Autofagia e diabete: una prospettiva traslazionale

Vincenzo De Tata

Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Pisa

 

DOI: https://doi.org/10.30682/ildia1904f

 

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L’AUTOFAGIA: SIGNIFICATO BIOLOGICO E MECCANISMI MOLECOLARI

Il termine autofagia (dal greco αὐτός = stesso e ϕαγεῖυ = mangiare) fu coniato per la prima volta negli anni ’60 del Novecento da Christian de Duve (1), scopritore dei lisosomi e Premio Nobel per la Medicina nel 1974. Con questo termine si indica un processo evolutivamente ben conservato che rappresenta il principale meccanismo per il turnover dei componenti cellulari attraverso la loro degradazione nel compartimento lisosomiale (2). In realtà, sono note tre forme principali di autofagia: la macroautofagia, la microautofagia e l’autofagia chaperone-mediata. La macroautofagia rappresenta il principale meccanismo attraverso il quale vengono rimossi gli organelli danneggiati e gli aggregati proteici non utilizzati. Nel corso della macroautofagia queste componenti vengono dapprima sequestrate all’interno di vescicole rivestite di membrana, note come autofagosomi, che si fondono in seguito con i lisosomi formando gli autolisosomi, all’interno dei quali avviene la degradazione ad opera degli enzimi lisosomiali (3). Nella microautofagia invece, il materiale da degradare viene direttamente inglobato dai lisosomi attraverso invaginazioni ed evaginazioni della loro membrana (4). Infine, nell’autofagia chaperone-mediata, le proteine da smaltire vengono riconosciute e legate da un chaperone molecolare (Hsp70) formando un complesso che viene successivamente legato e smaltito dai lisosomi (5). Delle tre forme suddette, la macroautofagia è la più importante e meglio studiata e ad essa ci riferiremo d’ora in avanti indicandola semplicemente come autofagia.

L’autofagia normalmente procede attraverso quattro fasi: 1) iniziazione; 2) elongazione; 3) maturazione/fusione; 4) degradazione. Durante l’iniziazione si ha la formazione del fagoforo, una struttura pre-autofagosomale che si ritiene origini dal reticolo endoplasmico e che espandendosi ingloba la porzione di citoplasma da degradare. Questa prima fase è mediata dal complesso ULK1 (unc-51 like autophagy activating kinase)-ATG13 (autophagy related 13)-FIP200 (RB1 inducible coiled-coil 1), attivato in seguito all’inibizione di mTORC1 (mechanistic target of rapamycin compex 1), tipicamente indotta dalla deplezione di nutrienti (6). La fase di elongazione, che comporta la formazione dell’autofagosoma, è controllata da due sistemi di coniugazione “ubiquitin-like”, ovvero il sistema ATG5-ATG12 e il LC3-ATG8 (6). La proteina LC3 (microtubule-associated protein light chain 3), omologa nei mammiferi della proteina di lievito ATG8, viene clivata dalla cisteina proteasi ATG4 per formare il frammento LC3-I; questo coniugandosi con la fosfatidiletanolammina forma il complesso LC3-II. La fosfatidiletanolammina funge da ancora lipidica per consentire l’inserzione di LC3-II a livello della membrana dell’autofagosoma (7). La proteina LC3 è tipicamente utilizzata come marker autofagico, in quanto la sua presenza correla con il numero di autofagosomi presenti nella cellula. La fase di maturazione avviene durante il trasporto dell’autofagosoma fino al centro di organizzazione dei microtubuli (MTOC), mediato da proteine come LC3-II e dineina (8). A livello del MTOC avviene la fusione con i lisosomi, e comincia lo step finale di degradazione del cargo da parte delle proteasi lisosomiali acide.

 

Il Diabete Online

Figura 1

 

L’autofagia fu inizialmente considerata un meccanismo omeostatico in grado di garantire la sopravvivenza cellulare in condizioni di deprivazione di nutrienti tramite la degradazione di componenti endogeni da utilizzare come fonte di energia (9). In effetti, l’autofagia può essere rapidamente indotta dalla deprivazione di nutrienti sia nel lievito (10) sia nel topo (11) rappresentando pertanto un meccanismo fondamentale di sopravvivenza in tutti gli eucarioti. In queste condizioni, l’autofagia comporta la degradazione non specifica di componenti citoplasmatiche (proteine, organelli) i cui elementi costitutivi vengono utilizzati per la produzione di energia e la sintesi di composti essenziali per la sopravvivenza.

Oltre al loro ruolo fondamentale nei processi di degradazione dei componenti cellulari, sembra ormai accertato che i lisosomi partecipino attivamente ad un sistema di signaling altamente dinamico legato all’utilizzazione dei nutrienti da parte della cellula. All’interno di questo sistema un ruolo chiave come sensore dei nutrienti è svolto dal complesso proteico mTORC1, individuato per la prima volta nelle cellule di lievito (12-13). Questo complesso viene reclutato e attivato a livello lisosomiale da numerosi stimoli quali insulina, fattori di crescita, siero, acido fosfatidico, aminoacidi (in particolare la leucina) e stress ossidativo (14). L’attivazione di mTORC1 stimola la crescita e la proliferazione cellulare e inibisce l’autofagia (15). L’attivazione di mTORC1, attraverso la progressiva fosforilazione di diversi residui di serina, inibisce il fattore di trascrizione EB (TFEB), che rappresenta il principale regolatore della funzione lisosomiale e dell’autofagia (16). Un ruolo opposto a quello di mTORC1 è svolto invece dall’enzima AMPK (AMP-activated protein kinase) che reclutato a livello lisosomiale in condizioni di scarso apporto di nutrienti, stimola il processo dell’autofagia (17). Sembra pertanto che i lisosomi siano collocati al centro di una rete di signaling che controlla in maniera dinamica i processi bioenergetici della cellula in relazione allo stato nutrizionale della stessa (14).

AUTOFAGIA E MALATTIE

Numerose evidenze sperimentali hanno dimostrato che l’autofagia può essere indotta da un largo ventaglio di condizioni sia fisiologiche che patologiche, quali la carenza di fattori di crescita, l’ipossia, lo stress ossidativo e l’esercizio fisico (18). Il processo autofagico sembra in realtà possedere un basso livello di attivazione costitutiva che serve per rimuovere proteine non correttamente ripiegate e organelli danneggiati e/o invecchiati (19). L’autofagia pertanto può essere considerata sia come un meccanismo di difesa delle cellule nei confronti di fattori stressanti, sia come una risposta cellulare ai fisiologici processi di usura (20). Da questo punto di vista essa può agire come un meccanismo anti-invecchiamento (21), risulta coinvolta nei processi di rimodellamento tessutale durante lo sviluppo (22) e contribuisce alle difese cellulari contro i patogeni (20). Nonostante ciò, l’attivazione dell’autofagia può anche indurre una forma di morte cellulare programmata distinta dall’apoptosi nota come “morte cellulare autofagica” (23). Nella morte cellulare autofagica (che rimane comunque una definizione fondamentalmente morfologica basata su un aumentato numero di autofagosomi/autolisosomi, 23-24), una difettosa regolazione dell’autofagia sembra possa promuovere la morte della cellula come conseguenza di un’alterata degradazione di componenti cellulari (25). Sulla base delle evidenze sperimentali attualmente disponibili, sembra quindi che l’autofagia possa promuovere la sopravvivenza delle cellule oppure indurne la morte in relazione a differenti contesti cellulari e ambientali. In accordo con questo ruolo ambivalente, è stato dimostrato che l’autofagia può svolgere un ruolo patogenetico importante in diverse malattie, in special modo laddove l’accumulo di molecole e organelli danneggiati potrebbe indurre una condizione di stress cellulare (26).

L’AUTOFAGIA NELLE CELLULE BETA DEL PANCREAS

Da questo punto di vista, le cellule beta del pancreas rappresentano un bersaglio ideale. Queste cellule sono infatti specializzate nel secernere insulina in risposta a variazioni della concentrazione del glucosio nel sangue. Per mantenere una corretta omeostasi glicemica, le cellule beta del pancreas sono capaci di far aumentare di diverse volte la sintesi e la secrezione di insulina in risposta ad un aumento della glicemia. Queste cellule pertanto vengono facilmente sottoposte ad un continuo sovraccarico di sintesi proteica: è stato infatti calcolato che una cellula beta può arrivare a sintetizzare addirittura 106 molecole di proinsulina al minuto (27). Come conseguenza di tale intensa attività sintetica, le cellule beta sono cronicamente esposte a diversi tipi di stress, derivanti da un eventuale misfolding delle proteine neosintetizzate, da un’iperattività del reticolo endoplasmico (ER) o da un danno a livello mitocondriale (28-30). È stato dimostrato che l’autofagia può svolgere un ruolo protettivo nei confronti dello stress del reticolo (31), e può anche contribuire al mantenimento di una corretta funzione mitocondriale promuovendo il turnover degli stessi mitocondri (mitofagia) (32).

Le precedenti considerazioni hanno fortemente stimolato le ricerche volte a chiarire l’esatta funzione dell’autofagia nelle cellule beta del pancreas. Nell’ultimo decennio è stata prodotta una notevole mole di dati sperimentali che talvolta però appaiono difficilmente conciliabili. Nonostante ciò si è andata progressivamente affermando una visione unificante secondo la quale l’autofagia rappresenta di per sé un meccanismo protettivo volto al mantenimento dell’integrità funzionale delle cellule beta, ma perde progressivamente questo ruolo durante l’evoluzione della malattia diabetica.

In accordo con le precedenti considerazioni è stato dimostrato che un’attivazione costitutiva dell’autofagia svolge un ruolo chiave nel mantenimento dell’omeostasi beta-cellulare. Questa conclusione è stata raggiunta grazie all’utilizzazione di topi Atg7βcellKO nelle cui cellule beta è stato selettivamente silenziato il gene Agt7 (che svolge un ruolo chiave nel meccanismo di attivazione dell’autofagia). In questi topi la perdita del gene Atg7, pur non essendo in grado di indurre da sola la comparsa di diabete, si associa a significative alterazioni dell’architettura insulare con aumento della apoptosi e diminuita proliferazione delle cellule beta e conseguente riduzione della massa beta-cellulare (33-34). Ulteriori indagini di tipo funzionale hanno poi rivelato che sia la secrezione basale di insulina che quella stimolata dal glucosio risultavano diminuite nelle isole pancreatiche ottenute da topi Atg7 βcellKO specialmente se alimentati con una dieta ricca di grassi (33). Inoltre, nei topi ob/ob, un modello genetico di obesità da deficit di leptina, la delezione di Atg7 causa una grave forma di diabete, confermando ulteriormente che l’autofagia nelle cellule beta agisce come meccanismo protettivo nei confronti di stress metabolici (35). Il ruolo protettivo della macroautofagia è stato confermato anche nei topi Akita (un modello di diabete connesso ad una mutazione del gene della proinsulina) (36) e nei confronti del danno citotossico indotto nel topo dall’espressione del polipeptide IAPP (Islet amyloid polypeptide) umano (37-39).

AUTOFAGIA E DIABETE

Una prima indicazione di un possibile coinvolgimento dell’autofagia nella malattia diabetica è stata ottenuta grazie all’osservazione che molte cellule beta pancreatiche di soggetti con diabete di tipo 2, studiate al microscopio elettronico, presentavano un massiccio aumento del numero dei vacuoli autofagici e degli autofagosomi che era direttamente correlato all’entità del danno cellulare, suggerendo che un’alterazione dell’autofagia potrebbe contribuire alla riduzione della massa beta-cellulare tipica di questa malattia (40). Poiché l’attivazione dell’autofagia appare dinamicamente correlata allo stato nutrizionale della cellula, si è tentato successivamente di individuare i segnali metabolici responsabili dell’alterazione osservata nei pazienti diabetici. Per riprodurre sperimentalmente le due principali alterazioni metaboliche che caratterizzano il diabete di tipo 2, è stato studiato l’effetto dell’esposizione delle cellule beta ad elevate concentrazioni di glucosio e/o acido palmitico (41). I risultati ottenuti in diversi sistemi sperimentali (linea cellulare INS-1E, isole isolate di ratto e umane) indicano tutti chiaramente che mentre l’iperglicemia non ha nessun effetto, aumentate concentrazioni di acido palmitico (da 0.1 a 1.0 mM) sono in grado di indurre una marcata attivazione dell’autofagia nelle cellule beta (41) che si associa ad un significativo declino della sopravvivenza cellulare.

Recentemente sono state fornite diverse evidenze sperimentali che suggeriscono un coinvolgimento dell’autofagia nella regolazione di diversi aspetti del metabolismo cellulare dei lipidi, con particolare riferimento alle cellule beta. A questo proposito è stato dimostrato che le lipasi lisosomiali possono contribuire alla lipolisi intracellulare attraverso la degradazione di goccioline lipidiche che vengono convogliate nei lisosomi mediante una forma di macroautofagia nota come lipofagia (42). È stato inoltre riportato che un blocco dell’autofagia può indurre un accumulo intracellulare di lipidi in tipi cellulari diversi (43). Questi risultati hanno portato ad ipotizzare che l’autofagia svolga un ruolo cruciale nella regolazione del metabolismo intracellulare dei lipidi non solo in condizioni di scarso apporto di nutrienti, come si riteneva in passato, ma anche per far fronte a massicci afflussi di materiale lipidico (44). Questi risultati forniscono un’idonea cornice concettuale per inquadrare l’effetto attivante dell’autofagia esercitato dal palmitato (41, 45).

Figura 2

 

Il differente effetto del glucosio e del palmitato per quanto riguarda l’attivazione dell’autofagia nelle cellule beta pone sul tappeto la questione del possibile meccanismo responsabile dell’effetto del palmitato. A questo proposito è utile ricordare che gli acidi grassi liberi sono potenti induttori di stress del reticolo (46), che a sua volta, insieme all’aumento del calcio intracellulare, si è rivelato un potente attivatore dell’autofagia (47-48). L’analisi ultrastrutturale delle cellule beta esposte ad elevate concentrazioni di palmitato ha in effetti dimostrato, accanto ad un significativo aumento del numero dei vacuoli autofagici, la presenza di un diffuso e notevole rigonfiamento del reticolo endoplasmico (41). È stato anche osservato che elevate concentrazioni di glucosio e di palmitato regolano in maniera diversa l’espressione di marcatori molecolari di stress del reticolo in isole pancreatiche umane isolate (49-50). Per questi motivi, lo stress del reticolo (e la risposta ad esso associata) rappresenta un candidato assai probabile al ruolo di meccanismo responsabile dell’attivazione dell’autofagia indotta dal palmitato. In tale contesto l’attivazione dell’autofagia sembra rappresentare un meccanismo difensivo nei confronti del danno cellulare indotto dal palmitato e mediato dallo stress del reticolo. Infatti, mentre l’autofagia indotta dalla rapamicina migliora la sopravvivenza beta-cellulare dopo esposizione a palmitato, la sua inibizione (ottenuta con metodi diversi) sembra avere un effetto opposto (41, 45). Ad ulteriore conferma dell’ipotesi che l’autofagia rappresenta un meccanismo di difesa nei confronti del danno conseguente a stress del reticolo, recentemente sono stati studiati gli effetti della modulazione del processo autofagico in isole umane isolate nelle quali tale stress era indotto sia metabolicamente (palmitato) che chimicamente (brefeldina). I risultati ottenuti confermano che in tali condizioni l’attivazione dell’autofagia (da rapamicina) migliora sia la sopravvivenza che la funzionalità secretoria delle cellule beta (51). Questo effetto positivo della rapamicina è stato confermato anche in isole pancreatiche isolate da soggetti con diabete di tipo 2, fornendo un ulteriore supporto all’ipotesi che alterazioni dell’autofagia possano svolgere un ruolo nella patogenesi della malattia diabetica (51). È stato anche dimostrato che la rapamicina è in grado di migliorare la sensibilità all’insulina e la steatosi epatica in ratti diabetici grazie all’attivazione dell’autofagia (52). In accordo con questi risultati, è stato riportato un effetto protettivo dell’autofagia nelle cellule beta nei confronti dello stress del reticolo indotto da misfolding della proinsulina, difetti nella secrezione dell’insulina e ipercolesterolemia (53-55).

LA STIMOLAZIONE DELL’AUTOFAGIA: UN POSSIBILE APPROCCIO TRASLAZIONALE

Sulla base dei risultati presentati nei precedenti paragrafi, non è sorprendente il fatto che un approccio di tipo traslazionale volto all’attivazione dell’autofagia nelle cellule beta del pancreas sia rapidamente diventato oggetto di molte attenzioni in ambito diabetologico. Da questo punto di vista è assai interessante notare come sia stata dedicata una certa attenzione agli effetti sull’autofagia di alcuni farmaci comunemente utilizzati nella terapia antidiabetica (56). La metformina, il farmaco più comunemente utilizzato per la terapia del diabete di tipo 2, può stimolare l’autofagia nelle cellule beta attraverso l’AMPK (57). È stato inoltre dimostrato che gli agonisti del recettore del GLP-1 (GLP-1RA) possono modulare il processo autofagico (58), e che i DPP-4 inibitori (DPP-4i) esercitano nel diabete indotto da streptozotocina un effetto cardioprotettivo mediato dall’induzione dell’autofagia (59). Si ritiene comunemente che uno dei fattori responsabili dell’alterazione del processo autofagico osservata nelle cellule beta dei pazienti diabetici sia mTORC1, la cui inibizione attiva il processo autofagico. In effetti una sua iperattività indotta geneticamente promuove lo sviluppo del diabete nel topo inibendo l’autofagia (60), al contrario la sua inibizione ad opera della rapamicina previene l’apoptosi delle cellule beta, aumenta il contenuto pancreatico di insulina e migliora il diabete nei topi Akita (61). A tale riguardo, abbiamo in precedenza ricordato che la stimolazione dell’autofagia indotta dalla rapamicina esercita un effetto benefico sulle alterazioni presenti nelle cellule beta di pazienti diabetici (51). Le osservazioni relative al ruolo centrale di mTORC1 non possono però essere semplicisticamente traslate in ambito clinico, in quanto è stato ripetutamente dimostrato che una inibizione cronica di mTORC1 può avere conseguenze negative a causa degli effetti pleiotropici da esso esercitati (62-64).

Oltre ai farmaci sopra ricordati, anche gli interventi di restrizione dietetica sembrano esercitare un effetto antidiabetico (65-66). A questo proposito è interessante notare che un regime di restrizione dietetica (intermittent feeding) si è dimostrato in grado di riattivare il processo autofagico e parallelamente migliorare la tolleranza al glucosio, la secrezione di insulina e la sopravvivenza delle cellule beta nei topi con diabete associato ad obesità (67).

CONCLUSIONI

In conclusione possiamo ritenere che un approccio basato sulla stimolazione dell’autofagia nelle cellule beta del pancreas possieda un elevato potenziale in vista di un suo uso nella terapia antidiabetica. Tuttavia non disponiamo ancora di metodi sicuri che ci garantiscano una stimolazione controllata e specifica dell’autofagia. Questo obiettivo potrà essere raggiunto in un prossimo futuro solo grazie ad uno studio più approfondito dei meccanismi responsabili delle alterazioni dell’autofagia osservate nei pazienti diabetici.

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