Attività fisica/esercizio fisico nella terapia del diabete di tipo 2

Stefano Balducci, Gianvito Rapisarda, Francesco Mantia, Giuseppe Pugliese

Dipartimento di Medicina Clinica e Molecolare, Università “La Sapienza”, Roma e U.O.C. Medicina Specialistica Endocrino-Metabolica, Azienda Ospedaliero-Universitaria Sant’Andrea, Roma

 

DOI: https://doi.org/10.30682/ildia1904c

 

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Introduzione

Il diabete mellito è tra i principali fattori di rischio di morbilità e mortalità cardiovascolari. A differenza del fumo, dell’ipertensione e dell’ipercolesterolemia, la prevalenza del diabete è in aumento esponenziale, parallelamente all’aumento dell’obesità, della sedentarietà e dell’inattività fisica. Grandi studi clinici randomizzati (Randomized Clinical Trials, RCT) hanno dimostrato che l’attività fisica/esercizio fisico è un mezzo terapeutico nel diabete di tipo 2, in grado di ridurre le complicanze macrovascolari e anche quelli microvascolari. L’Aerobic Centre Longitudinal Study ha evidenziato come la mortalità per eventi cardiovascolari nell’arco di 12 anni fosse inferiore del 60% nei soggetti con una fitness cardiorespiratoria medio-alta, e del 40% nei soggetti attivi rispetto agli inattivi (1). Più recentemente, studi clinici randomizzati hanno dimostrato come l’allenamento combinato (aerobico e di forza) conferisca benefici superiori all’allenamento della sola componente aerobica o di forza, a parità di spesa energetica. Diversi RCT (2-3), compreso l’Italian Diabetes and Exercise Study (IDES), condotto in Italia su 606 diabetici di tipo 2 con sindrome metabolica (4), e una meta-analisi (5) hanno dimostrato che l’esercizio strutturato e supervisionato non solo è efficace nel migliorare la fitness fisica, il controllo glicemico e gli altri fattori di rischio cardiovascolare modificabili in pazienti con diabete di tipo 2, ma fornisce benefici addizionali rispetto all’attività fisica non strutturata.

Tuttavia, l’esercizio fisico supervisionato e controllato è difficilmente applicabile su larga scala e per lunghi periodi di tempo a persone con diabete di tipo 2 per svariati motivi. Inoltre la forte associazione della sedentarietà/inattività fisica con il cattivo controllo glicemico, da un lato, e l’aumentata morbilità e mortalità cardiovascolare, dall’ altro, impone di mettere in campo strategie per modificare permanentemente lo stile di vita dei pazienti diabetici. Il Maastricht Study ha dimostrato che ogni ora di tempo sedentario, misurato oggettivamente con l’accelerometro, è associata ad un incremento del 22% del rischio di sviluppare il diabete di tipo 2 e del 39% di sviluppare la sindrome metabolica, indipendentemente dalla quantità di attività fisica di intensità moderata-vigorosa (6). Modificare lo stile di vita, riducendo il tempo sedentario e riallocandolo in attività fisica di intensità lieve-moderata potrebbe essere il primo passo per poi diventare fisicamente attivi e fare attività fisica/esercizio fisico di intensità moderata-vigorosa (7-8). L’IDES_2, un RCT disegnato con l’obiettivo di valutare l’efficacia di una strategia comportamentale volta ad aumentare il volume di attività fisica non strutturata e ridurre il tempo sedentario nei pazienti con diabete di tipo 2 (9), ha dimostrato che si può ottenere una significativa e duratura diminuzione del tempo sedentario con un conseguente aumento dell’attività fisica, prevalentemente di bassa intensità (10).

TERMINOLOGIA

Inattività fisica e sedentarietà

L’inattività fisica e la sedentarietà descrivono due condizioni diverse, seppur sovente associate, che comportano entrambe un aumentato rischio per la salute.

Un soggetto è definito “fisicamente inattivo” quando non raggiunge i livelli di attività fisica raccomandati, ovvero almeno 150 minuti a settimana di attività fisica di intensità moderato-vigorosa secondo il position statement dell’American Diabetes Association (ADA) del 2016 (11).

Un soggetto è invece definito “sedentario” quando, in condizioni di veglia, rimane in posizione sdraiata o seduta (ad esempio per guardare la televisione o utilizzare il computer) o è impegnato in attività caratterizzate da un dispendio energetico ≤1,5 equivalenti metabolici (Metabolic Equivalents, METs) (12-13) per gran parte della giornata (>8 ore).

Questa distinzione è importante perché le due condizioni producono effetti avversi sulla salute attraverso meccanismi diversi (14-15). Studi recenti hanno infatti dimostrato che, in pazienti con diabete di tipo 2, tanto maggiore è il tempo sedentario tanto peggiore è il profilo metabolico, indipendentemente da fattori confondenti quali età, sesso e fumo e dal tempo speso in attività fisica di intensità moderata-vigorosa (16-17).

Attività fisica/esercizio fisico

I termini “attività fisica” ed “esercizio fisico”, spesso usati come sinonimi, identificano in realtà due diverse dimensioni del movimento.

Il termine attività fisica si riferisce a qualsiasi movimento prodotto dalla contrazione dei muscoli scheletrici che determini un aumento del consumo energetico (18). Sebbene tutti svolgiamo attività fisica per vivere, oggigiorno la quantità di attività fisica è in gran parte una scelta personale e può variare notevolmente da persona a persona. La classificazione dell’attività fisica più comunemente utilizzata è basata sui momenti della vita quotidiana e la suddivide in “occupazionale” e “del tempo libero”. L’attività fisica occupazionale può essere ulteriormente suddivisa in attività fisica direttamente connessa al lavoro e attività fisica per spostarsi da casa al posto di lavoro e viceversa (commuting). L’attività fisica del tempo libero si suddivide a sua volta in attività domestiche ed altre attività connesse alla vita di relazione, esercizio fisico, attività sportive. Queste distinzioni categoriche sono utili a fini sia epidemiologici che di salute pubblica, oltre a sottendere implicazioni diverse in termini di strategie di promozione e di intervento.

Il termine “esercizio fisico” si riferisce invece ad un sottoinsieme dell’attività fisica che comprende ogni attività che sia intenzionale, ripetitiva, pianificata e strutturata al fine di mantenere o migliorare una o più componenti della forma fisica (fitness fisica).

Fitness fisica

La “fitness fisica” è un insieme di capacità relative all’abilità di fare attività fisica. Queste capacità in parte si ereditano (componente genetica) e in parte si conseguono attraverso l’attività fisica (componente acquisita).

L’essere fisicamente in forma può essere definito come la capacità di svolgere le attività quotidiane, occupazionali e del tempo libero, con vigore, senza eccessiva fatica e avendo sufficiente energia per fronteggiare eventuali imprevisti. Le componenti della “fitness fisica” sono:

1. Fitness cardiorespiratoria

2. Fitness o forza muscolare

3. Composizione corporea

4. Flessibilità

A questi componenti, che si riferiscono alla fitness correlata alla salute (“health-related fitness”), vanno aggiunti i componenti della fitness correlata alle abilità (“skill-related fitness”), ovvero agilità, equilibrio, coordinazione, velocità, potenza e tempo di reazione (Tab. 1).

Tabella 1

Fitness cardio-respiratoria

La fitness cardio-respiratoria è la capacità dei sistemi cardiovascolare e respiratorio di fornire ossigeno per il lavoro muscolare durante esercizi dinamici e di eliminare i prodotti della fatica. È misurata con la calorimetria indiretta ed espressa come massima capacità aerobica o consumo (volume) massimale di ossigeno (maximal oxygen consumptionvolume, VO2max), che a sua volta può essere espressa in valori assoluti (L/min) o in relazione al peso corporeo (ml/kg/min) oppure convertita in METs. La VO2max può anche essere stimata mediante test sotto-massimali che utilizzano la relazione lineare esistente tra la frequenza cardiaca e il carico di lavoro.

La “resistenza aerobica” o “aerobic endurance è invece la capacità di sostenere nel tempo un’attività aerobica.

Fitness o forza muscolare

La forza muscolare è la quantità di forza che può essere prodotta da una singola contrazione di un muscolo. Può essere valutata come massima contrazione volontaria (Maximal Voluntary Contraction, MVC) o come ripetizione massimale (1-Repetition Maximum, 1-RM).

La MVC si riferisce a contrazioni contro una resistenza o statiche (forza isometrica), ovvero senza variazione della lunghezza del muscolo. Deve essere misurata a più angolazioni, in quanto angolo-dipendente, ed è espressa in newton (N).

L’1-RM si riferisce a contrazioni dinamiche, ovvero con accorciamento (forza concentrica) o allungamento (forza eccentrica) del muscolo per spostare carichi o sollevare pesi. Si misura determinando il carico o peso massimo per un determinato esercizio e si esprime in kg.

Il “lavoro muscolare” (W) è il prodotto della forza (F) per la distanza (l) nella quale tale forza è operativa, secondo l’equazione: W = F X l, ed è espresso in N metri (Nm).

La “potenza muscolare” (P) è definita invece come lavoro nell’unità di tempo, secondo l’equazione: P = W / t, ed è espressa in Nm/sec o in Watt. Poiché, come detto, il lavoro esprime la forza nello spazio e la potenza il lavoro nel tempo e poiché la relazione spazio/tempo (l / t) è l’espressione della velocità (V), la potenza rappresenta la forza rapportata alla velocità, secondo l’equazione: P = F x V.

La “resistenza muscolare” o “strength endurance” è l’abilità di un muscolo o di un gruppo di muscoli di sostenere nel tempo contrazioni ripetute contro resistenza ovvero di esercitare una forza per diverse ripetizioni o esercizi. Deve essere differenziata dalla “resistenza aerobica” o “aerobic endurance”, in quanto fa riferimento ad attività contro resistenza e non ad attività aerobiche.

Composizione corporea

La composizione corporea è una delle variabili che definiscono lo stato di nutrizione ed esprime le quantità assolute e relative dei diversi componenti dell’organismo.

I modelli bi-compartimentali considerano il peso corporeo come la somma della massa “grassa” (“Fat Mass”, FM) e della massa “priva di grassi” o “magra” (“Fat-Free Mass”, FFM), secondo l’equazione: peso corporeo = FM + FFM. La stima della FM o della FFM da un modello bi-compartimentale presuppone la costanza della composizione della FFM (muscoli, ossa, acqua) o la considerazione delle modifiche di quest’ultima legate all’età e/o alle condizioni patologiche.

I modelli pluri-compartimentali distinguono i diversi componenti della FFM e di conseguenza minimizzano le assunzioni riguardo alle modifiche della sua composizione. Se i diversi modelli si differenziano in base alla suddivisione o meno della FFM in due o più componenti, la FM può essere ulteriormente descritta in base alla distribuzione del grasso. Questo può essere prevalentemente localizzato nella zona addominale (distribuzione “androide” tipica del sesso maschile) o nella zona glutea e femorale (distribuzione “ginoide” tipica del sesso femminile) oppure a livello viscerale o sottocutaneo. L’obesità centrale si riferisce ad un accumulo di adipe a livello peri-viscerale, soprattutto addominale, con aspetto di tipo androide.

Flessibilità

È il range di movimento di una singola articolazione o di un gruppo di articolazioni e varia da articolazione a articolazione e da individuo a individuo.

Dal punto di vista della performance, la mobilità articolare costituisce una componente essenziale della prestazione motoria e come tale deve essere sviluppata e mantenuta attraverso un adeguato programma di allenamento basato su esercizi di stretching. Esercitare la flessibilità è utile a ridurre il rischio di infortuni, ma non aumenta la forza muscolare.

DALLA TEORIA ALLA PRATICA

Gli obiettivi da raggiungere sono i seguenti (Fig. 1):

Figura 1

Interrompere il tempo sedentario con brevi periodi di attività fisica

Ci sono evidenze che interrompere il tempo sedentario con brevi periodi di attività fisica è associato ad un migliore profilo di rischio cardio-metabolico e del metabolismo post-prandiale (19-20). In adulti sovrappeso/obesi a rischio di diabete di tipo 2, interrompere il tempo sedentario con ripetute sessioni di 2 minuti di cammino ogni 20 minuti ha ridotto la risposta glicemica e insulinemica se le sessioni sono sia di bassa che di moderata intensità (21). In un RCT su pazienti diabetici di tipo 2 sono stati esaminati gli effetti dell’interruzione del tempo sedentario con brevi sessioni di cammino a bassa intensità (LW) o di attività di forza (SRA) confrontati con il gruppo di controllo su parametri metabolici post prandiali. Un’interruzione di 3 minuti ogni 20 minuti (3 ore) per 7 ore con brevi periodi di cammino o esercizi calistenici ha ridotto significativamente i livelli di glucosio, insulina, C-peptide e trigliceridi (22). In uno studio successivo dello stesso gruppo di ricerca Australiano, gli autori hanno dimostrato che, applicando lo stesso protocollo dello studio precedente, si riduceva la glicemia post-prandiale con miglioramenti che persistevano fino al mattino successivo (23). Nel 2017 Duvivier et al. hanno dimostrato che, in 29 pazienti diabetici di tipo 2, interrompere il tempo trascorso seduti migliorava il controllo glicemico e la sensibilità insulinica più che non fare attività fisica a parità di tempo, proponendo questa modalità come alternativa all’ attività fisica (24). Ulteriori studi di più lunga durata e di maggiore numerosità potrebbero indicarci se sia meglio interrompere più frequentemente il tempo trascorso seduti.

Ridurre e riallocare il tempo sedentario

Crescenti evidenze epidemiologiche suggeriscono che uno stile di vita sedentario è associato ad un aumentato rischio di almeno 35 condizioni cliniche/malattie croniche (25) e ad un aumento dei tassi di morbilità e mortalità cardiovascolare e da tutte le cause (26-28). Studi sulla popolazione Americana hanno dimostrato che l’adulto medio trascorre più di 8 ore seduto a guardare la televisione o ad usare il computer (29). La persona con diabete di tipo 2 è in genere più sedentaria della popolazione generale, tanto che nell’IDES_2, condotto su 300 diabetici di tipo 2 sedentari e fisicamente inattivi, il tempo sedentario era mediamente di 11.6 ore al giorno (30). Studi epidemiologici trasversali nella popolazione adulta hanno dimostrato che riallocare 30 minuti al giorno del tempo sedentario in attività fisica di qualsiasi intensità determina un miglioramento dei fattori di rischio cardiovascolare. Risultati più significativi si avevano quando il passaggio avveniva a vantaggio dell’attività fisica/esercizio fisico di intensità moderato/vigorosa (31-32). A questo punto la domanda da porsi è se si può ridurre la mortalità cardiovascolare e da tutte le cause diventando fisicamente attivi (>150 minuti a settimana) pur rimanendo sedentari? In un’interessantissima meta-analisi in più di 1 milione di uomini e donne (30), Ekelund et al. ha dimostrato che solo una quantità rilevante (60-75 minuti al giorno) di attività fisica di moderata intensità sembra eliminare l’aumentato rischio di morte associato al trascorrere la maggior parte della giornata in posizione seduta. Ciononostante, questi alti livelli di attività fisica attenuano ma non eliminano l’aumentato rischio associato al tempo (>5 ore al giorno) trascorso seduti davanti alla televisione (33). In un’analisi longitudinale (8-9 anni) di 45 studi con più di 140.00 partecipanti e 8.689 morti (1.644 per causa cardiovascolare) (31), Stamatakis et al. hanno evidenziato che il tempo sedentario era associato con la mortalità in maniera positiva e con una dose-risposta (più tempo seduti maggiore mortalità) nel gruppo dei meno attivi (<150 minuti a settimana di attività fisica), mentre c’era una debole evidenza nei soggetti più attivi fisicamente. Nei soggetti che accumulavano da 150 a 299 minuti a settimana di attività fisica/esercizio fisico di intensità moderato-vigorosa, come suggerito dalle linee guida, si assisteva solo ad un’attenuazione dell’effetto negativo della sedentarietà, mentre nei soggetti che accumulavano >300 minuti a settimana di attività fisica/esercizio fisico di intensità moderato-vigorosa si osservava una scomparsa dell’associazione negativa tra sedentarietà e mortalità. (34). Nell’IDES_2, riallocare 42 minuti del tempo sedentario in 36,4 minuti di attività fisica di bassa intensità (<3 METs) e 3,6 minuti di attività fisica/esercizio fisico di intensità moderato-vigorosa (>3 METs) ha determinato un miglioramento del profilo di rischio cardiovascolare (10).

Diventare fisicamente attivi (attività fisica/esercizio fisico)

Gli obiettivi del trattamento della persona con diabete di tipo 2 sono di raggiungere e mantenere un controllo glico-metabolico ottimale e di prevenire o ritardare lo sviluppo delle complicanze croniche (11). Numerosi studi hanno dimostrato che l’attività fisica e l’esercizio fisico sono utili al fine di raggiungere e mantenere gli obiettivi terapeutici e di migliorare la qualità della vita (“Quality of Life”, QoL) di queste persone, garantendo benefici addizionali rispetto alla sola dieta e/o alla terapia farmacologica (35-37). Inoltre, la prescrizione e la supervisione delle sessioni di esercizio fisico da parte di professionisti dell’esercizio sono risultate in grado di garantire una maggiore efficacia sul controllo glicemico (35, 38).

Sulla scorta di delle forti evidenze il position statement dell’ADA del 2016 ha stilato delle raccomandazioni riguardo a tipo, volume e intensità di attività fisica e/o esercizio fisico nei pazienti con diabete di tipo 2. Il documento sottolinea altresì la necessità di un’iniziale istruzione e di una periodica rivalutazione da parte di un esperto qualificato dell’esercizio nel caso di soggetti fragili, sedentari e/o fisicamente inattivi o affetti da una o più complicanze croniche della malattia (11). In base a queste raccomandazioni, è possibile stabilire un programma di attività fisica/esercizio fisico che sia in grado di produrre il massimo beneficio per la salute e sia al tempo stesso strutturato in funzione delle caratteristiche di ciascun individuo, analogamente a quanto avviene nella personalizzazione della dieta e della terapia farmacologica.

Attività fisica/esercizio fisico aerobico

Dopo i numerosi studi di bassa qualità pubblicati tra gli anni ’80 e ’90, che hanno valutato gli effetti dell’attività fisica di tipo aerobico in pazienti con diabete di tipo 2 con risultati contrastanti, all’inizio degli anni 2000 due meta-analisi hanno raggruppato ed esaminato i dati di questi studi dimostrando un effetto benefico dell’allenamento aerobico. In particolare, la prima, che includeva 2 studi di allenamento di forza e 12 studi di allenamento aerobico, ha dimostrato un impatto significativo dell’attività fisica, rispetto al gruppo di controllo, sull’HbA1c (7,65% vs 8,31%; differenza media pesata -0,66%; p<0,001), ma non sul peso corporeo (83,02 kg vs 82,48 kg; differenza media pesata 0,54; p=0,76) (39). La seconda, che ha esaminato invece 7 studi, tutti di esercizio fisico aerobico, ha dimostrato un significativo incremento della VO2max nei pazienti che facevano esercizio fisico rispetto ai controlli (differenza media standardizzata 0,53; p<0,003) (40). Negli anni successivi, altri studi hanno ulteriormente supportato i benefici dell’allenamento aerobico in pazienti con diabete di tipo 2. Questi studi, hanno mostrato miglioramenti significativi in termini di glicemia, HbA1c, peso corporeo, composizione corporea (diminuzione della massa grassa, risparmio o aumento della massa magra), assetto lipidico, pressione arteriosa, frequenza cardiaca a riposo, soglia anaerobica e capacità ossidativa del muscolo (41-43). A questi risultati si sono aggiunti quelli di altre due meta-analisi che hanno dimostrato l’efficacia dell’allenamento aerobico sull’HbA1c (44) e sul colesterolo LDL (45). Un intervento di counselling atto a promuovere l’attività fisica volontaria e non supervisionata, prevalentemente aerobica (cammino), in diabetici di tipo 2 ha prodotto effetti benefici a lungo termine (due anni) su una serie di fattori di rischio cardiovascolare, quali glicemia, HbA1c, parametri antropometrici, assetto lipidico, pressione arteriosa e rischio a 10 anni di avere un evento coronarico (46).

Attività fisica/esercizio fisico di forza

Per molti anni l’allenamento di forza è stato sconsigliato ai pazienti diabetici di tipo 2. Solo verso la fine degli anni ’90, due studi (47-48), inclusi nella meta-analisi di Boulè et al. (39), hanno dimostrato l’efficacia dell’allenamento di forza in pazienti con diabete di tipo 2 in termini di miglioramento del controllo glicemico e dell’assetto lipidico e di aumento della massa muscolare. Successivamente, tre RCT di modeste dimensioni hanno evidenziato come l’allenamento di forza produca una riduzione della HbA1c, della glicemia e dell’insulinemia a digiuno e della pressione arteriosa, un miglioramento della composizione corporea con aumento della massa magra, un aumento della disponibilità di glicogeno muscolare e una diminuzione del consumo di farmaci rispetto al gruppo di controllo sedentario (49-50). I risultati di questi studi sono stati confermati da successive rassegne e meta-analisi, da cui è emersa in maniera conclusiva l’efficacia dell’allenamento di forza nella persona con diabete di tipo 2 (51, 44, 52).

 

Tabella 2

Attività fisica/esercizio fisico combinato (aerobico e di forza)

I primi studi risalgono a diversi anni fa e, sebbene di dimensioni limitate, hanno indicato l’efficacia di questo tipo di esercizio su funzione endoteliale e dilatazione flusso-mediata (53), sensibilità insulinica, forza muscolare e capacità aerobica (54), controllo glicemico e fattori di rischio cardiovascolare (55). Solo successivamente, due RCT di grandi dimensioni hanno dimostrato che l’allenamento combinato offre benefici addizionali se confrontato con le due forme di allenamento da sole. Nel Diabetes Aerobic and Resistance Exercise (DARE) (56), l’allenamento combinato ha prodotto una riduzione significativamente maggiore dell’HbA1c, rispetto al lavoro aerobico o di forza da soli. Le modifiche della pressione arteriosa, del profilo lipidico e della composizione corporea non sono risultate invece statisticamente differenti tra i gruppi di esercizio fisico. Nell’Health Benefits of Aerobic and Resistance Training in Individuals with Diabetes (HART-D) (57), soltanto l’allenamento combinato ha prodotto una riduzione significativa dell’HbA1c, mentre tale obiettivo non è stato raggiunto dal gruppo di allenamento aerobico o di forza. Una successiva meta-analisi, che includeva questi due studi, ha confermato l’efficacia del training combinato (58). Infine, l’IDES ha mostrato la superiorità dell’allenamento combinato supervisionato associato al counselling non solo sull’HbA1c, ma anche sugli altri fattori di rischio cardiovascolare modificabili e sul rischio a 10 anni di un evento coronarico, rispetto al solo counselling strutturato atto a promuovere l’attività fisica non supervisionata (4).

PRESCRIZIONE DELL’ATTIVITÀ FISICA/ESERCIZIO FISICO

La prescrizione dell’attività fisica/esercizio fisico riguarda i seguenti aspetti:

Volume di attività fisica/esercizio fisico

Solide evidenze consentono di identificare nel volume di attività fisica e/o esercizio fisico uno dei principali se non il principale determinante degli effetti benefici di questi sulla salute del paziente con diabete di tipo 2.

Nello studio di Di Loreto et al. (46), i benefici sui diversi fattori di rischio cardiovascolare erano strettamente correlati al volume, tanto che risultavano significativi solo a partire da >10 e soprattutto >20 METs ora/settimana ed aumentavano progressivamente fino a raggiungere un plateau a 40 METs ora/settimana.

Allo stesso modo, nell’IDES, la probabilità di raggiungere gli obiettivi terapeutici per alcuni fattori di rischio cardiovascolare (HbA1c, pressione sistolica, BMI e circonferenza vita) e la riduzione del rischio di un evento coronarico a 10 anni aumentavano in maniera significativa dal quintile più basso a quello più alto di volume di attività fisica (ovvero l’attività fisica del tempo libero sommata, nel gruppo di intervento, all’esercizio fisico combinato supervisionato), con una chiara dose-dipendenza, tranne che per HbA1c e pressione sistolica. Anche in questo caso i benefici sul rischio a 10 anni di un evento coronarico si evidenziavano per un volume >12 METs ora/settimana ed erano massimi per un volume >18 METs ora/settimana (4). Peraltro, nell’IDES, anche i benefici dell’attività fisica/esercizio fisico sulla QoL erano strettamente volume-dipendenti (59). Infine, una meta-analisi di 26 RCT ha dimostrato che la riduzione dell’HbA1c con l’esercizio supervisionato si associa alla frequenza dell’allenamento aerobico e al volume settimanale dell’allenamento di forza (38), a conferma che il volume di attività fisica/esercizio fisico è il determinante dell’effetto di questi sul controllo glicemico nei pazienti con diabete di tipo 2.

Intensità di attività fisica/esercizio fisico

Studi sul ruolo dell’intensità dell’esercizio su pazienti con diabete di tipo 2 hanno fornito risultati contrastanti. In uno studio su 50 pazienti randomizzati per 6 mesi a un programma di esercizio di endurance di intensità basso-moderata (“Low-to-moderate Intensity”, LI) o alta (“High Intensity”, HI), è stato dimostrato un vantaggio significativo della HI rispetto alla LI su HbA1c, LDL colesterolo, parametri antropometrici, di performance e capacità ossidativa del muscolo (42). Risultati diversi sono invece emersi dall’IDES, di durata e soprattutto numerosità notevolmente maggiori (60). In questo studio, i 303 pazienti del gruppo di intervento sono stati ulteriormente randomizzati a esercizio progressivo aerobico e di forza a LI o a HI, a parità di volume. Sono emersi benefici, clinicamente marginali, soltanto su HbA1c, trigliceridi e colesterolo totale e, peraltro, l’intensità non è risultata essere un predittore indipendente della riduzione di nessuno di questi parametri. Questi dati sembrano indicare che, in pazienti con diabete di tipo 2, l’intensità non apporta benefici addizionali sui fattori di rischio cardiovascolare, ma consente solo un risparmio di tempo, senza peraltro incrementare il rischio di eventi avversi. Tuttavia, trattandosi di soggetti a bassa fitness, le differenze assolute di intensità tra i due gruppi erano di limitata entità e peraltro si applicavano solo all’esercizio supervisionato e non all’attività fisica del tempo libero. Pertanto è possibile che, con differenze di intensità più ampie e/o con periodi di osservazione più lunghi che consentano di raggiungere livelli di fitness più elevati, possa emergere un vantaggio più consistente dell’allenamento ad alta intensità. Giova comunque ricordare che una rassegna sistematica di studi condotti su pazienti con diabete di tipo 2 ha dimostrato che è la frequenza (e quindi il volume) e non l’intensità dell’esercizio a correlarsi alla riduzione dell’HbA1c (61), così come risultato in precedenza dalla meta-analisi di Umpierre et al. (38).

Lavorare ad intensità più alta richiede certamente meno tempo che non lavorare a intensità più bassa per raggiungere lo stesso volume di attività fisica/esercizio fisico. Il fattore tempo può pertanto essere un elemento a favore dell’allenamento ad alta intensità, perché la mancanza di tempo è spesso considerata come una delle principali barriere all’aderenza alle linee guida o a un programma regolare di esercizio fisico. Inoltre, l’aderenza a un programma di allenamenti di durata medio-lunga eseguiti a intensità costante è piuttosto bassa, soprattutto se l’allenamento non prevede una supervisione e non è eseguito in strutture specializzate.

Allenamento intervallato ad alta intensità

Esistono diverse modalità di allenamento aerobico (Tab. 2). L’allenamento intervallato ad alta intensità (“High Intensity Interval Training”, HIIT), caratterizzato come da brevi periodi di allenamento ad alta intensità intervallati da periodi di recupero, è stato recentemente proposto come una valida, se non addirittura migliore alternativa rispetto all’allenamento tradizionale. Se quest’ultimo può essere definito come ad alto volume di intensità lieve-moderata e costante (“High Volume Low Intensity Training”, HVLIT), l’allenamento intervallato può essere ad alta intensità e alto volume (“High Volume High Intesity Interval Training”, HVHIT) o ad alta intensità e basso volume (“Low Volume High Intensity Interval Training”, LVHIT). L’HVHIT, da tempo noto in ambito sportivo, è invece relativamente nuovo nel campo della salute, dove può trovare spazio pur non garantendo un risparmio di tempo rispetto al tradizionale HVLIT (62-64). L’ HIIT, sta invece suscitando un crescente interesse, anche nell’ambito del trattamento del diabete di tipo 2, perché è più breve e vario, per cui è percepito come più motivante, tanto da facilitare l’aderenza, inoltre è altrettanto efficace dell’allenamento tradizionale.

L’HIIT è caratterizzato da brevi periodi (burst) di esercizio vigoroso intervallati da periodi di riposo o di esercizio a bassa intensità per consentire il recupero. Il protocollo classico è il test di Wingate, che consiste in 30 secondi di pedalata strenua (“all-out”) contro una resistenza standard. In una sessione tipica, i soggetti completano 4-6 test, intervallati da 4 min di riposo per un totale di soli 2-3 min di esercizio massimale distribuiti in un periodo di 15-30 min. Il protocollo di Wingate necessita però di un cicloergometro specifico che ne rende difficile l’implementazione nella pratica comune. Inoltre, il test all-out, da un lato, richiede un elevato livello di motivazione in considerazione dello sforzo massimale, sia reale che percepito, e, dall’altro, può non essere sufficientemente tollerato o sicuro, almeno nel caso di individui unfit, di età avanzata e affetti da patologie metaboliche quali obesità e diabete di tipo 2 e da eventuali complicanze (64).

Queste considerazioni hanno portato all’introduzione di protocolli modificati, caratterizzati da burst sempre impegnativi, ma di intensità più bassa e di durata più lunga, in grado di evocare le stesse risposte dei protocolli basati sul test di Wingate e di garantire comunque un risparmio di tempo rispetto al tradizionale con maggiore sicurezza e fattibilità. Little et al. hanno valutato, in pazienti con diabete di tipo 2, gli effetti di un protocollo che prevedeva 8-12 periodi di 1 minuto ad un’intensità corrispondente a circa il 90% della frequenza cardiaca massimale, con un tempo di recupero di 75 secondi, per un totale di 10 minuti di esercizio in circa 25 minuti di sessione. Anche in questo studio, è stato osservato un miglioramento della capacità ossidativa del muscolo e del contenuto di GLUT4, insieme con una riduzione significativa dei livelli glicemici (65). Con lo stesso protocollo è stata riportata anche una riduzione dei valori glicemici postprandiali rilevati con il monitoraggio continuo della glicemia, sempre in pazienti diabetici di tipo 2 (66). Infine, Francois et al. hanno confrontato, in soggetti obesi con pre-diabete o diabete conclamato, gli effetti di piccole dosi pre-prandiali di HIIT, definiti “exercise snacks” e costituiti da 6 ripetizioni di 1 minuto di cammino veloce (al 90% della frequenza cardiaca massimale) o di cammino veloce alternato ad esercizi di forza, 30 min prima di colazione, pranzo e cena, con 30 min di cammino continuo al 60% della frequenza cardiaca massimale nell’arco di 3 giorni. I risultati hanno mostrato maggiori riduzioni della glicemia post-prandiale con gli exercise snacks rispetto al cammino continuo (67).

Successivamente, studi di più lunga durata in pazienti con diabete di tipo 2 hanno fornito indicazioni preliminari riguardo alla fattibilità e all’efficacia dell’allenamento intervallato rispetto all’allenamento continuo. L’esercizio intervallato ad alta intensità e quello continuo a moderata intensità, eseguiti 5 volte a settimana per 12 settimane, erano entrambi fattibili, come attestato dall’alta aderenza, e producevano riduzioni simili del peso, mentre l’HbA1c non era significativamente modificata (68). Inoltre, un gruppo di pazienti con diabete di tipo 2 che eseguiva 3 sessioni a settimana per 12 settimane di un protocollo di HIIT costituito da 5 sprint di 120-230 secondi al cicloergometro, con recuperi di 180 secondi fra gli sprint, presentava un miglioramento della struttura e funzione cardiaca ed una riduzione del grasso epatico, rispetto al gruppo di controllo (69).

Nonostante le promettenti indicazioni che derivano da questi studi, è necessario ricordare che non tutti i pazienti diabetici di tipo 2 sono in grado di eseguire esercizi a così alta intensità. Qualora questi risultati fossero confermati da studi di più ampie dimensioni e più lunga durata, è possibile immaginare l’impiego di questa modalità di allenamento in pazienti neo-diagnosticati, giovani, con un background sportivo e solo dopo un adeguato condizionamento con esercizi a lieve-moderata intensità.

CONCLUSIONI

La prevalenza del diabete di tipo 2 sta aumentando in maniera esponenziale, parallelamente all’aumento della sedentarietà, dell’inattività fisica e dell’obesità. La persona diabetica è nella stragrande maggioranza dei casi più sedentaria e meno fisicamente attiva della popolazione generale. Numerosi studi clinici hanno dimostrato che l’attività fisica/esercizio fisico è un mezzo terapeutico nel diabete di tipo 2, in grado di migliorare il controllo glico-metabolico, di prevenire o ritardare l’insorgenza delle complicanze macro e micro-vascolari e di ridurre la morbilità e mortalità cardiovascolare e da tutte le cause. Più recentemente studi clinici hanno dimostrato che tanto maggiore è il tempo sedentario tanto peggiore è il profilo glico-metabolico, la morbilità e mortalità cardio-vascolare indipendentemente da fattori confondenti e dal tempo speso in attività fisica/esercizio fisico di intensità moderato-vigorosa. È quindi imperativo modificare lo stile di vita, interrompendo il tempo sedentario con brevi periodi di attività fisica (cammino e/o esercizi calistenici), riducendo il tempo sedentario riallocandolo in attività fisica di intensità lieve-moderata (cammino, attività della vita quotidiana) e diventando fisicamente attivi con attività fisica/esercizio fisico di intensità moderato-vigorosa, meglio se combinato aerobico e forza.

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