Diabete e infiammazione

 

Annalisa Natalicchio, Giuseppina Biondi, Francesco Giorgino

Dipartimento dell’Emergenza e dei Trapianti di Organi, Sezione di Medicina Interna, Endocrinologia,
Andrologia e Malattie Metaboliche Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”

INTRODUZIONE

La dimostrazione dell’esistenza di una stretta connessione fra l’infiammazione e il diabete risale al 1876, anno in cui Ebstein dimostrò che la somministrazione di alte dosi di salicilato di sodio era in grado di ridurre la glicosuria in individui diabetici (1-2). Analogamente, pazienti diabetici che assumevano alte dosi di salicilati per il trattamento dell’artrite mostravano un miglioramento del profilo metabolico (3). Ad oggi è noto che l’infiammazione cronica contribuisce alla patogenesi del diabete di tipo 2 ed è, a sua volta, intensificata dall’iperglicemia, caratterizzante il diabete, contribuendo all’insorgenza delle sue complicanze. A sostegno di questo assunto, elevati livelli di biomarkers infiammatori correlano con l’incidenza e la prevalenza del diabete, così come con l’insorgenza delle complicanze diabetiche, in particolare, delle malattie cardiovascolari.

Il meccanismo patogenetico alla base della relazione fra infiammazione e diabete è riconducibile all’aumentata produzione e secrezione di citochine proinfiammatorie e all’aumento dei livelli di acidi grassi liberi (FFA) che determinano danno a molteplici organi e tessuti, fra cui morte delle beta-cellule pancreatiche e insulino-resistenza a livello dei tessuti insulino-sensibili, che rappresentano le principali alterazioni fisiopatologiche implicate nella patogenesi del diabete mellito di tipo 2 (DMT2).

Il comune fattore denominatore è senza dubbio l’obesità caratterizzata da una infiammazione di basso grado del tessuto adiposo e di altri organi insulino-sensibili che favorisce l’insorgenza del diabete.

Oltre all’obesità, esistono anche altri fattori predisponenti al diabete, in virtù della loro capacità di attivare vie infiammatorie, che verranno analizzati dettagliatamente in questa rassegna.

Un grande interesse è stato rivolto al ruolo dei vari markers infiammatori nella stratificazione del rischio per il diabete e/o le sue complicanze. In realtà, pur esistendo dati contrastanti, la maggior parte degli studi suggerisce che la misura dei markers infiammatori aggiunge poco alla stratificazione del rischio, rispetto ai classici fattori di rischio per diabete o malattie cardiovascolari (4-6)anche se l’utilizzo di biomarcatori per la predizione del rischio di eventi macro/microvascolari e di mortalità migliora quando si utilizzano più biomarcatori non correlati fra loro (sommando marcatori di diversi meccanismi di malattia) (7-9).

Lo studio dei meccanismi responsabili della stretta connessione fra infiammazione, diabete e complicanze, ha l’obiettivo di identificare le vie del segnale infiammatorio coinvolte nel danno multiorgano che predispone all’insorgenza del diabete, in modo da attuare opportune strategie terapeutiche che possano prevenire o controllare tali danni. Tuttavia, allo stato attuale, gli interventi per il controllo della infiammazione non sono esaustivi e richiedono una implementazione affinché trovino una loro concreta applicazione clinica.

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FATTORI EZIOPATOGENETICI IMPLICATI NELLA INFIAMMAZIONE CORRELATA ALLA MALATTIA DIABETICA

Tra i fattori scatenanti l’infiammazione, che a sua volta favorisce l’insorgenza e progressione di DMT2, l’obesità riveste un ruolo di primissimo piano. Nel soggetto sovrappeso o obeso, infatti, si realizza una condizione di infiammazione cronica di basso grado, provocata dall’ipossia e dal rimodellamento del compartimento del tessuto adiposo in espansione o dalla sua necrosi (10). Evidenze sperimentali in modelli animali e nell’uomo, indicano che, nel momento in cui la massa grassa si espande, il tessuto adiposo diventa ipossico: l’espansione non è infatti parallela allo sviluppo del network di capillari (11), e gli adipociti, già più larghi rispetto alla condizione fisiologica, vengono a trovarsi anatomicamente molto distanti dai vasi sanguigni e, conseguentemente, dalla diffusione dell’ossigeno (12).  Inoltre, il tessuto adiposo in espansione secerne numerose adipochine che sono fattori stimolanti per la colonizzazione dello stesso tessuto da parte di cellule infiammatorie, in particolare i macrofagi, determinanti per l’infiammazione di basso grado associata all’obesità e al diabete (13). Alla base della risposta proinfiammatoria e della attrazione dei macrofagi c’è la necrosi degli adipociti. Infatti, i macrofagi, nel tessuto adiposo, si concentrano numerosi intorno agli adipociti morti formando la cosiddetta struttura a corona (14).

Inoltre, il tessuto adiposo (sia adipociti che cellule stromali vascolari) produce molte componenti del complemento che risultano aumentate nella condizione di obesità; l’attivazione del complemento può contribuire all’instaurarsi dell’infiammazione e all’attrazione delle cellule immuni determinando anche disfunzione endoteliale e patologie macro/microvascolari. Infine, l’obesità è caratterizzata da un’aumentata formazione di advanced glycation end products (AGEs), che possono avere importanti effetti biologici nella disregolazione della secrezione di adipochine e nella induzione di insulino-resistenza, nonché nella disfunzione della beta-cellula pancreatica. Oltre alla obesità, anche la dieta può contribuire alla infiammazione sistemica attraverso diversi meccanismi. Alcuni nutrienti come gli acidi grassi saturi hanno proprietà proinfiammatorie (15) notoriamente deleterie per la funzione e la vitalità delle beta-cellule pancreatiche (16-18). Una dieta ricca di grassi (high-fat diet, HFD), inoltre, può indurre cambiamenti nel microbiota intestinale, favorendo lo sviluppo di batteri gram-negativi, che scatenano l’infiammazione sistemica attraverso la produzione di lipopolisaccaride (LPS) e/o l’induzione di periodontite (19); è stato anche suggerito che l’HFD possa indurre la traslocazione di batteri gram-negativi dall’intestino al tessuto adiposo (20). A conferma del ruolo patogenetico della dieta, un recente studio dimostra come una maggiore aderenza alla dieta mediterranea sia in grado di prevenire l’insorgenza di diabete attraverso una riduzione dello stato infiammatorio (21). Studi recenti hanno annoverato il microbiota intestinale tra le cause di infiammazione nel DMT2. È stato infatti ipotizzato che i prodotti del microbioma, in particolare l’LPS, una componente della parete dei batteri gram-negativi altamente infiammatoria, possano interagire con il sistema immunitario per indurre un’infezione dei tessuti insulino-sensibili, che rappresenta l’origine molecolare della infiammazione di basso grado presente nell’obesità e nel diabete (22).

Evidenze sperimentali supportano poi una relazione reciproca tra diabete mellito e malattie periodontali (23). Le periodontiti sono concepite come una “infezione di basso grado” capace di sviluppare una “infiammazione sistemica di basso grado” che può minare la salute sistemica generale. Numerosi mediatori proinfiammatori sono espressi nelle periodontiti, come risultato della attivazione dei meccanismi immuno-infiammatori dell’ospite. Inoltre la microflora periodontopatogenica produce tossine, incluso il potente LPS, che può scatenare la risposta infiammatoria sistemica. Tuttavia, la concreta rilevanza della relazione tra salute orale e diabete rimane molto debole (24). Anche l’infiammazione causata dalla esposizione a lungo termine alle particelle fini (<2.5 µm in diametro aerodinamico, PM 2.5) o a inquinanti ambientali, è stata associata ad un aumentato rischio di diabete e ad una incrementata mortalità in persone con diabete (25, 26). I potenziali meccanismi attraverso cui questi fattori inducono infiammazione includono lo stress ossidativo, lo stress del reticolo endoplasmico nel fegato e nel polmone, la disfunzione mitocondriale e del tessuto adiposo bruno, l’attivazione dei toll-like receptors e dei nucleotide oligomerization domain receptors (27). Recenti evidenze sperimentali supportano un ruolo antinfiammatorio della vitamina D, per cui la perdita o la riduzione di questa sua funzione, in presenza di una carenza di vitamina D, è spesso associata allo sviluppo di insulino-resistenza e diabete mellito (28-29). A supporto di questi studi, i livelli di vitamina D sono risultati ridotti in soggetti pre/diabetici rispetto ai normoglicemici, e sono strettamente correlati alla glicemia e ad altre variabili metaboliche, suggerendo che il deficit di vitamina D possa essere associato ad un peggior compenso metabolico piuttosto che all’obesità (30). Inoltre, è stato osservato che l’associazione fra la carenza di vitamina D e l’insorgenza di diabete può essere influenzata da polimorfismi genici ereditari (31). Diversi studi suggeriscono che una disregolazione del signaling del nervo vago, componente chiave del meccanismo di “riflesso infiammatorio” che controlla la risposta infiammatoria durante l’invasione dei patogeni e il danno tissutale, possa contribuire alla patogenesi dell’obesità e delle correlate anomalie metaboliche come il diabete mellito (32). Infine l’infiammazione nel diabete può essere causata da fattori genetici. In particolare, SNPs (single nucleotide polymorphisms) sono stati identificati nelle regioni regolatorie a monte di numerosi geni codificanti markers pro e antinfiammatori che influenzano i livelli di produzione di tali markers/mediatori (TNF-α, IL-6, IL-10) (33-34). Questi SNPs possono influenzare l’intensità dell’infiammazione, tuttavia, se gli alleli che incrementano l’espressione di questi geni si ritrovano più frequentemente nel DMT2, non è stato ancora dimostrato in modo definitivo (35).

D’altra parte, un’analisi di associazione su larga scala ha dimostrato che nel DMT2 è presente una over-rappresentazione delle varianti genetiche dei pathways di infiammazione (36), a conferma che la predisposizione genetica alla infiammazione possa avere un ruolo nella suscettibilità al diabete. Infine, studi del profilo di metilazione del DNA nei pazienti con DMT2 hanno dimostrato ipometilazione su più di 200 promotori genici in cellule di isole pancreatiche umane (37), alcuni dei quali potenzialmente coinvolti in pathways infiammatorie (38) (Tab. 1).

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EFFETTI PLEIOTROPICI DELL’INFIAMMAZIONE: ORGANI COINVOLTI NELLA INFIAMMAZIONE CRONICA CORRELATA AL DIABETE

Tessuto adiposo

Sebbene il processo infiammatorio nell’obesità e nel diabete sia sistemico, alcuni organi sembrano essere più coinvolti di altri, primo tra tutti il tessuto adiposo. Il tessuto adiposo è una fonte importante di markers infiammatori ma a sua volta è anche un target del processo infiammatorio nel diabete. Dei due tipi di tessuto adiposo, bianco e bruno, il tessuto adiposo bianco (WAT), è quello maggiormente coinvolto nel processo infiammatorio. WAT comprende il tessuto adiposo sottocutaneo e il tessuto adiposo viscerale (o addominale o omentale) che hanno una diversa fisiologia e differenti ruoli nei processi patologici (39-41). In particolare, il WAT viscerale rispetto al sottocutaneo è caratterizzato da una maggiore secrezione di citochine proinfiammatorie, come TNF-α e IL-6 e una più bassa secrezione di adiponectina, una adipochina anti-infiammatoria (42). Tuttavia, sia il WAT sottocutaneo che il viscerale sono associati ad insulino-resistenza (43).

Esistono poi i depositi di grasso ectopico, che sono più rappresentati in individui con maggiore distribuzione centrale di grasso e con molto grasso viscerale. Il grasso ectopico include il perivascolare (epicardico e pericardico), relativamente piccoli ma evidenti attorno ai vasi e al cuore, il grasso intramuscolare e il grasso intraepatico.

I depositi di tessuto adiposo vicini ai vasi e al cuore sono implicati nello sviluppo della disfunzione vascolare (44), principalmente attraverso la produzione di mediatori che contribuiscono all’instaurarsi di una infiammazione e di una insulino-resistenza locale che va direttamente ad alterare la funzione vascolare, favorendo l’ipertensione e le patologie cardiovascolari. Il grasso intramuscolare deriva per lo più dalla circolazione e la quantità di grasso a livello muscolare ha un ruolo importante nell’insulino-resistenza sistemica (45). L’accumulo di grasso nel fegato è attualmente considerato un importante fattore di rischio per le malattie metaboliche e cardiovascolari. Secondo la “teoria portale” un aumento di grasso viscerale espone il fegato ad alte concentrazioni di citochine proinfiammatorie e FFA che, rilasciati dai depositi di grasso viscerale e trasportati tramite la vena porta direttamente al fegato, contribuiscono allo sviluppo di non-alcoholic fatty liver disease (NAFLD) (46). La steatosi è il primo stadio della NAFLD e l’obesità e il DMT2 sono spesso associate con i primi stadi della NAFLD (steatosi, steatoepatiti) (47). Va sottolineato però, che non tutto il grasso in espansione porta ad infiammazione ed insulino-resistenza. Infatti, una efficiente espandibilità dei depositi di grasso sottocutaneo superficiale, mediata da favorevoli proprietà genetiche intrinseche e/o un’attenuata risposta infiammatoria, migliora la flessibilità nel processare un eccesso di introito calorico con una limitata eccedenza di trigliceridi nei depositi di grasso viscerali ed ectopici.

Sia l’immunità adattiva che l’innata sono coinvolte nella infiammazione del tessuto adiposo, dove l’evento determinante è la commutazione del fenotipo dei macrofagi da prevalentemente antinfiammatori M2 a proinfiammatori M1 (48); la presenza della popolazione macrofagica M1, infatti, è stata negativamente associata ad insulino-sensibilità (49).

Pertanto, oltre al tessuto adiposo, anche il sistema ematopoietico risulta primariamente e direttamente coinvolto nella infiammazione cronica correlata al diabete. Mastociti, linfociti T natural killer e un incremento del rapporto CD4+/CD8+ sono stati, ad esempio, osservati nel tessuto adiposo di topi obesi, mentre i livelli di cellule T regolatorie immunosoppressive sono ridotti, a dimostrazione di una intensa attivazione immunitaria (50-51) (Fig. 1).

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Isola pancreatica

Un target critico dell’infiammazione è l’isola pancreatica responsabile delle alterazioni fisiopatologiche nel diabete di tipo 2 (52).  L’infiammazione delle isole pancreatiche nel DMT2 è dimostrata dalla infiltrazione di macrofagi, dall’aumento dei livelli di citochine e chemochine proinfiammatorie, dalla presenza di fibrosi e di depositi di amiloide e dall’incrementata morte beta-cellulare (53).  Il processo infiammatorio sembra essere fortemente dipendente dalla interleuchina 1 (IL-1), tanto da suggerire l’idea di una natura auto-infiammatoria per il diabete di tipo 2, simile a quello che si osserva nel diabete di tipo 1 (54). Questa citochina è, infatti, in grado di aumentare l’espressione locale di citochine proinfiammatorie e chemochine (55), che porta al reclutamento delle cellule immunitarie nelle isole, risultando essere il regolatore più importante della infiammazione delle isole pancreatiche. L’instaurata infiammazione locale riduce la secrezione di insulina e provoca apoptosi, con conseguente riduzione della massa pancreatica, eventi critici nella progressione del DMT2. Va sottolineato, tuttavia, che gli effetti dannosi della IL-1β si manifestano ad alte dosi, in quanto a basse dosi tale citochina stimola la proliferazione beta cellulare (56).

Oltre all’IL-1, altre citochine associate a disfunzione beta-cellulare sono TNF-α e INF-γ, che attraverso l’inibizione della funzione mitocondriale e quindi del metabolismo cellulare, rendono le beta-cellule più sensibili a stimoli dannosi (57). Se l’infiammazione dell’isola pancreatica nel DMT2 sia un processo autoimmune (54), sia indotta dalla glucotossicità che caratterizza il diabete (52), dalla lipotossicità (58) o sia scatenata da adipochine circolanti o altri fattori (59), non è stato ancora del tutto definito. La produzione di IL-1β da parte delle beta-cellule può infatti essere indotta sia dall’iperglicemia (60) che da alte concentrazioni di FFA (58-61) in particolare saturi, così come dalla leptina, le cui concentrazioni aumentano nella condizione di obesità (62). Altri meccanismi attraverso cui l’infiammazione induce il fallimento beta-cellulare nel DMT2 includono lo stress del reticolo endoplasmatico, lo stress ossidativo e i depositi di amiloide causati dall’infiammazione ma essi stessi in grado di causare infiammazione (59) (Fig. 2).

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Fegato

Lo stato infiammatorio è stato riportato anche in altri organi coinvolti nel controllo della omeostasi metabolica, inclusi il fegato (63) e il muscolo scheletrico (64). Nel fegato, la NAFLD spesso accompagna l’obesità viscerale e la sua prevalenza aumenta parallelamente a quella della DMT2.  La NAFLD e la conseguente insulino-resistenza epatica sono associate ad un’aumentata espressione e produzione di mediatori della infiammazione, fra cui TNF-α, IL-6 e IL-1β (65). Diversamente dal tessuto adiposo, il fegato è densamente popolato di macrofagi residenti, le cellule di Kupffer, che rappresentano oltre il 10% delle cellule epatiche. Il numero di cellule di Kupffer non aumenta con l’obesità, ma a cambiare è il loro stato di attivazione (65-66). Sebbene le cellule Kupffer siano state meno studiate rispetto ai macrofagi del tessuto adiposo nel contesto dell’insulino-resistenza, esse chiaramente contribuiscono alla produzione di mediatori infiammatori che promuovono la resistenza all’insulina nel fegato (66). È interessante notare che, come in precedenza descritto per i macrofagi del tessuto adiposo, la conversione del fenotipo delle cellule Kupffer a M2 (antinfiammatori) sembra migliorare la resistenza all’insulina (66).

Muscolo scheletrico

Recenti studi hanno dimostrato un’infiltrazione dei macrofagi anche all’interno del muscolo scheletrico di topi obesi, in particolare nei depositi adiposi intramuscolari (67). In modo analogo al tessuto adiposo, anche nel muscolo scheletrico questi macrofagi presentano un fenotipo proinfiammatorio M1 (68) accompagnato da un aumento dell’espressione di fattori proinfiammatori (67-68) che contribuiscono all’instaurarsi di una insulino-resistenza a livello locale. L’espressione genica dei marcatori fenotipici pro e antinfiammatori dei macrofagi nel muscolo scheletrico umano sembra avere una correlazione con la sensibilità all’insulina (69). Tuttavia, il contenuto di macrofagi nel muscolo scheletrico in soggetti obesi è di gran lunga inferiore rispetto a quello del tessuto adiposo o del fegato e ulteriori ricerche sono necessarie per determinare se il muscolo scheletrico sia principalmente un target dell’infiammazione derivante da altri tessuti o se l’attivazione di una infiammazione locale è responsabile della locale insulino-resistenza.

Sistema vascolare

Il sistema vascolare, in particolare il tessuto endoteliale, è sede e fonte di infiammazione nella patologia diabetica. L’endotelio che riveste i vasi regola il passaggio di molecole attraverso la parete vascolare e produce fisiologicamente una serie di mediatori, con azioni contrastanti, che contribuiscono al mantenimento dell’omeostasi vascolare, al controllo del flusso ematico, all’attivazione piastrinica e alla risposta infiammatoria (70). Nel DMT2, l’iperglicemia, l’insulino-resistenza e la dislipidemia, alterano la normale funzionalità vascolare, provocando, tra gli altri effetti, uno stato di infiammazione, caratterizzato e alimentato a sua volta dalla produzione di endotelina, prostaglandine, citochine e chemochine. L’iperglicemia, in particolare, favorisce nell’endotelio una iperproduzione di radicali liberi dell’ossigeno (ROS) (71) e di prodotti terminali della glicosilazione avanzata (advanced glycation end-products, AGE) (72). Questi complessi macromolecolari proteici o lipidici, per i quali le cellule possiedono specifici recettori (RAGE), stimolano, principalmente mediante l’attivazione del fattore endoteliale di trascrizione NF-kB, la produzione di chemochine (MCP-1) e citochine proinfiammatorie (IL-1, IL-6, IL-8) e determinano l’espressione di molecole di adesione leucocitaria. Il processo infiammatorio è altresì innescato dalla condizione di dislipidemia e dalla conseguente presenza di lipoproteine ossidate (ox-LDL). Esse, una volta internalizzate nella parete dei vasi, stimolano il rilascio di chemochine ed attivano le cellule endoteliali, che iniziano ad esprimere molecole di adesione (selectine E e P, VCAM-1 e ICAM-1) (73-74). L’espressione di molecole di adesione, indotta dall’iperglicemia o dalla dislipidemia nelle cellule endoteliali, contribuisce al reclutamento nella tonaca intima del vaso sanguigno di monociti, successivamente attivati in macrofagi che, fagocitando le MRL (modified and reassembled lipoproteins) si convertono in cellule schiumose (foam cells), con conseguente inizio del processo di formazione della placca aterosclerotica. A questo processo partecipano anche i linfociti T e le cellule muscolari lisce, nelle quali la condizione diabetica produce alterazioni simili a quelle che si osservano nelle cellule endoteliali, promuovendone la loro proliferazione e migrazione nelle placche aterosclerotiche in formazione e la produzione di macromolecole della matrice extracellulare (75).

L’eccesso di tessuto adiposo, come è noto spesso associato a DMT2, comporta, oltre ad un aumentato rilascio di acidi grassi proinfiammatori, anche il rilascio di una notevole quantità di citochine quali TNF-α e IL-6, adipochine, leptina, resistina e PAI-1 con effetti proaterogeni e coagulanti e una ridotta produzione di adiponectina, citochina dall’azione vasodilatante ed antiaterogena (76-77). Il TNF-α, attraverso l’attivazione della proteina p66Shc, induce la molecola di adesione e-selectina, promuove la trasmigrazione leucocitaria e incrementa la permeabilitΰ vascolare delle cellule endoteliali (78). Le lesioni vascolari e i fenomeni di trombosi e aterosclerosi, che insorgono a seguito della disfunzione endoteliale indotta dalla infiammazione, sono alla base delle complicanze micro e macrovascolari che caratterizzano la patologia diabetica.

MECCANISMI MOLECOLARI IMPLICATI NEL DANNO TISSUTALE INDOTTO DALLA INFIAMMAZIONE FAVORENTE LA MALATTIA DIABETICA

Signaling dell’insulina

L’insulina esercita la sua azione legando un recettore specifico (recettore dell’insulina, IR) che, dopo aver subito attivazione e autofosforilazione, innesca la fosforilazione di diverse proteine docking intracellulari, tra cui i substrati del recettore dell’insulina 1 e 2 (IRS-1 e IRS-2). Le proteine IRS sono le principali proteine coinvolte nella trasmissione del segnale insulinico in grado di attivare, attraverso la fosforilazione dell’enzima PI3-K, una cascata intracellulare implicata nella regolazione di eventi chiave, quali l’uptake e il metabolismo del glucosio, la sintesi proteica, l’espressione genica, la sopravvivenza, la crescita e la differenziazione cellulare (79). Le proteine a valle di IRSs comprendono diverse chinasi, come la proteina chinasi C (PKC), la glicogeno sintasi chinasi-3 (GSK-3) e la proteina chinasi B (PKB anche conosciuta come Akt). Tra queste, vi sono serin/treonin chinasi, come ad esempio PKC, che fosforilano le proteine IRS su siti che inibiscono l’attività di queste ultime, attivando pertanto un feedback fisiologico negativo del segnale insulinico.

Meccanismi molecolari dell’infiammazione

La risposta infiammatoria è un processo coordinato, che è parte integrale dei meccanismi di difesa dell’organismo contro stimoli esterni, infezioni, danni ecc. Essa è innescata dal legame di induttori (prodotti batterici ad esempio) ai loro recettori, che porta alla attivazione di risposte biologiche da parte di cellule infiammatorie, come macrofagi e mastociti (80).

Diversi recettori cellulari sono stati identificati come sensori degli induttori della infiammazione, tra cui i toll-like receptors (TLRs), i receptors of the advanced glycation endproducts (RAGE), e gli intracellular nucleotide oligomerization domain (NOD). La risposta post-recettoriale al segnale infiammatorio coinvolge l’attivazione di diverse vie di segnale, tra cui l’attivazione della proteina PKC, della stress chinasi JNK (c-Jun NH(2)-terminal kinase) e della IKK (I κappa-B kinase); JNK e IKK regolano rispettivamente l’azione dell’AP-1 (activator protein-1) e di NF-κB (fattore nucleare κB), che hanno un ruolo determinante nel controllo della sintesi di proteine chiave nell’attivazione e nel mantenimento dello stato infiammatorio, amplificando, in tal modo, l’espressione di mediatori proinfiammatori (80). L’insulino-resistenza, la principale alterazione fisiopatologica presente nell’obesità e nel diabete di tipo 2, insorge quando i tessuti bersaglio dell’azione insulinica o insulino-sensibili, come il fegato, muscolo e il tessuto adiposo, non sono in grado di rispondere adeguatamente all’insulina.

I meccanismi coinvolti nella resistenza all’insulina sono ancora oggi compresi solo in parte, ma sembrano includere l’infiammazione cronica.

Ruolo delle chinasi inibenti IRS

Per spiegare il legame molecolare tra infiammazione e diabete, si ritiene che i fattori scatenanti l’infiammazione o caratterizzanti il danno tissutale nella infiammazione cronica, tra cui gli acidi grassi e altri metaboliti prodotti dal tessuto adiposo come acil-CoA, ceramide e diacilglicerolo, operano attraverso i TLRs, TLR4 e TLR2 (81) con la conseguente attivazione della cascata infiammatoria mediata dalle proteine PKC, JNK, IKK.

A loro volta, sia JNK, che IKK e PKC sono in grado di determinare insulino-resistenza attraverso l’induzione della fosforilazione delle proteine IRS nei residui di serina/treonina, evento che, bloccando la fosforilazione di IRS sui residui di tirosina, impedisce la trasmissione del segnale insulinico a valle (82). Oltre ad inibire la via di segnale delle proteine IRS, la fosforilazione sui residui di serina/treonina provoca anche la degradazione delle stesse IRS, contribuendo ulteriormente al meccanismo di insulino-resistenza (82-83) (Fig. 3).

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In linea con quanto detto, nel soggetto obeso, tipicamente caratterizzato da una infiammazione cronica subclinica, gli adipociti ed epatociti mostrano un’aumentata attivazione delle serin/treonin chinasi di IRS (84). Oltre ai TLRs, studi sperimentali supportano il ruolo di NOD1 e NOD2, recettori cellulari sensori di infiammazione, nella intolleranza al glucosio e nel diabete indotto dall’HFD in modelli animali (85). Gli acidi grassi saturi, che rappresentano i principali fattori scatenanti l’infiammazione, sono in grado di attivare JNK e altre stress chinasi che inibiscono IRS-1/2 con conseguente insulino-resistenza, ma inducono anche stress del reticolo endoplasmatico, disfunzione mitocondriale e autofagia che si traducono nell’attivazione di fattori di trascrizione proinfiammatori, indipendentemente dal legame ai recettori infiammatori (86, 17). 

Ruolo degli inflammasomi

Recentemente è stato suggerito un ruolo degli inflammasomi come link tra l’infiammazione indotta dall’obesità e l’evento patologico, sebbene debba essere ancora confermato (81). L’inflammasoma NLRP3 agisce come sensore di danno metabolico, che si evidenzia nell’obesità, in presenza di alti livelli di glucosio, FFA saturi, intermedi lipidici come ceramidi e acido urico (89-91). L’attivazione dell’inflammasoma NLRP3 risulta nella produzione di IL-1β e di numerose citochine e chemochine, mentre la sua inibizione provoca effetti pleiotropici positivi, tra cui un miglioramento del signaling insulinico nel tessuto adiposo, fegato e muscolo scheletrico e un incremento della secrezione insulinica nel pancreas (91-92) (Fig. 4).

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Nel tessuto adiposo bianco (WAT) viscerale di soggetti obesi o sovrappeso, caratterizzato da un maggiore grado di infiammazione cronica, l’espressione e l’attivazione dell’inflammasoma NLRP3 sono aumentate rispetto al WAT sottocutaneo (93). Il ruolo dell’inflammasoma NLRP3 è confermato da studi effettuati in soggetti obesi metabolicamente sani, che costituiscono circa il 30% della popolazione obesa (94). Questi soggetti caratterizzati da meno WAT viscerale e più sottocutaneo, hanno meno depositi ectopici di grasso nel fegato, un minore profilo infiammatorio e ridotti livelli di markers infiammatori circolanti (95-96) rispetto agli obesi insani. Gli obesi metabolicamente sani pare abbiano anche una minore attivazione dell’inflammasoma NLRP3 nei macrofagi infiltranti ed un più favorevole, seppure già in parte alterato, profilo infiammatorio ed immunologico, dato che confermerebbe sia il ruolo dell’inflammasoma ma anche dell’infiammazione in generale nella patogenesi e sviluppo del DMT2 (97-98).

Ruolo delle citochine proinfiammatorie

Fattori scatenanti l’infiammazione, possono, attraverso il legame a specifici recettori proinfiammatori, provocare l’infiammazione e parallelamente determinare una condizione di insulino-resistenza. Va sottolineato che, una volta instaurato uno stato infiammatorio, le stesse citochine e molecole proinfiammatorie indotte da tali fattori, possono alimentare l’avviata insulino-resistenza. Il TNF-α, ad esempio, legandosi al suo recettore TNF receptor (TNFR), attiva diverse serin chinasi, tra cui le stesse IKK e JNK, S6 kinase (S6K) e mammalian target of rapamycin (mTOR) che possono fosforilare in serina la proteina IRS-1, riducendo la trasmissione del segnale insulinico a valle (16, 99) (Fig. 5).

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Il TNF-α e l’IL-6 agiscono anche attivando i soppressori del signaling citochinico (SOCS) 1 e 3, che portano alla ubiquitinazione e degradazione delle proteine IRS (100). A conferma di ciò, l’espressione di SOCS-3 è fortemente aumentata nei tessuti insulino-sensibili di pazienti con DMT2 o con insulino-resistenza (100). Infine, un ulteriore meccanismo molecolare attraverso cui le citochine proinfiammatorie interferiscono con il segnale insulinico, è l’induzione dell’enzima ossido nitrico sintasi (iNOS), che, attraverso la produzione di ossido nitrico (NO), induce la degradazione delle IRS, ridotta attività di PI3K/AKT, quindi blocco delle vie di trasmissione del segnale insulinico (79).

MARKERS INFIAMMATORI E RISCHIO DI DIABETE

Negli ultimi anni molti studi hanno stabilito una correlazione positiva tra l’incidenza di DMT2 e i livelli dei mediatori della infiammazione (101). La misura dei markers infiammatori che ha l’obiettivo di migliorare la stratificazione del rischio per il diabete o le sue complicanze, è di grande interesse, tuttavia i risultati di tali analisi sono contrastanti, in quanto diversi lavori suggeriscono che i markers infiammatori aggiungono poco alla stratificazione del rischio rispetto ai classici fattori di rischio per diabete o malattie cardiovascolari (4-6, 102). La conta dei globuli bianchi è un parametro fondamentale per la misura dell’infiammazione nella pratica clinica. Anche all’interno di un range considerato normale, un più alto numero di globuli bianchi è stato riportato essere in associazione all’insorgenza del DMT2 e allo sviluppo delle complicanze diabetiche microvascolari (103). A conferma di questi dati, un recente lavoro riporta che un aumento del numero dei leucociti è correlato sia all’iperglicemia cronica che acuta, nonché al diverso grado di insulino-sensibilità dei soggetti analizzati (104). L’associazione fra il numero dei globuli bianchi e il DMT2 sembra dipendere primariamente dalla sottopopolazione dei granulociti (meno da quella dei linfociti), ma non dalla sottofrazione monocitaria (103). La mancanza di un’associazione con la conta dei monociti, precursori dei macrofagi, che sono le cellule determinanti nella infiammazione associata ad obesità e diabete, è spiegata dal fatto che la prima destinazione dei monociti non è nel torrente ematico, pertanto la conta periferica non riflette la popolazione monocitaria presente nei tessuti, dove la maggior parte dei monociti viene attratto per differenziarsi in macrofagi (103).

Oltre alla conta dei globuli bianchi, i livelli di specifiche adipochine possono rappresentare un marker di infiammazione nel diabete. Come è noto, il tessuto adiposo secerne centinaia di fattori bioattivi chiamati adipochine, molti dei quali coinvolti nei processi infiammatori (105) e una disregolazione di queste adipochine è stata osservata sia in condizioni di eccesso che di mancanza di tessuto adiposo. Molte proteine infiammatorie derivate dagli adipociti sono secrete dalle cellule immunitarie che infiltrano il tessuto adiposo nel soggetto obeso, altre proteine come la leptina e l’adiponectina sono secrete esclusivamente dal tessuto adiposo. 

La leptina è prodotta a partire dal gene dell’obesità (ob) e i suoi livelli sierici sono direttamente proporzionali ai livelli di massa grassa totale. La produzione di leptina aumenta nel corso di infiammazione (106), in quanto la leptina è in grado di modulare la risposta innata ed adattiva, in particolare la promozione della risposta T-cellulare, l’attivazione di monociti e neutrofili e la induzione di mediatori proinfiammatori (107). Sui macrofagi la leptina agisce da potente fattore chemotattico oltre ad indurre la produzione di mediatori infiammatori, tra cui TNF-α and IL-6 (107). La leptina, inoltre, attiva i linfociti, stimolando la proliferazione delle cellule Th1 e il conseguente aumento della produzione di IL-1 e IFN-γ, responsabili dell’attivazione di autoimmunità (108). Studi di coorte prospettici supportano l’associazione tra gli elevati livelli di leptina sierici e l’incidenza di diabete (109).

L’adiponectina è una proteina abbondantemente prodotta dal tessuto adiposo bianco (WAT), che esercita i propri effetti biologici legando specifici recettori espressi su molti tipi cellulari, in particolare miociti e cellule epatiche. Le concentrazioni plasmatiche di adiponectina sono inversamente correlate con i livelli di insulina a digiuno e positivamente correlate con la sensibilità insulinica, supportando l’idea di un ruolo dell’adiponectina come agente insulino-sensibilizzante. Markers proinfiammatori come il TNF-α e l’IL-6 inibiscono l’espressione genica dell’adiponectina a livello del tessuto adiposo, nonché la sua secrezione (110). 

D’altro canto, l’adiponectina inibisce la produzione di citochine proinfiammatorie, fra cui il TNF-α e l’interferon-gamma nei macrofagi, riduce la capacità fagocitica di questi ultimi e promuove la produzione di markers antinfiammatori come IL-10, agonisti del recettore dell’IL-1 da parte dei monociti e cellule derivate (111). Infine, bassi livelli di adiponectina sono associati ad aumentata incidenza di DMT2 (101).

Proteine chemotattiche secrete dagli adipociti e dalle cellule immuni sono coinvolte nel processo infiammatorio correlato all’obesità e al diabete mellito. Di queste proteine chemotattiche quelle della famiglia delle chemochine sono le più studiate. Le chemochine sono piccole proteine secrete dagli adipociti e altre cellule residenti nel tessuto adiposo, capaci di attrarre varie cellule immunitarie nel tessuto adiposo (112). Fra le varie chemochine, CCL2 (MPC-1), CCL5 (RANTES), e CXCL8 (IL-8) sono state specificatamente correlate al diabete (112). Per altre proteine chemotattiche, non incluse nella famiglia delle chemochine, come le chimerine, sono state evidenziate proprietà pro o antinfiammatorie, che spiegano solo in parte la connessione tra obesità e diabete mellito (113).

Altre citochine secrete sia dagli adipociti che dalle cellule immunitarie e coinvolte nei processi infiammatori correlati al diabete, includono TNF-α, IL-6 e IL-10. 

Il TNF-α è una citochina nota per le sue azioni proinfiammatorie ma anche per gli effetti dannosi sul metabolismo del glucosio e dei lipidi (114). A basse concentrazioni, il TNF-α agisce solo localmente come regolatore della risposta infiammatoria immune, con effetti autocrini e paracrini. Ad alte concentrazioni, il TNF-α entra in circolazione ed agisce da fattore endocrino associato ad insulino-resistenza (115). Il TNF-α causa un aumento del rilascio di acidi grassi da parte degli adipociti, con conseguente innalzamento dei livelli di acidi grassi liberi, che vanno ad interferire sulle vie di trasmissione dell’insulina (116). Oltre che attraverso l’aumento degli acidi grassi, il TNF-α è anche in grado di inibire direttamente la trasduzione del segnale insulinico sia negli adipociti che nelle beta-cellule pancreatiche, riducendo la secrezione insulinica (117,16). Fra i biomarkers infiammatori implicati nella stratificazione del rischio di complicanze, vanno inclusi i relativi recettori del TNF-α, soluble TNF-α receptor-1/2, associati alla malattia renale terminale nel diabete di tipo 2 (118).

IL-6 è una citochina secreta dal tessuto adiposo, soprattutto viscerale, per circa il 30%. La secrezione di IL-6 da parte di altre cellule come i macrofagi è indotta, a sua volta, da altre citochine come il TNF-α e IL-1 ed è inibita da parte di IL-4 e IL-10. Esiste anche un’interazione tra il TNF-α e IL-6, per cui TNF-α stimola la trascrizione del gene per l’IL-6 e induce la produzione del suo recettore (34). Le concentrazioni plasmatiche di IL-6 sono statisticamente più alte in soggetti obesi e in soggetti insulino-resistenti (119) e un’alta concentrazione plasmatica di IL-6 è predittiva dell’insorgenza di DMT2 (120). Inoltre IL-6 è stata confermata un predittore di rischio cardiovascolare in diversi studi, sia in DMT2 sia in non DMT2 (121).

Diversamente da TNF-α e IL-6 che sono proinfiammatorie, IL-10 è una citochina antinfiammatoria, principalmente prodotta dai macrofagi di tipo 2 e linfociti, che esercita effetti insulino-sensibilizzanti ed è in grado inibire la produzione di citochine proinfiammatorie come TNF-α e IL-6. I membri della superfamiglia delle IL-1, che comprendono IL-1α, IL-1β e gli agonisti del recettore dell’IL-1 (IL-1Ra), sono mediatori del processo infiammatorio e hanno un ruolo nel metabolismo energetico e nell’omeostasi del glucosio, risultando associati ad una maggiore incidenza di DMT2 (122). In particolare, l’IL-1 influenza il metabolismo del glucosio alterando il signaling insulinico, modulando la secrezione insulinica ed amplificando l’uptake del glucosio insulino-dipendente (123). Infine, i livelli di un’altra citochina, il transforming growth factor-b1 (TGF-β1), sono stati correlati allo sviluppo di DMT2 e alle sue complicanze microvascolari, come retinopatia e nefropatia (124). Altri biomarcatori infiammatori utili sono le metalloproteinasi, in particolare le MMP7 e le MMP12 sono aumentate nel DMT2, associate ad aterosclerosi più severa e ad una maggiore incidenza di eventi cardiovascolari (125).

I reagenti di fase acuta sono componenti non specifici della fisiologica risposta dell’organismo allo stress acuto, che è in genere di breve durata. Alti livelli, ma in un range normale, di diversi reagenti di fase acuta, inclusi la proteina C reattiva (CRP), il fibrinogeno, l’acido sialico e l’albumina sierica (bassi livelli) sono stati associati ad una maggiore insorgenza di diabete, sebbene non ci sia sempre una convincente relazione causale (126). La CRP è probabilmente il reagente più studiato in relazione al rischio di diabete (126); esso è secreto dal fegato, in risposta a citochine proinfiammatorie come IL-6 e IL-1 e potrebbe giocare un ruolo concreto nell’insorgenza dell’insulino-resistenza interferendo sul segnale insulinico (127). 

Altri reagenti di fase acuta correlati al diabete sono i livelli dell’inibitore dell’attivatore del plasminogeno-1 (PAI-1) e i livelli del complemento C3 (C3) che possono compromettere la fibrinolisi nel diabete di tipo 1 e 2 determinando ipofibrinolisi e risultando essere uno strumento di valutazione aggiuntivo (128) (Tab. 2). 

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In linea generale, nonostante i numerosi studi a disposizione, l’utilità dei biomarcatori infiammatori nella stratificazione del rischio di diabete e del rischio di complicanze macro e microvascolari è controversa per alcuni addirittura inutile non essendo affidabile l’ausilio di un singolo marcatore (129), pertanto si cercano nuovi riferimenti nella metabolomica e in nuove molecole, come ad esempio il fattore di trascrizione FOXO1 recentemente implicato nella instabilità di placca aterosclerotica (130). 

STRATEGIE TERAPEUTICHE PER LA MALATTIA DIABETICA BASATE SUL CONTROLLO DELLA INFIAMMAZIONE

La migliore comprensione dei meccanismi che collegano infiammazione, diabete mellito e relative complicanze ha stimolato i ricercatori all’individuazione di molecole in grado di interferire sulle vie infiammatorie come strategia per prevenire o controllare il diabete mellito e le sue complicanze (131-132). Ad oggi, nuove linee di intervento farmacologico e non farmacologico, capaci di abbassare i livelli di markers infiammatori, continuano ad emergere, mentre altre sono state abbandonate ed altre ancora sono state testate in studi sperimentali o clinical trials, spesso con risultati contrastanti (133-134). 

Sia i cambiamenti nello stile di vita che alcuni farmaci impiegati nella terapia del diabete, come la metformina, i glitazoni o l’insulina, sono risultati in grado di ridurre i markers di infiammazione, indipendentemente dal loro effetto ipoglicemizzante o dall’assenza di considerevoli effetti sulla insulino-resistenza, dato osservato anche per le statine comunemente usate in persone con diabete (131, 134-138). La riduzione dell’infiammazione ottenuta con i cambiamenti dello stile di vita sembra secondaria al calo ponderale, tuttavia è stato dimostrato che una dieta arricchita in MUFA (e.g. acido oleico), anche se ipercalorica, può ridurre la stato pro-infiammatorio adipocitario, attraverso una riduzione della IL-1β, stimolare un aumento adipocitario di tipo iperplastico invece che ipertrofico e ridurre conseguentemente l’insulino-resistenza tipicamente associata all’obesità indotta da SFA (139). L’effetto di metformina, glitazoni e statine sembra essere correlato a specifiche proprietà antinfiammatorie di tali farmaci, che contribuiscono al migliore compenso glico-metabolico dei pazienti. Tuttavia per le statine pur essendo stati messi chiaramente in luce i benefici clinici cardiovascolari nella popolazione a rischio CV e nei diabetici, si è documentata la possibilità che il loro utilizzo sia associato ad un aumentato rischio di sviluppare DMT2. Anche se gli studi pubblicati suggeriscono che l’effetto diabetogeno sia un effetto di classe, ulteriori validazioni sono necessarie alla luce di dati recenti che suggeriscono che alcune statine possano avere minori effetti sulla glicemia o siano addirittura neutre sul controllo glicemico (140-142).

Anche i farmaci antidiabetici basati sulle incretine, ossia gli inibitori della dipeptidil peptidasi-4 (DPP-4) e gli agonisti del recettore del glucagone-like peptide-1 (GLP-1R), hanno mostrato proprietà antinfiammatorie indipendenti dalle loro capacità ipoglicemizzanti e dimagranti. È stato ad esempio dimostrato che l’agonista del GLP-1R exendin-4 inibisce l’azione proapoptotica sia della citochina proinfiammatoria TNF-α che degli acidi grassi saturi nelle beta-cellule pancreatiche (16-17) in particolare, l’exendin-4 riduce la fosforilazione in serina, indotta dagli acidi grassi saturi, della proteina p66Shc, che rappresenta un mediatore di stress ossidativo e di apoptosi (Fig. 6); il sitagliptin è in grado di ridurre alcuni markers proinfiammatori e l’espressione di molecole di adesione nell’endotelio del soggetto diabetico (143).

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Infine i farmaci secretagoghi, come le sulfaniluree e le glinidi, hanno mostrato proprietà antinfiammatorie, seppure meno incisive rispetto ai farmaci sinora citati (144). Numerose molecole con capacità antinfiammatoria sono state studiate al fine di valutare un loro possibile impiego nella terapia del diabete, senza tuttavia aver raggiunto lo stadio di applicazione clinica per la maggior parte di esse.

I salicilati (aspirina), farmaci antinfiammatori non steroidei, sono conosciuti da anni per la loro capacità di migliorare il controllo metabolico nel diabete. L’azione ipoglicemizzante dei salicilati è dovuta alla inibizione della proteina IKK (131) che, come già descritto precedentemente, interferisce con l’azione post-recettoriale dell’insulina. Tuttavia gli effetti benefici dei salicilati si osservano solo a dosi non applicabili nel routinario trattamento clinico senza provocare effetti collaterali rilevanti (131). Pertanto, l’attenzione si è spostata sulle forme dei salicilati non acetilati, che sono relativamente più sicure e migliorano il controllo metabolico in persone con DMT2 (145), suggerendo un loro possibile utilizzo per la prevenzione e il controllo del diabete (134). A tal proposito, un recente lavoro ha evidenziato che la mesalazina (5-ASA), un derivato dell’acido salicilico dotato di proprietà antinfiammatorie locali a livello intestinale, è in grado di migliorare la glicemia e la insulinemia in topi sottoposti ad HFD, confermando il ruolo patogenetico del sistema immunitario della mucosa intestinale nella determinazione dell’insulino-resistenza dipendente dall’obesità (146).

Anche il miglioramento del microbiota intestinale è stata considerata una ulteriore strategia per prevenire lo sviluppo e la progressione del diabete mellito, attraverso una dieta adeguata o l’utilizzo di probiotici (147), sebbene attendibili evidenze scientifiche che supportino tale ipotesi in soggetti umani sono tuttora mancanti. Risultati contrastanti sono stati ottenuti per diversi farmaci antinfiammatori in vari trials effettuati. L’inibizione del TNF-α ha mostrato solo una limitata utilità clinica nel contesto dell’insulino-resistenza o addirittura nessuna utilità nell’ambito del controllo del DMT2 (148-149). Trials clinici mirati allo studio degli effetti della supplementazione della vitamina D sui livelli sierici di markers infiammatori hanno dato risultati insoddisfacenti, con nessuna evidenza di effetti nella maggior parte dei trials, o con effetti osservati soltanto su alcuni markers in pochi altri trials (150). Conseguentemente, la supplementazione della vitamina D non ha determinato un miglioramento dei livelli plasmatici di glucosio e dell’insulino-resistenza (151-152).

Al contrario, il blocco dell’attività dell’IL-1β ha mostrato un miglioramento nel controllo della glicemia nei soggetti prediabetici o con DMT2. In particolare, studi condotti con antagonisti del recettore dell’IL-1 (IL-1R) (anakinra) o con antagonisti dell’IL-1β (gevokizumab, canakizumab e LY2189102) hanno mostrato effetti benefici sull’emoglobina glicata e sulla funzione beta-cellulare, in parallelo ad un decremento dei markers di infiammazione sistemici (153-154). Inoltre, sono stati osservati persistenti effetti fino a diverse settimane dopo il termine del trattamento con anakinra (155) o anticorpi anti-IL-1β (154) Sebbene la breve durata di questi studi non consenta conclusioni definitive, i dati suggeriscono che il blocco dell’attività dell’IL-1β possa migliorare il controllo glicemico nei pazienti diabetici, principalmente preservando la funzione beta-cellulare dal danno infiammatorio e consentendo anche una loro parziale rigenerazione (Tab. 3).

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L’INFIAMMAZIONE NEL DOUBLE DIABETES

Il termine Double Diabetes (DD) si riferisce a soggetti affetti da una forma di diabete atipica, definita anche hybrid diabetes, type 1.5 diabetes or latent autoimmune diabetes in youth (LADY). Il DD, generalmente diagnosticato in giovane età, è caratterizzato dalla contemporanea presenza di obesità ed insulino-resistenza, che sono gli elementi patogenetici peculiari del DMT2 e di autoanticorpi diretti verso la beta-cellula pancreatica, responsabili del DMT1, in particolare, i soggetti con DD risultano positivi per glutamic acid decarboxylase (GAD), tyrosine phosphatase antibodies (IA-2) e insulin autoantibodies (IAA) (156). In età adulta questi soggetti sono in genere descritti come affetti da latent autoimmune diabetes in adulthood (LADA) (157-158).

Alla patogenesi del DD, così come per il DMT1 e per il DMT2, concorrono fattori genetici e fattori ambientali. Secondo recenti ipotesi, in soggetti già predisposti al DM1, un aumentato BMI (Body Mass Index), con associata insulino-resistenza e/o infiammazione cronica, potrebbe velocizzare il processo che porta alla distruzione beta-cellulare, favorendo l’insorgenza di DD. Un sostegno all’ipotesi che il BMI possa favorire lo sviluppo di una risposta autoimmune nelle beta-cellule è la recente osservazione che alti titoli di autoanticorpi GAD sono positivamente correlati ad un aumento del BMI (159).  L’aumento di espressione di autoantigeni beta-cellulari anti-GAD, a sua volta, potrebbe essere associata al rilascio di IL-1, IFN-γ e TNF-α nelle isole pancreatiche, fenomeno che favorisce la vulnerabilità delle beta-cellule alla distruzione autoimmune (160). 

L’associazione fra l’aumento del BMI, infiammazione e autoimmunità si basa sulla constatazione che le citochine prodotte dal tessuto adiposo sono in grado di scatenare una risposta autoimmune modificando l’equilibrio Th1/Th2 linfocitario o alterando la funzione regolatoria dei linfociti T (161). In questo contesto, un ruolo primario può essere attribuito alla leptina, i cui livelli sono direttamente correlati con il grasso corporeo totale. La leptina controlla la risposta immune cellulo-mediata ed è implicata nella patogenesi di diverse malattie autoimmuni (162). In pazienti con malattie autoimmuni, infatti, è stato dimostrato che una dieta ipocalorica, che riduce i livelli sierici di leptina, può avere un ruolo positivo nel controllo dell’autoimmunità (163). 

Inoltre, è stato studiato il ruolo della leptina nel DMT1 e dimostrato che la somministrazione di leptina in topi NOD promuove l’infiltrazione infiammatoria precoce delle isole pancreatiche, aumenta la produzione di INF-γ da parte delle cellule T e accelera l’insorgenza di DMT1 (164). 

D’altro canto, la carenza di leptina riduce la produzione di citochine proinfiammatorie da parte dei Th1 e promuove uno shift verso la risposta Th2 (165). L’obesità, associata ad uno stato iperleptinemico, è infatti caratterizzata da un’infiltrazione di macrofagi nel tessuto adiposo (67) che, a loro volta, secernono citochine, come il TNF-α, IL-1β e IL-6, che stimolano gli adipociti a secernere altra leptina ed altre citochine (166). Inoltre, le stesse cellule infiammatorie possono secernere leptina così mantenendo ed amplificando il processo infiammatorio (167).

In conclusione, il tessuto adiposo in eccesso secerne leptina e altre citochine che promuovono l’infiammazione e potenziano l’autoimmunità, contribuendo alla insorgenza e progressione del DD. 

CONCLUSIONI

Numerose evidenze supportano il ruolo di un basso grado di infiammazione cronica nel collegamento esistente fra l’obesità e il diabete di tipo 2, mediato principalmente dall’insulino-resistenza indotta dall’infiammazione stessa. L’infiammazione cronica contribuisce alla patogenesi del diabete di tipo 2 ed è, a sua volta, potenziata dalle alterazioni metaboliche (iperglicemia, insulino-resistenza e dislipidemia) che caratterizzano la patologia diabetica, contribuendo così all’insorgenza delle sue complicanze. I meccanismi molecolari attraverso cui l’infiammazione contribuisce alla patogenesi del DMT2 prevedono l’attivazione, da parte di fattori proinfiammatori, di molecole che, in modo diretto o indiretto, alterano la via di segnale dell’insulina nei tessuti insulino-sensibili, determinando insulino-resistenza e provocano danno di vitalità e funzionalità in vari organi, quali le beta-cellule pancreatiche secernenti insulina o l’endotelio vascolare, che, una volta compromessi, portano quasi inevitabilmente alla alterazione dell’omeostasi glicemica e alle complicanze vascolari. Vari fattori eziopatogenetici sono implicati nell’infiammazione correlata alla malattia diabetica, tra questi l’obesità ha certamente un ruolo di primo piano; negli ultimi anni tuttavia l’interesse si è concentrato anche sulla dieta e sul microbiota intestinale, oltre che sul ruolo di polimorfismi nelle regioni regolatorie di geni codificanti markers pro e antinfiammatori.

Un grande interesse è stato anche rivolto al ruolo dei vari markers infiammatori nella stratificazione del rischio per il diabete e/o le sue complicanze. Allo stato attuale la misura dei livelli di tali markers sembra non aggiungere molto alla stratificazione del rischio basata sui classici fattori di rischio per diabete o malattie cardiovascolari, tuttavia l’utilizzo di biomarcatori per la predizione del rischio di eventi macro/microvascolari e di mortalità migliora quando si utilizzano più biomarcatori non correlati fra loro (sommando marcatori di diversi meccanismi di malattia).

Lo studio dei fattori e dei meccanismi alla base della stretta relazione fra infiammazione, diabete e complicanze è finalizzato principalmente alla ricerca di opportune strategie terapeutiche che possano prevenire o controllare l’insorgenza della patologia diabetica e delle sue complicanze.

Allo stato attuale, gli interventi per il controllo della infiammazione prevedono sia l’impiego di farmaci antidiabetici con proprietà antinfiammatorie, sia l’impiego di farmaci antinfiammatori che sono risultati altresì capaci, probabilmente proprio tramite la riduzione dello stato proinfiammatorio, di controllare i livelli glicemici, le alterazioni metaboliche e le complicanze correlate al diabete. Ad oggi, tuttavia, i meccanismi molecolari attraverso cui l’infiammazione contribuisce alla patogenesi della malattia diabetica, gli eventuali fattori genetici implicati, così come gli interventi terapeutici per il controllo dell’infiammazione nel diabete non sono esaustivi e sono solo raramente applicabili nella pratica clinica, pertanto sarà necessario investigare ulteriormente su tali punti che rimangono ancora da chiarire e quindi meritevoli di indagini future.

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