Il Diabete nel paziente vulnerabile: un approccio multispecialistico e polifarmacologico alla luce delle nuove evidenze
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Comunicazioni orali
ACCESSO IN PRONTO SOCCORSO PER IPOGLICEMIA SEVERA IN PAZIENTI CON DIABETE MELLITO NOTO: DATI DI UNO STUDIO MULTICENTRICO ITALIANO
A. Mantovani1, L. Chioma2, G. Vancieri2, G. Grani3, I. Giordani2, R. Rendina3, M.E. Rinaldi2, A. Andreadi2, C. Coccaro3, G. Bertazzoni4, D. Lauro2, A. Bellia2, M.G. Baroni3, G. Zoppini1, G. Targher1, E. Bonora1
1Sezione di Endocrinologia, Diabetologia e Metabolismo, Dipartimento di Medicina, Università e Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona, Verona; 2Unità di Endocrinologia e Diabetologia, Dipartimento di Medicina, Università “Tor Vergata”, Roma; 3Dipartimento di Medicina Sperimentale, Università La Sapienza di Roma, Roma; 4Unità di Medicina d’Emergenza, Dipartimento di Medicina Interna e Specialità Medica Università La Sapienza di Roma, Roma
Scopo: scopo di questo studio multicentrico è stato quello di descrivere le principali caratteristiche dei pazienti con diabete noto che hanno avuto un accesso in Pronto Soccorso (PS) per una ipoglicemia sintomatica severa e determinare i principali fattori di rischio associati.
Metodi: abbiamo condotto uno studio retrospettivo, identificando nel database elettronico ospedaliero di tre Aziende ospedaliere universitarie tutti i casi di accesso in PS avvenuti per ipoglicemia severa tra gennaio 2010 e dicembre 2014. Escludendo i pazienti che non erano diabetici, abbiamo analizzato le caratteristiche demografiche e cliniche dei pazienti con diabete mellito noto.
Risultati: sono stati osservati 520 casi (maschi 55%, età media 72 anni) di ipoglicemia severa, di cui l’85% con diabete tipo 2 noto, il 13% con diabete tipo 1 ed il rimanente 2% con diabete secondario. La frequenza complessiva di eventi è stata di 7 accessi per ipoglicemia severa ogni 10.000 accessi totali in PS/anno. Il valore medio della glicemia extra-ospedaliera era di 2.2±1.3 mmol/L, mentre quella rilevata in PS era di 4.2±2.8 mmol/L. Complessivamente, i pazienti erano pazienti ‘fragili’ con un’elevata prevalenza di co-morbidità. Per quanto riguarda il trattamento diabetico, i pazienti erano trattati con ipoglicemizzanti orali (44%), insulina (43%) o entrambi (13%). Tra gli ipoglicemizzanti orali il 73% erano sulfaniluree: la glibenclamide (54%) era quella più utilizzata, seguita da glimepiride (11%) e gliclazide (7%). La repaglinide era usata nel 26% dei pazienti. Nel campione il tasso di ricovero ospedaliero era pari al 35.7% e la mortalità intra-ospedaliera del 3.4%. Nella multivariata, la presenza di cirrosi epatica (OR 9.85, 95% CI 1.82-53.2, p<0.01) e di insufficienza renale cronica (OR 3.86, 95% CI 1.61-9.31, p<0.01) erano gli unici predittori indipendenti di ospedalizzazione.
Conclusione: dato il rischio elevato di sequele dovute all’ipoglicemia, gli specialisti ed i medici di medicina generale dovrebbero sempre prestare molta attenzione quando impostano e/o modificano la terapia ipoglicemizzante ai loro pazienti, cercando di ridurre il più possibile il rischio d’ipoglicemia, specialmente nei pazienti anziani e fragili.
STEATOSI EPATICA NON ALCOLICA (NAFLD) ED INCIDENZA DI MALATTIA CARDIOVASCOLARE IN PAZIENTI CON DIABETE TIPO 1
A. Mantovani, L. Mingolla, R. Rigolon, V. Cavalieri, I. Pichiri, G. Zoppini, E. Bonora, G. Targher Sezione di Endocrinologia, Diabetologia e Metabolismo, Dipartimento di Medicina, Università e Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona, Verona
Scopo: recenti studi hanno documentato un’associazione significativa tra la steatosi epatica non alcolica (NAFLD) ed il rischio di malattia cardiovascolare (CVD) nei pazienti con diabete tipo 1 (T1DM). Tuttavia, tale associazione necessita di essere ulteriormente verificata in studi longitudinali. Abbiamo, pertanto, valutato se esiste una relazione tra la NAFLD e l’incidenza di CVD nei pazienti con T1DM.
Metodi: sono stati studiati 286 pazienti con T1DM (età media 43±14 anni; maschi 42.3%) esenti da epatopatia cronica da causa nota e seguiti per un periodo medio di 5.3±2.1 anni per lo sviluppo di CVD (definita come riscontro di cardiopatia ischemica non fatale, ictus ischemico non fatale o rivascolarizzazione coronarica/periferica). La diagnosi di NAFLD è stata formulata mediante ecografia epatica.
Risultati: complessivamente, al baseline, 150 (52.4%) pazienti avevano la NAFLD. Durante il follow-up sono stati osservati 28 casi di CVD. L’incidenza cumulativa di CVD era maggiore nei pazienti con NAFLD rispetto a quelli senza (17.3% vs 1.5%, p<0.001, rispettivamente). Nella regressione di Cox la NAFLD si associava ad un aumentato rischio di incidenza di CVD (Hazard Ratio [HR] 8.16, 95% CI 1.9-35.1, p=0.005). Dopo aggiustamento per età, sesso, BMI, fumo, durata di diabete, HbA1c, ipertensione, dislipidemia, nefropatia, storia di cardiopatia ischemica e valori di GGT, l’associazione rimaneva significativa e non si attenuava (adjusted-HR 6.73, 95% CI 1.2-38.1, p=0.031).
Conclusioni: questo è il primo studio longitudinale che dimostra l’esistenza di un’associazione significativa tra la NAFLD e l’incidenza di CVD nei pazienti con T1DM, indipendentemente dalla coesistenza di molteplici fattori di rischio.
EFFETTO DEL BODY MASS INDEX (BMI) PREGRAVIDICO MATERNO SUGLI OUTCOME DELLA GRAVIDANZA
C. Avventi, S. Burlina, A. Barison, M.G. Dalfrà, A. Lapolla Dipartimento di Medicina – DIMED, Università di Padova
Background: l’obesità rappresenta un importante fattore di rischio per diversi outcome avversi in gravidanza.
Scopo: analizzare gli effetti del BMI pregravidico materno sugli outcome materni e fetali.
Materiali e metodi: analisi retrospettiva di 1202 gravidanze con valutazione di età, BMI pregravidico, incremento ponderale in gravidanza, epoca gestazionale e modalità del parto, peso e lunghezza del neonato, parametri metabolici (glicemia a digiuno, emoglobina glicata, profilo lipidico), outcome materni (sviluppo di diabete gestazionale, di disturbi ipertensivi e tireopatie) e neonatali quali neonati LGA (peso alla nascita >90° percentile in base all’età gestazionale) e SGA (peso alla nascita <10° percentile in base all’età gestazionale), macrosomia (peso alla nascita ≥4000 g). La popolazione studiata è stata suddivisa in quattro gruppi in base al BMI pregravidico materno (sottopeso, normopeso, sovrappeso, obesità) ed ogni gruppo è stato confrontato con quello normopeso, considerato di riferimento.
Risultati: l’incremento ponderale in gravidanza è risultato ridotto in donne sovrappeso ed obese rispetto alle donne normopeso (10,3±5,2 vs 11,8±4,5 kg, p<0,001 e 7,4±6,4 vs 11,8±4,5 kg, p<0,001, rispettivamente). I disturbi ipertensivi sono risultati maggiormente frequenti in donne sovrappeso ed obese rispetto alle donne normopeso (8,5% vs 2,5%, p<0,001 e 17,8% vs 2,5%, p<0,001, rispettivamente). L’ipotiroidismo è risultato maggiormente frequente in pazienti obese rispetto alle pazienti normopeso (11,7% vs 6,2%, p<0,05). Infine nella classe obesità la prevalenza dei LGA è risultata maggiore rispetto a quella della classe normopeso (27,5% vs 13,8%, p<0,001); non abbiamo rilevato alcuna differenza significativa per quanto riguarda i SGA.
Conclusioni: la presenza di sovrappeso ed obesità pregravidici materni sono risultati associati a diversi outcome avversi materni e fetali, nonostante un incremento ponderale significativamente inferiore rispetto alle donne normopeso. Interventi preconcezionali mirati ad un calo ponderale potrebbero risultare efficaci al fine di ridurre ulteriormente le complicanze in gravidanza associate all’elevato BMI materno.
GLICAZIONE AVANZATA EOSSIDAZIONE LIPOPROTEICA:EFFETTI EXTRA-GLICEMICI DEL TRATTAMENTO CON PIOGLITAZIONE IN PAZIENTI CON DIABETE TIPO 2
N.C. Chilelli1, S. Burlina1, E. Ragazzi2, R. Marin1, C. Cosma3, M. Roverso4, R. Seraglia4, E. Manzato1, A. Lapolla1, G. Sartore1
1Dipartimento di Medicina (DIMED), Università degli Studi di Padova; 2Dipartimento di Scienze del Farmaco, Università degli Studi di Padova; 3Dipartimento ad Attività Integrata Sperimentale (DAIS) di Medicina Diagnostica di Laboratorio, Università degli Studi di Padova; 4CNR-IENI, Padova
Background: il trattamento con pioglitazone è associato ad una ridotta ossidazione delle HDL e ad una riduzione dei processi di glicazione avanzata non enzimatica, in pazienti con diabete tipo 2 (DM2). Non è noto se vi sia una correlazione clinica fra questi due effetti, né se a ciò consegua una minor ossidazione delle LDL, come suggerito da alcuni studi sperimentali.
Obiettivi: abbiamo valutato gli effetti di 12 mesi di trattamento con pioglitazone, rispetto a glimepiride, sull’ossidazione delle LDL (oxLDL) e HDL, quest’ultima espressa come analisi semiquantitativa della metionina ossidata (MetO) a livello dell’apolipoproteina A-I (oxApoA-I).Obiettivi dello studio sono stati indagare le modifiche dei livelli di oxLDL nei 2 gruppi e l’associazione fra oxApoA-I, parametri clinici e prodotti sierici di glicazione avanzata (AGE).
Metodi: 95 pazienti con DM2, in terapia con metformina 2g/die, sono stati randomizzati a pioglitazone 15 mg o glimepiride 2 mg. Sono stati determinati i seguenti parametri bioumorali: HbA1c, microalbuminuria, colesterolo totale, HDL-C, LDL-C, TG, oxLDL, ApoA-I, oxApoA-I, AGE. La percentuale di oxApoA-I è stata stimata mediante spettrometria di massa (MALDI/TOF/TOF). Le oxLDL e gli AGE sono stati quantificati con metodica ELISA.
Risultati: il trattamento con pioglitazone, rispetto a glimepiride, ha determinato una riduzione significativa degli AGE sierici. È risultata una correlazione moderata fra la variazione pre-post (∆) di oxApoA-I e di AGE nel totale dei pazienti (r=0.30; p=0.007), mentre nel gruppo trattato con pioglitazone si è registrata una tendenza non statisticamente significativa (r=0.27; p=0.089). La riduzione di oxApoA-I è risultata indipendente dalla variazione di HbA1c e di HDL-C, dalla durata di malattia e dall’utilizzo di statine. I livelli di oxLDL sono risultati invariati in entrambi i gruppi di trattamento.
Discussione: la prevenzione dei processi di glicazione avanzata potrebbe essere correlata con la ridotta ossidazione delle HDL, osservata in particolare nei pazienti trattati con pioglitazone. L’ossidazione delle HDL nel DM2 appare un fenomeno clinicamente distinto dall’ossidazione delle LDL, ed è indipendente dal controllo glicemico e dalla durata di malattia.
GRAVITA’ E ASSOCIAZIONI DELLA DISFUNZIONE ERETTILE IN UN CAMPIONE DI MACHI DIABETICI DI TIPO 2
A. Aceti1, M. Iafrate1, E. Ragazzi2, G. Bax3
1Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Oncologiche e Gastroenterologiche, Università degli Studi di Padova; 2Dipartimento di Scienze del Farmaco, Università degli Studi di Padova; 3Dipartimento di Medicina, Università degli Studi di Padova
Scopo: lo scopo dello studio è valutare quali caratteristiche cliniche, endocrine e metaboliche sono associate significativamente alla severità della disfunzione erettile.
Metodi: sono stati raccolti dati di 244 pazienti maschi, affetti da DM2 e disfunzione erettile, riguardanti: età, altezza, peso, BMI, circonferenza addominale, trigliceridemia, colesterolemia totale, LDL, HDL, HbA1c, PSA, TSH, testosterone, abitudine al fumo e all’uso di alcool e dati riguardanti altre condizioni cliniche dei pazienti quali ipertensione, sindrome metabolica, nefropatia, vasculopatia TSA e periferica, ictus, coronaropatia, retinopatia, neuropatia periferica (con le VPT all’alluce destro e sinistro e all’apice ed alla base del pene) ed autonomica (con i test cardiovascolari lying to standing (LS), deep breathing (EI), manovra di Valsalva (VR) ed ipotensione ortostatica).
Risultati: l’età media alla diagnosi era 59,9±7,3, la durata media della malattia diabetica 15±8 anni e il punteggio medio all’IIEF-5 12,5±5,55. All’analisi bivariata i fattori direttamente associati alla gravità della DE sono stati: circonferenza addominale (p=0,02) e livelli di trigliceridi nel sangue (p=0,04), mentre quelli inversamente associati colesterolemia totale (p=0,0045), colesterolemia HDL (p=0,049), colesterolemia LDL (p=0,0041) e testosterone totale (p=0,035). All’analisi multivariata le caratteristiche risultate associate alla gravità della DE sono state i livelli di trigliceridi nel sangue (p=0,0066) e la colesterolemia totale (p=0,0047). L’ANOVA ha individuato che altri fattori associati alla gravità della disfunzione erettile sono: nefropatia (p=0,017), coronaropatia (p=0,027), neuropatia periferica (p=0,039), fumo (p=0,024) e sindrome metabolica (p=0,035). I test per la neuropatia periferica associati alla gravità della DE all’analisi bivariata sono risultati VPT alluce destro e sinistro (p=0,03 e 0,008) e VPT all’apice ed alla base del pene (p=0,022 e 0,03), mentre quelli per l’autonomica sono risultati LS (p=0,0054), EI (p=0,0004) e ipotensione ortostatica (p=0,018).
Conclusioni: la gravità della DE è associata a varie caratteristiche metaboliche ed endocrine e può essere utile per caratterizzare i pazienti al fine di pianificare adeguatamente l’approccio diagnostico e terapeutico.
ADIPOSITA’ E APPORTO LIPIDICO AUMENTANO IL RISCHIO CARDIOVASCOLARE IN BAMBINI/ADOLESCENTI CON DIABETE MELLITO DI TIPO 1, INDIPENDENTEMENTE DL CONTROLLO GLICEMICO
C. Maffeis, E. Fornari, A. Morandi, C. Piona, F. Olivieri, F. Tomasselli, M. Tommasi, M. Marigliano U.O.C. di Pediatria ad Indirizzo Diabetologico e Malattie del Metabolismo, Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona
Obiettivo: verificare l’ipotesi che composizione della dieta e adiposità contribuiscano indipendentemente ad aumentare il colesterolo non-HDL quale indice indiretto di rischio cardiovascolare (CVR) in bambini/adolescenti con diabete mellito tipo 1 (DMT1).
Metodi: sono stati arruolati 108 pazienti con DMT1 (5-18 anni) e di questi valutati parametri clinici (altezza, peso, circonferenza vita, BIA), biochimici (HbA1c, profilo lipidico) e dieta (diario alimentare pesato di 3 giorni), analizzati con modelli di regressione multipla, utilizzando colesterolo non-HDL come variabile dipendente e HbA1c, percentuale di massa grassa (FM), apporto lipidico [% dell’apporto di energia totale (EI)] e genere come variabili indipendenti.
Risultati: il colesterolo non-HDL correlava in modo significativo con adiposità (FM%) (r=0.27, p<0.01), distribuzione del grasso corporeo (rapporto vita/altezza) (r=0.16, p<0.05), apporto di lipidi (%EI) (r=0.25, p<0.05) e carboidrati (%EI) (r=-0.24, p<0.05), e HbA1c (r=0.24, p<0.05). Adiposità (FM%), HbA1c ed apporto lipidico (%EI) hanno contribuito indipendentemente a spiegare la variabilità interindividuale del colesterolo non-HDL (R2=0.164, p<0.05). Apporto lipidico [OR=1.09 (1.01-1.18), p<0.05], massa grassa [OR=1.07 (1.01-1.12), p<0.05)] e HbA1c [OR=1.04 (1.01-1.08), p<0.05] hanno predetto in maniera significativa valori di colesterolo non-HDL >2.7mmol/L (R2 di Nagelkerke=0.174).
Conclusioni: il colesterolo non-HDL è influenzato da adiposità e dieta, indipendentemente dall’HbA1c, in bambini/adolescenti con DMT1. Pertanto, il trattamento del DMT1 dovrebbe non solo mirare ad ottenere un buon compenso glicometabolico ma anche a ridurre adiposità e apporto lipidico.
PASTO LIPIDICO, INFIAMMAZIONE SISTEMICA E OMEOSTASI GLUCIDICA IN BAMBINI E ADOLESCENTI OBESI
A. Morandi1, E. Fornari1, F. Opri1, F. Olivieri1, C. Piona1, M. Corradi1, M. Tommasi1, R. Bonadonna2, C. Maffeis1
1 U.O.C. di Pediatria ad Indirizzo Diabetologico e Malattie del Metabolismo, Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona; 2 Endocrinologia e Malattie del Metabolismo, Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Azienda Opedaliero-Universitaria di Parma
Background: la relazione tra assunzione di lipidi, IL-6 e omeostasi gluicidica è poco conosciuta. Lo scopo dello studio è di valutare in bambini/adolescenti obesi l’associazione tra: i) IL-6 e omeostasi glucidica; ii) assunzione di un pasto lipidico e assorbimento di lipopolisaccaride (LPS); iii) assorbimento postprandiale ed esposizione cronica al LPS con IL-6 e omeostasi glucidica.
Metodi: sono stati arruolati 20 bambini/adolescenti obesi (9-17 anni, 11 maschi) e sottoposti ad OGTT standard e, 7-14 giorni dopo, ad un test con pasto lipidico. IL-6 e due marker rispettivamente di esposizione ed assorbimento di LPS, LPS-binding protein (LBP) e CD14 solubile (sCD14), sono stati misurati prima e 5 ore dopo l’assunzione di un pasto lipidico composto da gelato, supplementato con olio di semi di girasole e olio extra vergine di oliva (lipidi=69% dell’intake energetico totale, SFA/MUFA/PUFA=31,5%/35%/33,5%). Si sono valutati: i) la correlazione tra IL-6 e omeostasi glucidica [HOMA-IR, Matzuda index, secrezione insulinica assoluta (AUCinsulina/glicemia) e aggiustata (Matzuda-index* AUCinsulina/glicemia)]; ii) le AUC incrementali (iAUC) di IL-6, LBP e sCD14 durante il test; e iii) la correlazione tra IL-6 basale, LBP, sCD14 e rispettive iAUC tra loro e con l’omeostasi glucidica.
Risultati: IL-6 correlava con HOMA-IR (r=0,61[0,24-0,82], p=0,013), Matzuda-index (r=-0,53[0,12-0,78], p=0,03) e AUCinsulina/glicemia (r=0,53[0,2-0,78], p=0,034). IL-6 non variava dopo il pasto, mentre LBP and sCD14 si riducevano significativamente (iAUC= -451,8[-699 – -203] e -21.335[-36.908 – -5.762], rispettivamente). LBP, sCD14 e le loro iAUC non correlavano con IL-6 né con l’omeostasi glucidica.
Conclusioni: IL-6 correla con l’insulinosensibilità in bambini/adolescenti obesi. Un pasto lipidico con un contenuto bilanciato di SFA/MUFA/PUFA determina assorbimento di LPS ma non stimola aumento di IL-6 nè alterazione dell’omeostasi glucidica.
INSULINA DEGLUDEC:”TITOLARE” O RISERVA? IL MONITORAGGIO GLICEMICO CONTINUO NEL CAMBIO DI INSULINA BASALE NEI DIABETICI DI TIPO 1 SCOMPENSATI
A. Filippi, V. Frison, N. Simioni Servizio di Diabetologia P.O. Cittadella, Ulss 15 Alta Padovana
Background: il timore dell’ipoglicemia notturna impedisce di raggiungere un target glicemico al risveglio accettabile per molti pazienti diabetici di tipo 1 (DM1), che rimangono lontani dall’obiettivo del buon controllo (HbA1c <7%).
Scopo: ottimizzare il controllo glicemico attraverso la modifica della terapia insulinica basale titolandola attraverso l’uso del monitoraggio glicemico continuo real-time (CGM).
Materiali e metodi: 30 pazienti DM1 con un’età media di 38 ± 11 anni (media ± deviazione standard), e una durata di malattia pari a 16 ± 9 anni, in scadente controllo metabolico (HbA1c 8.3±1.4%), sono stati sottoposti a 2 sessioni di CGM della durata di 2 settimane ciascuna a distanza di 4-6 mesi: nella prima sessione mantenevano inizialmente l’abituale terapia basale passando a insulina Degludec dopo 7 giorni, che veniva mantenuta nei mesi successivi. Veniva effettuato e commentato il download dei dati a 7 e 14 giorni nella prima sessione e al termine del secondo monitoraggio, in base ai quali venivano ottimizzata sia la terapia insulinica basale che i boli prandiali.
Risultati: a parità di dosaggio di basale, lo shift a insulina degludec riduce significativamente la variabilità della glicemia a digiuno (DS 44.57 vs 50.25), la glicemia media nel pre-pranzo (149.8 vs 169.4 mg/dl) e il numero di ipoglicemie severe/settimana (1.14 vs 1.68), con una riduzione significativa del dosaggio di insulina prandiale complessivo (23.3 vs 25.4 U/die) e di quello del pranzo in particolare (9.25 vs 9.8 U). A parità di dosaggio di basale, il passaggio da Glargine a Degludec a 4-6 mesi permette una riduzione significativa di HbA1c (da 8.31 a 7.79%, p=0.02) e del fabbisogno insulinico prandiale (da 25.36 a 20.63 U/die, p=0.001). Il numero di episodi ipoglicemici gravi si riduce da 1.68 a 0.91 episodi/settimana. I pazienti che traggono maggior beneficio in termini di riduzione di HbA1c sono quelli che arrivano ad un rapporto basale/boli di 60% vs 40% (calo di HbA1c>0.61%, p=0.03). Conclusioni: lo shift a insulina degludec a parità di dosaggio con la basale precedente è sicuro e riduce significativamente il numero di ipoglicemie severe/settimana, permettendo una maggior sicurezza nella titolazione della basale e nell’ottimizzazione dei boli prandiali.
IN PAZIENTI CON DIABETE MELLITO DI TIPO 2 IL PASSAGGIO DA 2 INIEZIONI/DIE DI GLARGINE/DETEMIR A UNA DI DEGLUDEC MIGLIORA IL CONTROLLO GLICEMICO E LA SODDISFAZIONE PER IL TRATTAMENTO
S. Galasso1, A. Facchinetti2, V. Mariano1, B.M. Bonora1, F. Boscari1, S. Dian1, E. Cipponeri1, A. Avogaro1, G.P. Fadini1, D. Bruttomesso1
1U.O.C. Malattie del Metabolismo, Dipartimento di Medicina, Università degli Studi di Padova; 2Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione, Università degli Studi di Padova
Scopo: studio osservazionale non controllato per confrontare l’efficacia dell’insulina degludec in monosomministrazione rispetto a due somministrazioni di insulina glargine o detemir.
Materiali e metodi: 29 soggetti con diabete di tipo 1 (età 34.8±11.4 anni, durata di malattia 18.2±10.0 anni, BMI 24.2±4.0 kg/mq) trattati con 2 iniezioni/die di glargine (16) o detemir (13) sono passati per 3 mesi a degludec 1 iniezione/die. Dai profili SMBG dell’ultimo mese dei 2 trattamenti sono stati valutati: glicemia media, variabilità glicemica e numero di ipoglicemie. Prima e 3 mesi dopo degludec sono stati valutati HbA1c, soddisfazione per il trattamento e paura dell’ipoglicemia. In 12 pazienti negli ultimi 14 giorni dei 2 trattamenti è stato eseguito il monitoraggio continuo della glicemia (CGM).
Risultati: dopo passaggio a degludec, vi è stata una riduzione significativa di: emoglobina glicata (7.9%±0.59 vs 7.7%±0.61, p=0.028), percentuale di glicemie <70 mg/dl (16.9%±27.7 vs 6.4%±12.4%, p=0.006) e LBGI (3.6±3.7 vs 2.1±2.7, p=0.009) nel periodo notturno. Glicemia media, pre e post-prandiale erano invariate. Il CGM ha evidenziato che durante degludec si sono ridotti average daily risk range (ADRR: 44.5±11.3 vs 39.2±10.6, p=0.027) e tempo con glicemie <70 mg/dl (6.0%±6.7 vs 3.6%±3.7%; p=0.050) nelle 24 h, è aumentato il tempo in target durante il giorno (51.7%±17.5 vs 59.2%±13.1 p=0.047) e si è ridotto il tempo con valori <55 mg/dl (p=0.047) durante la notte. Con degludec il fabbisogno insulinico si è ridotto (52.10±27.68 UI vs 43.16±23.17 UI/die; p<0.0001), il peso è rimasto invariato, la soddisfazione per il trattamento è migliorata (p=0.017), e si è ridotta la paura delle ipoglicemie (p=0.024).
Conclusioni: degludec migliora il controllo glicemico, riduce il fabbisogno insulinico e la paura per l’ipoglicemia, aumentando la soddisfazione per il trattamento.
EFFICACIA DEGLI INIBITORI DEL CO-TRASPORTATORE SODIO-GLUCOSIO DI TIPO 2 NEL DIABETE MELLITO DI TIPO 2: ESPERIENZA DEL SERVIZIO DI DIABETOLOGIA DELL’ULSS 5 OVEST VICENTINO
S. Costa1, C. Tommasi1, G. Romanello1, S. Rancan1, A. Maroso2, P. Costa3, S. Lombardi1
1UOSD Diabetologia e Endocrinologia Ulss 5 Ovest Vicentino; 2Servizio Epidemiologico Ulss 5 Ovest Vicentino; 3 Distretto Socio Sanitario Ulss5 Ovest Vicentino
Premesse: gli inibitori degli SGLT2 (gliflozine) sono farmaci per la terapia del diabete di tipo 2 efficaci nel migliorare il controllo glicemico, ridurre il peso corporeo e la pressione arteriosa.
Scopo: valutare l’efficacia delle gliflozine in una popolazione di pazienti ambulatoriali.
Materiali e Metodi: valutazione dei dati clinici di pazienti in terapia con gliflozine con un follow-up fino a 6 mesi.
Risultati: Sono stati valutati i dati di 128 pazienti (43% femmine, 57% maschi, 8% di etnia asiatica): al basale l’età media è 59.47±8.59 anni, durata di malattia 11.62±6.92 anni, HbA1c 8.65±1.16%, FPG (glicemia plasmatica a digiuno) 188.32±59.96 mg/dl, BMI 33.25±5.99 kg/m2, HDL 44.59±11.76 mg/dl, LDLc 94.93±33.46 mg/dl, trigliceridi 184±129.16 mg/dl, SBP (pressione arteriosa sistolica) 139.8±17.9 mmHg, DBP (pressione arteriosa diastolica) 80.16±8.77 mmHg. Prima dell’avvio delle gliflozine 72% dei pazienti era in terapia con insulina, 76 % con metformina (di cui il 9% in monoterapia), 17% con inibitori del DPP-4 o analoghi del GLP-1 e 19% con sulfaniluree. Nel 34.3% dei pazienti è stata avviata terapia con empagliflozin, 38.3% con dapagliflozin e 27.4% con canagliflozin. Il follow-up a 6 mesi è disponibile per 62 pazienti (48%): c’è stata una riduzione significativa di HbA1c (-1±1.18%, p<0,0001), FPG (-41.21±62.58 mg/dl, p<0,00001), SBP (-9.92±19.45 mmHg, p<0,001), DBP (-2.02±9.47 mmHg, p=0,05) e trigliceridi (-14.23±60.17mg/dl, p=0,01). Le variazioni di peso (-3.28±3.39 kg), BMI (-1.2±1.24 kg/m2), HDL (+3,51±6.62 mg/dl), LDLc (-4.69±27.57 mg/dl) e fabbisogno insulinico (-3.04±12.37 U/die) non erano invece significative. 14 pazienti (11% del totale) hanno sospeso la terapia, prevalentemente (8 pazienti) per mancato miglioramento del controllo glicemico, solo 3 per infezioni genitourinarie. Non sono stati segnalati eventi avversi gravi. La riduzione dell’L’HbA1c era indipendente dalla durata di malattia, BMI, terapia ipoglicemizzante al basale ed etnia dei pazienti.
Conclusioni: la nostra osservazione conferma i dati presenti in letteratura sull’efficacia e la tollerabilità delle gliflozine nella pratica clinica.
DIABETE DELL’ANZIANO: NOSTRA ESPERIENZA SUL CONTROLLO METABOLICO NEL PAZIENTE “FRAGILE” NON OSPEDALIZZATO
P. Conton1, D. Barison2, C. De Riva2
1Medicina Interna; 2Malattie Endocrine, del Ricambio e della Nutrizione, Dipartimento di Medicina Clinica, Ospedale di Mestre (VE)
Circa un quarto dei pazienti anziani che vivono in residenze assistite e/o accuditi al proprio domicilio, sono affetti da diabete mellito e da patologie complicative concomitanti e con un’alta prevalenza di deficit cognitivo e dipendenza funzionale. Abbiamo valutato la presenza di comorbidità e l’uso di farmaci ipoglicemizzanti in 233 soggetti anziani affetti da diabete mellito (età 82.9 ± 2.1 anni) reclutati come istituzionalizzati e/o assistiti a domicilio da caregiver. Una completa dipendenza funzionale e/o una compromissione cognitiva erano presenti nel 83.5% e 69.1% dei casi ed il 67.1% dei pazienti era inoltre affetto da 2 a 4 comorbidità. Una HbA1c <55 mM/M è stata osservata in 119 dei 233 pazienti (51.3%) ed era significativamente più bassa nei pazienti con deterioramento cognitivo o demenza (161/233 pt – HbA1c 52±5 vs 62±6 mM/M, p<0.001). Abbiamo registrato episodi di ipoglicemia grave (<40 mg/dl) in 18 pazienti (7.7%). I nostri risultati indicano che circa la metà dei diabetici anziani fragili hanno valori di HbA1c al di sotto dell’obiettivo, e sono a rischio di eventi avversi da ipoglicemia, soprattutto tra i pazienti con grave compromissione cognitiva. Nonostante le attuali raccomandazioni, abbiamo osservato un approccio terapeutico troppo severo nella maggior parte di questi soggetti. A fronte di un target di HbA1c desiderabile compreso tra 7.0 e 7.5% (da 55 a 60 mM/M), nessuno di questi pazienti dovrebbe essere trattato con farmaci antidiabetici se la glicemia a digiuno è inferiore a 126 mg/dl. Glicemie a digiuno <90 mg/dL o >200 mg/dl dovrebbero essere evitate: il primo valore alla luce dei rischi associati ad ipoglicemia grave nei pazienti di età superiore a 70 anni, il secondo per evitare le complicanze note correlate al diabete. In questi pazienti è preferibile evitare i farmaci con maggiore potenza ipoglicemizzante (sulfaniluree e insulina). Infine, il controllo della glicemia è ovviamente essenziale anche in pazienti anziani, ma gli obiettivi glicemici devono essere calibrati al quadro clinico generale del paziente, alla comorbidità specifica ed al profilo cognitivo.
ACCURATEZZA DEL FLASH GLUCOSE MONITORING NELLA VITA REALE E IN SITUAZIONI DI RAPIDA VARIABILITA’ GLICEMICA
F. Boscari1, S. Galasso1, A. Facchinetti2, M.C. Marescotti1, V. Vallone1, F. Bax1, A. Avogaro1, D. Bruttomesso1
1UOC Malattie del Metabolismo, Azienda ospedaliera di Padova; 2Dipartimento di ingegneria dell’informazione, Università degli Studi di Padova
Introduzione: il Free Style Libre Flash glucose monitoring (FGM) system (Abbott Diabetes Care, Alameda, CA) è un dispositivo per la misurazione del glucosio a livello sottocutaneo.
Obiettivo: valutare l’accuratezza dello strumento nella vita reale e in ambiente ospedaliero.
Materiali e Metodi: 22 soggetti con diabete di tipo 1 hanno utilizzato lo strumento sia a domicilio (per 14 giorni) che durante 2 ospedalizzazioni durante le quali veniva somministrata una colazione con dose di insulina abituale o dose ritardata e aumentata per indurre una lieve iper e successiva ipoglicemia. A domicilio il valore di glucosio misurato dal sensore veniva confrontato con la glicemia capillare (SMBG ≥6 controlli die) mentre durante l’ospedalizzazione veniva confrontato con la glicemia venosa determinata tramite Yellosw Springs Instruments (YSI). L’accuratezza del sistema è stata espressa come differenza media assoluta relativa (MARD) del valore di glucosio misurato dal sensore rispetto a SMBG o YSI.
Risultati: rispetto a SMBG la MARD di FGM è risultata globalmente pari a 13.5%±3.6; pari a 18.1%±13.8 in ipoglicemia (<70 mg/dl), 13.9%±3.7 in euglicemia (70-180 mg/dl), 11.1% ± 3.2 in iperglicemia (> 180 mg/dl). Rispetto a YSI la MARD di FGM è risultata pari a 12.3% ±4.6 globalmente, 15.5% ± 6.9 in ipoglicemia, 15.0%±5.3 in euglicemia, 8.7± 4.6 in iperglicemia. L’accuratezza di FGM risultava migliore nei primi 10 giorni di utilizzo rispetto agli ultimi 4 giorni (MARD 12.5±6.0 vs 15.9±8.6, p=0.001) e peggiore il primo giorno di utilizzo rispetto a tutti gli altri (MARD 15.8±7.8 vs 12.9±6.6, p=0.043).
Conclusioni: FGM è risultato più accurato nei confronti della glicemia venosa rispetto a quella capillare. L’accuratezza è inferiore nel range ipoglicemico e varia durante i vari giorni di utilizzo.
PROGETTO DI TELEMEDICINA PER DIABETICI (DM) FRAGILI RESIDENTI NELLA ULSS 18 DI ROVIGO: ASPETTI ORGANIZZATIVI E RISULTATI PRELIMINARI
P. Bordon1, G. Lisato1, R. Manunta1, L. Bovo1, V. Verza2, E. Vokkri3, G. Giuffrè4, F. Ciccone4, F. Mollo1
1UOSD Mal. Endocrine, Metaboliche e della Nutrizione – ULSS 18 Rovigo; 2Corso di Laurea Infermieristica Università PD; 3Corso di Laurea di Bioingegneria Università degli Studi di Padova; 4Tesi Home Care, Milano
Introduzione: l’impatto del diabete sul SSN impone la valutazione di tecnologie “web-care based” per assicurare uniformità di cure e appropriate allocazioni delle risorse sostenibili. A ciò si aggiungono le peculiari caratteristiche del Polesine gravato da elevati indici di dispersione sul territorio, vecchiaia e dipendenza.
Materiali e Metodi: nel 2015 è stato approvato dal CEIP di RO-VR uno studio prospettico di telemonitoraggio dell’autocontrollo glicemico capillare per DM con fragilità clinica e/o socio-assistenziale. Il protocollo no-profit prevede l’arruolamento di 300 DM in 3 anni, in 2 braccia di intervento: tradizionale (controlli) e web-based (casi) tramite il portale dedicato Net-life della Tesi Home Care. È previsto l’inserimento in una lista convocata a gruppi di 6-10 DM o care-givers per un incontro educativo sull’autocontrollo strutturato e sulla istruzione all’uso del device per la trasmissione dei dati. Sono state definite modalità espressive con grafici stratificati per fasce orarie di medie, DS, dispersione, diario giornaliero. Sono in elaborazione le rappresentazioni di indici predittori di rischio iper/ipoglicemico.
Risultati: vengono discusse procedure organizzative ed indicatori di processo/esito per la valutazione di efficacia e di praticabilità del processo dove l’elemento nodale è il ruolo di case manager dell’Infermiere Professionale. Sono valutate le prime osservazioni nel braccio dei Casi di compenso metabolico, soddisfazione e stato di salute percepito. Considerazioni conclusive. Il Telemonitoraggio domiciliare rappresenta una opportunità assistenziale dalle grandi potenzialità in termini di costo-beneficio. Richiede altresì una profonda riorganizzazione di compiti e conoscenze del personale sanitario coinvolto.
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