Diabete e migranti: una realtà in evoluzione

Luca Montesi, Lucia Brodosi, Maria Turchese Caletti, Maria Letizia Petroni, Giulio Marchesini

Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Università di Bologna, SSD Malattie del Metabolismo e Dietetica Clinica, Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna S. Orsola-Malpighi, Bologna

DOI: 10.30682/ildia1803d

[protected]

>Scarica l’articolo in formato PDF

Migrazione, migranti e sistemi sanitari

La migrazione è un fenomeno antico, che risale ai tempi dei nostri antenati africani e si verifica su più livelli (intercontinentali, intra-continentali e interregionali). All’inizio del XIX secolo, i migranti erano per lo più rappresentati da contadini, braccianti, operai e rifugiati ma in tempi più recenti le persone appartenenti alla classe colta e benestante hanno iniziato a migrare verso i paesi sviluppati a causa della globalizzazione industriale e della presenza di maggiori opportunità offerte da economie di mercato sempre più aperte, favorite dalla rivoluzione di Internet. Queste due serie di fattori, “fattori di spinta” dai paesi nativi (scarsità di cibo, guerre civili, terrorismo) e “fattori di attrazione” nei paesi ospitanti (boom economico, opportunità di lavoro, benessere) rimangono alla base della migrazione.

Un’immigrazione massiccia ha generato una serie di problemi clinico-amministrativi per i sistemi sanitari nazionali di tutto il mondo, a partire dai sistemi universalistici. È il caso delle cosiddette malattie croniche non trasmissibili (NCDs), come il diabete (DM), particolarmente onerose a causa dell’elevata incidenza, del costo delle misure di prevenzione e di trattamento sia della patologia primaria, sia delle complicanze croniche ad essa legate.

Una visione globale

Su scala mondiale, il numero totale di migranti per motivi economici supera i 200 milioni (Fig. 1); seppur rallentato dalla recente fase di recessione – escludendo i rifugiati richiedenti asilo –, il flusso migratorio permane costante in Europa e in crescita in Asia, ove si prevede che la Cina diventerà il principale polo di attrazione dello scenario migratorio. Solo circa il 10% -15% dei migranti provenienti da tutto il mondo si trova in una situazione irregolare: la maggior parte è entrata in modo legale ma rimane più a lungo rispetto ai termini di legge previsti (permessi di soggiorno o residenza)

A gennaio 2014, il numero di migranti per ragioni economiche nei 28 paesi dell’Unione europea (UE) ammontava a 19,6 milioni, pari al 3,9% della popolazione. In termini assoluti, i tassi più elevati si riscontrano in Germania (7,0 milioni di persone), nel Regno Unito (5,0 milioni), in Italia (4,9 milioni), in Spagna (4,7 milioni) e in Francia (4,2 milioni), quota complessivamente pari al 76% del totale. A tali dati va aggiunto un numero imprecisato di migranti privi di documenti, pari a circa il 4% della popolazione, in costante aumento a causa della massiccia migrazione di rifugiati richiedenti asilo dalle aree di conflitto in Medio Oriente e Nord Africa (176.000 ospitati in strutture di accoglienza in Italia nel 2016). Alcuni paesi dell’UE affrontano per la prima volta il problema dell’immigrazione e della gestione di una popolazione sempre più multietnica.

In Italia i migranti sono stati a lungo un problema trascurabile; nel 1991, per la prima volta il numero di stranieri ha superato l’1% della popolazione totale italiana e da allora è costantemente aumentato fino a raggiungere l’8,3% del totale alla fine del 2016 (1).   

Anche la migrazione verso gli Stati Uniti è aumentata dal 1945 ed in particolare nel corso degli ultimi 20 anni: entro il 2050, quasi 1 su 5 residenti negli Stati Uniti risulterà immigrato, rispetto a 1 su 8 del 2005 (2).

L’immigrazione rimane un fenomeno complesso da studiare: la maggior parte delle statistiche in merito si basa su concetti e stime che non sono rappresentative di buona parte delle dinamiche dei flussi migratori odierni. È quasi impossibile stabilire la reale dimensione dei flussi e dello status a breve termine di immigrato, nonché valutare adeguatamente l’estensione della migrazione esplosa attraverso le rotte del Mar Mediterraneo.

In Italia sono stati sviluppati documenti di consensus tra le diverse Società scientifiche per giungere ad un più accurato studio del fenomeno migratorio e dei suoi riflessi sulla sanità della popolazione, ma rimane difficile passare a programmi concreti di supporto sanitario ai migranti, a cause delle differenze culturali e delle barriere linguistiche (3), che rendono difficile l’approccio educativo e la terapia medico-nutrizionale (4).

Le malattie croniche non trasmissibili nei migranti

Per descrivere l’insorgenza delle malattie non trasmissibili in relazione alla migrazione possono essere utilizzate diverse fonti di dati, come paese di nascita, etnia dichiarata o caratteristiche più specifiche, quali la lingua e l’appartenenza religiosa (5). L’essenza del concetto di etnia implica origini o ambiente sociale comuni, cultura e costumi definiti e un linguaggio e/o un patrimonio religioso condivisi, ma le misure surrogate sono difficili da definire. Il Paese di nascita è un indice grezzo, che diventa una misura vaga in funzione del tempo trascorso dalla migrazione (6). La nazionalità o la cittadinanza rappresentano anch’essi indici critici in quanto gli immigrati possono acquisire nazionalità e cittadinanza del paese ospitante, ma appartenere a gruppi etnici con abitudini, religione e culture differenti. Senza un consenso generale circa la definizione di etnia e di migrante, permane difficile individuare i fattori alla base della prevalenza delle malattie croniche non trasmissibili e del diabete. La relazione tra stato migratorio e malattia può essere influenzata da geni, esposizione nella vita pre-migrazione, povertà, condizioni igienico-sanitarie precarie, abitudini alimentari, malattie infettive, pratiche culturali radicate conservate in età adulta, esposizione nella vita post-migrazione, così come qualità dell’assistenza sanitaria e accesso ai servizi sanitari nei paesi di destinazione (Fig. 2).

Prevalenza del diabete nei migranti rispetto alle popolazioni native

Con poche eccezioni, l’incidenza, la prevalenza e il tasso di mortalità per diabete in Europa risultano superiori nei migranti rispetto alle popolazioni locali. Nei Paesi Bassi, ove è sempre stato attivo un osservatorio specifico per i problemi sanitari dei migranti, il diabete è più comune (di un fattore 2) tra i principali gruppi di immigrati, provenienti da Turchia, Marocco, Suriname o Antille. Differenze ancora maggiori si osservano nella mortalità correlata al diabete, con tassi rispettivamente 3 e 4 volte più elevati tra uomini e donne immigrati, rispetto alla popolazione indigena (7).

Nel Regno Unito, la prevalenza del diabete mellito tra i migranti di origine dal subcontinente indiano oscilla intorno al 20%, ovvero circa cinque volte superiore alla popolazione locale europea. Inoltre, l’età di esordio del diabete è di 5-10 anni più precoce, le complicanze croniche più comuni (8) e l’incidenza standardizzata per età tre volte più elevata (9).

In una coorte di circa 60.000 abitanti di Amsterdam costituita da residenti stranieri, rappresentativi di 5 gruppi di immigrati, e popolazione locale, i pazienti con diabete provenienti dall’Asia, dal Medio Oriente e dall’Africa subsahariana presentavano un rischio particolarmente elevato di complicanze microvascolari, cioè retinopatia diabetica, nefropatia e neuropatia periferica rispetto alle popolazioni occidentali ed altri dati indicano anche una maggiore prevalenza di retinopatia ingravescente e maculopatia. In sette paesi europei, la mortalità per diabete di 30 gruppi di migranti risultava molto più elevata rispetto ai residenti nativi (quasi il 90% in più per i maschi e il 120% in più per la popolazione femminile) (10).

In Italia, la prevalenza del diabete nei migranti è decisamente inferiore rispetto alla popolazione generale, ma solo il 15% di essi ha più di 50 anni, contro il 43% della popolazione italiana, ed il rischio complessivo di diabete nei migranti, aggiustato per età e sesso è aumentato del 50% (OR, 1.55; IC 95%: 1.50-1.60) (11). Il rischio varia tra i gruppi etnici: la probabilità di essere trattati con un farmaco ipoglicemizzante è quattro volte più elevata nelle persone provenienti dall’Egitto e dal subcontinente indiano, mentre è bassa negli immigrati degli ex paesi socialisti orientali ed in linea con la prevalenza del diabete nei paesi di origine.

Queste differenze sono certamente attribuibili anche ad un background genetico. Tuttavia, i pochi studi che prendono in considerazione fattori socioeconomici e la qualità nella cura del diabete mostrano un minor peso del ruolo delle differenze etniche nei tassi di complicanze della malattia che potrebbero dunque dipendere dal mancato raggiungimento degli obiettivi del trattamento e/o da misure di prevenzione meno rigorose (12).

Dati particolarmente significativi sono raccolti negli Stati Uniti, Paese multietnico ove convivono soggetti con differenze di etnia, religione, origine. Tra gli immigrati negli Stati Uniti, si osserva una sostanziale eterogeneità per regione di nascita nella prevalenza sia del diabete sia del sovrappeso, con tassi di diabete che vanno dal 3.1% nei soggetti provenienti dall’Europa al 10.0% degli immigrati dal subcontinente indiano. La maggior parte dei migranti è nata in Messico (48%), e presentano una maggiore prevalenza di diabete e sovrappeso rispetto ai migranti provenienti dal Sud America, generalmente considerati etnia ispanica. La popolazione nera (senza alcuna distinzione per lo status di immigrati) presenta tassi di diabete più elevati rispetto ai bianchi, forse in rapporto ad una più alta insulino-resistenza, pur in presenza di livelli di adiposità simili a quelli dei bianchi, in particolare negli uomini (13).

Prevalenza di NCDs rispetto ai paesi di origine

Quando la prevalenza del diabete nei migranti è confrontata con quella nel Paese di origine, si dovrebbero tenere in considerazione gli indicatori generali di sviluppo socioeconomico per quanto riguarda la possibilità di sviluppare diabete. Più basso è lo stato socio-economico nel Paese di origine, maggiore è il rischio di diventare obesi nel Paese ospitante. Questo spiega perché, rispetto alle popolazioni native europee, i tassi di mortalità per diabete raggiungano +200% più alti tra i migranti provenienti da Paesi a basso reddito rispetto ad un +100% tra quelli provenienti da Paesi a reddito medio (14). L’elevata mortalità per diabete dei migranti sembra essere associata al movimento da una zona rurale povera, in età precoce, verso un ambiente urbano obesogenico in età avanzata, con alcune eccezioni (10). Tra queste va considerata la possibilità che anche nel Paese di origine si possano sviluppare tendenze obesogeniche e diabetogeniche, come è attualmente per l’India e la Cina, mentre i migranti potrebbero adottare abitudini di vita più sane, sia nelle scelte alimentari che nell’esercizio fisico, mutuandole dai Paesi di nuova residenza, riducendo il rischio di insorgenza di diabete di tipo 2 e modificando così la relazione esistente tra migrazione e rischio di NCDs (15).

Un altro modo di analizzare il ruolo del paese di origine è quello di confrontare i migranti che provengono dallo stesso Paese e che ora vivono in Paesi diversi, e questa modalità è oggetto di studi trasversali in corso. Dovrebbero comunque essere considerati anche fattori genetici per determinare la prevalenza di NCDs nei migranti, rispetto alle popolazioni native. Gli studi genetici hanno confermato il ruolo dell’etnia nella maggiore prevalenza del diabete nelle persone provenienti dall’Asia meridionale (16), mentre l’ambiente obesogenico del paese d’immigrazione fa la differenza tra prevalenza di NCDs nei migranti rispetto al Paese di origine.

La “disease convergence”

A lungo termine, il rischio di diabete nei migranti dovrebbe convergere verso i livelli delle popolazioni nate localmente. Le attuali differenze in termini di prevalenza possono dipendere dall’effetto “migrante sano”, per cui la migrazione è un processo selettivo a favore di individui sani, cui consegue una bassa incidenza di malattie tra i migranti nel primo periodo successivo al loro arrivo nei paesi ospitanti (17). Ad esempio, nel 2013, l’età media della popolazione con cittadinanza europea nell’UE-28 era di 43 anni, contro i 35 anni dei residenti con cittadinanza extraeuropea. Questo effetto protettivo è presente anche in altre NCDs, ma col passare del tempo potrebbe ridursi.

La convergenza può anche essere favorita dalla progressiva integrazione dei migranti nelle società e nelle abitudini dei paesi ospitanti e dunque dall’esposizione agli stessi fattori di rischio ambientale delle popolazioni locali. Studi “periodici” (che confrontano cioè periodi di tempo diversi) (18) e studi di “coorte” (su coorti di migranti diverse in termini di grado culturale) hanno sostenuto l’ipotesi della convergenza: il rischio di cancro è risultato approssimare quello delle popolazioni indigene tra le persone con un periodo di migrazione più lungo, cioè della seconda generazione e, all’interno della prima generazione, tra le persone che erano emigrate durante l’infanzia. Tuttavia, la convergenza richiede molto tempo, più di 20 anni in alcuni studi (19). La convergenza viene peraltro messa a rischio dal “salmon bias”, ovvero la tendenza degli individui malati a fare ritorno nel loro Paese d’origine prima della morte, che rende imprecisa la mortalità associata alle NCDs nei migranti e conduce ad una sottostima del problema sanitario (17).

Rischio, storia naturale e cura del diabete nei migranti

La predisposizione a sviluppare insulino-resistenza e obesità centrale, l’esposizione a un particolare ambiente intrauterino e persino l’imprinting biologico, aumentano il rischio di diabete, così come la sua progressione, nelle popolazioni migranti, spesso alimentato da differenze negli standard di cura (20). Molti migranti si trovano in condizioni di povertà nei propri Paesi di origine e il loro organismo è stato “programmato” per affrontare la fame e la malnutrizione. Il risultato è che una volta esposti all’ambiente obesiogeno del Paese di immigrazione (dieta ad alto contenuto di grassi e stile di vita sedentario), sono particolarmente inclini a immagazzinare riserve energetiche e quindi a guadagnare peso. Uno studio trasversale in una grande coorte di migranti dalle Filippine residenti a Roma ha registrato un’obesità addominale nel 52.5% e un’alta prevalenza di diabete di tipo 2 non diagnosticato e ipertensione (21). Si è evidenziata una significativa correlazione diretta tra numero di anni di residenza in Italia e il cambiamento nell’assunzione di cibo (p=0.001) e nell’aumento di peso (p<0.001), suggerendo un impatto diretto dello stile di vita.

Possono anche essere coinvolti i cosiddetti determinanti sociali di salute (cioè basso status socio-economico, separazione dalla famiglia, sentimenti anti-migratori nella comunità di accoglienza, credenze tradizionali che influenzano il comportamento nella gestione della salute, mancanza di legislazione per garantire ai migranti “accesso a servizi sanitari e sociali, politiche efficaci per proteggere i diritti e il benessere dei lavoratori stranieri”. Questo problema è particolarmente acuto nei sistemi sanitari di tipo assicurativo, ma uno scarso accesso ai servizi sanitari si osserva anche nei sistemi di assistenza universalistica, che dovrebbero garantire equità ed uguaglianza.

L’integrazione della popolazione migrante nel sistema sanitario del Paese ospitante sta diventando una questione chiave nei Paesi sviluppati che annualmente accolgono quote significative di stranieri. Indipendentemente dal sistema sanitario, diversi rapporti hanno dimostrato che i migranti sono sotto-trattati rispetto alla popolazione nativa (22). Questo fatto è probabilmente correlato ad un insufficiente accesso alle cure primarie o ai servizi sanitari preventivi, a causa di barriere personali (vincoli di lavoro e di tempo) o condizioni socio-culturali, e non solo a specifici difetti del sistema sanitario. In uno studio olandese che ha considerato nativi e vari gruppi di immigrati di oltre 55 anni, le differenze nella prescrizione di farmaci sono state spiegate dal modello comportamentale di Andersen (23), basato su tre fattori individuali di gestione dell’assistenza sanitaria: i) necessità (condizioni croniche autorizzate); ii) condizioni abilitanti (livello di istruzione, reddito familiare standardizzato); e iii) fattori predisponenti (conoscenza della lingua olandese, attitudini sulla cura della famiglia, ruolo uomo-donna, valori familiari, religione). Le differenze nell’interazione verbale dei medici olandesi con pazienti immigrati vs. olandesi sono state dimostrate mediante registrazione video: le consultazioni con pazienti immigrati erano più brevi di 2 minuti, con importanti differenze nel rapporto verbale e minore grado di empatia (24). Nel diabete, l’abilità linguistica e le attitudini moderne sul ruolo uomo-donna sono state associate a variazione nell’uso di farmaci anti-iperglicemici, specialmente in pazienti anziani, in cui le disuguaglianze potrebbero essere amplificate da componenti comportamentali (fumo, inattività, alcol consumo) (25).

L’attività fisica nel tempo libero è decisamente inferiore nei migranti, ma la quantità di calorie impiegate sul lavoro, a causa del più frequente impiego in attività manuali, potrebbe essere considerevolmente più alta. Una revisione sistematica condotta nel Regno Unito, su una popolazione di migranti dall’Asia meridionale, ha riportato che tutti i gruppi considerati presentavano uno stile di vita più sedentario rispetto ai loro omologhi europei (26). Tuttavia, l’elevata variabilità e numerosità di diverse minoranze di migranti che si spostano in tutto il mondo rendono difficile trarre considerazioni conclusive.

Le disuguaglianze nell’assistenza sanitaria dei migranti non si limitano ai gruppi dei soggetti affetti da diabete, ma si estendono a tutti i campi dell’assistenza sanitaria, della prevenzione oncologica, alla prevenzione secondaria dopo cardiopatia ischemica, ma anche in questo caso, l’etnia può fare la differenza. Lungi dall’essere fonte di risparmio per i sistemi sanitari, il sottoutilizzo di farmaci e dei servizi di assistenza primaria in specifici gruppi etnici può produrre un più ampio uso dei servizi di emergenza e più elevati tassi di ospedalizzazione a causa della progressione della malattia e delle complicanze, che potrebbero tradursi in costi più elevati (27).

Il contesto italiano

Non molti dati sono disponibili sulla prevalenza e sul trattamento del diabete nei migranti in Italia. Alcuni dati in gruppi specifici di immigrati (e.g., gli immigrati cinesi residenti nell’area di Prato) suggeriscono che in generale vi sia un aumento della prevalenza, un forte numero di soggetti non diagnosticati, ed un insufficiente trattamento nei soggetti diagnosticati (28).

Alle differenze nell’uso di farmaci e nei costi diretti del diabete farmaco-trattato tra migranti e cittadini italiani è stata dedicata attenzione nell’Osservatorio multiregionale ARNO, una banca dati contenente le prescrizioni e le ammissioni ospedaliere di una popolazione di circa 10 milioni di residenti italiani, residenti in 30 distretti sanitari sparsi in tutto il paese (11). Secondo la normativa italiana, la diagnosi di diabete garantisce il libero accesso a farmaci, procedure diagnostiche e ospedalizzazione a persone residenti in Italia, indipendentemente dalla loro cittadinanza. Tutti i dati di prescrizione di farmaci o i registri di ammissione ospedaliera contengono un codice che include la data e il luogo di nascita. Per le persone nate fuori dall’Italia, il codice della città è sostituito dal codice del paese, permettendone così un’identificazione univoca.

Sulla base di questi criteri, nella popolazione aggregata di ARNO i migranti di prima e seconda generazione sono stati classificati in base al paese di nascita e alla cittadinanza. Tutti i pazienti che hanno ricevuto almeno una prescrizione di farmaci antidiabetici, sia agenti orali o insulina (sistema di classificazione chimica terapeutica anatomica, codice A10A e A10B, rispettivamente) durante il 2010 sono stati considerati affetti da diabete. La probabilità di diagnosi di diabete tra migranti vs. italiani è stata testata utilizzando un disegno di studio caso-controllo, con un migrante abbinato a un soggetto italiano per i principali fattori confondenti (età, sesso e luogo di residenza). Infine, i migranti con diabete sono stati abbinati individualmente per i confondenti agli italiani con diabete per confrontare prescrizioni, tassi di ospedalizzazione, uso dei servizi e costi diretti per il Sistema Sanitario Nazionale.

I migranti con diabete mediamente erano di 15 anni più giovani rispetto alle persone con diabete di origine italiana, espressione di una precoce insorgenza della malattia confermata in altre analisi (29). Quasi tutti i farmaci, ipoglicemizzanti e non, erano sottoutilizzati nei migranti con diabete, con la notevole eccezione degli agenti antinfiammatori non steroidei, il cui uso aumentato nei migranti potrebbe essere correlato a un lavoro manuale e traumatico più intenso (Fig. 3).

I migranti ricevevano un diverso schema di trattamento ipoglicemizzante, con prescrizioni di farmaci orali del 44% più elevate e di insulina inferiori del 19%, e tra le insuline venivano utilizzate molecole diverse da quanto prescritto ai soggetti italiani (30). Anche i farmaci ipolipemizzanti e antitrombotici erano sottoutilizzati del 15-20%. Il costo totale dell’assistenza sanitaria risultava inferiore del 27% nei migranti, a causa di una minor spesa per farmaci (-29%), per ricoveri ospedalieri (-27%) e per servizi sanitari (visite, esami e diagnostica per immagini, -22%) (30). Al contrario, l’ospedalizzazione dovuta al diabete per sé era aumentata del 60% nei migranti (30), ove si realizzano ricoveri impropri, conseguenza del sotto-trattamento, con una degenza più prolungata nei migranti.

Il dato italiano si pone in contrasto con un rapporto della London School of Economics, che ha rilevato come la degenza ospedaliera tra la popolazione immigrata sia significativamente più breve in Europa dopo aggiustamento per età, indice di diverso case mix e gravità della malattia, suggerendo peraltro una disparità di trattamento per uguali bisogni (31). Un’analisi trasversale dell’uso del servizio sanitario tra immigrati anziani e popolazioni autoctone di 11 paesi europei ha registrato tra i primi una sovrautilizzazione della degenza ospedaliera e delle consulenze in diversi paesi, non in Italia, a causa delle difficoltà nell’integrazione dei migranti, sia per la natura recente dell’immigrazione sia per motivi culturali (32).

Non sono disponibili dati globali sulla presenza di migranti nei Dipartimenti di Emergenza non seguiti dal ricovero ospedaliero, una procedura non tracciata dal Sistema Sanitario Italiano. I pochi dati disponibili si riferiscono al diabete tipo 1, e mettono in evidenza una più alta frequenza di ricoveri ospedalieri nel corso del primo anno dopo la diagnosi nei pazienti originari di altre etnie, peraltro in gran parte nati in Italia (19.2 vs. 2.7%, p<0.001) vs. pazienti di etnia italiana (33). Non si può escludere un eccessivo ricorso ai servizi di emergenza, alimentato dalle disuguaglianze socio-economiche, per fornire assistenza immediata a condizioni meno complicate. Un unico studio, riferito ai migranti residenti nella Regione Lazio nell’anno 2000, ha mostrato che gli immigrati adulti hanno generalmente una minore frequenza di ospedalizzazione della popolazione residente (134.6 vs. 160.5 per 1000 soggetti/anno per malattie acute, 26.4 vs. 38.3 in day-hospital) (34). Peraltro, le percentuali di ospedalizzazione erano maggiori nei migranti per alcune cause specifiche (in particolare traumi negli uomini, aborto e parto nelle donne).

Resta da definire quale sia il compenso glicemico raggiunto nella popolazione migrante con diabete, dato non desumibile dal rapporto ARNO. Dati dall’ASL di Reggio Emilia, peraltro vecchi di alcuni anni, nei quali sono stati messi a confronto la qualità della cura tra immigrati e popolazione di origine Italiana, hanno confermato l’aumento della prevalenza del diabete, sia nei maschi, sia nelle femmine, in particolare per le popolazioni immigrate dal Nord-Africa e dal sub-continente indiano (35). La percentuale di casi seguita regolarmente dai Centri specialistici era simile tra migranti e popolazione autoctona, ma la probabilità di non avere alcuna valutazione dell’Hb glicata era più alta nei migranti (OR: 1.51; 95% CI: 1.34-1.71), così come era più elevata la probabilità di avere valori di Hb glicata ≥9% (OR: 2.06; 95% CI: 1.80-3.14), particolarmente nel sesso femminile. Questi dati trovano conferma nel diabete tipo 1 (33) e sottolineano le difficoltà di intercettare correttamente i bisogni della popolazione immigrata per quanto riguarda le NCDs, in particolare il diabete.

Gestione del diabete nel periodo di Ramadan

Fra tutte le problematiche relative al diabete nella popolazione migrante, la gestione della malattia nel periodo di Ramadan costituisce un problema particolare, di grande importanza per la necessità di adeguare la terapia alla totale modificazione delle abitudini alimentari. Questa problematica è stata oggetto di uno specifico documento della Società Italiana di Diabetologia, cui si rimanda per completezza (36). La gestione del Ramadan ovviamente si applica anche alla popolazione Italiana di religione musulmana, ma è solo a seguito dei forti flussi migratori che il problema ha cominciato a porsi in modo significativo. Il progressivo costituirsi di una popolazione musulmana residente in Italia è infatti strettamente collegato al fenomeno delle migrazioni. Non esistono stime precise sul numero di musulmani presenti in Italia; le statistiche disponibili si basano sulla nazionalità di provenienza degli intervistati, che poi viene associata ad uno specifico contesto socio-culturale. Secondo le più recenti stime gli stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2016 di religione musulmana sono poco più di 1,4 milioni, meno di un terzo del totale degli stranieri (2.3% dell’intera popolazione italiana, ma salirà al 5% nel 2030 e al 10% nel 2050), con forti differenze regionali.

Il Ramadan si caratterizza per un digiuno che inizia con la preghiera dell’alba e termina con la preghiera del tramonto. In Italia, questo intervallo può essere notevolmente più lungo di quanto avvenga nei Paesi musulmani, aumentando il rischio di eventi avversi nelle persone con diabete, anche in rapporto a ritmi di vita ben diversi rispetto ai Paesi medio-orientali.

Rischi per le persone con diabete durante il Ramadan

Mentre per le persone con diabete di tipo 2 (DM2) con stile di vita adeguato, il digiuno non dovrebbe presentare gravi rischi, per quelle con diabete di tipo 1 (DM1) e DM2 in terapia insulinica, potrebbe essere pericoloso (37-38), a causa dell’ipoglicemia (più probabile nell’ultimo periodo di digiuno quotidiano), la disidratazione (con possibile trombosi, più probabile nei climi caldi) e scompenso glicemico (sino alla chetoacidosi). Per questo motivo, esistono varie condizioni per le quali il digiuno può non essere attuato o essere interrotto (iper e ipoglicemia, particolarmente, anche in considerazione del tipo di trattamento), ma non sempre i pazienti sono disponibili a non praticare il Ramadan. Per questo rimane essenziale il monitoraggio glicemico da eseguirsi più volte al giorno in funzione del tipo di diabete e di trattamento.

Stratificazione del rischio

Un appropriato e consapevole comportamento durante il periodo di Ramadan può tradursi in benefici duraturi per i soggetti portatori di DM: il miglioramento dello stile di vita, facilitando la riduzione ponderale (se presente), può potenziare l’alleanza terapeutica medico-paziente finalizzata al miglioramento del controllo metabolico. Pertanto, al fine di quantificare i rischi correlati al periodo di Ramadan, è opportuno conoscere il tipo di DM, i farmaci in uso, la presenza di complicanze e comorbilità, la capacità di percezione dell’ipoglicemia, le condizioni sociali e lavorative, le esperienze ed i vissuti personali durante precedenti periodi di Ramadan. Purtroppo la gestione del DM durante il Ramadan si basa più su opinioni di esperti che su evidenze derivanti da studi clinici randomizzati e controllati.

Nel 2005, l’ADA ha pubblicato le raccomandazioni per la gestione del DM durante il Ramadan, stratificando i pazienti in 4 categorie nell’aggiornamento del 2010. Poiché la stratificazione non era ben applicata dagli operatori sanitari, IDF e IDF-DAR (IDF-Diabetes and Ramadan International Alliance) hanno proposto una nuova categorizzazione del rischio durante il Ramadan. Le Autorità religiose dell’Islam, approvando tale iniziativa, hanno ulteriormente indicato il comportamento che il Musulmano con diabete dovrebbe tenere durante il Ramadan (Tab. 1).

Se i pazienti delle prime 2 categorie decidessero comunque di digiunare, la loro decisione deve essere rispettata. In tal caso il personale sanitario di un team diabetologico esperto deve chiarire i rischi del digiuno e le modalità per evitarli. Il rischio può variare nel tempo, in relazione al grado di controllo metabolico o alla variazione della terapia farmacologica.

Importanza dell’educazione nel periodo di Ramadan

Studi clinici hanno dimostrato i benefici ottenibili da una educazione focalizzata sul periodo del Ramadan in termini di controllo glicemico, riduzione del peso corporeo e diminuzione degli eventi ipoglicemici (39). Tali benefici possono perdurare ben oltre il mese di digiuno, influenzando positivamente il controllo metabolico dei soggetti Musulmani portatori di DM. Lo Studio EPIDIAR ha dimostrato che solo 2/3 dei pazienti, ricevono consigli mirati dagli operatori sanitari sulla gestione del diabete durante il Ramadan. È invece fondamentale che il paziente riceva adeguate informazioni sui rischi del digiuno, sulla necessità di monitorare la glicemia capillare (rassicurando i soggetti Musulmani portatori di DM che tale attività non interrompe il digiuno), sull’attività fisica, sulla terapia nutrizionale così come sul trattamento farmacologico.

Per raggiungere questo obiettivo si raccomanda un programma educazionale pre-Ramadan, a partire dal personale sanitario, soprattutto nei paesi in cui l’Islam è una religione minoritaria, poiché spesso mancano sia la conoscenza sia l’esperienza sufficiente per accompagnare il paziente durante questo periodo così delicato. È opportuno che le persone siano messe nelle condizioni di fare scelte informate e consapevoli, pertanto si consiglia di coinvolgere nel percorso educativo anche le guide spirituali per informare i pazienti che hanno la possibilità di evitare il digiuno in quanto esentate per la loro condizione e della possibilità di recuperare donando denaro o cibo ai bisognosi.

Terapia Medico-Nutrizionale

In corso di Ramadan alcune criticità possono essere causa di iperglicemie postprandiali e aumento di peso, come rilevato dallo Studio EPIDIAR. I fattori importanti si riassumono in:

  • pasti ipercalorici al tramonto (pasto di iftar);
  • elevate porzioni di cibo ad alto indice glicemico;
  • cibi fritti con oli ricchi in acidi grassi saturi e trans (margarine, olio di palma o cocco);
  • assunzione di cibo in modo vorace, nel periodo intercorrente l’inizio del pasto e la percezione del segnale di sazietà (30 minuti);
  • spuntini ricchi in carboidrati raffinati nel periodo che va dal tramonto all’alba;
  • modifiche dello stile di vita con riduzione dell’attività fisica e delle ore di sonno.

Può essere invece causa d’ipoglicemia l’abitudine di consumare il pasto dell’alba (suhoor) molto in anticipo, prolungando il periodo del digiuno fino al tramonto.

Secondo le linee guida 2010 dell’American Diabetes Association (ADA) sulla gestione del diabete durante il Ramadan l’approccio deve essere personalizzato in base ai bisogni e ai target metabolici del singolo individuo, sempre nel rispetto delle credenze, tradizioni e preferenze alimentari della persona; in ogni caso si consiglia di consultarsi con la propria guida spirituale e il personale sanitario per valutarne la fattibilità.

Le Linee guida IDF-DAR 2016, raccomandano una valutazione nutrizionale ed educazionale del paziente, circa 6-8 settimane prima di intraprendere il digiuno, per stabilirne i bisogni formativi e metabolici, per metterlo nelle condizioni di vivere questo periodo in modo consapevole e assumere comportamenti atti a minimizzare i rischi. La visita pre-Ramadan deve fornire al paziente un piano nutrizionale idoneo a migliorare il controllo glicemico anche nel periodo che precede il digiuno. A tal fine è stato ideato un programma per smartphone e web, il “Ramadan Nutrition Plan” (RNP), per permettere agli operatori sanitari di fare interventi educazionali e fornire consigli nutrizionali ai pazienti, che possono accedervi mediante una piattaforma dedicata. Questo programma sarà presto attivo per tutti i paesi in cui si celebra il Ramadan (38).

È opportuno frazionare il contenuto energetico totale giornaliero tra i due pasti, iftar e suhoor, più uno o due spuntini se necessari, con una ripartizione bilanciata dei macronutrienti, soprattutto carboidrati a lento assorbimento, che aumentano il senso di sazietà e aiutano a stabilizzare le glicemie. Si consiglia di consumare circa il 40-50% dell’apporto calorico giornaliero al tramonto, 30-40% all’alba, 10-20% agli spuntini.

È opportuno però porre attenzione alla quantità di esercizio fisico svolto, per non incorrere in ipoglicemie e a tal fine si raccomanda un programma personalizzato che consideri le preghiere notturne come parte integrante delle attività giornaliere (37).

La gestione della terapia farmacologica

Dopo una stratificazione personalizzata del rischio, e dopo una adeguata educazione, i sanitari devono tener presente le caratteristiche dei farmaci assunti dai pazienti che desiderano digiunare durante il Ramadan, al fine di concordare eventuali modifiche terapeutiche, come riportato in tabella 2.

Per quanto riguarda i farmaci insulino-sensibilizzanti, non sono riportati problemi legati al Ramadan, mentre il rischio di ipoglicemia deve essere considerato con l’uso di sulfoniluree (in particolare glibenclamide). La breve emivita plasmatica di repaglinide potrebbe giustificarne un suo utilizzo, ma altri autori preferiscono l’utilizzo di glimepiride o gliclazide. Su quest’ultimo farmaco non vi sono dati relativi alla formulazione a lento rilascio.

I DPP4-inibitori sono ben tollerati, e vi sono esperienze d’utilizzo, anche con switch da sulfoniluree a DPP4-inibitori prima del Ramadan. Anche i GLP-1RA sono risultati farmaci sicuri, a patto di titolare bene la dose prima dell’inizio del Ramadan (iniziando 6 settimane prima). Mancano ancora dati sulle molecole a lento rilascio (settimanali). Meno studiati (e più problematici) possono essere gli SGLT2-inibitori, per il rischio di ipotensione e disidratazione nei Paesi più caldi.

Per quanto riguarda la terapia insulinica, gli schemi vanno sistematicamente adattati alle modificazione dei tempi e quantità dell’alimentazione e deve essere previsto un intenso counseling pre-Ramadan per affrontare questo periodo in sicurezza. In generale, vanno usati gli analoghi rapidi prandiali al suhoor (a dose ridotta) e all’iftar (in dose generalmente più abbondante). Gli analoghi basali (al suhoor) vanno mantenuti.

Conclusioni

Il peso crescente delle malattie croniche, in particolare del diabete, nelle minoranze migranti ed etniche rappresenta una seria sfida per la salute pubblica per molti Paesi europei, alimentata anche dalla crisi economica, dalle disuguaglianze sociali, dal terrorismo e dalle guerre. Il flusso migratorio non dovrebbe rallentare nei prossimi anni e genererà un costo economico crescente per il Sistema Sanitario di tutti i Paesi, anche nei sistemi universalistici, che pur dovrebbero garantire equità di accesso alle cure.

Le difficoltà vanno ricercate in molteplici settori, non solo nel sistema sanitario. Senza una efficace integrazione dei migranti, un superamento delle barriere linguistiche da parte dei sanitari, sia di medicina generale sia specialisti, e culturali da parte dei pazienti sarà sempre più difficile garantire equità. Stato socioeconomico scadente e barriere generate dall’attuale cultura della biomedicina fanno la differenza tra i pazienti, mentre da parte dei medici vi è la necessità di un diverso approccio che favorisca programmi di screening e trattamento, per adattare i programmi educativi alle diverse culture e sviluppare partnership comunitarie.

BIBLIOGRAFIA

  1. ISTAT. Bilancio demografico nazionale 2016. Roma, 2017.
  2. Passel JS, Cohm D. US Population Projections: 2005-2050. Washington, DC: Pew Research Center, 2008.
  3. Modesti PA, Bianchi S, Borghi C, Cameli M, Capasso G, Ceriello A, Ciccone MM, Germano G, Maiello M, Muiesan ML, Novo S, Padeletti L, Palmiero P, Pillon S, Rotella CM, Saba PS, Scicchitano P, Trimarco B, Volpe M, Pedrinelli R, Di Biase M. Cardiovascular health in migrants: current status and issues for prevention. A collaborative multidisciplinary task force report. J Cardiovasc Med (Hagerstown) 15: 683-92, 2014.
  4. Ballotari P, Ferrari F, Ballini L, Chiarenza A, Manicardi V, Giorgi Rossi P. Lifestyle-tailored interventions for South Asians with type 2 diabetes living in high-income countries: a systematic review. Acta Diabetol 54: 785-94, 2017.
  5. Stronks K, Kunst AE. The complex interrelationship between ethnic and socio-economic inequalities in health. J Public Health (Oxf) 31: 324-5, 2009.
  6. Gill PS, Bhopal R, Wild S, Kai J. Limitations and potential of country of birth as proxy for ethnic group. BMJ 330: 196, 2005.
  7. Stirbu I, Kunst AE, Bos V, Mackenbach JP. Differences in avoidable mortality between migrants and the native Dutch in The Netherlands. BMC Public Health 6: 78, 2006.
  8. Gholap N, Davies M, Patel K, Sattar N, Khunti K. Type 2 diabetes and cardiovascular disease in South Asians. Prim Care Diabetes 5: 45-56, 2011.
  9. Tillin T, Hughes AD, Godsland IF, Whincup P, Forouhi NG, Welsh P, Sattar N, McKeigue PM, Chaturvedi N. Insulin resistance and truncal obesity as important determinants of the greater incidence of diabetes in Indian Asians and African Caribbeans compared with Europeans: the Southall And Brent REvisited (SABRE) cohort. Diabetes Care 36: 383-93, 2013.
  10. Vandenheede H, Willaert D, De Grande H, Simoens S, Vanroelen C. Mortality in adult immigrants in the 2000s in Belgium: a test of the ‘healthy-migrant’ and the ‘migration-as-rapid-health-transition’ hypotheses. Trop Med Int Health 20: 1832-45, 2015.
  11. CINECA. Osservatorio ARNO Diabete: il profilo assistenziale della popolazione con diabete. Bologna: Centauro Srl – Edizioni Scientifiche 2011.
  12. Davis TM, Coleman RL, Holman RR, UKPDS Group. Ethnicity and long-term vascular outcomes in Type 2 diabetes: a prospective observational study (UKPDS 83). Diabet Med 31: 200-7, 2014.
  13. Department of Health and Human Services, Centers for Disease Control and Prevention. National Diabetes Fact Sheet 2007.
  14. Vandenheede H, Deboosere P, Stirbu I, Agyemang CO, Harding S, Juel K, Rafnsson SB, Regidor E, Rey G, Rosato M, Mackenbach JP, Kunst AE. Migrant mortality from diabetes mellitus across Europe: the importance of socio-economic change. Eur J Epidemiol 27: 109-17, 2012.
  15. Venkatesh S, Weatherspoon LJ, Kaplowitz SA, Song WO. Acculturation and glycemic control of Asian Indian adults with type 2 diabetes. J Community Health 38: 78-85, 2013.
  16. Mahajan A, Go MJ, Zhang W, et al. Genome-wide trans-ancestry meta-analysis provides insight into the genetic architecture of type 2 diabetes susceptibility. Nat Genet 46: 234-44, 2014.
  17. Razum O. Commentary: of salmon and time travellers–musing on the mystery of migrant mortality. Int J Epidemiol 35: 919-21, 2006.
  18. Harding S, Rosato M, Teyhan A. Trends for coronary heart disease and stroke mortality among migrants in England and Wales, 1979-2003: slow declines notable for some groups. Heart 94: 463-70, 2008.
  19. Jatrana S, Pasupuleti SS, Richardson K. Nativity, duration of residence and chronic health conditions in Australia: do trends converge towards the native-born population? Soc Sci Med 119: 53-63, 2014.
  20. Montesi L, Caletti MT, Marchesini G. Diabetes in migrants and ethnic minorities in a changing World. World J Diabetes 7: 34-44, 2016.
  21. Vespasiani Gentilucci U, Picardi A, Manfrini S, Khazrai YM, Fioriti E, Altomare M, Guglielmi C, Di Stasio E, Pozzilli P. Westernization of the Filipino population resident in Rome: obesity, diabetes and hypertension. Diabetes Metab Res Rev 24: 364-70, 2008.
  22. Bhopal R. Ethnicity, Race, and Health in Multicultural Societies: Foundations for Better Epidemiology, Public Health, and Health Care. Oxford: Oxford University Press, 2007.
  23. Andersen RM. Revisiting the behavioral model and access to medical care: does it matter? J Health Soc Behav 36: 1-10, 1995.
  24. Meeuwesen L, Harmsen JA, Bernsen RM, Bruijnzeels MA. Do Dutch doctors communicate differently with immigrant patients than with Dutch patients? Soc Sci Med 63: 2407-17, 2006.
  25. Rechel B, Mladovsky P, Ingleby D, Mackenbach JP, McKee M. Migration and health in an increasingly diverse Europe. Lancet 381: 1235-45, 2013.
  26. Fischbacher CM, Hunt S, Alexander L. How physically active are South Asians in the United Kingdom? A literature review. J Public Health (Oxf) 26: 250-8, 2004.
  27. Norredam M, Nielsen SS, Krasnik A. Migrants’ utilization of somatic healthcare services in Europe–a systematic review. Eur J Public Health 20: 555-63, 2010.
  28. Modesti PA, Calabrese M, Malandrino D, Colella A, Galanti G, Zhao D. New findings on type 2 diabetes in first-generation Chinese migrants settled in Italy: Chinese in Prato (CHIP) cross-sectional survey. Diabetes Metab Res Rev 33, 2017.
  29. Fedeli U, Casotto V, Ferroni E, Saugo M, Targher G, Zoppini G. Prevalence of diabetes across different immigrant groups in North-eastern Italy. Nutr Metab Cardiovasc Dis 25: 924-30, 2015.
  30. Marchesini G, Bernardi D, Miccoli R, Rossi E, Vaccaro O, De Rosa M, Bonora E, Bruno G. Under-treatment of migrants with diabetes in a universalistic health care system: the ARNO Observatory. Nutr Metab Cardiovasc Dis 24: 393-9, 2014.
  31. Mladovsky P. Migration and health in the EU. The London School of Economics and Political Science, 2007.
  32. Solé-Auro A, Guillen M, Crimmins EM. Health care utilization among immigrants and native-born populations in 11 European countries. Results from the Survey of Health, Ageing and Retirement in Europe. In: 2009/20 WP, ed: Research Institute of Applied Economics, 2009.
  33. Cadario F, Cerutti F, Savastio S, Rabbone I, Tumini S, Bruno G, Italian Society of Pediatric Endocrinology Diabetology Study Group. Increasing burden, younger age at onset and worst metabolic control in migrant than in Italian children with type 1 diabetes: an emerging problem in pediatric clinics. Acta Diabetol 51: 263-7, 2014.
  34. Cacciani L, Baglio G, Rossi L, Materia E, Marceca M, Geraci S, Spinelli A, Osborn J, Guasticchi G. Hospitalisation among immigrants in Italy. Emerg Themes Epidemiol 3: 4, 2006.
  35. Ballotari P, Caroli S, Ferrari F, Romani G, Marina G, Chiarenza A, Manicardi V, Giorgi Rossi P. Differences in diabetes prevalence and inequalities in disease management and glycaemic control by immigrant status: a population-based study (Italy). BMC Public Health 15: 87, 2015.
  36. Bossi AC, Khazrai YM, Delfonso M, Fallucca S, Trevisan R, Marchesini G, Bruttomesso D, Pozzilli P. Gestione del diabete nel periodo di Ramadan. Società Italiana di Diabetologia, 2017.
  37. Ibrahim M, Abu Al Magd M, Annabi FA, Assaad-Khalil S, Ba-Essa EM, Fahdil I, Karadeniz S, Meriden T, Misha’l AA, Pozzilli P, Shera S, Thomas A, Bahijri S, Tuomilehto J, Yilmaz T, Umpierrez GE. Recommendations for management of diabetes during Ramadan: update 2015. BMJ Open Diabetes Res Care 3, e000108, 2015.
  38. International Diabetes Federation, DAR International Alliance. Diabetes and Ramadan: Practical Guidelines. Brussels, Belgium: International Diabetes Federation, 2016.
  39. Bravis V, Hui E, Salih S, Mehar S, Hassanein M, Devendra D. Ramadan Education and Awareness in Diabetes (READ) programme for Muslims with Type 2 diabetes who fast during Ramadan. Diabet Med 27: 327-31, 2010.

[/protected]