Marina Trento
Laboratorio di Pedagogia Clinica, Dipartimento di Scienze Mediche, Università degli Studi di Torino
DOI: 10.30682/ildia1903d
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Chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinazione di esperienze, di informazioni, di letture, di immaginazioni? Ogni vita è una enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili.
Italo Calvino, Lezioni americane, 1988
La complessità dell’educazione
In questo editoriale affronterò il tema dell’educazione all’interno della relazione terapeutica, ossia in quella relazione con una persona che ha già sviluppato un problema di salute. L’educazione del paziente si propone di rendere la persona il più possibile autonoma nella gestione del proprio trattamento ed in un senso più ampio di produrre un cambiamento significativo nella persona, che in seguito all’insorgenza di una patologia necessita di integrare la malattia all’interno della vita quotidiana. In tal senso prima di addentraci negli aspetti specifici dell’educazione del paziente è utile, a livello generale, fornire un quadro di riferimento teorico di cosa sia l’educazione e quali possano essere i risvolti pratici nelle esistenze delle persone.
Per comprendere la complessità dell’educazione è utile sottolineare che quest’ultima è stata una parola soggetta, per il suo carattere astratto, a continue variazioni di significato. L’educazione, pur rimanendo generatrice di risultati ed effetti quanto mai concreti, osservabili, tangibili ha assunto nel corso del tempo diverse connotazioni e, nel vasto panorama delle diverse interpretazioni, molteplici sono state le espressioni e metafore che hanno rinviato ad essa e che si sono sovrapposte l’una all’altra (1-2). Le riflessioni intorno la sua natura hanno messo in luce le differenze o le contiguità che si possono stabilire tra aree di indubbia vocazione educativa, quali: istruire, formare, motivare, addestrare, guidare, spiegare, insegnare (1-2). Inoltre va da sé che, accanto alle differenti interpretazioni e associazioni di significato, le società, nel loro farsi articolate e complesse, hanno inevitabilmente influenzato l’educazione ed in tutte le culture è possibile trovare opinioni, detti, proverbi, norme orali e scritte relative all’educazione (3). Nel corso dell’esistenza riceviamo un’educazione volta ad inserirci nella società, a iniziarci e perfezionarci rispetto al lavoro, alla protezione dei figli, a dotarci di competenze e abilità intellettive, a fornirci di strumenti di comunicazione e gestione delle relazioni interpersonali, piuttosto che di accrescimento intellettuale (1-3). Da qui l’importanza di coltivare un’attenzione storica nei confronti dei fatti e problemi educativi. In quest’ottica dobbiamo ricordare le differenziazioni odierne dell’educare a livello di miglioramento delle condizioni di vita e di salute, di incremento e valorizzazione delle capacità mentali, ben oltre gli anni di scuola che permettono di riutilizzare nella propria vita le conoscenze apprese in precedenza, con il fine di rendere più accettabile e meno difficile l’esistenza anche nei suoi aspetti più intimi e personali (1-4). Al contempo emerge quanto l’educazione non sia oggetto facile da indagare, e non possa essere circoscritta esclusivamente in quelle esperienze che si dichiarano e sono riconosciute educative, non riguardanti solo alcuni periodi della vita, e quanto invece sia fenomeno diffuso e complesso, rintracciabile in ogni piega di qualsiasi società e nell’intera esistenza di ogni soggetto individuale e collettivo. Oltre le sue dimensioni formali, intenzionali, negoziate e condivise, l’educazione è presente in forme diverse nelle famiglie, nei quartieri, in compagnia di amici e/o amiche, in solitudine, in episodi eccezionali od ordinari che costellano la vita di ciascuno. Si realizza altresì nelle esperienze professionali, nelle dimensioni affettive, ludiche, operative, luttuose dell’esistenza, e ognuna di tali esperienze costituisce una metaforica “aula” in cui accadono cambiamento, trasformazione, ripensamento, apprendimento. La dimensione diffusa dell’educazione vive attorno e contemporaneamente, dentro quella formale, influenzandola, supportandola o a volte, configgendo con essa. La sua azione si attua anche senza che i protagonisti se ne avvedano; anzi, il suo portato sembra a volte trarre energia proprio da questa inconsapevolezza, da questo suo agire libera (1-4). Analogamente possiamo rilevare che le forme e dimensioni dell’educazione riguardano il grande tema dei valori, dei principi, delle credenze, delle speranze anche utopiche di rinnovamento e ci aiutano a comprendere che l’educazione non è mai stata e mai sarà neutrale (1-4). Sulla base di questo ampio quadro di riferimento possiamo comprendere che l’educazione si rivela una necessità vitale e trasversale a diversi periodi della vita, consolida quanto già appreso o si incarica di aggiornare le conoscenze precedenti e ci chiede di diventare una parte costitutiva di cambiamento nelle nostre vite. Se prendiamo in considerazione il significato etimologico del termine educare in riferimento al ben noto etimo latino proveniente da e-ducere= trasferire da un luogo ad un altro, comprendiamo ancor meglio la complessità dell’educazione. La parola venne ricondotta nel Rinascimento alla filosofia socratico-platonica, mentre in epoca medievale e poi preromantica essa fu associata al ruolo che i maestri svolgevano nell’allontanare e favorire il distacco e l’autonomizzazione dell’allievo. Al contempo, un altro significato attribuito al nostro termine rinviava all’attività invece prescrittiva e performativa, volta a modellare il destino delle persone. Educare= sollecitare a riflettere in autonomia di giudizio; educare= condurre altrove; educare= nutrire, accudire, costituiscono una triangolazione che ispira una matrice concettuale ancora utile, qualora si voglia identificare e riconoscere quali funzioni prioritarie un educare spontaneo o professionale possa avere nei diversi contesti e relazioni della vita (4). L’educazione, si compie comunque: non vi è mai totale assenza di stimoli educativi; essa si compie anche attraverso l’inusuale e l’inaspettato, come vento leggero o musica che solleva l’anima ed anche in condizioni di abbandono pedagogico, si incarica di modellarci e fornirci, per attitudini genetiche, perché comunque si imitano comportamenti e idee, il minimo indispensabile per la sopravvivenza (5-6). Anche in situazioni precarie e ingrate dell’esistenza vige un’educazione adattiva, spontaneamente assorbita; così come può e deve sussistere, in opposizione alla precedente, un’educazione di carattere intenzionale che assume la funzione di programmare, gestire e valutare gli interventi ritenuti più appropriati in relazione alle età, condizioni psicofisiche, saperi da trasmettere e condizionamenti originari (7). In una lettura fenomenologica dell’esistenza possiamo rilevare che l’educazione si inserisce nella storia delle persone e può darsi come norma e regola da seguire per ottenere un risultato di cambiamento in se stessi, negli altri, nelle cose, oppure può darsi, al contrario, come sorpresa, imprevisto, svolta inaudita. In entrambi i casi chiede alle persone di mutare in tutto o in parte il corso della vita per fini di adattamento, rinnovamento, emancipazione, al fine di poter rendere più accettabile e meno difficile l’esistenza, anche nei suoi aspetti più intimi e personali. L’idea del cambiamento è dunque presente nella vita adulta e si rivolge a una risorsa interna poiché risponde al principio antico in base al quale occorre confrontarsi con se stessi per continuare ad educarsi (8-9).
Educazione e malattia: storie di vita
La riflessione intorno all’educazione ci rivela che essa ha a che fare con l’impossibile compiutezza umana, che accetta di mettersi alla prova per darsi un progetto e proiettarsi nel futuro. Questo desiderio di futuro, emancipazione e progettualità è ancora più atteso e cercato quando la persona nel corso della propria esistenza incontra la malattia. Il desiderio del cambiamento in questo caso assume lo slancio dell’intento ricostruttivo e necessita di luoghi e tempi dedicati (10).
A questo punto, ancor prima di riflettere sulle possibili azioni educative, è utile riflettere sul concetto di malattia che ogni singola persona ha costruito ed esperito nel corso della propria esistenza. Un tale modo di considerare i fenomeni ci permette di superare i luoghi comuni ed i pre-giudizi circa il concetto di malattia. Questa riflessione ci porta ad intendere lo “star male” non solo come malattia organica, che definiamo “disease”, ma anche come una serie di rappresentazioni, vissuti, ricadute psicosociali e aspettative che si sviluppano a partire dall’esperienza di malattia che chiamiamo “illness”. La malattia, per gli operatori coinvolti nella cura e trattamento, solitamente è sinonimo di progressione della sintomatologia, sviluppo di complicanze, declino e possibile sviluppo di invalidità. Per le persone che vivono la malattia si evidenzia un diverso punto di vista con connotazioni di tipo emotivo e cognitivo che appaiono diverse per ciascuna persona (11).
La percezione di malattia ci aiuta a sollevare lo sguardo rispetto alla sola identificazione con la mera patologia organica, verso uno sguardo sistemico e integrato alla persona in tutte le dimensioni della vita ricche di una trama di significati affettivi e cognitivi, entro i quali sono coinvolti ed impegnati tutti gli attori che a vario titolo sono implicati nei processi di cura (12). In particolare le rappresentazioni sociali di cosa siano la salute, la malattia, il benessere, influenzano in modo determinante le percezioni degli individui, le loro scelte, pratiche sociali e capacità di pensare a curarsi (13). La storia del paziente, che come tale è abitata da intenzioni, sentimenti, aspettative e idee, rappresenta, unitamente al suo corpo, il testo su cui si basa l’attività interpretativa del medico. La malattia e il trattamento della malattia, indipendentemente dalla sua forma acuta o cronica, sono da considerarsi esperienze educative in quanto possono modificare, tra l’altro, la percezione che il soggetto ha di sé stesso, delle proprie possibilità e dei propri limiti, spingendolo a riflettere sul punto del percorso vitale raggiunto (12-13). Questa pratica ermeneutica si configura come una ricerca del significato non solo delle dimensioni biologiche della malattia ma anche delle sue dimensioni storiche e umane. Concepire la relazione terapeutica e le sue dimensioni educative, in un’ottica ermeneutica, significa intenderla come una pratica discorsiva in cui non solo si spiegano dei fenomeni biologici ma si comprendono dei significati, attraverso un processo di vera e propria mediazione culturale che è il presupposto per la costruzione dell’alleanza terapeutica. Da questo punto di vista sono la storia del paziente, gli eventi significativi della sua vita, il suo linguaggio, le sue rappresentazioni di malattia, i suoi modi di elaborare il problema, a costruire il terreno in cui risiedono le opportunità di sviluppo di ipotesi di alleanza tra medico e paziente, tra i diversi operatori coinvolti nel trattamento e il paziente. La struttura narrativa, affinché possa prendere forma, prevede particolari azioni terapeutiche in una più ampia storia di cura, anche nella sua dimensione educativa (14-16). Ritorna il concetto di paziente come individuo inserito in uno sfondo e non come contenitore; la persona è inserita in una prospettiva radicalmente storica con tutti gli elementi di relazione, di vissuto di influenza sociale che caratterizzano la sua malattia. Lo sfondo in cui è inserito il malato ed anche il terapeuta accoglie le storie di vita di entrambi. In questo senso, la relazione terapeutica diventa un campo di incontro tra due storie che, attraverso un processo dialogico, si connettono in uno spazio simbolico che è stato definito sfondo integratore (17). In una dimensione educativa, ben oltre la mera trasmissione di consigli, viene composta una storia terapeutica che rappresenta la costruzione del progetto educativo alla consultazione (18). In questo progetto entra in gioco non solo il paziente con il suo problema da risolvere, ma anche il terapeuta con la sua storia professionale, fatta non solo di cognizioni scientifiche ma anche di tutti i saperi relazionali, etici, antropologici, in una parola narrativi, che egli ha costruito nel corso del tempo. In una tale prospettiva, l’educazione diventa quell’esperienza che agisce nella storia dei soggetti determinando una modifica dello stato dei saperi valoriali, normativi, cognitivi, affettivi, strumentali o una loro differente percezione e utilizzo pur in presenza della malattia (19).
Sulla base di questo ampio quadro di riferimento è possibile riconoscere che prendersi cura della persona affetta da malattia cronica significa individuare percorsi capaci di offrire opportunità al cambiamento su un piano prettamente esistenziale (19). La malattia non solo danneggia aspetti biologici e funzionali dell’organismo, ma spesso, con sfumature diverse sulla base delle specificità del paziente, incide in modo sostanziale sulla vita sociale, emotiva, familiare-relazionale e lavorativa e talvolta sul modo in cui si interpreta la vita stessa e si ordinano le proprie priorità esistenziali (19). La presenza della malattia e la sua percezione non riguarda esclusivamente il paziente, ma tutti gli attori del processo diagnostico-terapeutico. Il punto di vista del paziente, attraverso le sue percezioni, credenze, emozioni, esperienze di vita quotidiana, diviene così un nuovo parametro, che si affianca agli indicatori medico/clinici nella valutazione dell’esito dei trattamenti, o cambiamenti nello stato di salute. Il punto di vista del paziente si rivela tanto più importante quanto più la pratica medica si trova di fronte a quadri clinici complessi, spesso composti da più patologie ad andamento cronico, per i quali gli interrogativi sulla quantità del vivere richiamano, con sempre maggiore insistenza, quelli della sua qualità (20).
Più recentemente è stato evidenziato come il coinvolgimento del paziente non sia solo fondamentale per la gestione della sua malattia ma anche per la riprogrammazione di strategie nazionali per il trattamento delle malattie croniche a livello europeo favorendo il miglioramento della qualità della cura (21). Possiamo riconoscere che esistono cose essenziali per la vita umana e la cura rientra nell’ordine delle cose essenziali, perché per dare forma al nostro essere dobbiamo imparare ad aver cura di noi, degli altri e del mondo (22). Possiamo riconoscere che fare educazione è un processo complesso e articolato che apre alla democratizzazione della relazione di cura oltre alla condivisione di informazioni e significati. Questo orientamento richiede una profonda riflessione riguardo le azioni di cura educativa utili a promuovere emancipazione per le persone coinvolte (23).
Recentemente le riflessioni pedagogiche nell’ambito della cura educativa ci ricordano che il nostro modo di stare con gli altri nel mondo è intimamente connesso con la cura che abbiamo ricevuto e con le azioni di cura che mettiamo in atto (23). È irrinunciabile aver cura della vita, per conservarla nel tempo, per farla fiorire e per riparare le ferite dell’esistenza. Poiché la vita umana è fragile e vulnerabile, il lavoro di cura è intensamente problematico; il primo compito di una filosofia impegnata a cercare la misura di senso dell’esperienza consiste dunque nel prendere in esame il fenomeno della cura al fine di comprenderlo nelle sue qualità essenziali ben oltre mere pratiche informative o divulgative (24). La cura educativa e formativa pertanto, consiste nella presa in carico globale della persona, con un orientamento atto a favorire la sua trasformazione attraverso un processo evolutivo e non solo ricompositivo (24).
La specificità della cura educativa
Riusciamo a comprendere che la cura e il trattamento della persona con malattia cronica richiede un nuovo paradigma concettuale, che non è quello solitamente in uso nella medicina, ovvero quello biomedico o modello chiuso, ma quello bio-psico-sociale, che permette di guardare al paziente in una prospettiva radicalmente storica, con tutti gli elementi di relazione e vissuto che caratterizzano la sua malattia (25). Da tempo la letteratura segnala che “l’impartire informazioni” definita anche patient teaching, con il quale spesso si confonde l’azione di educazione del paziente, rappresenta in realtà solo una parte di questo processo. È possibile che questo tipo di sovrapposizione, tra patient teaching e patient education, sia non solo legata al significato del termine education in inglese, che, come noto, significa “istruzione”, ma anche a una visione della relazione terapeutica guidata da una logica propria del modello tradizionale di medicina, quello biomedico, che vede l’operatore come colui che detiene il sapere e lo trasmette al paziente, il quale si trova in una posizione di “non conoscenza”. Come evidenziato recentemente l’attività di patient teaching, o anche patient instruction è equiparabile a un intervento informativo, che a sua volta si collega a un modo superato d’intendere gli interventi di cosiddetta “educazione sanitaria” in ambito clinico, fortemente prescrittivi e centrati sul professionista. Proprio perché le competenze da mettere in campo sono diverse, come differenti sono le risorse necessarie, non solo sul piano organizzativo e professionale, ma anche su quello personale (26), è importante, dunque, che gli operatori imparino a distinguere, nella loro pratica clinica, le attività di patient teaching da quelle di vera e propria patient education, Le ricerche italiane con una attenzione alla riflessione in merito alle azioni educative hanno prodotto interessanti risvolti nell’ambito dell’educazione del paziente coinvolgendo gli operatori in percorsi formativi utili a sviluppare attenzione e interesse nei confronti di pratiche didattiche e processi in grado di favorire l’engagement del paziente (27-30). Più recentemente, l’Educazione Terapeutica del Paziente è stata definita la “Cenerentola” tra gli interventi in ambito sanitario (31) mostrando una mancanza di progettazione educativa dovuta ad una carenza epistemologica intorno al concetto di educazione con uno scarso dialogo e confronto tra la ricerca e la riflessione delle scienze sociali contemporanee a cominciare da quelle dell’educazione. Da questa disamina possiamo dunque riconoscere che, per realizzare azioni educative atte a promuove l’autonomia della persona, entra in gioco una competenza formativa, ossia la capacità di pianificare gli interventi, padroneggiare le metodologie più adatte a quegli interventi e saperli valutare (32). Ma l’individuare obiettivi di educazione terapeutica, scegliere i metodi più adeguati, gestire i processi educativi con strumenti adeguati, valutare in modo rigoroso gli effetti degli interventi, specialmente sulla salute dei pazienti, non possono essere indicatori, da soli, di un vero e proprio processo educativo in atto. Quelle azioni, che caratterizzano il processo formativo, ossia la dimensione didattica, non possono esaurire l’agire educativo potenzialmente insito in quel processo (32). A questo punto è utile sottolineare che si tratta non di soddisfare dei bisogni ma rendere capaci di autonomia e desiderio, aiutare a crescere. Si tratta di insegnare a contenere l’angoscia, a fare qualcosa che consenta di ritrovare parti buone dentro di sé, modificare le relazioni con gli altri, sentirsi utili e importanti, apprendere dall’esperienza (33). Nello specifico si tratta di attivare percorsi capaci di costruire un nuovo sapere con una postura essenziale che è dunque la capacità di prestare attenzione all’altro, con una profonda etica del rispetto, che si traduce in un ascoltare silente così che l’esperienza dell’altro risuoni senza alcuna valutazione preventiva. Si tratta di mettere in atto una disponibilità empatica all’ascolto che è presupposto per una autentica comprensione dell’esperienza dell’altro (32-34). Nell’educazione dei pazienti, l’ascolto, la comunicazione e la capacità di comprendere la situazione dell’altro, facendola risuonare dentro di sé hanno la fondamentale e irrinunciabile funzione di creare un rapporto, su cui si basa la possibilità stessa del cambiamento, che è la finalità ultima dell’agire educativo (32-34).
Addentrandoci più nello specifico possiamo rilevare che le persone con diabete tipo 2 (35-39) necessitano di programmi educativi complessi e articolati affinché si possano ottenere modifiche durature nella gestione della malattia. La letteratura in merito sottolinea che se vogliamo sviluppare percorsi e approcci educativi dobbiamo considerare le capacità e i vissuti delle persone affinché queste vengano coinvolte nel processo di adattamento nei confronti della malattia e successive azioni di cambiamento e apprendimento di nuove condotte di salute (35-39). Recentemente è stato dimostrato che nel suo esplicarsi la malattia rimette in dubbio l’esistenza e la persona necessita di strumenti concettuali ed operativi utili a elaborare la diagnosi di malattia per attivare processi di resilienza (38-39).
Per le persone con diabete di tipo 1, è necessario che il processo educativo sia rivolto a fornire gli strumenti concettuali utili a elaborare le esperienze promuovendo la capacità di resilienza (40). Sempre più si sottolinea l’importanza di offrire sostegno e opportunità nel processo decisionale coinvolgendo il nucleo familiare, riducendo gli ostacoli all’assistenza, formulando piani e obiettivi per il trattamento (41). Tuttavia mentre le conoscenze relative al diabete raggiungono livelli elevati tra i pazienti, “la percezione del rischio” rimane un tallone di Achille e suggerisce che non sempre le persone sono in grado di applicare le conoscenze acquisite e trasformarle in comportamenti adeguati alla nuova condizione esistenziale (42). Nella nostra esperienza abbiamo potuto dimostrare come nella storia delle persone con diabete tipo 1 la messa a punto di adeguate strategie educative e la cura del processo educativo, non solo nelle sue dimensioni relazionali, ma anche di significazione, di scambio e di produzione simbolica favorisce la costruzione del proprio futuro (43). Essere malati e imparare a gestire un trattamento vuol dire co-costruire con gli operatori, ma anche altri individui che stanno attraversando la stessa esperienza, una storia del proprio futuro (44). All’interno di questo modello di cooperazione, tra pazienti e pazienti, tra operatori e pazienti, si cerca di abbandonare quello che chiamiamo modello depositario, caratterizzato da trasmissione, ricezione, esclusione reciproca, passività e adattamento, per andare verso il modello problematizzante, caratterizzato invece, da partecipazione attiva, comunicazione e rispetto dell’altro, dialogo interpersonale, creatività e trasformazione (45).
La formazione pedagogica degli operatori
Accanto alla complessità delle azioni educative utili a fornire supporto al paziente esiste la complessità della formazione per gli operatori coinvolti nelle azioni di cura educativa. In tal senso il confronto con la letteratura può aiutare e sollecitare indagini e interrogativi. L’attenzione va rivolta a recenti disamine in merito la formazione degli operatori coinvolti nella cura (45).
Recentemente la capacità riflessiva è divenuta indispensabile negli ambiti della cura e accanto ad una expertise tecnica sempre più si sta delineando la necessità di una expertise volta a riflettere sulle personali azioni di cura e saper regolare l’agire in corso d’opera (46). Alcuni autori hanno rilevato che gli operatori che hanno scelto di trasformare il loro ruolo nell’espressione di un sapere esclusivamente tecnico-scientifico sono spesso influenzati da messaggi impliciti rispetto a ciò che i pazienti riferiscono reputandoli inaffidabili. Al contempo queste scelte, nel breve termine, inducono a fare i conti con emozioni rimosse, cose non dette e azioni non realizzate che diventano insostenibili per qualsiasi sapere tecnico-scientifico. Inoltre l’esposizione ripetuta e continuata alla sofferenza, al dolore e alla morte di altri essere umani può indurre una persona a sviluppare una serie di disturbi sul piano emotivo e identitario (47). In tal senso già in passato era stato rilevato che la medicina basata sulla sola evidenza scientifica faticava a “riconoscere le vaste radici sociali, economiche e persino politiche dei dilemmi affrontati dai medici” (48). La risposta a questi dilemmi oltre alla capacità di affrontare l’incertezza si delinea nell’abilità di costruire strategie di tipo cognitivo volte alla riflessione ed in tal senso la pedagogia come scienza dell’educazione mira a modificare non solo l’approccio didattico nella formazione, ma anche l’atteggiamento relazionale nei confronti dei pazienti e nei confronti di sé stessi (49-50). Sono esercizi volti a comprendere e incoraggiare la comprensione e la gestione dell’incertezza, utilizzando l’apprendimento per problemi con l’obiettivo di migliorare la capacità riflessiva (51) Altri autori hanno evidenziato la necessità di approcci espliciti e riflessivi per insegnare e discutere intorno aspetti epistemologici della medicina come l’incertezza, la soggettività del medico e l’autorità alla luce di messaggi impliciti nel contesto medico (52).
È accaduto che nel corso del tempo la medicina si allontanasse dalla sua dimensione umanistica e come sottolineato da Wasserman “la medicina ha accettato di trasformarsi per non indebolire la sua autorità” generando perplessità e nuovi interrogativi (53). È evidente che ancora persiste la credenza che la debolezza delle scienze umane e sociali stia nell’incapacità di liberarsi dei fenomeni e dimensioni umane e elevarsi alla dignità delle scienze biofisiche, le quali stabilirebbero leggi semplici, principi esatti e farebbero regnare l’ordine del determinismo (54). Eppure oggi esiste una crisi della spiegazione semplice che caratterizza tutte le scienze naturali: quelli che sembravano i residui non scientifici delle scienze umane quali l’incertezza, il disordine, la contraddizione, la pluralità, la complicazione, sono entrati a far parte della problematica di fondo di ogni conoscenza scientifica. Il medico professionista orientato ad un approccio di tipo pratico e tecnico nei confronti di problemi non astratti e non differibili, forse più di altri, dimostra diffidenza nei confronti di riflessioni che possono sembrare senza una concreta ricaduta nella pratica quotidiana (54). Le problematiche nella comunicazione medico-paziente, per esempio, possono essere interpretate come derivanti dal ruolo sempre più piccolo affidato al paziente a favore di una esaltazione della sintomatologia. Sostenere dei processi di comunicazione che favoriscano non solo l’esecuzione di prestazioni terapeutiche ma la considerazione e analisi dei diversi elementi in gioco, la distinzione dei problemi e l’individuazione delle opportunità esistenti per affrontarli è un compito non facile, ma non per questo irrealizzabile (54).
Anche quando l’intervento è stato programmato, gli strumenti per la verifica sono stati individuati e gli operatori sono formati il lavoro più efficace per favorire processi educativi non è quello che si fa al posto dell’altro ma è un lavoro di educazione sociale, ed in particolare della possibilità da parte del paziente di diventare capace di affrontare e risolvere da solo la propria situazione, naturalmente a partire da un range di proposte, scientificamente fondate, che provengono dall’operatore e che vengono vagliate all’interno di un processo di negoziazione tra paziente e terapeuta (55). Affinché avvenga il dialogo e si attui il cambiamento, i partecipanti devono rifiutare consapevolmente idee e convinzioni precedenti e trasformare il loro modo di pensare. L’apprendimento trasformativo è un processo che promuove risposte emotive profonde, che portano a cambiamenti cognitivi e comportamentali, favorendo la traduzione delle conoscenze (56).
Ritorniamo al concetto di cura che, nella sua prospettiva ideale, è finalizzata a promuovere il pieno benessere intellettuale, emozionale, spirituale e fisico di chi la riceve. Essa ha luogo in un contesto di strutture sociali che incoraggiano lo sviluppo delle capacità di dare e ricevere cura (56). Promuovere esperienze che educhino i professionisti a una competenza riflessiva e supportarli nella comprensione dei valori costruttivi della loro esperienza lavorativa (57) è la sfida, quasi l’utopia, della ricerca pedagogica. Gli obiettivi sono educare i professionisti a riconoscere le diverse dimensioni del loro ragionamento, aiutarli a elaborare emozioni che derivano dal ruolo che hanno nella relazione di cura e imparare a contestualizzare le azioni in strutture di cura e dimensioni pragmatiche. Sono momenti in cui gli operatori appaiono meno sostenuti dall’arte medica nei suoi aspetti risolutivi, meno possono servirsi delle competenze scientifiche e meno possono proporsi come capaci di beneficiare. Si scopre la zona d’ombra che è là dove ognuno fa i conti non con i limiti della medicina ma con i suoi limiti, di professionista e uomo e donna nell’incontro con la realtà dell’altro. Ma la capacità riflessiva può far emergere e criticare le comprensioni tacite che si sono sviluppate durante le esperienze ripetitive della pratica specializzata e può elaborare un nuovo significato delle situazioni incerte e uniche di cui avere esperienza (58).
L’educazione alla cura di sé consiste nella predisposizione di un setting in cui l’esperienza sia possibile. Fare esperienza educativa significa esperire se stessi fuori dall’ordinario, ovvero dal quotidiano, dalla vita comune, pur avendo presente che tali esperienze avranno delle ricadute sull’esistenza. L’esperienza, appartiene sì all’esistenza di ciascuno, ma si qualifica come pedagogica per la sua progettazione e strutturazione. In tal senso ho imparato che l’osservazione, il tempo, la pazienza, l’ascolto sono necessari per agire nella complessità. Se desideriamo veramente migliorare la vita dei pazienti, dobbiamo ascoltarli e come aveva osservato Livingstone, “un’educazione rimane incompleta a meno che non lasci alle persone una filosofia di vita, e questo non è mai stato così necessario come nella nostra epoca di incertezza” (59).
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