Cardioprotezione nella malattia diabetica: dai meccanismi di danno all’individuazione di nuovi bersagli terapeutici
Flavia Chiacchiarini, Maria Felice Brizzi
Dipartimento di Scienze Mediche, Università degli Studi di Torino
DOI: 10.30682/ildia1801g
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La malattia cardiovascolare rappresenta la principale causa di morbilità e mortalità nel paziente diabetico. A ciò si aggiungano i costi sanitari e sociali relativi alla elevata incidenza di scompenso cardiaco congestizio che si manifesta come conseguenza di un infarto miocardico o di una rivascolarizzazione coronarica in questi pazienti. È doveroso ricordare che, nei pazienti diabetici, la comparsa di insufficienza cardiaca è precoce e frequente, anche in assenza di malattia coronarica o ipertensione. Ciò ha permesso di identificare una nuova entità patologica nota come cardiomiopatia diabetica (CMD). I meccanismi sottesi non sono stati completamente chiariti, non consentendo, ad oggi, la messa a punto di strategie terapeutiche mirate a ritardare o trattare la CMD. La CMD è caratterizzata da una disfunzione diastolica precoce che di per sé è clinicamente silente, soprattutto nei primi anni dall’insorgenza del diabete. Può, tuttavia, divenire clinicamente evidente, ed evolvere verso una disfunzione sistolica, quando coesistano ipertensione arteriosa o malattia coronarica. La malattia microvascolare non è la sola causa responsabile della CMD. Alterazioni metaboliche a carico del cardiomiocita, quali la ridotta espressione del trasportatore del glucosio, GLUT4, l’eccesso di acidi grassi liberi, le alterazioni della funzione mitocondriale e l’alterata omeostasi del calcio, costituiscono i meccanismi più importanti. A questo si aggiungono l’insulino-resistenza, la fibrosi miocardica e la neuropatia autonomica. Fisiologicamente, in risposta al danno, vengono attivati una serie di meccanismi cellulari con la specifica funzione di prevenire il danno cardiaco o di limitarne la progressione quando siano presenti anche insulti di varia natura, primo tra tutti quello ischemico. Tale processo, definito cardioprotezione, è alterato nel paziente diabetico. Negli ultimi trent’anni la comprensione dei meccanismi di danno e di protezione che hanno luogo nel cuore diabetico è stata oggetto di grande interesse, come documentato dai numerosi dati sperimentali, anatomopatologici, epidemiologici e clinici. Nuovi potenziali bersagli terapeutici sono stati identificati e opzioni terapeutiche alternative, capaci di interferire con lo sviluppo della CMD nelle sue diverse accezioni, proposte. Questa recensione riassume i potenziali meccanismi di danno che si traducono nella disfunzione contrattile nel paziente diabetico. Particolare attenzione è stata inoltre dedicata a descrivere i meccanismi di cardioprotezione e gli approcci terapeutici che nel paziente diabetico possono renderla efficace.
INTRODUZIONE
Il diabete mellito è una patologia cronica che interessa milioni di individui, soprattutto nelle aree geografiche industrializzate o in via di industrializzazione. Gli individui affetti dalla malattia sono quasi 400 milioni e si stima che questi raggiungano i 550 milioni entro il 2030 (1). Nei pazienti diabetici le complicanze micro- e macrovascolari, rappresentano la principale causa di morbidità e mortalità (2). Relativamente alle complicanze macrovascolari, gli individui affetti da diabete mellito (DM) hanno un rischio di eventi cardiovascolari (CV) che risulta essere tre/quattro volte superiore a quello dei soggetti non diabetici, e tali eventi rappresentano l’80% delle cause di morte (2). La correlazione tra DM e patologia cardiovascolare è stata da sempre attribuita all’accelerata malattia aterosclerotica. Tuttavia, più recentemente, tale concetto è stato rivisto e uno scenario più complesso è emerso. A tal riguardo l’interazione di molteplici fattori propri del DM, quali l’alterata omeostasi cellulare e la vulnerabilità metabolica del miocardicita, sono risultati essere eventi fisiopatogenetici rilevanti nell’evoluzione del danno miocardico nel paziente diabetico (3).
Sebbene la cardiopatia ischemica rappresenti la malattia più frequente nel paziente diabetico (la prevalenza di SCA in Italia nei pazienti diabetici è compresa tra il 19 e il 23%), una forma di malattia cardiaca propria, il cui sviluppo risulta essere indipendente dall’ipertensione arteriosa e dalla patologia coronarica, è stata introdotta e denominata cardiomiopatia diabetica (CMD) (4-5). L’esistenza di una CMD intesa come entità patologica indipendente è sostenuta da dati epidemiologici e clinici, che dimostrano una stretta associazione tra DM e scompenso cardiaco, e dalla presenza di una disfunzione ventricolare sinistra indipendente da ipertensione, coronaropatia o altre patologie cardiache. Queste evidenze cliniche sono state confortate da studi preclinici che hanno portato alla luce la presenza di alterazioni funzionali e strutturali del miocardio proprie di tale condizione (6).
La CMD fu originariamente descritta da Rubler et al. (7) sulla base dell’evidenza post-mortem di insufficienza cardiaca in assenza di malattia coronarica o di altri fattori di rischio cardiovascolare noti. Studi successivi in modelli animali di diabete ed ipertensione arteriosa hanno confermato l’esistenza di una cardiomiopatia specifica (8), anatomicamente caratterizzata da alterazioni microvascolari, necrosi delle miocellule e fibrosi interstiziale. Studi più recenti che hanno utilizzato tecniche Doppler hanno dimostrato una prevalenza di disfunzione diastolica compresa tra il 52 il 60% nella popolazione di pazienti con DM rispetto alla popolazione non diabetica (9-10). Clinicamente le alterazioni anatomiche descritte nei modelli animali, proprie di tale condizione, risultano in una precoce compromissione della funzione diastolica ed in una successiva ed inesorabile disfunzione sistolica, espressione di fibrosi e di alterata contrattilità miocardica (2, 5). Dal punto di vista fisiopatologico l’anomalia degli intrinseci meccanismi di protezione sostiene il danno e si traduce nella morte per apoptosi delle cellule miocardiche (11).
Grazie ai numerosi studi condotti negli ultimi due decenni, è stato possibile individuare non solo i principali determinanti del danno, ma anche i meccanismi che fisiologicamente intervengono per cercare di contrastarne gli effetti a lungo termine. Ciò ha permesso di introdurre, ormai da diversi anni, un nuovo concetto: quello della cardioprotezione. Tale concetto è ampio e comprende differenti meccanismi, rivolti a contrastare le diverse noxae patogene che intervengono nello sviluppo della cardiopatia nel paziente diabetico, sia essa di origine ischemica o indipendente da questa. È stato pertanto possibile identificare nuovi bersagli terapeutici e mettere a punto molecole che potrebbero potenzialmente, se validate clinicamente, prevenire/trattare le più importanti complicanze che si associano alla malattia diabetica. Ne sono un esempio chiaro i farmaci ipoglicemizzanti orali di ultima generazione, come l’empaglifozin, capaci di esercitare un potente effetto cardioprotettivo.
L’obiettivo di questo breve trattato è quello di descrivere i principali meccanismi di danno e di protezione che avvengono nel miocardio dei pazienti diabetici, e stabilire se opzioni terapeutiche alternative possano essere messe a punto utilizzando i bersagli molecolari identificati, per prevenire e/o trattare la CMD. Particolare attenzione è stata dedicata ai meccanismi associati ad un aumento di stress ossidativo di origine mitocondriale.
MECCANISMI DI DANNO
I meccanismi di danno cardiaco che caratterizzano la malattia diabetica sono molteplici e sono sostenuti per lo più dall’alterato metabolismo cellulare e dalla disfunzione di organelli cellulari quali: il sarcolemma, i mitocondri e il reticolo endoplasmatico (12). Tutte queste alterazioni sono espressione di un alterato equilibrio tra la produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) e l’attivazione/espressione di enzimi deputati alla loro eliminazione, ciò, in ultima analisi, si traduce in un eccessivo stress ossidativo e nella morte per apoptosi di cellule miocardiche ed endoteliali (13). Questi eventi sono stati descritti sia in modelli animali che nel paziente diabetico (14), dove l’apoptosi delle cellule miocardiche rappresenta il substrato anatomico delle manifestazioni cliniche proprie della CMD. Sebbene la patogenesi della CMD è ad oggi ancora controversa e oggetto di numerosi studi, recentemente il ruolo causale di eventi metabolici e molecolari è stato ampiamente documentato (5, 14).
Eventi metabolici
Per quanto riguarda gli eventi metabolici, l’insulino-resistenza, l’iperinsulinemia e l’iperglicemia sono stati riconosciuti essere i principali responsabili dell’aumentato stress ossidativo. A questi si aggiungano l’alterazione della permeabilità vascolare e l’anomala sintesi di ossido nitrico (NO) a cui consegue l’iperattivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS) (15). Non meno importante è il ruolo svolto dell’eccesso di acidi grassi liberi circolanti (FFA), dal loro accumulo nei miocardiociti e del conseguente danno lipotossico (16). Concomita infine, un’alterazione nei meccanismi di regolazione del calcio intracellulare e dell’omeostasi di zinco e rame (11). Tali eventi, sebbene distinti, sono in grado di creare una complessa rete di interazioni che a lungo andare genera un circolo vizioso che mantiene e perpetua un elevato stress ossidativo (5).
L’insulino-resistenza è una delle alterazioni metaboliche che primariamente si verificano nella patologia diabetica. Nel miocardio, come in tutti gli organi insulino sensibili, ciò si traduce in una ridotta internalizzazione del glucosio circolante ed un accumulo di acidi grassi liberi (FFA) (5). La presenza di molecole pro-infiammatorie circolanti, quali citochine e adipochine, i cui livelli risultano incrementati a causa di uno stato infiammatorio cronico proprio della malattia diabetica, peggiora ulteriormente l’insulino-resistenza periferica e gli eventi a catena che a questa seguono. Il substrato del recettore insulinico-1 (IRS-1) è stato riconosciuto il mediatore principale di questi eventi (17). Questo in quanto l’IRS-1 è una delle molecole più importanti di trasduzione del segnale insulinico che, in associazione con la fosfatidilinositolo-3-chinasi (PI3K), è responsabile della traslocazione sulla superficie cellulare del trasportatore del glucosio di tipo 4 (GLUT4). L’esposizione di GLUT4 sulla membrana della cellula condiziona l’internalizzazione del glucosio circolante e l’utilizzazione di questo come substrato metabolico (18-19). Ciò rende comprensibile come tutti gli eventi che direttamente o indirettamente ne condizionano la sua attività giochino un ruolo negativo sulla omeostasi della cellula, in generale, e di quella cardiaca in particolare. A questo proposito, è noto che lo stato infiammatorio cronico e lo stress ossidativo che ne deriva comportino l’attivazione di protein chinasi attivate da mitogeni (MAP), quali la chinasi della proteina ribosomale S6 (S6K1), e la successiva regolazione negativa dell’espressione dell’IRS-1. Non solo, ma la presenza di elevati livelli circolanti di citochine infiammatorie, attivando NF-kB, sono responsabili di una accelerata degradazione di IRS-1 (5). Tutto ciò si traduce, come sopra indicato, in un aumento di FFA circolanti. Per controbilanciare l’accumulo di FFA in circolo, il cardiomiocita risponde aumentando l’espressione di membrana di una proteina coinvolta nel trasferimento cellulare di acidi grassi, il cluster differentiation protein 36 (CD36), e accumula FFA (20). In corso di malattia diabetica, tuttavia, questo meccanismo compensatorio risulta essere inadeguato a causa della ridotta espressione dell’enzima limitante la sintesi di acidi grassi, l’acido grasso sintetasi (FAS) (21). Pertanto, gli elevati livelli di FFA circolanti rimangono tali, quando non aumentano ulteriormente. Tutto ciò fisiologicamente è controllato e bilanciato da sistemi interconnessi compensatori che in presenza di un eccesso di acidi grassi attivano un fattore trascrizionale appartenente alla famiglia dei recettori attivati da proliferatori perossisomiali (PPAR), il PPAR-α. L’attivazione di PPAR-α genera a sua volta una cascata di eventi che, confluendo sui meccanismi di de-tossificazione dei ROS, proteggono la cellula dallo stress ossidativo. Meccanismo, però, inefficiente in condizioni di malattia diabetica (22).
Eventi molecolari
Anche per quanto riguarda gli eventi molecolari, i meccanismi sono numerosi e complessi ma principalmente indotti dall’accumulo dei prodotti finali della glicosilazione avanzata (AGEs) e dagli intermedi tossici del metabolismo lipidico, come il diacilglicerolo (5).
L’anello di congiunzione tra queste alterazioni molecolari e lo sviluppo della disfunzione cardiaca è ancora una volta lo stress ossidativo (12). I ROS sono prodotti fisiologici del metabolismo cellulare e della fosforilazione ossidativa mitocondriale e vengono fisiologicamente eliminati dall’attivazione di una complessa macchina con funzione antiossidante che coinvolge enzimi citoplasmatici e mitocondriali. In questo trattato, per semplicità, saranno contemplati quasi esclusivamente i meccanismi che coinvolgono i mitocondri. L’eccessivo apporto di nutrienti e la vita sedentaria, rappresentano i primi eventi che, nel paziente diabetico, determinano un aumentata produzione di ROS non bilanciata da una sua efficiente eliminazione (23). Ciò si concretizza in una costante disfunzione mitocondriale, un ulteriore accumulo di ROS e l’induzione del danno. Infatti, i livelli aumentati di ROS, se da un lato agiscono negativamente sulle componenti cellulari, dall’altro modificando l’espressione di geni e di fattori di trascrizione che controllano la fosforilazione ossidativa mitocondriale, peggiorano la disfunzione mitocondriale e incrementano ulteriormente la produzione di ROS (23). Si instaura pertanto quel circolo vizioso che automantiene cronicamente uno stato di stress ossidativo (5).
Lo stress ossidativo cellulare si ripercuote in modo peculiare a livello del reticolo endoplasmatico provocando il cosiddetto “ER stress” (24). Il reticolo endoplasmatico è un organello cellulare coinvolto nella sintesi lipidica, nell’omeostasi del calcio e nelle modificazioni strutturali delle proteine definito “ripiegamento proteico”, e responsabile del destino delle proteine intracitoplasmatiche. Lo ER stress fisiologicamente rappresenta una risposta adattativa, definita anche “unfolded protein response” (UPR), che provvede a mandare nel proteosoma, e quindi verso la degradazione, le proteine non adeguatamente ripiegate (alterate strutturalmente e quindi funzionalmente anomale). Questo processo, come facilmente si può immaginare, rappresenta un meccanismo fisiologico di protezione che, se viene messo in atto nel miocardio, protegge la cellula da differenti tipi di stress. Tuttavia, quando eccessivo e/o prolungato, nonché accompagnato dall’attivazione dell’enzima sterol regulatory element binding protein (SREBP1c) e da una aumentata lipogenesi, può portare a morte cellulare (12, 25).
Un effetto non trascurabile indotto dello ER stress, dovuto a fenomeni di metilazione e fosforilazione delle membrane cellulari, è rappresentato da un aumentato rilascio di calcio dal reticolo sarcoplasmatico al citosol e da una ridotta attività della pompa del calcio del reticolo sarcoplasmatico (SERCA), responsabile del sequestro di calcio durante il rilassamento diastolico (2, 5). Questo, in associazione con la ridotta attività dello scambiatore calcio-sodio, l’alterato uptake del calcio da parte dei mitocondri e la ridotta espressione del recettore della rianodina comporta un’alterata omeostasi del calcio cellulare, un eccesso intracellulare di calcio e una ridotta sintesi di ATP mitocondriale. Tali alterazioni rappresentano il substrato molecolare dell’alterato rilasciamento diastolico o disfunzione diastolica, precoce e peculiare che caratterizza la CMD (5, 12). A ciò si aggiunga la prolungata apertura del poro di transizione della permeabilità mitocondriale (MPTP). Il MPTT è un canale localizzato sulla membrana mitocondriale interna la cui apertura comporta il rilascio del citocromo C e l’attivazione di processi proteolitici che accelerano la morte per apoptosi (26). Analogamente al sistema UPR, l’apertura transitoria, in condizioni fisiologiche, mantiene in equilibrio il sistema ossidativo e le concentrazioni di calcio, ricoprendo finanche un ruolo protettivo nel pre-condizionamento ischemico (27). Al contrario un’apertura prolungata e/o disregolata, come avviene in corso di malattia diabetica, si traduce nell’attivazione dei segnali pro-apoptotici e in un ulteriore meccanismo che induce la morte del cardiomiocita (28). A quanto detto finora si aggiunga la riduzione dei livelli di heat shock protein 60 e di eme ossigenasi 1 che contribuiscono ad aumentare la suscettibilità nei confronti del danno ossidativo del miocardio diabetico (29).
A perpetuare il danno contribuisce anche la disfunzione endoteliale che, mediante l’isoforma inducibile dell’ossido nitrico sintetasi (iNOS), mantiene iperattivo il RAAS (30). I meccanismi a cascata che da questo derivano sono responsabili non solo della degradazione/inattivazione di IRS-1 e dell’attivazione di MAP chinasi, ma anche alla produzione locale di TGFβ. In risposta al TGFβ, e alla morte del cardiomiocita, i fibroblasti residenti si espandono, sostituiscono i cardiomiociti e producono matrice extracellulare. Pertanto, il tessuto si trasforma in una struttura fibrosa incapace di svolgere la sua funzione primaria, contrattile. Tali anomalie rendono quindi ragione del peggioramento delle manifestazioni cliniche di scompenso cardiaco che si osservano precocemente nel paziente diabetico, quando il miocardio è chiamato a rispondere a richieste funzionali maggiori dovute alla concomitanza di malattia coronarica e/o ipertensione arteriosa (5). I meccanismi di danno sono riportati schematicamente nella figura 1.
MITOFAGIA E CDM
Da quanto esposto risulta chiaro che la disfunzione mitocondriale gioca un ruolo cruciale nella patogenesi della CMD. Pertanto, il mantenimento di un pool di mitocondri funzionalmente efficienti è di fondamentale importanza per prevenire/interferire con l’evoluzione della malattia (31). Dati recenti suggeriscono uno scenario molto più complesso dove la eccessiva produzione di ROS da sola non sembrerebbe fornire l’unico elemento di danno responsabile della CMD. Questo non stupisce in quanto il cuore, come tutti i tessuti, in condizioni di stress attiva meccanismi di protezione. La mitofagia è il processo attraverso il quale le cellule eliminano i mitocondri strutturalmente alterati e selezionano i mitocondri funzionalmente efficienti. Ciò si traduce in una protezione nei confronti della disfunzione mitocondriale e mantiene il miocardiocita funzionalmente efficiente. Sebbene l’alterazione dei processi mitofagici sia stata messa in relazione con la presenza di numerose malattie del miocardio, è ancora ampiamente dibattuto il suo ruolo nel cuore diabetico (31).
Considerato il ruolo svolto dalla mitofagia nel controllo della buona funzione mitocondriale, tale processo risulta essere essenziale per il mantenimento dell’omeostasi cardiaca (32). Rispetto ai mitocondri normofunzionali, quelli danneggiati hanno una ridotta efficienza in termini di fosforilazione ossidativa e produzione di ATP, generando pertanto una maggiore quantità di ROS. Ciò si traduce in un danno ossidativo che coinvolge lipidi, proteine, DNA mitocondriale, e a sua volta comporta una ulteriormente disfunzione della catena respiratoria e un’aumentata formazione di ROS di origine mitocondriale. Questo processo, definito “ROS-stimulated ROS release” aumenta il numero di mitocondri danneggiati, determina un alterato controllo sull’apertura del MPTP e come conseguenza ultima l’attivazione di segnali pro-apoptotici irreversibili e la morte del cardiomiocita (33). Nel cuore, purtroppo i cardiomiociti andati incontro a morte per apoptosi non possono essere rimpiazzati da nuove cellule e questo si traduce clinicamente in una alterata funzione contrattile. È altrettanto noto che la presenza di elevati livelli di ROS causa mutazioni del DNA mitocondriale (mtDNA) (34). Dati ottenuti su eritrociti dimostrano che mutazioni del mtDNA sono associate ad un difetto della DNA polimerasi, una rilevante disfunzione mitocondriale e ad una ridotta attività mitofagica (35). Ciò suggerisce che mutazioni del mtDNA direttamente provocate dall’eccesso di ROS nella cellula sono sufficienti a promuovere la disfunzione mitocondriale e interferire con i meccanismi di protezione mediati dalla mitofagia (36).
La mitofagia è una forma particolare di autofagia, che coinvolge i specificamente i mitocondri, ma che condivide con questa molte caratteristiche (31). Poiché i processi autofagici sono risultati alterati nel cuore diabetico (37), è stato ipotizzato che anche quelli mitofagici lo siano. È stato inoltre suggerito che in analogia a quanto descritto in altri tessuti, anche nel cuore sottoposto ad iperglicemia, i livelli di espressione di proteine coinvolte nella regolazione del processo mitofagico siano alterati determinando una alterazione dei meccanismi di protezione fisiologici da questa mediati (38). Poiché come descritto, la disfunzione mitocondriale contribuisce attivamente alla CMD e un alterato processo mitofagico si accompagna alla disfunzione mitocondriale, indagini più approfondite potrebbero fornire dati più consistenti e conclusioni meno aleatorie su un loro ruolo fisiopatologico nella CMD. Non solo, ma fornirebbero il razionale scientifico a supporto del fatto che una rapida “clearance” dei mitocondri danneggiati, mediante un efficiente azione mitofagica, potrebbe rendere attivi i meccanismi di cardioprotezione e interrompere quel circolo vizioso che attraverso la generazione di ROS promuove lo sviluppo di CMD (Fig. 1).
MECCANISMI DI CARDIOPROTEZIONE
Le metallotioneine
Tra i diversi meccanismi di cardioprotezione studiati e identificati negli ultimi anni, una attenzione particolare è stata rivolta alle metallotioneine. Le metallotioneine (MT) sono un gruppo di proteine intracellulari a basso peso molecolare (6-7 kDa), ricche di cisteina e capaci di legare i metalli. Esse sono ubiquitariamente espresse, inducibili da parte di numerose molecole, e in particolare dallo zinco (39). Ne esistono diverse isoforme. La MT-I e MT-II sono quelle maggiormente rappresentate nella maggior parte dei tessuti, incluso il miocardio. Le MT svolgono diverse funzioni biologiche, e posseggono numerose proprietà. Tra queste è inclusa quella antiossidante, che sebbene sia molto efficiente risulta essere poco specifica. In particolare, le MT garantiscono protezione nei confronti di multiple specie di ROS quali, ione superossido, perossido di idrogeno e radicale idrossile e mostrano un effetto 800 volte superiore rispetto al glutatione (GSH) nel prevenire in vitro il danno al DNA indotto dal radicale idrossile (40). Gli effetti protettivi delle MT nei confronti del danno cardiaco provocato dalla doxorubicina e dall’ischemia/riperfusione sono sostenuti da numerose evidenze sperimentali. Al contrario studi effettuati su analoghi modelli sperimentali (modelli animali di diabete da streptozocina) suggeriscono che il diabete di per sé sia responsabile di una aumentata espressione delle MT (41). A sostegno di questi ultimi dati è l’osservazione originale di Failla e collaboratori che già nel 1981 documentavano un aumento dei livelli di MT nel fegato e nei reni di animali diabetici (42). Collettivamente questi dati, sebbene appaiano contrastanti, sostengono l’ipotesi che gli aumentati livelli di MT possano rappresentare una risposta adattiva del miocardio allo stress ossidativo. A conferma di ciò, una induzione di MT-II è stata descritta nel miocardio in due diversi modelli sperimentali di diabete e iperlipemia (43-44). La dimostrazione del ruolo protettivo delle MT è stata successivamente confermata dagli studi effettuati in animali trangenici (MT-TG) che overesprimevano il gene cardiaco umano che codifica per la MT-II. In questi animali, resi successivamente diabetici, le cellule miocardiche risultavano precocemente protette dall’apoptosi e dallo sviluppo di CMD (45). Utilizzando lo stesso modello Cai et al. (29) hanno dimostrato che le MT possono avere un effetto cardioprotettivo nel diabete, descrivendone i meccanismi coinvolti: i) un’azione antiossidante diretta, ii) una regolazione dell’omeostasi del calcio e dello zinco, e iii) un effetto insulino-sensibilizzante. In aggiunta a ciò, lo studio di Xu et al. ha dimostrato come le MT siano in grado di ridurre lo ER stress indotto dall’angiotensina II e la morte cellulare indotta dallo ER stress (41).
DANNO DA ISCHEMIA/RIPERFUSIONE, PRE-CONDIZIONAMENTO E POST-CONDIZIONAMENTO ISCHEMICO
L’infarto miocardico acuto (IMA) è una delle principali cause di morte del paziente diabetico e lo stress ossidativo che tipicamente lo caratterizza sembra rivestire un ruolo centrale nel determinarne lo sviluppo e la progressione della malattia in questi pazienti (46).
Il gold-standard per il trattamento dell’IMA è la terapia di rivascolarizzazione, indispensabile per ripristinare il flusso coronarico e proteggere il miocardio dalla morte associata all’insufficiente apporto di ossigeno. La riperfusione, tuttavia, si associa ad un ulteriore insulto miocardico, anche noto come danno da ischemia/riperfusione, provocato da un’esacerbazione dello stress ossidativo (47). Le dimensioni dell’area infartuale risultante dal danno ischemico e da quello da riperfusione rappresentano un fattore prognostico negativo nei pazienti che sopravvivono all’IMA (48). La terapia di rivascolarizzazione e l’ottimizzazione della terapia medica hanno permesso di incrementare il tasso di sopravvivenza di questi pazienti, ma non di prevenire il rimodellamento cardiaco e la conseguente l’evoluzione verso lo scompenso cardiaco (47-48).
Numerosi studi hanno cercato di chiarire quali siano i meccanismi fisiopatologici alla base del danno da ischemia/riperfusione e hanno mostrato come l’accumulo di ROS, documentato dalla riduzione del rapporto GSH/GSSG, sia uno dei principali mediatori della morte cellulare da ischemia/riperfusione (28). La cardioprotezione ancora una volta svolge un ruolo cruciale e si esplica attraverso meccanismi definiti di pre-condizionamento e post-condizionamento ischemico. Il pre-condizionamento e post-condizionamento ischemico in sostanza consistono in brevi episodi di occlusione/riperfusione coronarica che avvengono prima o dopo rispettivamente l’evento ischemico acuto e che hanno lo scopo di proteggere il miocardico da successivi episodi di ischemia, nonché prevenire l’incremento dell’area infartuale dovuta al danno da riperfusione. Gli stessi benefici possono essere osservati inducendo cicli di ischemica/riperfusione in organi o tessuti distanti dal cuore, fenomeno definito condizionamento remoto (26).
Nei pazienti diabetici tali meccanismi risultano compromessi e quindi meno efficace è la risposta al danno. La causa di tale compromissione non è stata ancora del tutto chiarita. Tuttavia, l’evidenza sperimentale che l’iperglicemia riduca i segnali di cardioprotezione mediate dalle vie PI3K/Akt e della Janus kinase 2/signal transducer and activator of transcription 3 (JAK2/STAT3) non lascia dubbi (49). Come conseguenza della ridotta attivazione di Akt e STAT3 anche l’NO si riduce nel miocardio diabetico determinando una maggiore suscettibilità al danno da ischemia/riperfusione (50).
Considerato il ruolo svolto dai segnali intracellulari coinvolti nei meccanismi di cardioprotezione, la comprensione di questi è fondamentale per la messa a punto di strategie terapeutiche capaci di prevenire l’estensione dell’area infartuale. Come sopra indicato tra i principali meccanismi di difesa sono inclusi una adeguata sintesi di NO endogeno, da parte dell’ossido nitrico sintetasi endoteliale (eNOS), e l’attivazione delle vie di segnale PI3K/Akt e JAK2/STAT3. In particolare, l’aumentata sintesi di NO endogeno rappresenta uno dei meccanismi cruciali messi in atto dal post-condizionamento ischemico, grazie all’attivazione di STAT3 (30). STAT3 è un fattore di trascrizione coinvolto in diversi processi fisiologici e patologici, e svolge un ruolo di particolare importanza nel miocardio e soprattutto nei mitocondri. È stata infatti individuata una isoforma mitocondriale capace di regolare positivamente la trascrizione di proteine cardioprotettive e determinare un incremento del complesso respiratorio I, un controllo maggiore sulla apertura di MPTP, e una ridotta formazione di ROS (26), che si traduce nell’inibizione dei segnali pro-apototici. Gli stimoli in grado di attivare i meccanismi di condizionamento ischemico sono molteplici: lo stiramento delle cellule miocardiche; i ROS e le eccessive quantità di specie reattive dell’azoto (in basse quantità hanno un effetto protettivo); l’adenosina rilasciata dai cardiomiociti; i neurormoni come l’acetilcolina, le catecolamine, l’angiotensina, l’endotelina; l’eritropoietina; e le prostaglandine (l’inibizione della ciclo-ossigenasi può abolire la cardioprotezione). Analogamente, numerosi sono i mediatori intracellulari coinvolti: protein chinasi C (PKC), PI3K e GSK3, STAT3, PKA, fattore inducibile dall’ipossia 1 alfa (26). La protezione conferita dal pre-condizionamento ischemico deriva dall’attivazione della via definita “reperfusion injury salvage kinase” (RISK) (46), la quale a sua volta prevede l’attivazione della PI3K/Akt. Il TNFα, noto per il suo contributo al danno miocardico, paradossalmente a basse concentrazioni attiva una via di protezione alternativa, la via denominata “survivor activating factor enhancement” (SAFE). Questa, a differenza di quella precedente, dipende dall’attivazione della via JAK/STAT3 (49, 51). Nonostante l’interazione tra le due vie sia stata postulata, la loro azione risulta indipendente (28, 49). Questi dati però giustificano il ruolo chiave di queste vie effettrici nella protezione del danno cardiaco da ischemia/riperfusione.
È unanime il consenso che tutti i meccanismi molecolari di cardioprotezione convergano su quell’organello, che dirige l’orchestra del condizionamento, ovvero il mitocondrio, e, in particolar modo, sul controllo dell’apertura del MPTP (26). Come sopra accennato, i mitocondri sono essenziali per la sopravvivenza cellulare, forniscono l’ATP necessaria per il mantenimento di gradienti ionici, a loro volta essenziali per la funzione contrattile, e l’integrità cellulare. L’ischemia comporta una carenza di ossigeno quale accettore di elettroni e questo riduce il flusso di elettroni attraverso la catena respiratoria, limitando la formazione di ATP. La riperfusione per contro, determina l’apertura del MPTP e innesca una catena di eventi deleteri che sono alla base del danno da riperfusione. I mitocondri possiedono però meccanismi protettivi che impediscono l’apertura del MPTP e che sembrano coinvolgere la glicogeno sintasi chinasi 3β (GSK3β), punto di convergenza dei meccanismi finora citati. Ciò è stato infatti suggerito dagli effetti indotti dall’inibizione dell’attività di GSK3β sull’apertura di MPTP (51). Un target fondamentale dei segnali endogeni (ed eventualmente farmacologici) di cardioprotezione è rappresentato dai canali del potassio ATP-dipendenti mitocondriali (mitoK), localizzati a livello della membrana interna mitocondriale e coinvolti nei meccanismi che promuovono la produzione di ATP. In condizioni normali tali canali sono chiusi e l’ingresso di ioni è trascurabile. In condizioni di stress o ischemia l’apertura di mitoK provoca un notevole afflusso di ioni, diffusione di acqua e conseguente rigonfiamento della matrice mitocondriale. Questo effetto permette di preservare un’efficace fosforilazione ossidativa e di prevenire l’apertura di MPTP e quindi il rilascio di fattori pro-apoptotici, come avviene durante la riperfusione. Questi effetti sono in parte mediati dalla sua interazione con la connessina 43 (Cx 43), presente sia nel sarcolemma che nei mitocondri (52).
RUOLO DELL’ADIPONECTINA
Lo stress ossidativo è noto accompagnarsi ad una riduzione dell’adiponectina (APN), una proteina plasmatica specificatamente prodotta dagli adipociti con proprietà antinfiammatorie, anti-apoptotiche e insulino-sensibilizzanti. La sua azione si esplica tramite due tipi di recettori (AdipoR1 e AdipoR2). Nei pazienti diabetici i livelli plasmatici di APN sono ridotti e questo può rappresentare uno dei principali fattori che rendono il cuore diabetico maggiormente suscettibile al danno ischemico (53, 59). Lo studio di Shibalta et al. del 2005 ha documentato come l’APN abbia un ruolo protettivo nei confronti del danno da ischemia/riperfusione controllando le concentrazioni locali di TNFα (54).
In studi condotti su modelli animali non diabetici è stato dimostrato inoltre come la supplementazione di ANP determini un incremento della produzione di NO che si accompagna ad un effetto protettivo nei confronti del danno da ischemia/riperfusione (28). Altri studi hanno infatti evidenziato che l’APN è in grado di indurre la eNOS ed inibire la iNOS mediante l’attivazione della via di segnale mediata della proteina chinasi attivata dall’AMP (AMPK), ripristinando così la cardioprotezione da post-condizionamento (55). La APN sembra inoltre avere un ruolo diretto sull’attivazione di STAT3 nei fibroblasti cardiaci murini (56). Tali proprietà (attivazione di STAT3, aumentata produzione di NO via eNOS, e inibizione di iNOS) rendono la supplementazione una potenziale “target therapy” per ridurre il danno da ischemia/riperfusione, in particolare per ristabilire la sensibilità del cuore diabetico al post-condizionamento ischemico. In aggiunta a questi meccanismi l’APN sembra concorrere alla cardioprotezione tramite l’attivazione della ciclo-ossigenasi di tipo 2 (COX-2) e quindi mediante l’incremento di prostaglandine. Queste ultime, come noto, svolgono un ruolo protettivo nei confronti del danno ischemico, non solo a livello cardiaco (53). Infine, è stato suggerito che l’APN, aumentando livelli di NO endoteliale, induca la produzione di TNFα nei cardiomiociti, che come anticipato, a basse concentrazioni, attiva la via SAFE (57). Due studi indipendenti hanno inoltre dimostrato che animali APN-knockout (che non producono cioè APN) sviluppavano un danno miocardico maggiore in risposta ad un insulto ischemico, al contrario, la supplementazione di APN determinava un incremento di NO e limitava il danno da ischemia/riperfusione (53, 55). Lo studio di Wang et al. (57) ha dimostrato infine un effetto sinergico dell’N-acetilcisteina e dell’allopurinolo mediato dai livelli circolanti di APN e dall’aumentata espressione del suo recettore di tipo 2 (AdipoR2). Questi infatti ripristinando l’attività di eNOS sono responsabili dell’attivazione delle vie di cardioprotezione mediate da Akt e STAT3 (46, 59). Le vie di segnale coinvolte nella cardioprotezione sono riportate schematicamente nella figura 2.
IMPLICAZIONI TERAPEUTICHE
Le strategie terapeutiche attualmente disponibili per la prevenzione ed il trattamento della cardiopatia nel DM consistono in: controllo glicemico, trattamento dell’ipertensione arteriosa, preferibilmente con molecole della classe degli ACE-inibitori o degli antagonisti del recettore dell’angiotensina II, diagnosi precoce e trattamento delle sindromi coronariche acute, terapia ipocolesterolemizzante (60).
Un controllo glicemico ottimale, in particolare, riduce le complicanze microvascolari del DM ma non ha un impatto rilevante su quelle macrovascolari. Nonostante l’ampia disponibilità di farmaci antidiabetici, infatti, nessuno di questi si è dimostrato in grado di ridurre in maniera significativa le complicanze cardiovascolari del DM, causa di morbidità e mortalità prematura in questi pazienti (61, 63).
La necessità di poter intervenire su questo aspetto della malattia diabetica con strategie terapeutiche mirate rappresenta un problema rilevante, al quale due recenti trial clinici hanno dato risposte confortanti. Si tratta dell’EMPA-REG outcome (Empagliflozin, Cardiovascular Outcomes, and Mortality in Type 2 Diabetes) e del LEADER (Liraglutide Effect and Action in Diabetes: Evaluation of Cardiovascular Outcome Results). I risultati positivi in termini di “outcomes” cardiovascolari ottenuti con l’empaglifozin e la liraglutide rispettivamente, sebbene ancora discussi, potrebbero fornire il presupposto per un trattamento non più focalizzato esclusivamente al controllo glicemico (61-63).
Numerosi studi sperimentali e clinici, precedenti ai suddetti trials, avevano focalizzato la loro attenzione sulla questione, cercando di identificare molecole o meccanismi chiave coinvolti nei processi di cardioprotezione che potessero essere reclutati in diverso modo. Farmacologia e terapia genica incluse. Si tratta di un numero cospicuo di dati che non sempre hanno portato a risultati convincenti o univoci ma che hanno sicuramente dischiuso un universo ancora da esplorare.
Terapie antiossidanti
Lo stress ossidativo, come illustrato ampiamente, rappresenta uno dei principali elementi patogenetici della CMD. Non sorprende quindi come molto impegno negli ultimi anni sia stato impiegato nella ricerca e sviluppo di farmaci ad azione antiossidante. Alcuni laboratori hanno infatti tentato di sviluppare molecole antiossidanti in grado di contrastare la progressione e l’automantenimento dello stress ossidativo, ritenuto il responsabile principale del danno miocardico (15). I dati emersi da studi condotti su pazienti o modelli animali diabetici sono controversi, soprattutto per le difficoltà incontrate nell’ottenere livelli circolanti e concentrazioni tissutali adeguati di molecole antiossidanti utilizzando la somministrazione orale. Un esempio, sono relativi a studi clinici che hanno utilizzato vitamina E e C come antiossidanti esogeni senza ottenere risultati degni di nota (29). Un approccio alternativo utilizzato è stato quello di amplificare l’espressione di molecole antiossidanti endogene per spostare nel miocardio l’equilibrio produzione-eliminazione di ROS a favore della sua clearance (29). Le metallotioneine sembrano possedere tutte le caratteristiche che le rendono dei validi antiossidanti (endogene, inducibili e non specifiche). Lo studio di Xu et al. ha mostrato come l’apoptosi dei cardiomiociti venga prevenuta dalla MT nel DM tramite la sua azione antiossidante. In animali diabetici l’apoptosi delle cellule cardiache risultava sensibilmente aumentata dopo 2 settimane dall’induzione del diabete mentre ciò non avveniva in animali over-espimenti il gene della MT. Nel gruppo di animali over-esprimenti MT, non venivano rilevati marcatori molecolari di ER stress e questo si traduceva nella prevenzione della disfunzione cardiaca protratta fino a 5 e 6 mesi dall’induzione del diabete (41).
L’osservazione che basse concentrazioni plasmatiche di zinco correlavano con la presenza di cardiopatia in pazienti con DM (64-65) ha giustificato i numerosi studi finalizzati a valutare gli effetti della supplementazione di zinco sull’induzione dell’espressione delle MT. Il potenziale clinico dello zinco è stato d’altronde già riconosciuto in numerose patologie. Ne è un esempio la malattia di Wilson, dove l’induzione di MT esercita un effetto protettivo nei confronti dell’eccesso di rame libero (66). È stata quindi valutata la possibilità di indurre in modelli animali l’espressione di MT a livello cardiaco attraverso la supplementazione di zinco per prevenire le complicanze cardiovascolari in corso di malattia diabetica. Nello studio di Wang et al. (39) è stato dimostrato un effetto protettivo dello zinco nella prevenzione della CMD. Effetto confermato da studi successivi (29). In quest’ultimo studio, la somministrazione intraperitoneale di zinco solfato in animali diabetici ha mostrato diversi effetti protettivi mediati dall’attività di MT: l’induzione di MT a livello cardiaco, negli animali che erano sottoposti a supplementazione di zinco, preveniva lo sviluppo di fibrosi e di disfunzione cardiaca. L’induzione di MT a livello sistemico inoltre preveniva l’effetto tossico sulle cellule endoteliali da parte di ferro e rame liberi, i cui livelli sono comunemente incrementati per effetto dell’iperglicemia. Questo si traduceva in una riduzione di dei valori pressori e del danno ateromasico, fattori precipitanti la CMD (29). Studi analoghi confermano l’effetto protettivo, nei confronti delle complicanze microvascolari del DM, dello zinco somministrato per via orale (64). Da questi dati emerge quindi come la supplementazione di zinco, perlomeno in modelli preclinici, sia protettiva nei confronti delle complicanze cardiovascolari del diabete. Ciò è stato attribuito a diverse azioni: capacità di indurre la sintesi di MT, azione antiossidante diretta ed effetto insulino-sensibilizzante (29, 39). La somministrazione cronica di zinco può naturalmente associarsi ad effetti secondari e per questo è stata presa in considerazione la sua somministrazione in associazione ad altri elementi come magnesio, basse dosi di rame o altre molecole antiossidanti. Ulteriori studi sono, tuttavia, necessari per chiarire come i dati ottenuti finora possano tradursi in terapie concrete.
Analogamente alle MT, altri potenziali inibitori dello ER stress, potrebbero costituire valide strategie terapeutiche. L’angiotensina II, come già accennato, ha un ruolo diretto nell’indurre ER stress e questo è stato dimostrato dallo studio di Wu et al. (67) in cui il valsartan, inibitore selettivo del recettore dell’angiotensina II, riduceva lo ER stress e l’apoptosi dei cardiomiociti prevenendo il rimodellamento cardiaco (67).
Terapie meccaniche
Il post-condizionamento ischemico e il condizionamento remoto vengono utilizzati come strategie terapeutiche meccaniche nei pazienti con IMA. Tale procedura ha lo scopo di ridurre il danno da ischemia/riperfusione e quindi le dimensioni dell’area infartuale. La maggior parte degli studi ha mostrato risultati soddisfacenti quando venivano considerati gli indicatori di danno bioumorali, come CK e troponina, le dimensioni dell’area infartuata e il reperto elettrocardiografico (sopraslivellamento dell’ST) (26, 68). Si tratta tuttavia di risultati contrastanti, non confermati da due metanalisi pubblicate nel biennio 2010-2011 (69-70). È stato suggerito che la mancata congruenza dipendesse dalla presenza di fattori di rischio (fumo di sigaretta, obesità, ipercolesterolemia, diabete) in grado di ostacolare i meccanismi di pre- e post-condizionamento e/o da eventi non prevedibili quali la microembolizzazione coronarica o una precedente iniziale riperfusione (71).
Terapie farmacologiche
Molteplici studi condotti negli ultimi anni hanno valutato la possibilità di reclutare farmacologicamente i meccanismi di cardioprotezione. Particolare attenzione è stata rivolta ai meccanismi responsabili del condizionamento ischemico, notoriamente compromessi nel DM. Le molecole ad oggi utilizzate, sebbene con scarsi risultati, includono l’adenosina, l’eritropoietina e la ciclosporina A (26). L’unico studio che è stato in grado di reclutare un meccanismo di cardioprotezione, ovvero interferire sull’apertura del MPTP, ha documentato una riduzione dell’area infartuale dopo infusione endovenosa di un bolo di ciclosporina A precedente alla riperfusione (72). Tra i farmaci comunemente utilizzati nel trattamento del DM ve ne sono alcuni per i quali è stato dimostrato un effetto cardioprotettivo.
La metformina ed il pioglitazone, per esempio, attivando la PKA (73). La metformina è un farmaco antidiabetico con azione protettiva sul miocardio e non solo, come dimostrato dallo studio UKPDS (The UK Prospective Diabetes Study) (74). Numerosi studi hanno proposto che l’effetto miocardio-protettivo della metformina sia dovuto all’attivazione della via dell’cAMP (75), la quale oltre agli effetti antidiabetici (incrementato trasporto del glucosio, ridotta sintesi di acidi grassi e aumento della sensibilità insulinica) aumenta la produzione di NO, analogamente a quanto avviene nel pre-condizionamento ischemico. Molti studi hanno inoltre dimostrato che il pre-trattamento ed il post-trattamento con metformina riduce le dimensioni dell’infarto (75). Tuttavia, nonostante tali effetti cardiaci favorevoli, l’uso della metformina andrebbe limitato nei pazienti con STEMI e NSTEMI o che debbano andare incontro a Angioplastica Percutanea (PCA) per l’elevato rischio di acidosi lattica (73, 75).
I glitazoni agiscono attivando i recettori nucleari del PPAR con conseguenti effetti sul metabolismo glucidico e lipidico (76). Tutti gli studi preclinici hanno dimostrato l’effetto mediato da questa classe di farmaci sulla riduzione delle dimensioni dell’ischemia, grazie al meccanismo del pre-condizionamento. È stato proposto infatti che l’azione cardioprotettiva sia mediata dall’attivazione delle stesse vie cellulari attivate dal pre-condizionamento, deputate a limitare il danno da ischemia/riperfusione. Lo studio proACTIVE e l’IRIS trial (Insulin Resistance Intervention after Stroke) (77-78) hanno valutato l’effetto del pioglitazone su “endpoints” CV. Pur avendo dimostrato un effetto cardioprotettivo i pareri sono discordanti in quanto tali molecole possono esacerbare stati edemigeni e condizioni di scompenso cardiaco (79).
Analoghi del GLP-1 e danno da ischemia/riperfusione
Una svolta è stata determinata dalla recente introduzione degli agonisti del recettore del glucagon-like peptide-1 (GLP-1 RAs). Il GLP-1 è un ormone incretinico prodotto dalle cellule intestinali in risposta all’introduzione di alimenti ed esplica la propria azione tramite il suo recettore specifico (GLP-1R). Tale recettore è espresso in diversi organi, incluso il miocardio (80). L’ormone ha una funzione glucoregolatoria ed insulinotropica (aumento della secrezione insulinica da parte delle cellule beta pancreatiche e riduzione della secrezione di glucagone da parte delle cellule alfa pancreatiche) e in aggiunta la sua somministrazione si associa a perdita di peso per azione sul sistema nervoso centrale controllando il senso di fame. Ha una emivita molto breve e viene rapidamente degradato dalla dipeptidil peptidasi 4 (DPP-4). Nel DM la secrezione di GLP-1 risulta ridotta (81).
Gli GLP-1 RAs sono molecole in grado di attivare GLP-1R, ma resistenti alla degradazione da parte della DPP-4, con conseguente persistenza dell’analogo di GLP-1 in circolo anche in pazienti che ne producono meno. Sono farmaci approvati sia in monoterapia sia in combinazione con altri ipoglicemizzanti orali o con l’insulina nel trattamento del DM. I principali effetti sono: riduzione della glicemia post-prandiale con basso rischio di ipoglicemia, rallentato svuotamento gastrico e aumentato senso di sazietà con conseguente perdita di peso, aumentata sopravvivenza delle beta-cellule pancreatiche (3, 81). Oltre agli effetti sul controllo delle concentrazioni plasmatiche di glucosio, numerosi studi pre-clinici hanno portato alla luce un potenziale effetto cardioprotettivo di queste molecole, in particolare nei confronti del danno da ischemia/riperfusione (81-84). Lo studio di Longborg et al. ha inoltre dimostrato come l’infusione di Exenatide prima di una “Percutaneous Coronary Intervention” (PCI) riduca le dimensioni infartuali nei pazienti con IMA (85).
Negli ultimi anni sono stati quindi condotti studi clinici su pazienti con DM per valutare gli effetti degli analoghi del GLP-1 su “outcomes” cardiovascolari quali aritmie, scompenso cardiaco, infarto miocardico e morte. Attualmente sono disponibili 18 trials (86-90). Alcuni di essi hanno evidenziato come l’utilizzo di tali farmaci migliori sia il flusso cardiaco miocardico sia la funzione ventricolare sinistra, anche in pazienti con scompenso cardiaco. Altro effetto osservato è la riduzione dell’estensione dell’area infartuale in pazienti con IMA. Tra le varie molecole disponibili liraglutide ed exenatide sono risultate superiori rispetto al placebo nel ridurre gli eventi cardiovascolari quando associate alla terapia standard (91-93). L’effetto della liraglutide su outcomes CV è stato esaminato dallo studio randomizzato in doppio cieco LEADER (Liraglutide Effect and Action in Diabetes). La mortalità per cause CV risultò significativamente ridotta nel gruppo di soggetti che assumevano liraglutide rispetto al gruppo placebo dopo 18 mesi di terapia. In particolare, il farmaco determina una riduzione significativa sia della morte da cause CV (22%), sia di IMA e stroke non fatali (12%) (93). In due trials l’Exenatide, inibendo il catabolismo del GLP-1, si è mostrato capace di ridurre le dimensioni dell’area infartuale (91-92). È attualmente in corso uno studio randomizzato di fase IV (EXCEL) con lo scopo di definire in maniera più chiara gli effetti CV della molecola. Lo studio SUSTAIN-6 (Trial to Evaluate Cardiovascular and Other Long-term Outcomes with Semaglutide in Subjects with Type 2 Diabetes) ha dimostrato che la semaglutide riduce il rischio degli “outcomes” CV analogamente alla liraglutide (94).
Questi farmaci non sono comunque privi di effetti collaterali. In particolare, durante gli studi sia in fase preclinica che in fase clinica è stato evidenziato un incremento minimo della frequenza cardiaca, il cui significato dal punto di vista clinico è ancora da definire. Tale incremento è stato attribuito alla presenza di recettori per il GLP-1 a livello del nodo seno atriale (86-90).
Gli effetti positivi a livello cardiaco potrebbero essere mediati dall’attivazione della via cAMP/PI3K/Akt, via che notoriamente modula l’attività mitocondriale. In particolare, ciò determinerebbe un’aumentata trascrizione della sarco/endoplasmic reticulum Ca+ ATPase-2a (SERCA2a), responsabile del trasporto di calcio dal citosol al reticolo sarcoplasmatico che garantisce il rilassamento dei cardiomiociti durante la diastole (84). Anche l’attività di questa molecola è risultata ridotta nel DM (84). Ciò in definitiva comporterebbe una riduzione dello ER stress e importanti ripercussioni positive sull’apoptosi e sulla sopravvivenza del miocardiocita (83-84). L’attivazione della stessa via è stata messa in relazione all’effetto positivo esercitato dalla molecola farmacologica anche a livello vascolare, dove aumenterebbe il rilasciamento della muscolatura vascolare (95)
Da quanto detto finora si evince come gli analoghi del GLP-1 richiedano ulteriori studi relativamente alle proprietà cardioprotettive affinchè possa essere stabilito in modo chiaro il loro potenziale terapeutico sul danno da ischemia/riperfusione. Al contrario degli analoghi del GLP-1, non sono stati dimostrati effetti cardioprotettivi con l’utilizzo di inibitori del DDP-IV, sui quali inizialmente si riponevano grandi speranze (96-98).
Inibitori dell’SGLT2 e scompenso cardiaco
La classe di ipoglicemizzanti orali di più recente generazione approvati per il trattamento del DM, in monoterapia o come terapia add-on, è rappresentata dagli inibitori del trasporatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2), quali empaglifozin, canaglifozin e dapaglifozin. Il loro effetto ipoglicemizzante si esplica attraverso un incremento dell’escrezione urinaria di glucosio, indipendente dall’insulina, senza interferire con il riassorbimento intestinale di glucosio mediato dall’SGLT1 (99). Questo genera una diuresi osmotica che a sua volta favorisce la perdita di peso e la riduzione dei valori pressori in assenza di effetti cronotropi secondari. Si associa inoltre una riduzione dei livelli circolanti di acido urico (100,101). Sono ormai numerosi gli studi che hanno dimostrato gli effetti cardioprotettivi di tali farmaci (102). L’efficacia di empaglifozin sugli “outcomes” cardiovascolari è stata originariamente dimostrata dallo studio EMPA-REG (103). Lo studio ha messo in evidenza una riduzione della mortalità per eventi CV maggiori (38%), associata a un ridotto numero di accessi ospedalieri per scompenso cardiaco (35%) (103-104). Risulta inoltre che l’empaglifozin non modifica sostanzialmente gli eventi notoriamente condizionati dalla presenza di malattia aterosclerotica, quali infarto miocardico e stroke, suggerendo un effetto cardioprotettivo diretto.
I meccanismi molecolari responsabili degli effetti cardioprotettivi degli inibitori dell’SGLT2 non sono noti ed oggetto di ampio dibattito. Tuttavia alcune ipotesi sono state proposte suggerendo che tali effetti siano indipendenti dall’azione sul metabolismo glucidico e lipidico e possano essere messi in relazione a meccanismi pleiotropici non ancora definiti (99). La sola riduzione della glicemia non sembra infatti sufficiente a giustificarne l’effetto cardioprotettivo. Le modificazioni emodinamiche, quali l’effetto diuretico, responsabile a sua volta della riduzione del volume plasmatico e quindi del precarico possono spiegarlo, invece, solo parzialmente. Un analogo effetto cardioprotettivo in termini di morte cardiaca o scompenso cardiaco non è stato infatti osservato con i diuretici (105). L’osservazione che i miocardiociti non esprimono il recettore SGLT2 rafforza l’ipotesi che la cardioprotezione derivi da meccanismi completamenti differenti (63). A tal proposito, è stato recentemente dimostrato (106) che l’empaglifozin inibisce lo scambiatore Na+/H+ indipendentemente dal suo effetto su SGLT2, determinando una riduzione delle concentrazioni di sodio e calcio intracellulari ed un incremento del calcio mitocondriale nei cardiomiociti. Questo si traduce in un’aumentata produzione di ATP ed in una migliore performance del miocardio. Nello studio di Andreadou et al. (107) sono stati valutati gli effetti dell’empaglifozin sulla funzione miocardica e sulle dimensioni dell’area infartuale dopo danno da ischemia/riperfusione in modelli murini con DM. Ne emerge che l’empaglifozin è in grado di ridurre l’area infartuale ed aumentare la sopravvivenza delle cellule miocardiche, mediante l’attivazione delle vie di cardioprotezione che coinvolgono l’espressione e la fosforilazione di STAT3 e interferendo con l’espressione di iNOS e IL-6 nel miocardio ischemico (107-108). Un’analisi recente, infine, ha suggerito come un incremento dell’ematocrito, conseguente ad emoconcentrazione e aumento dell’eritropoietina, possa essere il determinante maggiore degli effetti cardioprotettivi e renali dell’empaglifozin (99).
Per quanto riguarda canaglifozin e dapaglifozin i dati ad oggi disponibili sono più esigui. Lo studio di Hawley et al. (109) ha dimostrato come il canaglifozin determini un aumento di AMPK, enzima coinvolto in meccanismi di cardioprotezione, in cellule sia umane che murine. Lo studio CANVAS ha mostrato potenziali effetti cardioprotettivi del canaglifozin (110). Lo studio di Lee et al. (111), più recentemente, ha invece dimostrato come il dapaglifozin utilizzato per il trattamento dell’IMA in assenza di diabete sia in grado di ridurre la fibrosi miocardica ed il rimodellamento ventricolare condizionando il fenotipo dei macrofagi attivando la via di cardioprotezione mediata da STAT3.
Anche per questa classe di farmaci, seppur molto promettenti, non bisogna trascurare i possibili effetti collaterali, già emersi da alcuni studi. Oltre all’aumentato rischio di sviluppare infezioni delle vie urinarie, dovuto all’incremento dei livelli di glucosio nelle urine, nel 2015 l’FDA ha rilasciato un “warning” sulla base di dati riportati in letteratura e relativi al rischio di sviluppare chetoacidosi in pazienti con T1DM e T2DM trattati con inibitori dell’SGLT2 (112). A conferma di questi dati esistono numerose evidenze sperimentali che suggeriscono potenziali meccanismi responsabili dell’evento avverso: incremento dei corpi chetonici per aumento della lipolisi, aumentato riassorbimento renale di acido acetoacetico (e verosimilmente anche di beta-idrossibutirrato non indagato in modo specifico) (113). Studi clinici che abbiano indagato e confermato l’effetto degli inibitori dell’SGLT2 sulla clearance renale dei corpi chetonici nell’uomo non sono ancora disponibili. È stata infine segnalata da Taylor et al. (114) la possibilità che gli inibitori dell’SGLT2 incrementino il rischio di fratture ossee (osservata in una percentuale variabile di pazienti trattati nei diversi studi). Ulteriori studi saranno, pertanto, necessari per confermare tale evidenza.
Particolare attenzione deve essere rivolta all’osservazione che la liraglutide ed l’empaglifozin agendo con meccanismi diversi conferiscono benefici diversi con pattern temporali differenti. Gli inibitori dell’SGLT2 sono efficaci nel ridurre l’incidenza di scompenso cardiaco a breve termine, mentre gli analoghi del GLP-1 sembrano in grado di attenuare il processo aterogenico, proteggere dal danno da ischemia/riperfusione e conferire una protezione più lenta, ma costante (63).
Le statine e post-condizionamento ischemico
Le statine non sono farmaci antidiabetici ma sono ampiamente utilizzate nel trattamento delle comorbidità del DM. Oltre all’azione ipolipemizzante, presentano effetti pleiotropici in grado di inibire la produzione di ROS mediata dalla NAPDH ossidasi. Uno studio del 2010 condotto su modelli animali ha valutato l’effetto della simvastatina sulla riduzione dell’area infartuale in associazione o meno con post-condizionamento: la terapia con simvastatina somministrata per 3 settimane continuative determinava riduzione dell’area infartuata indipendentemente dall’applicazione del post-condizionamento (115). Numerosi altri studi (alcuni dei quali ancora in corso) hanno valutato il ruolo delle statine in pazienti sottoposti a riperfusione coronarica (sia mediante PCI che by pass aorto coronarico) ottenendo risultati per lo più positivi, in particolare se somministrata precocemente (116). A tali effetti si aggiunga la già nota capacità delle statine di stabilizzare la placca ateromasica. Alla luce di questi dati, la terapia con statina è stata recentemente raccomandata (117) in tutti i pazienti diabetici di età superiore ai 40 anni, indipendentemente dai livelli di colesterolo, considerando che il rischio di un primo evento infartuale in questa categoria di pazienti è molto alto.
L’impatto di altre molecole, quali i fibrati, è stato indagato, ma senza ottenere risultati positivi. Grande è l’attesa di dati relativi all’uso di nuove molecole ipocolesterolemizzanti, quali gli inibitori della pro-proteina della convertasi subtilisina/Kexin tipo 9 (PCSK9).
Sulla base dei dati fino ad oggi ottenuti sono state riviste le raccomandazioni per il trattamento del T2DM. Nel gennaio 2017 sono state aggiornate le linee guida dell’ADA/EASD (American Diabetes Association/European Association for the Study of Diabetes) (117-118). Infatti, le più recenti raccomandazioni, per i pazienti con T2DM e malattia CV nota, prevedono l’utilizzo di farmaci che abbiano dimostrato di ridurre in maniera significativa gli eventi CV maggiori, ad esempio un trattamento tipo add-on in associazione con la metformina, o alternativamente una terapia di combinazione ab-inizio. È anche contemplata la possibilità di una monoterapia iniziale in pazienti non ancora trattati. La scelta tra liraglutide ed empaglifozin dipende dalla presenza di comorbità note. Per l’empaglifozin l’indicazione riguarda i pazienti con scompenso cardiaco nella classe NYAH I e II, mentre sono ancora in corso studi per le classi NYAH III-IV. Analogamente sono in corso studi per valutare l’utilizzo di tali farmaci in pazienti con insufficienza renale cronica. Una possibilità, in pazienti selezionati, è quella di combinare liraglutide ed empaglifozin (con o senza metformina), rimanendo però questa un’indicazione ancora off-label (63). Indicazione off-label rimane per ora anche l’utilizzo degli inibitori dell’SGLT2 nel T1DM.
CONCLUSIONI
La comprensione dei meccanismi cellulari e metabolici responsabili dello sviluppo della CMD, così pure di quelli che sono responsabili del danno da ischemia/riperfusione nel cuore diabetico ha consentito di sviluppare tecnologie e farmaci che, qualora risultassero efficaci a lungo termine, potrebbero modificare la storia naturale della CMD.
Come ampiamente descritto lo stress ossidativo gioca un ruolo determinante nello sviluppo e nella progressione della CMD, come pure della malattia aterosclerotica. La possibilità di utilizzare farmaci in grado di interferire con i processi ossidativi direttamente, e/o di ripristinare i meccanismi di cardioprotezione, deficitari nel cuore diabetico, deve essere pertanto perseguita.
Ulteriori studi saranno necessari per confermare gli effetti cardio e renoprotettivi dei farmaci antidiabetici di ultima generazione. Analogamente sarà fondamentale stabilire l’eventuale coinvolgimento della mitofagia nei processi di cardioprotezione. Ciò consentirebbe di utilizzare approcci alternativi che utilizzino il processo mitofagico come bersaglio terapeutico per prevenire e/o trattare la CMD.
Si sta delineando sempre di più il concetto di scompenso cardiaco come nuovo bersaglio terapeutico nel paziente diabetico. Nell’era della medicina di precisione sarebbe pertanto auspicabile identificare fattori predittivi che permettano di personalizzare il trattamento e di scegliere in modo mirato i farmaci tra quelli disponibili nonché di identificare nuove molecole in grado di modificare la storia naturale della malattia diabetica.
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