemica

Come già precedentemente illustrato, non sono solo il contenuto in carboidrati del pasto e le caratteristiche chimiche e fisico-chimiche degli alimenti a condizionare la risposta glicemica postprandiale. La composizione in nutrienti del pasto nel suo complesso è in grado di modulare la velocità di transito degli alimenti dallo stomaco al duodeno e di stimolare la risposta ormonale, soprattutto a livello di ormoni intestinali (GLP1, GIP, Grelina). Questo contribuisce a spiegare perché, nonostante gli sforzi dei pazienti e degli educatori, applicare il “conteggio dei carboidrati” non è sempre sufficiente ad ottimizzare la risposta glicemica postprandiale, particolarmente nei pazienti con diabete tipo 1 (6). Infatti, questo metodo non tiene conto né delle caratteristiche degli alimenti ingeriti, né della composizione del pasto. Sono oggi disponibili chiare evidenze che metodi per la determinazione delle dosi pre-prandiali di insulina che tengono in considerazione altre caratteristiche degli alimenti in aggiunta alla quantità dei carboidrati migliorano il compenso glicemico postprandiale di pazienti con diabete tipo 1 rispetto al tradizionale calcolo dei carboidrati (7).

Pertanto, un altro aspetto importante da considerare nell’interpretare l’impatto della dieta sulla regolazione glicemica dopo il pasto è la sua più complessiva composizione in nutrienti. Infatti, nella vita di tutti i giorni assumiamo pasti che contengono non solo carboidrati ma anche altri macronutrienti e questi possono influenzare la risposta glicemica. Diversi studi hanno valutato l’effetto della quantità dei grassi sulla risposta glicemica post-prandiale ma nella quasi totalità dei casi ci si limitava alla valutazione del ruolo dei grassi saturi. Noi abbiamo condotto uno studio di intervento controllato e randomizzato per verificare se la qualità dei grassi in aggiunta alla loro quantità potesse influenzare la risposta glicemica postprandiale. Per verificare questa ipotesi, 13 pazienti con diabete tipo 1 in trattamento con microinfusore di insulina, in base ad un disegno cross-over randomizzato, sono stati assegnati a consumare pasti con la stessa quantità di carboidrati ma costituiti o da alimenti a basso indice glicemico (pasta e lenticchie, pane integrale e mela) oppure ad alto indice glicemico (riso, pane bianco e banana) (8). Come è noto, l’indice glicemico esprime l’entità della risposta glicemica ad una dose standard di un alimento (50 g di carboidrati) in rapporto a quella indotta dal consumo di una stessa quantità di glucosio. Questo indice dipende dalle caratteristiche dell’alimento sia in relazione alla qualità dei carboidrati o alla quantità di fibre vegetali in esso contenute sia alle sue caratteristiche fisico-chimiche (accessibilità dei carboidrati, viscosità ecc.) (9).

Nel nostro studio, sia nell’ambito dei pasti ad alto indice glicemico che in quello dei pasti a basso indice glicemico, il pasto si differenziava per il contenuto di grassi in quanto era (a) povero in grassi, o (b) ricco in grassi saturi (burro), oppure (c) ricco in grassi monoinsaturi (olio extravergine d’oliva). I partecipanti hanno consumato i pasti ad ora di pranzo al proprio domicilio e, durante l’intero periodo sperimentale, hanno effettuato il monitoraggio in continuo della glicemia. Le dosi pre-prandiali di insulina sono state determinate in base al rapporto individuale insulina/carico glicemico, per cui i partecipanti hanno effettuato in media 8,3±2,0 UI di insulina per i pasti a basso indice glicemico e 12,6±3,5 UI per i pasti ad alto indice glicemico. Ciononostante, i pasti ad alto indice glicemico hanno determinato un aumento della glicemia maggiore e più precoce rispetto a quelli a basso indice glicemico. A parte questo risultato, in parte atteso, il nostro studio ha dimostrato che nell’ambito dei pasti ad alto indice glicemico, l’aggiunta di olio d’oliva extravergine al pasto attenuava significativamente il picco glicemico postprandiale rispetto non solo al pasto con basso contenuto di grassi ma anche a quello ricco in burro (Fig. 2). Nell’ambito dei pasti a basso indice glicemico, invece, la risposta glicemica non era influenzata dal contenuto e dalla qualità dei grassi in quanto era già di per sé alquanto contenuta (8).

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I risultati di questo studio dimostrano chiaramente che per poter limitare efficacemente le escursioni glicemiche post-prandiali, sarà necessario creare degli algoritmi per la determinazione delle dosi pre-prandiali di insulina che tengano conto oltre che della quantità dei carboidrati e dell’indice glicemico degli alimenti consumati (questi due parametri vengono sintetizzati nel concetto di carico glicemico) anche della quantità e qualità dei grassi e, presumibilmente, quella di altri nutrienti.

Infatti, nell’interpretazione dei risultati di questo studio va anche tenuto conto del fatto che l’olio extravergine d’oliva è ricco in polifenoli, sostanze bioattive con proprietà anti-ossidanti, che sono in grado di rallentare lo svuotamento gastrico e di dilazionare nel tempo l’assorbimento dei carboidrati limitando, quindi, le escursioni glicemiche post-prandiali.

La possibilità di limitare le escursioni glicemiche legate all’assunzione di pasti ad alto indice glicemico mediante l’aggiunta di olio extravergine d’oliva rappresenta un ulteriore punto a favore dell’utilizzo di questo alimento i cui benefici sono già stati dimostrati per vari altri fattori di rischio cardio-metabolico quali l’insulino-resistenza, la dislipidemia e la steatosi epatica (10).

Il ruolo del colon nella modulazione della glicemia 

Il ruolo della fermentazione batterica

Per molti anni la funzione del colon è stata interpretata come sostanzialmente finalizzata all’assorbimento di acqua. Oggi sappiamo, invece, che il colon ha un ruolo centrale nella regolazione dei fattori di rischio cardiometabolico. Le fibre vegetali assunte con la dieta sono metabolizzate dalla flora batterica intestinale a oligosaccaridi e monosaccaridi e poi fermentate ad acidi grassi a corta catena (SCFAs): acido acetico, propionico e butirrico. Di questi, l’acido butirrico è utilizzato come substrato energetico per il metabolismo dell’epitelio del colon mentre l’acido acetico e propionico attraverso il circolo enteroepatico raggiungono il fegato e gli organi periferici dove sono utilizzati come substrati per la lipogenesi e la gluconeogenesi. Essi, inoltre, si legano ai recettori G-protein-coupled receptors (GPCRs), GPR41 e GPR43, regolando l’espressione di diversi geni che influenzano il metabolismo postprandiale. In particolare, gli SCFAs legandosi ai recettori GPR43 presenti sulle cellule L, localizzate a livello della parte distale nel piccolo intestino e nel colon, modulano la secrezione dell’ormone GLP-1 che stimola la secrezione insulinica e regola il metabolismo glicidico. Legandosi ai recettori GPR41 delle cellule L essi stimolano, invece, l’espressione del gene PYY che modula il senso di fame, l’intake di cibo e il deposito di grassi (11).

La fermentazione intestinale delle fibre è, pertanto, uno dei principali meccanismi mediante i quali il consumo di cereali integrali, frutta e verdura ha effetti benefici sulla salute dell’uomo (12). Per alcuni tipi di fibra la fermentescibilità è ben documentata, come nel caso della fibra solubile non viscosa (ad es. inulina, destrina, oligosaccaridi) e per gran parte delle fibre solubili viscose (ad es. β-glucano, gomme, guar, pectina); tale proprietà è, invece, ancora controversa per la fibra insolubile di cui i cereali integrali sono ricchi.

Un contributo a tal proposito è stato fornito dalla nostra attività di ricerca. Un nostro studio ha, infatti, dimostrato che il consumo per 12 settimane di una dieta basata su cereali integrali, prevalentemente frumento, rispetto ad una dieta basata su cereali raffinati, migliora la risposta di insulina e trigliceridi nel periodo postprandiale in individui affetti da sindrome metabolica. Infatti, nel gruppo che consumava cereali integrali la risposta insulinemica postprandiale si riduceva rispetto a quella basale ed era del 29% più bassa (la differenza era statisticamente significativa) rispetto a quella osservata nel gruppo assegnato alla dieta a base di cereali raffinati. Tranne che per le fibre da cereali, le due diete non presentavano alcuna differenza nella composizione in macronutrienti. La ridotta risposta insulinemica osservata dopo la dieta a base di cereali integrali in assenza di variazioni della glicemia postprandiale suggerisce che questa dieta è in grado di migliorare la sensibilità insulinica nel periodo postprandiale (13).

Nel gruppo che consumava la dieta a base di cereali integrali dopo 12 settimane d’intervento si osservava anche un incremento dei livelli plasmatici di propionato che correlava positivamente con la quantità di fibra da cereali consumata; questo dimostra che anche le fibra presente nei cereali integrali può essere fermentata e questo contribuisce a spiegare i benefici effetti metabolici indotti da questo tipo di dieta (13).

La composizione della dieta, in particolare il suo contenuto in fibre vegetali, è anche un importante modulatore della composizione del microbiota intestinale (14). Negli animali circa il 57% della variabilità batterica intestinale è attribuibile alla dieta e solo il 12% ai fattori genetici. Nell’uomo, la Western diet, ricca in grassi e povera in fibre vegetali, si associa ad una riduzione di Bacteroidetes e ad un incremento di Firmicutes a livello intestinale. Il contrario si osserva quando la dieta è ricca in fibre (14).

Recenti ricerche hanno mostrato che un’alterata composizione del microbiota intestinale, la disbiosi intestinale, esercita un ruolo chiave nello sviluppo di malattie metaboliche quali obesità, diabete tipo 2 e malattie cardiovascolari. In un nostro studio, condotto su un piccolo gruppo di soggetti affetti da sindrome metabolica, l’indice HOMA, marker d’insulino resistenza, correlava inversamente con la concentrazione fecale di bifidobatteri suggerendo una relazione tra sensibilità insulinica e composizione della flora batterica (dati non pubblicati).

I meccanismi attraverso i quali il microbiota intestinale può influenzare lo sviluppo delle malattie metaboliche sono principalmente due: 1) la risposta immune ai componenti strutturali dei batteri (iposaccaridi) che provoca l’instaurarsi di una infiammazione subclinica (legata alla presenza di batteri di tipo putrefattivo), e 2) la produzione di SCFAs dalla fermentazione delle fibre (legata alla presenza di batteri di tipo fermentativo) che, come già detto, hanno attività biologiche importanti nel mantenimento dell’omeostasi metabolica e nel controllo del rischio cardiovascolare e neoplastico (15).

Effetti dei polifenoli della dieta 

Diversi studi epidemiologici hanno dimostrato che l’assunzione di polifenoli è inversamente proporzionale al rischio di diabete di tipo 2 e all’incidenza di malattie cardiovascolari. Studi in vitro e su animali supportano questi dati, riportando una potente attività antiossidante dei polifenoli, generalmente osservata in vitro, e effetti benefici dei polifenoli della dieta sulla digestione dei carboidrati e sulla sensibilità all’insulina e la sua secrezione mediante l’attivazione di diversi processi molecolari intracellulari. Anche se i polifenoli rappresentano i principali antiossidanti della dieta nell’uomo, questa supposta attività antiossidante è per lo più basata su evidenze in vitro, mentre i dati in vivo sono pochi e contrastanti.

Abbiamo valutato in persone ad alto rischio cardiovascolare gli effetti di diete naturalmente ricche in polifenoli sulle concentrazioni plasmatiche delle lipoproteine ​​ricche in trigliceridi a digiuno e dopo un pasto test, sulle concentrazioni urinarie di 8-isoprostano (un affidabile marker biologico di ossidazione) e sul metabolismo del glucosio, mediante un OGTT. Questo è stato il primo studio controllato e randomizzato con un campione di dimensioni adeguate che ha indagato gli effetti a medio termine (8 settimane) di diete naturalmente ricche in polifenoli in soggetti ad alto rischio di diabete di tipo 2 e malattie cardiovascolari. Ottantasei individui in sovrappeso/obesi con una alta circonferenza addominale e almeno un altro componente della sindrome metabolica sono stati randomizzati a una dieta isoenergetica (a) povera, o (b) ricca di polifenoli (composta da alimenti ricchi in polifenoli come rucola, carciofi, cipolle rosse, mirtilli, arance, olio extravergine di oliva, caffè, tè verde). A parte i polifenoli, le diete sperimentali erano molto simili per tutte le altre caratteristiche, inclusa la composizione in macronutrienti e micronutrienti, cioè gli altri fattori nutrizionali che potenzialmente potevano influenzare i risultati (16).

Prima e dopo l’intervento di 8 settimane tutti i soggetti hanno assunto un pasto test, con una composizione simile alla dieta assegnata, per la valutazione del metabolismo ​​postprandiale delle lipoproteine, e un OGTT di 3 ore per la valutazione di indici di sensibilità insulinica e funzione beta-cellulare. I polifenoli hanno ridotto significativamente le concentrazioni di trigliceridi nel plasma e nelle VLDL più grandi sia a digiuno (rispettivamente p=0,023 e p=0,016) che nella fase postprandiale (AUC trigliceridi nel plasma: p=0,041; AUC VLDL grandi: p=0,004) (16). Le concentrazioni urinarie di 8-isoprostano sono diminuite significativamente di circa il 20% con la dieta ricca di polifenoli, indicando un miglioramento dello stress ossidativo. Le variazioni delle lipoproteine ​​indotte dall’intervento erano significativamente correlate con le variazioni dell’8-isoprostano urinario.

All’OGTT, i polifenoli hanno ridotto significativamente la glicemia dopo carico (AUC totale p=0,038), e aumentato la secrezione insulinica precoce (p=0,048) e la sensibilità insulinica (OGIS) (p=0,05) (Fig. 3) (17).

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Pertanto, possiamo ritenere che diete naturalmente ricche di polifenoli siano in grado di ridurre le concentrazioni plasmatiche delle lipoproteine ​​ aterogene e lo stress ossidativo durante il periodo postprandiale. Inoltre, esse migliorano la tolleranza glicidica aumentando la secrezione precoce di insulina e la sensibilità insulinica. Nel nostro intervento, l’uso di differenti classi di polifenoli presenti esclusivamente in alimenti naturali può spiegare la loro influenza sinergica su diversi meccanismi – secrezione insulinica precoce e sensibilità insulinica –
con un conseguente effetto additivo sulla tolleranza al glucosio. Pertanto, un aumento del consumo di alimenti naturalmente ricchi di polifenoli dovrebbe essere raccomandato negli individui a rischio per diabete tipo 2 e per patologie cardiovascolari al fine di migliorare il loro profilo cardio-metabolico e, possibilmente, ridurre il rischio di malattia.

Interazione tra geni e ambiente nella regolazione del metabolismo energetico

Anche se l’attuale epidemia di obesità è in gran parte dovuta alla dieta e ad altri fattori legati allo stile di vita, il background genetico esercita verosimilmente un ruolo importante nel determinare una differente suscettibilità all’incremento ponderale in individui diversi sottoposti alle medesime condizioni ambientali. Già più di dieci anni fa, il nostro gruppo aveva dimostrato che figli normopeso di genitori con sovrappeso, rispetto a persone aventi uguale sesso, età e peso, ma figli di genitori in normopeso, ossidavano significativamente meno grassi in risposta ad un pasto test iperlipidico (18). È noto che una minore ossidazione di grassi predispone al sovrappeso in quanto essi vengono dirottati verso il tessuto adiposo o, addirittura, verso sedi ectopiche quali il muscolo, il fegato e il cuore. Quindi, anche se con un normale peso corporeo, i figli di genitori sovrappeso sono più predisposti a sviluppare anche essi il sovrappeso perché per il loro background genetico sono meno capaci di ossidare un eccessivo introito di grassi con la dieta (18). 

Il peroxisome proliferator-activated receptor γ (PPARγ) è uno dei cinque geni per i quali l’associazione con l’obesità è stata più frequentemente riportata. Esso contribuisce alla differenziazione dei preadipociti in adipociti maturi e favorisce la captazione degli acidi grassi circolanti nel tessuto adiposo migliorando la sensibilità insulinica. Sono state individuate diverse varianti del gene del PPARγ2; tra queste quella caratterizzata da una mutazione che risulta in una sostituzione di una Prolina con una Alanina al codone 12 (Pro12Ala) è la più studiata. Questa variante polimorfica amplifica l’attività del PPARγ aumentando il flusso degli acidi grassi verso il tessuto adiposo (Fig. 4).

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Noi abbiamo dimostrato che, a parità di introito calorico, i portatori del polimorfismo Pro12Ala hanno una maggiore suscettibilità all’aumento di peso (19). Tale effetto è irrilevante per un introito energetico modesto mentre diventa clinicamente importante (sei o sette chili) in persone che hanno una dieta francamente ipercalorica. Infatti, stratificando una coorte di pazienti diabetici di tipo 2 in base al polimorfismo del PPARγ e secondo quartili sesso-specifici di introito calorico, come atteso, all’aumentare dell’introito calorico l’Indice di Massa Corporeo (IMC) aumentava in entrambi i gruppi, ma l’entità dell’incremento era significativamente maggiore nei portatori della mutazione. Pertanto, mentre nel primo quartile di introito calorico l’IMC era simile nei 2 gruppi (30,0 vs 30,1 kg/m2), nel quartile più alto l’IMC dei portatori della mutazione era significativamente più alto (36,0 vs 32,1; p <0,001); questa differenza non era spiegata né dal contenuto energetico della dieta né dalla sua composizione in nutrienti (19).

L’effetto del polimorfismo Pro12Ala, oltre che dalla interazione con fattori ambientali (dieta), è modulato anche dalla interazione con altri geni. Tra gli altri, il gene che codifica per la proteina disaccoppiante 3 (UCP3) è un interessante gene candidato per gli studi sulla regolazione del peso e sul metabolismo energetico. L’UCP3 è una proteina espressa soprattutto a livello del tessuto muscolare scheletrico, il sito maggiore della termogenesi; inoltre, un polimorfismo del gene che la codifica induce una sostituzione in posizione 55 di una Alanina con una Valina. In presenza di questo polimorfismo si osserva un incremento del 58% dell’espressione dell’mRNA di UCP3 nel muscolo scheletrico di Indiani Pima unitamente a un incremento del metabolismo basale e a una riduzione dell’IMC.

Nella nostra popolazione di pazienti con diabete tipo 2 abbiamo valutato l’effetto combinato delle due mutazioni Pro12 Ala di PPARγ2 e 55CT di UCP3. La popolazione in studio è stata divisa in 3 gruppi in base alla presenza di due, uno o nessun allele “protettivo” cioè con i genotipi: (CT-TT/ ProPro), (CC/ProPro o CT-TT/ProAla), (CC/ProAla). Nei tre gruppi l’IMC diminuiva progressivamente con un effetto scalare in relazione al numero di alleli protettivi (0,1 o 2): 34,0±7,1 vs 31,9±5.9 vs 29,8±5.6 kg/m2 (p<0,001 per il trend), in assenza di differenze significative nell’introito calorico. L’assenza di ambedue gli alleli protettivi si associava ad una significativa riduzione dell’ossidazione dei lipidi a digiuno dimostrata con la tecnica della calorimetria indiretta (20); questo spiega la maggiore presenza di lipidi nei siti di deposito. Anche questo studio, quindi, conferma una differente suscettibilità all’accumulo di grasso a seconda del background genetico indipendentemente dalla dieta abituale.

 

La chirurgica Bariatrica nei pazienti diabetici con obesità di alto grado

La chirurgia bariatrica ha acquisito negli ultimi anni una crescente importanza affermandosi come valida opzione terapeutica per il paziente con obesità severa in virtù della sua efficacia non solo sul calo ponderale ma anche sulle comorbidità incluso il diabete mellito tipo 2 (21). In questo ambito di ricerca, abbiamo valutato l’efficacia della chirurgia bariatrica vs. la terapia medica ottimale nei pazienti obesi con diabete tipo 2 e confrontato gli effetti di due delle procedure bariatriche più diffuse – by-pass gastrico (RYGB) e gastrectomia verticale (GV) – sul metabolismo glico-lipidico e sul profilo degli ormoni gastrointestinali. In uno studio retrospettivo abbiamo dimostrato che in pazienti con diabete tipo 2 e obesità severa, la chirurgia bariatrica è in grado di indurre un maggiore calo ponderale ed un miglior controllo metabolico e del rischio cardiovascolare rispetto al trattamento medico con farmaci ipoglicemizzanti che hanno un effetto marcato sul peso corporeo (analoghi del GLP1). È interessante, tuttavia, sottolineare che circa il 60% dei pazienti trattati con questa classe di farmaci raggiungeva un calo ponderale ≥5% e valori di emoglobina glicata ≤7%. Pertanto, la terapia medica con i moderni ipoglicemizzanti, che esercitano importanti effetti anche sul peso corporeo, rappresenta una valida alternativa alla chirurgia bariatrica in quei pazienti che rifiutano o presentano controindicazioni alla opzione chirurgica (22).

Riguardo ai meccanismi che sottendono la remissione del diabete, abbiamo osservato che, un anno dopo l’intervento, RYGB e GV risultano ugualmente efficaci nell’indurre perdita di peso e remissione del DM2 (86% in RYGB and 76% in GV) e nel migliorare gli indici di secrezione e di sensibilità insulinica a fronte, però, di differenti modifiche del profilo entero-ormonale. Infatti, i livelli postprandiali di GLP-1 aumentavano in misura significativamente maggiore dopo RYGB rispetto alla GV mentre le concentrazioni a digiuno e postprandiali di grelina risultavano più basse dopo la GV. La risposta postprandiale di GIP si riduceva del 50% dopo entrambi gli interventi (Fig. 5) (23).

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Questi dati suggeriscono che il calo ponderale esercita un ruolo prevalente rispetto alle modifiche entero-ormonali nel favorire il miglioramento dell’omeostasi glicemica. Al contrario, i benefici sul profilo lipidico risultano maggiori dopo RYBG rispetto alla GV a parità di calo ponderale. La riduzione della lipemia postprandiale è probabilmente mediata dal ripristino postoperatorio della secrezione di GLP-1. Infatti, all’analisi multivariata, il picco postprandiale di GLP-1 si dimostrava il principale predittore della riduzione del colesterolo LDL (β=-0,552, p=0,039) (24). 

Infine, in una recente meta-analisi abbiamo messo in evidenza che la chirurgia bariatrica è in grado di ridurre l’ispessimento medio-intimale carotideo e di migliorare la vasodilatazione endotelio-mediata contribuendo attraverso questi meccanismi alla riduzione del rischio cardiovascolare dei pazienti obesi con diabete tipo 2 (25).

CONCLUSIONI

L’intervento nutrizionale rappresenta una misura imprescindibile per la cura e per la prevenzione del diabete. Nonostante la ricerca ci abbia dotato di sofisticati strumenti terapeutici non solo a livello di farmaci ma anche di presidi per il monitoraggio della glicemia e per l’infusione di insulina, il controllo glicemico ottimale rappresenta ancora oggi per molti pazienti una chimera. Appropriate scelte alimentari riescono, in molti casi, a migliorare il profilo metabolico limitando quelle eccessive oscillazioni glicemiche che compromettono la qualità di vita del paziente e possono condizionare lo sviluppo delle complicanze. Inoltre, in considerazione della etiologia multifattoriale delle complicanze croniche del diabete, solo un approccio terapeutico che tenga nel debito conto lo stile di vita può essere in grado di ridurre il profilo di rischio, limitando il ricorso ai farmaci per i quali, come è noto, la compliance non è ottimale nelle persone con diabete specie se sottoposte a pluriterapia.

Questa consapevolezza ha condizionato, a partire dagli ultimi decenni dello scorso secolo, un nuovo interesse verso gli interventi non farmacologici favorendo il fiorire di studi clinici e stimolando il progresso metodologico. Nasce, così, la nutrizione basata sulle evidenze che rappresenta un profondo rinnovamento dei principi su cui si basano le raccomandazioni nutrizionali. Infatti, mentre fino ad alcuni decenni fa la terapia nutrizionale era frutto dell’esperienza del clinico o, tutt’al più, si fondava sui risultati di studi condotti in animali da laboratorio, oggi solo studi clinici randomizzati e controllati condotti nell’uomo possono essere considerati probanti in relazione alle scelte nutrizionali in ambito terapeutico e preventivo. Studi di intervento come il Diabetes Prevention Program o il Look Ahead con migliaia di persone reclutate e con un disegno sperimentale che non ha nulla da invidiare ai più sofisticati studi di farmacologia clinica sono solo alcuni dei capisaldi di questa rivoluzione copernicana. Il quadro che emerge dagli studi condotti negli ultimi decenni è impressionante non solo per l’enorme mole di dati che sono stati acquisiti ma, soprattutto, per la capacità di approfondimento fisiopatologico raggiunta (Fig. 6).

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Il nostro gruppo si è inserito sin dall’inizio in questo filone di ricerca e ha contribuito a dare fondamento clinico e fisiopatologico ad alcune delle raccomandazioni sull’intervento non farmacologico per la terapia o la prevenzione del diabete. La spinta a procedere in questa direzione ci è venuta dalla nostra pratica clinica. Sappiamo bene, infatti, che modificare lo stile di vita di una persona in termini duraturi non è per nulla facile. Tuttavia siamo altrettanto coscienti che solo la consapevolezza che un intervento nutrizionale è efficace ed è in grado di assicurare al paziente evidenti benefici clinici può motivare il medico, il dietista e lo stesso paziente ad affrontare un percorso talora non facile ma che nel tempo avrà un impatto benefico sulla salute e sulla qualità di vita delle persone con diabete.

Ringraziamenti

Un doveroso ringraziamento va soprattutto a coloro che hanno ispirato e guidato la mia formazione clinica e scientifica e, in particolare, al Prof. Mario Mancini dell’Università Federico II di Napoli di cui sono stato allievo fin dal Corso di Medicina, al Prof. Lars A Carlson del Karolinska Institute di Stoccolma che mi ha iniziato alla metodologia degli studi metabolici e al Prof. Jerry Stamler, della North-Western University di Chicago, dal quale sono stato introdotto agli studi epidemiologici. Un grazie anche a tutte le persone che con entusiasmo e spirito critico collaborano o hanno collaborato con me nella ricerca; molti di essi ricoprono oggi importanti, talora prestigiose, posizioni nella clinica, nella ricerca e nell’industria in Italia e all’estero. Infine desidero ringraziare le persone con diabete che nel corso degli anni ho avuto in cura insieme ai miei collaboratori; essi sono stati la costante fonte di ispirazione e la principale motivazione dell’attività scientifica mia e di tutto il mio gruppo. La Società Italiana di Diabetologia (SID) e la diabetologia italiana nel suo complesso hanno rappresentato l’incubatore di idee ed esperienze nel quale mi sono formato e sono cresciuto; al di fuori di tale contesto ben poco di quello che è stato realizzato dal nostro gruppo sarebbe stato possibile.

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