Dal laboratorio di ricerca all’applicazione clinica: autoanticorpi anti-beta cellula pancreatica del diabete mellito di tipo 1 (autoimmune)

a cura di Francesco Purrello

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Catania 

Carla Giordano

Docente di Endocrinologia, Di.Bi.M.I.S, Università degli Studi di Palermo

È comunemente accettato che il diabete di tipo 1 evolve come un continuum, che progredisce in modo sequenziale e variabile, ma prevedibile, attraverso fasi distinte identificabili prima della comparsa dei sintomi tipici della malattia. La prima fase, presintomatica, è caratterizzata dalla presenza di autoimmunità β-cellulare con normoglicemia; nella seconda fase la presenza di autoimmunità si associa ad iniziale alterazione della glicemia e può essere anch’essa relativamente asintomatica; la terza fase è quella dell’insorgenza della malattia sintomatica (1) (Fig. 1).

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Circa 3 decadi addietro, quando si parlava di screening degli autoanticorpi associati al diabete di tipo 1 (immuno-mediato) ci si riferiva fondamentalmente agli anticorpi anti-isola pancreatica (ICA) e agli anticorpi anti-insulina (2). Oggi il progresso sul sequenziamento di molteplici autoantigeni e la messa a punto di specifiche metodiche per la loro determinazione, hanno reso disponibili per l’uso clinico metodi per la determinazione degli autoanticorpi anti-insulina (IAA), anti-glutamico-acido decarbossilasi (GAD), anti-ICA512/IA-2, anti-IA-2 beta (fogrina) e anti-trasportatore insulare dello zinco (ZnT8) (3) (Fig. 2). Questi autoanticorpi si sono rivelati utili nella diagnosi del diabete di tipo 1 e soprattutto per la predizione della malattia. Più del 95% dei soggetti con diabete di tipo 1 alla diagnosi presenta uno o più anticorpi, il 79% è positivo per due o più anticorpi, mentre in circa il 5% di soggetti clinicamente esorditi come affetti da diabete di tipo 1 al momento della diagnosi clinica la misurazione anticorpale può non rilevare la presenza di autoimmunità (anticorpi-negativi) ed è possibile che questi soggetti abbiano anticorpi contro antigeni non ancora identificati (4).

Molti autori hanno definito un numero crescente di autoantigeni insulari riconosciuti mediante gli autoanticorpi di soggetti prediabetici. È probabile sia che un gran numero di autoanticorpi siano secondari alla distruzione delle beta cellule, sia che la presentazione di tali antigeni sia facilitata dall’ambiente infiammatorio tipico dell’insulite. Tuttavia, gli studi nel topo NOD suggeriscono che stimolare la risposta immunitaria a vari antigeni (per esempio, l’insulina per via orale, GAD per via endovenosa, l’insulina sottocutanea) possa prevenire il diabete. Allo stato attuale, non è chiaro quale sia l’antigene che determini la patogenesi della malattia nell’uomo, ma vi sono forti evidenze che l’insulina possa essere l’autoantigene primario del topo NOD e forse dell’uomo (5).

La progressione di malattia sembra differire in base alla quantità e al tipo di anticorpi presenti (Fig. 3). La positività per un singolo autoanticorpo può rappresentare un evento transitorio e questi soggetti sembrano avere una bassa percentuale (di circa il 10%) di rischio di sviluppare il diabete entro i successivi 5 anni (6-7).

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Il rilevamento di 2 o più autoanticorpi in soggetti geneticamente a rischio aumenta la probabilità di progressione verso il diabete sintomatico. Se il rischio a 10 anni di follow-up è di circa il 69% nel caso siano presenti 2 o più autoanticorpi, si riduce al 14.5% nel caso di positività singola e allo 0.4% nel caso di negatività anticorpale (8). Questi dati sono confermati da numerosi studi, evidenzianti un rischio a 5 anni pari al 47%, 36% e 11% in presenza di 3, 2 o 1 solo autoanticorpo, rispettivamente (9). Altri studi hanno dimostrato in soggetti positivi a 3 differenti autoanticorpi un rischio di progressione di malattia pari al 90% entro 8 anni (10). Pertanto, la presenza di due o più autoanticorpi è utilizzato come “criterio maggiore” nello stadio iniziale del diabete di tipo 1, dato che la maggioranza dei soggetti con positività autoanticorpale singola non progredisce durante un follow-up di 10 anni o, se lo fa, si tratta prevalentemente di soggetti molto giovani (età <5 anni) o con positività per IA2 (8, 11-12).

Il tasso di progressione verso la malattia sintomatica è inoltre correlato non soltanto al numero di autoanticorpi o alla giovane età del soggetto al momento della iniziale sieroconversione, ma anche al titolo anticorpale, all’affinità anticorpale e al tipo di autoanticorpi (7, 9, 13-17).

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Alti titoli di IAA e IA2 sono associati ad un esordio di malattia sintomatica più precoce, mentre la presenza di IA2 o ZnT8 sembra essere associata ad una progressione più rapida verso l’esordio sintomatico rispetto ai soggetti con negatività degli stessi. Inoltre, nei parenti di I grado di pazienti diabetici, la sieroconversione a IA2 e/o ZnT8 risulta associata con un tasso di progressione verso il diabete sintomatico del 45% a 5 anni, mentre la presenza contemporanea di entrambi gli autoanticorpi è riscontrata nel 78% dei soggetti che progrediscono verso la malattia sintomatica (18-19).

Nonostante l’incertezza sulla patogenesi autoanticorpale, la determinazione biochimica degli autoanticorpi contro una serie di autoantigeni facilita notevolmente la predizione del diabete di tipo 1A (20-21). Utilizzando solo quattro radioassays per autoanticorpi (insulina, GAD, IA-2 e ZnT8) il 95% dei bambini prediabetici o diabetici di recente insorgenza esprime uno o più anticorpi (contro solo 4 su 100 controlli). Più del 80% esprimono due o più autoanticorpi, versus i controlli negativi. Circa il 25% dei diabetici o prediabetici esprimono tutti i suddetti autoanticorpi. Lo screening autoanticorpale di tipo biochimico ha il suo maggiore impatto per la predizione del diabete di tipo 1A nella popolazione generale in cui il valore predittivo positivo degli ICA è inferiore al 5%, mentre la presenza di due o più dei quattro principali autoanticorpi nei bambini seguiti dalla nascita per più di un decennio dà valori predittivi positivi superiori al 90% (studio DAISY) (22).

Lo studio DAISY ha valutato una coorte di bambini dalla nascita, evidenziando che l’espressione di autoanticorpi anti-insulari in età precoce è una caratteristica di alto rischio, tuttavia un numero significativo di individui hanno autoanticorpi che non vengono confermati o che sono transitori. Attualmente possiamo prevedere la malattia, individuando diversi gradi di rischio di diabete, ma purtroppo non abbiamo ancora una terapia provata e sicuro per ritardare o prevenire il diabete di tipo 1A. È chiaro che lo screening per gli autoanticorpi anti-insulari accoppiato con uno stretto monitoraggio metabolico riduce drasticamente lo sviluppo di chetoacidosi al momento della diagnosi di diabete, in modo tale che solo un bambino su trenta nello studio DAISY ha avuto necessità di ospedalizzazione contro il 40% dei bambini della popolazione generale che si presentano con diabete. Questa differenza drammatica è quasi certamente dovuta a una diagnosi più precoce e molti dei bambini della popolazione generale aveva valori di glucosio superiore a 1.000 mg%, mentre nessuno dei bambini dello studio DAISY aveva glucosio superiore a 400 mg% al momento della diagnosi. Sebbene ci sia un beneficio clinico in una diagnosi più precoce, l’impulso principale per l’identificazione di individui a rischio sarà guidata da trials per la prevenzione delle malattie. È probabile che gli autoanticorpi insulari siano sempre uno strumento utile, anche se incompleto per la patogenesi, e saggi di linfociti T autoreattivi patogeni siano essenziali per accelerare il ritmo delle sperimentazioni cliniche.

Sebbene la rilevazione di autoanticorpi è di fondamentale importanza per l’identificazione di individui a rischio di sviluppare diabete di tipo 1, ci sono ancora molti limiti nel loro utilizzo. Un pannello di autoanticorpi di IAA, IA2 e GAD al momento dell’insorgenza di diabete di tipo 1 individuerà una percentuale variabile di soggetti con diabete di tipo 1 clinico come autoanticorpi-negativo, e quindi darà dei risultati falsi-negativi (23). Gli autoanticorpi inoltre non forniscono una determinazione precisa del tempo di insorgenza, perché possono essere individuati molti anni prima della manifestazione clinica del diabete, né forniscono una stima sicura del rischio di progressione verso il diabete conclamato, in quanto solo il 40% dei soggetti anticorpi-positivi svilupperanno il diabete entro 10 anni (24-25). Infine, il titolo autoanticorpale non aumenta proporzionalmente alla progressione di malattia, ma può anche subire una riduzione (26).

Ad oggi, gli autoanticorpi anti insulina, GAD, IA-2 e ZnT8 sono quelli sicuramente più studiati e conosciuti, esistono tuttavia degli studi su altri autoantigeni quali ICA69, carbossipeptidasi H, GLIMA 38 e osteopontina (Tab. 1). Pietropaolo e colleghi hanno identificato una nuova proteina nelle isole pancreatiche chiamata ICA69 (27). ICA69 è presente, almeno come RNA messaggero, nel cervello, polmoni, reni e cuore, con alti livelli nelle isole pancreatiche e altri tessuti neuroendocrini. Nel ratto, ICA69 è specifico per le cellule beta. L’ICA69 è identico come sequenza alla proteina del latte di mucca P69 descritta da Dosch e collaboratori (28). È stato dimostrato che gli individui diabetici hanno anticorpi anti-albumina sierica bovina e ci sono una serie di studi epidemiologici che indica che l’ingestione neonatale del latte aumenta di mucca lo sviluppo del diabete di tipo 1A. ICA69 e la sieroalbumina bovina hanno due brevi regioni (cinque aminoacidi) omologhe e quattro dei nove aminoacidi nella regione del peptide dell’albumina Abbos (potenziale epitopo delle cellule T) sono identici. Tale omologia può essere sufficiente per stimolare cloni di cellule T cross-reattive, dirette cioè verso la proteina del latte che cross reagisce con l’ICA69. Ulteriori studi sono necessari per chiarire il ruolo di questa molecola nella patogenesi del diabete di tipo 1.

La carbossipeptidasi H è un altro autoantigene scoperto nei sieri dei prediabetici. All’interno delle isole pancreatiche, la carbossipeptidasi H scinde gli aminoacidi carbossiterminali durante la processazione da proinsulina a insulina. Questa molecola non è insula-specifica, essendo presente anche nella ghiandola surrenalica bovina, nell’ipofisi e nel rene. Nelle cellule beta, la carbossipeptidasi H è localizzata nel granulo di secrezione insulinica, dove esiste sia in forma legata alla membrana (52 kd) che in forma solubile (50 kd). La carbossipeptidasi H è probabilmente la più abbondante proteina delle insule dopo proinsulina-insulina. Non è stato sviluppato un radioassay o un test ELISA per gli anticorpi anticarbossipeptidasi (29). Il GLIMA 38 (Glycated Islet Cell Membrane-Associated Protein) fu identificato da Baekkeskov e collaboratori mediante immunoprecipitazione di un antigene glicosilato di membrana cellulare delle isole pancreatiche (30). Winnock e colleghi hanno analizzato 100 nuovi pazienti con diabete all’insorgenza e 23 fratelli prediabetici e hanno trovato autoanticorpi anti GLIMA 38, rispettivamente nel 38 e del 35% dei pazienti rispetto allo 0% dei soggetti di controllo (31). In quasi tutti i pazienti anche altri autoanticorpi anti-insula (ad esempio, IA-2 autoanticorpi) erano espressi, pertanto hanno concluso che GLIMA 38 non aggiunge alcun significato alla previsione del rischio di diabete (32).

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L’osteopontina è espressa nelle cellule insulari secernenti somatostatina. Mediante le metodiche di determinazione utilizzate (ELISA e radioassays) si è evidenziato che l’espressione di anticorpi anti-osteopontina non differisce fra pazienti e controlli. ​​In modo analogo la molecola importina beta è stata associata ad autoimmunità nel 60% dei pazienti con diabete di tipo 1 utilizzando l’ELISA. Tuttavia con un radioassay fase fluida, solo il 6,3% dei pazienti superava il 99° percentile dei controlli normali (33).

STUDI DI INTERVENTO E RUOLO DEGLI AUTOANTICORPI COME MARKERS DI RISPOSTA CLINICA

L’aumentata incidenza e prevalenza di diabete di tipo 1 (34-36) e la morbidità e prematura mortalità ad esso associate (37-39) hanno fatto porre sempre maggiore attenzione ad approcci volti a prevenire la progressione ed esordio della malattia sintomatica (prevenzione secondaria). Per tali motivi, poter effettuare una corretta stratificazione e stadiazione dei soggetti a rischio e tentare di predire la progressione di malattia risulta di fondamentale importanza. Il miglioramento delle metodiche di dosaggio autoanticorpale, soprattutto di singoli autoanticorpi con alta affinità, sono in fase di sviluppo e gli sforzi dei prossimi anni dovranno anche concentrarsi sul loro significato clinico e la loro standardizzazione. Così come numerosi studi sono in corso per meglio prevedere il rischio di sviluppo di autoimmunità in fase precoce utilizzando la metabolomica (40-43), la metagenomica (44-47) e la trascrittomica (48-49), che potrebbero definire nuovi precoci markers di rischio di progressione (come ad esempio i ridotti livelli di fosfolipidi nel sangue del cordone ombelicale o basse concentrazioni di metionina nei bambini a rischio di diabete che progrediscono precocemente verso la malattia sintomatica) e portare a ridefinire le fasi di malattia creando una fase ancora più precoce, precedente all’attuale stadio 1.

Considerando quindi il diabete mellito di tipo 1 come una malattia “prevedibile” grazie alla possibilità del dosaggio degli autoanticorpi, ne consegue che la malattia dovrebbe anche diventare “prevenibile”.

Ad oggi, la maggior parte dei trials di prevenzione secondaria si sono basati su terapie “antigene-specifiche” per preservare la produzione endogena insulinica sia in soggetti diabetici all’esordio che in soggetti a rischio di diabete. Sono terapie relativamente sicure in quanto determinano una immunoregolazione delle cellule T insule-specifiche agenti localmente nei linfonodi pancreatici e all’interno delle insule stesse, senza effetti sistemici. Insulina, proinsulina, catena B dell’insulina, glutammico decarbossilasi (vaccino GAD-Alum) e trasportatore dello Zinco-8 (ZnT8) sono stati tra gli antigeni più comunemente utilizzati negli studi di immunoterapia finalizzati a migliorare la funzione delle cellule T regolatorie.

Numerosi studi hanno utilizzato la somministrazione di preparati insulinici o proinsulinici con differenti vie di somministrazione (es. orale, intranasale) per tentare di rallentare la progressione verso l’esordio clinico di malattia in soggetti con autoimmunità positiva. La somministrazione insulinica, a contatto col tessuto linfoide associato alla mucosa intestinale o nasale, attiverebbe una tolleranza mucosale, ossia la produzione da parte delle cellule T regolatorie di citochine inibitorie sulla cascata infiammatoria responsabile della distruzione insulare.

Uno dei primi studi clinici è stato il DPT-1 (Diabetes Prevention Trial Type 1) nel quale i parenti di soggetti diabetici di tipo 1 con HLA ad alto rischio e positività per uno o più autoanticorpi sono stati sottoposti a somministrazione di insulina orale in studio randomizzato doppio cieco placebo-controllo (TrialNet oral insulin). Basse dosi di insulina sottocutanea o orale non si sono dimostrate efficaci nel ritardare la progressione verso il diabete, anche se un’analisi post-hoc ha mostrato in soggetti con positività autoanticorpale ad alto titolo un ritardo dell’esordio del diabete di circa 5 anni (50-52). È ancora in corso l’arruolamento di partecipanti allo studio di valutazione dell’efficacia dell’insulina orale nel ritardo della progressione del diabete in soggetti ad alto titolo anticorpale (53). L’immunizzazione con la catena B dell’insulina o con proinsulina non ha dimostrato efficacia sui livelli di C-peptide (54-55).

Il registro belga T1D ha valutato l’efficacia della somministrazione parenterale di insulina in soggetti con autoimmunità positive e senza aplotipo HLA protettivo per diabete, senza risultati incoraggianti nella progressione di malattia (56).

Lo studio INIT-I (Intranasal Insulin Trial) ha invece in passato valutato l’efficacia della somministrazione di insulina per via intranasale in individui con HLA a rischio e positività per uno o più autoanticorpi nell’immunoregolazione delle cellule T (57) e lo studio INIT-II è ad oggi in corso, anche se i risultati di studi analoghi non sono stati incoraggianti (57-58).

La terapia antigene-specifica maggiormente studiata è stata quella con il vaccino GAD-Alum. Lo studio iniziale fu effettuato in pazienti affetti da LADA e si è dimostrato efficace nella preservazione della secrezione di C-peptide (59). Anche in età pediatrica e adolescenziale è stata poi confermata l’efficacia dell’intervento se somministrato in fase precoce di malattia (60-61). L’immunizzazione è risultata in un aumento del titolo di antiGAD65 e in un’alterata risposta citochinica, anche se non associata ad un significativo effetto sulla risposta del C-peptide (62-63).

Nessuno studio utilizzante terapie “non-antigene specifiche” come il bacillo di Calmette-Guerin, antagonisti istaminici, ciclosporina orale, nicotinamide, ha mostrato efficacia nella prevenzione secondaria (64-73).

Gli studi di prevenzione terziaria, o di immunointervento, sono invece quelli finalizzati alla modulazione della risposta immunitaria e preservazione della secrezione insulinica in pazienti con diabete di tipo 1 all’esordio (74) e solo recentemente sono stati estesi anche a soggetti con autoimmunità positiva per prevenzione secondaria. In atto sono in corso studi con Abatacept (anticorpi CTLA4-Ig), Teplizumab (anticorpi monoclonali Anti-CD3) e Rituximab (anticorpi monoclonali Anti-CD20) per la prevenzione di diabete in parenti di diabetici di tipo 1 considerati a rischio, anche se questi interventi hanno in passato mostrato un certo grado di successo solo se usati molto precocemente, oltre ad essere gravati da potenziali effetti collaterali anche correlati all’indotta immuno-soppressione (75-80).

L’utilità della valutazione degli autoanticorpi come biomarkers di risposta a interventi di immunoterapia è ad oggi non del tutto stabilita. La risposta clinico-metabolica a studi di immunomodulazione, come quelli con anticorpi monoclonali anti-CD3, non è risultata associata a significative modificazioni del titolo autoanticorpale (81-82). Al contrario, il trattamento con anticorpi anti-CD20 sembra associato ad un miglioramento della funzionalità beta-cellulare durante il primo anno di malattia e ad una significativa riduzione del titolo degli IAA nel 40% dei pazienti trattati rispetto allo 0% del gruppo placebo (83).

Ad oggi, l’insulina resta l’unica terapia del diabete di tipo 1 e anche se la malattia può considerarsi “prevedibile” non esistono attualmente delle valide armi per preservare la secrezione endogena di insulina a lunga durata. Un approccio futuro potrà essere quello che si prefiggerà come target simultaneo un complesso trimolecolare, costituito da cellule T CD4, HLA e insulina (84) o l’utilizzo di immunoterapie combinate.

CONCLUSIONI

In atto, nessuno degli autoanticorpi specifici del diabete di tipo 1 possiede sufficiente elevata specificità per essere utilizzato per lo screening routinario della popolazione. Solo l’associazione della valutazione dell’autoimmunità con altri criteri (clinici, metabolici, immunologici) può fornire uno score del rischio di sviluppare la malattia attraverso l’individuazione più accurata dei soggetti in fase prediabetica. Il sistema di stadiazione del diabete di tipo 1 può essere utilizzato per studi di ricerca clinica dove potrà essere di aiuto nella progettazione di uno screening del rischio, stratificazione dei soggetti e progettazione di sperimentazioni cliniche di intervento sulla storia naturale della malattia, ma non nella pratica clinica, in assenza dell’esistenza di uno screening costo-efficacia e di interventi efficaci che ritardino la progressione sintomatica de diabete di tipo 1. Infatti, allo stato attuale i soggetti con screening positivo per diabete potranno semplicemente essere educati ed informati sul rischio di sviluppare diabete sintomatico e sulla eventuale prevenzione della chetoacidosi.

In sintesi, la valutazione degli autoanticorpi è da ritenersi oggi molto robusta e la sua principale applicazione è nell’ambito della prevenzione del diabete di tipo 1. Più numerosa è la positività degli autoanticorpi, più alto è il rischio di progressione alla diagnosi della malattia. Purtroppo questi autoanticorpi non spiegano i meccanismi con cui l’autoimmunità è scatenata. La positività può durare da pochi mesi a molti anni prima dell’esordio della sintomatologia e non abbiamo oggi mezzi certi per la comprensione dei meccanismi che scatenano l’autoimmunità e se questa evenienza è davvero una strada certa di non ritorno.

È pur vero che all’insorgenza del diabete di tipo 1 i pazienti hanno positività anticorpale superiore al 90% ma è pur vero che alcuni autoanticorpi possono scomparire prima della diagnosi e attualmente gli anti-ZnT8 sono ritenuti i migliori marker biochimici can capacità predittiva dello stretto rapporto temporale con l’insorgenza.

L’Autoantigene Insulare ZnT8

  • Circa il 60% dei sieri da  prediabetici e diabetici neodiagnosticati risultano positivi per gli aminoacidi 268-369  del gruppo C terminale.
  • Rappresenta il marker specifico beta cellulare.
  • Gli autoanticorpi compaiono dopo gli autoanticorpi anti-insulina e antiGAD65, come è stato dimostrato nei bambini seguiti sin dalla nascita fino all’insorgenza del diabete di tipo 1.

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La determinazione degli autoanticorpi può essere d’aiuto nell’identificare soggetti a rischio per lo sviluppo della patologia, per distinguere le differenti forme della malattia ed infine permette il monitoraggio delle fasi precliniche e cliniche. Evidentemente il numero crescente degli autoantigeni che sono stati descritti ha contribuito fortemente all’aumento dei costi e anche del tempo necessario per un’analisi completa del loro significato.

L’utilità della determinazione degli autoanticorpi è specchio fedele della progressione della distruzione beta cellulare pancreatica in cui è ancora presente una sufficiente massa beta cellulare capace di garantire una omeostasi glucidica.

Sia clinici che ricercatori oggi concordano che la fase più idonea per bloccare la progressione del danno beta cellulare sarebbe quella di silenziare l’attacco diabetogenico proprio nelle prime fasi della distruzione beta-cellulare pancreatica. La combinazione dei test è ritenuta determinante per confermare “la distruzione beta cellulare progressiva”. Il numero degli autoanticorpi è ancora più determinante rispetto alla specificità in relazione alla progressione verso il diabete manifesto. Il messaggio da tenere in mente è che lo screening per gli autoanticorpi anti-GAD65, anti-IA2 e anti-ZnT8 è utile, ma che oggi trova applicazione principalmente nella ricerca a scopo clinico. L’ICA, il primo autoanticorpo anti-isola pancreatica descritto, può essere considerato “in pensione” proprio per la sua indaginosa determinazione e delle intrinseche difficoltà di standardizzazione. Soprattutto è ormai chiaro che l’ICA contiene gli autoantigeni b cellulari scoperti successivamente negli anni successivi alla sua storica scoperta (Fig. 4).

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