a cura di Francesco Dotta1, Anna Solini2
1U.O.C. Diabetologia, Azienda Ospedaliera Universitaria Senese, Università degli Studi di Siena; 2Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Pisa
Alterato assorbimento sottocutaneo dell’insulina ed insulino resistenza sistemica in un caso di emocromatosi severa
Fabrizio Febo, Maria Assunta Carlucci, Federica Ginestra, Camilla Tinari, Manuel Lagonigro, Patrizia Di Fulvio, Gloria Formoso
Scuola di Specializzazione in Endocrinologia e Metabolismo Università di Chieti
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Giungeva alla nostra osservazione una donna di 47 anni per riscontro ripetuto di iperglicemia a digiuno (160 mg/dl e 145 mg/dl).
All’esame obiettivo: altezza 156 cm, peso 59 kg, CV 92 cm, PA 135/70 mmHg, FC 80 bpm. Colorito bronzino della cute.
Anamnesi fisiologica: non fumatrice; non riferiva consumo di alcolici; dieta normocalorica; menarca all’età di 9 aa; non gravidanze né aborti.
Anamnesi patologica: diagnosi di emocromatosi atipica alcuni mesi prima, in trattamento con salassoterapia e deferoxamina (200 g/die). La paziente presentava ipogonadismo ipogonadotropo e cirrosi epatica, verosimilmente secondarie all’emocromatosi.
Si segnalavano inoltre, in anamnesi, tiroidite cronica autoimmune con ipotiroidismo in terapia con L-T4; ipertensione arteriosa in terapia con amlodipina; dislipidemia.
Esami ematochimici e strumentali all’ingresso: gli esami di laboratorio evidenziavano: iperferritinemia (ferritina: 8515 ng/ml, saturazione della transferrina: 110%), aumento della sideremia (200 mcg/L) e della transferrina (135 mg/dl); Ca 19.9 elevato (301,8 U/ml); ipertransaminasemia (3 UNL); emoglobina glicata: 6.0%.
La paziente portava in visione referto di aspirato e biopsia osteomidollare che documentavano la diagnosi di emocromatosi.
La TAC e la RMN total body mostravano un accumulo marziale prevalentemente epatico, splenico, pancreatico e surrenalico con linfoadenopatia mesenterica da accumulo emosiderinico.
Dalla RMN epatica e cardiaca: “Dimensioni e volumetria biventricolari nei limiti della norma; funzione sistolica normale in entrambi i ventricoli, con normale cinesi parietale; normale il volume biatriale. Disomogeneo iperaccumulo marziale cardiaco, con T2* medio globale = 17 msec. Severo sovraccarico marziale epatico”.
Decorso clinico: posta diagnosi di diabete mellito, si prescriveva uno schema dietetico normoglucidico da 1600 Kcal e si consigliava di effettuare automonitoraggio glicemico domiciliare, considerata la poca attendibilità dell’emoglobina glicosilata nei pazienti sottoposti a salassoterapia (1). Veniva inoltre consigliata l’esecuzione del fundus oculi e dell’esame elettrocardiografico per la valutazione delle possibili complicanze metaboliche, entrambi risultati negativi.
A distanza di sei mesi si riscontrava un peggioramento del compenso glicemico con aumento delle glicemie capillari rilevate e della HbA1c (8.8%). Per tale motivo, veniva prescritta terapia insulinica con solo analogo basale; dopo qualche settimana, visto il progressivo e costante aumento dei valori glicemici, sia a digiuno che post-prandiali, si impostava uno schema insulinico basal-bolus 4 UI-6UI-4UI e14 UI.
Nei sei mesi successivi, venivano effettuate visite a cadenza regolare in cui si evidenziava un progressivo peggioramento del compenso glicemico, con valori a digiuno e post-prandiali intorno a 400 mg/dl nonostante l’aumento del dosaggio insulinico giornaliero; la paziente riferiva, inoltre, calo ponderale, poliuria e polidipsia. L’emoglobina glicosilata era 11.9% con chetonuria moderatamente positiva; la terapia insulinica era stata progressivamente titolata raggiungendo il dosaggio complessivo giornaliero di 300 UI, senza nessun beneficio dal punto di vista dei profili glicemici.
Dato il pessimo compenso glicometabolico, si predisponeva ricovero e si procedeva con reidratazione e somministrazione di insulina e.v. mediante pompa per infusione continua a due vie:
• I via soluzione fisiologica 0.9% 100 ml + insulina lispro 100 U, 2 ml/h.
• II via soluzione fisiologica 0,9% 500 ml + K cloruro 1 fl, 100 ml/h.
Ristabiliti valori glicemici accettabili, si decideva di tornare alla somministrazione sottocutanea, ma la risposta metabolica risultava essere completamente assente e si assisteva ad un repentino innalzamento delle glicemie, come se la terapia fosse stata omessa.
Si decideva allora di praticare l’infusione insulinica continua sottocutanea (CSII) mediante micro pompa. Ciò nonostante persistevano iperglicemie durante tutta la giornata.
Era stata tentata, inoltre, la via di somministrazione intramuscolare che nei primi due gg aveva dato una risposta discreta, fallendo al quinto giorno con un importante rialzo di tutti i valori glicemici. Vista l’efficacia della somministrazione endovena dell’insulina e la totale assenza di efficacia della somministrazione sottocutanea, sia basal-bolus che CSII, si ipotizzava un’importante resistenza insulinica a livello sottocutaneo legata probabilmente alla patologia di base, ma che non permetteva alla paziente una normale gestione della terapia ipoglicemizzante.
Veniva pertanto ripresa terapia endovena con pompa a due vie:
• I via soluzione fisiologica 0,9% 100 ml + insulina lispro 100 U, 2 ml/h.
• II via soluzione fisiologica 0,9% 500 ml + K cloruro 1 fl, 100 ml/h.
La velocità di infusione insulinica veniva aumentata o diminuita in base ai controlli glicemici capillari eseguiti ogni ora, per raggiungere un obiettivo glicemico compreso tra 280 e 340 mg/dl. Veniva iniziata anche terapia con metformina 1000 mg/die e pioglitazone 30 mg/die.
Poiché la somministrazione e.v. 24h/24 aveva consentito di dimezzare il dosaggio giornaliero di insulina, si era deciso di studiare un modo per praticarla in continuo anche a domicilio.
Dato che sono disponibili sistemi di micro pompa per infusione insulinica continua sottocutanea, già utilizzato in prova per somministrazione CSII, si decideva di utilizzare questo dispositivo per la somministrazione in continuo e.v.
Pertanto, per collegare il microinfusore MedtronicParadigm ad un accesso venoso e consentire uno stile di vita indipendente, evitando continui ricoveri, la pompa veniva collegata a catetere venoso centrale mediante port-a-cath.
Complicanze associate all’utilizzo di dispositivi quali catetere venoso mediante port-a-cath per l’infusione insulinica
La paziente tornava settimanalmente in ambulatorio a controllo per l’adeguamento della terapia insulinica e a controllo ematologico per effettuare la flebotomia. Il dispositivo del port-a-cath prevedeva dei lavaggi settimanali del serbatoio che causavano severi e duraturi episodi ipoglicemici.
Le ipoglicemie erano probabilmente causate dall’eccessivo dosaggio insulinico che veniva immesso in circolo in bolo durante il lavaggio del reservoir. Il port-a-cath non è generalmente utilizzato per accogliere l’insulina, pertanto, quando irrigato con soluzione fisiologica per il lavaggio, veniva infuso un bolo insulinico di circa 200 U (volume del serbatoio 2 ml circa; concentrazione insulinica 100U/ml).
Per ovviare al problema, si decideva di aspirare prima tutta l’insulina presente nel reservoir ed almeno 20 ml di sangue e poi reinfondere 20 ml di soluzione fisiologica lentamente.
Nonostante si raccomandasse alla paziente la massima cura ed asepsi nel cambio del catetere, dopo qualche mese veniva ricoverata in medicina accusando artralgie, febbre elevata preceduta da brivido. Nel sospetto di endocardite batterica, veniva rimosso il port-a-cath ed eseguiti esami colturali su sangue e sul reservoir, che documentavano sepsi da Staphilococcus Hominis secondaria ad infezione del port-a-cath stesso.
Veniva pertanto rimosso il port-a-cath e sostituito con Catetere Venoso Centrale (CVC) con impianto in vena giugulare sinistra e la paziente veniva trasferita dopo 15 giorni presso l’U.O. di Malattie Infettive per l’avvio della necessaria terapia antibiotica. Per l’infusione e.v. continua, veniva utilizzato un dispositivo privo di serbatoio chiamato CVC tipo GROSHONG, raccordato sempre a microinfusore insulinico. Questo dispositivo non necessitava di periodici lavaggi. Alla dimissione l’HbA1c era pari a 9,2% e il quadro infettivologico stabile.
Nei 6 mesi successivi, il compenso metabolico era progressivamente migliorato fino al raggiungimento di profili glicemici quasi tutti a target, pochi episodi ipoglicemici e un’ottima gestione da parte della paziente.
La glicata era 8,1%; l’insulina giornaliera totale era 110,1 U ± 12,4.
Patogenesi del diabete secondario ad emocromatosi
Il 30-40% dei pazienti affetti da emocromatosi sviluppa il diabete. Nell’emocromatosi si osserva un’alterazione dei meccanismi regolatori del metabolismo del ferro: in particolare, una ridotta produzione di epcidina conduce ad un assorbimento del ferro incontrollato con passaggio continuo del metallo dagli enterociti duodenali e dai macrofagi alla circolazione sistemica (2-3).
Le alterazioni del metabolismo glucidico sono dovute alla riduzione della secrezione insulinica, causata dalla perdita apoptotica della massa beta-cellulare e dalla ridotta responsività delle beta-cellule al glucosio (4).
In aggiunta, un ruolo importante è giocato dall’aumentato stress ossidativo, con conseguente disfunzione mitocondriale (5) e dalle alterazioni prodotte dal sovraccarico marziale a livello del muscolo scheletrico e cardiaco. Essendo il ferro un metallo di transizione, può catalizzare la conversione di radicali liberi poco reattivi, in radicali liberi altamente reattivi: è stato suggerito che questo meccanismo possa giocare un ruolo nello sviluppo del diabete, perché i radicali molto attivi sono in grado di danneggiare le membrane cellulari, lipidi, proteine e DNA.
La deposizione di ferro nel muscolo fa diminuire l’uptake del glucosio con successiva iperglicemia; nel fegato, l’accumulo marziale interferisce con l’estrazione dell’insulina. A livello pancreatico vi è una selettiva deposizione di ferro nelle beta-cellule, forse a causa di una maggiore espressione di TfRs (transfer ring Receptors) con conseguente riduzione della sintesi insulinica; al contrario le alfa-cellule vengono risparmiate con relativo aumento della produzione di glucagone.
I tessuti bersaglio dell’insulina sono quelli che maggiormente accumulano il ferro e questo aiuta a determinare insulino-resistenza, unitamente alla formazione di radicali liberi (4).
In effetti, molti pazienti con emocromatosi presentano già al momento della diagnosi disglicemie ed insulino-resistenza con livelli di insulinemia a digiuno e C peptide elevati, il che giustifica l’esecuzione dell’OGTT (Oral Glucose Tolerance Test), al fine di diagnosticare precocemente il dismetabolismo e prevenire le complicanze cardiovascolari correlate al diabete (6).
Sono disponibili pochi dati negli ultimi 10 anni relativi all’effetto terapeutico della flebotomia sull’incidenza e/o severità del diabete. Hatunic et al. hanno valutato la normalizzazione dei markers di sovraccarico marziale in pazienti affetti da emocromatosi neo-diagnosticata sottoposti a salassoterapia (7); dai loro risultati non si evidenziano variazioni relative all’insulino-sensibilità, tuttavia, la deplezione precoce dei depositi di ferro determina una riduzione nella produzione di ROS, con minor rischio di danno cellulare. Questo conferma che l’instaurazione precoce della salassoterapia è in grado di contrastare alcuni degli effetti tossici del ferro sul metabolismo glucidico, confermando la stretta relazione esistente tra l’accumulo del ferro, la secrezione e la sensibilità insulinica.
In letteratura sono stati descritti pochi casi di insulino-resistenza severa a livello sottocutaneo (SIR), con normale o comunque maggiore sensibilità insulinica per via endovenosa (8-9).
I meccanismi fisiopatologici alla base rimangono ancora sconosciuti. La degradazione dell’insulina è regolata da processi di uptake, di processazione e degradazione dell’ormone e tutto ciò è mediato da proteine multifunzionali chiamate IDE (insulin degrading enzyme). In alcuni casi si suppone un’aumentata degradazione intracellulare dell’insulina da parte di queste metallo-proteinasi e si propone o l’utilizzo di inibitori delle proteasi come l’aprotinina e la clorochina, sostanze che però inducono importanti effetti collaterali o, in alternativa, la somministrazione mediante impianto off-label di microinfusore insulinic oe.v. (con il rischio trombosi e sepsi) o intraperitoneale (con il rischio di peritonite) (9). In altri casi si suppone un’aumentata attività di degradazione insulinica a livello muscolare e adiposo sottocutaneo e si propone, come nel caso della nostra paziente, infusione insulinica continua e.v. con accesso centrale mediante pompa insulinica legata a port-a-cath (8).
Altre complicanze endocrine associate all’emocromatosi
Nell’emocromatosi, oltre al diabete, possono essere presenti diverse problematiche di tipo endocrinologico che possono complicare il quadro clinico e che richiedono un tempestivo riconoscimento per un’adeguata risposta terapeutica.
Il nostro caso, in questo senso, è piuttosto paradigmatico, in quanto la paziente è andata incontro ad importanti complicanze endocrinologiche. In particolare si evidenziavano: ipogonadismo ipogonadotropo, tiroidite cronica autoimmune con ipotiroidismo in terapia con L-T4, ipovitaminosi D con iperparatiroidismo normocalcemico in terapia con calcifediolo, osteoporosi.
La patogenesi di queste ed altre alterazioni endocrine è complessa ma fondamentalmente legata all’accumulo marziale che può riguardare ogni distretto corporeo, non ultimi organi e tessuti del sistema endocrino.
L’ipogonadismo è l’endocrinopatia non metabolica più comune nell’emocromatosi (10) e si presenta con impotenza nell’uomo, amenorrea nella donna, perdita della libido ed osteoporosi in entrambi i sessi. Generalmente segue alla deposizione di ferro a livello delle cellule pituitarie, che determina insufficiente secrezione delle gonadotropine, anche se in alcuni casi è possibile osservare ipogonadismo primario.
Per la valutazione diretta dell’impegno ipofisario, è utilizzabile l’esame di risonanza magnetica. Diversi studi hanno dimostrato la possibilità di stimare correttamente l’entità di accumulo marziale a livello pituitario, di utilizzarlo come dato preclinico in pazienti candidati a sviluppare ipogonadismo e quindi di correlarlo al danno endocrino (11).
Le cellule ipofisarie con maggiore accumulo di ferro sono generalmente quelle gonadotrope. Le gonadotropine risultano molto basse e non si modificano durante il test di stimolo con GnRH e clomifene. Inoltre in questi pazienti è stata riportata anche una ridotta risposta della prolattina al test di stimolo con TRH.
Solo una piccola parte di cellule tireotropiche, corticotrope e somatotrope contengono ferro. Infatti, il panipopituitarismo con ipotiroidismo ed insufficienza surrenalica è un evento raro nell’emocromatosi.
A livello tiroideo, il sovraccarico marziale severo provoca atrofia parenchimale, fibrosi con ipofunzione ed una modesta infiltrazione linfocitaria. Probabilmente il danno tissutale porta all’esposizione degli antigeni cellulari e quindi alla produzione di autoanticorpi; nei pazienti con emocromatosi infatti è frequente l’ipotiroidismo associato a tiroidite autoimmune (12).
Nell’emocromatosi si può avere un ipoparatiroidismo latente o manifesto per accumulo diretto del ferro a livello delle paratiroidi, (13) oppure più frequentemente un iperparatiroidismo normocalcemico secondario ad ipovitaminosi D (14). Infatti, il danno epatico cronico, impedisce l’idrossilazione della vitamina D.
Per quanto concerne l’osteoporosi, l’ipogonadismo, il diabete, l’ipotiroidismo, la disfunzione paratiroidea, la tossicità del ferro sugli osteoblasti e le terapie ferro-chelanti concorrono tutte a determinare il danno osteoporotico.
Vari studi attribuiscono la precoce perdita di massa ossea con cambiamenti a livello strutturale osseo all’effetto tossico del ferro generato tramite l’aumento dei ROS e delle citochine pro infiammatorie. È presente un aumento dell’espressione del RANK-L (15), con incremento dei marker di riassorbimento osseo e riduzione di quelli di formazione (osteocalcina), e quindi una sproporzione tra attività osteoclastica ed osteoblastica a favore della prima.
La deferoxamina inoltre, inibisce la sintesi di DNA negli osteoblasti, la proliferazione dei fibroblasti, la differenziazione dei precursori degli osteoblasti, la formazione di collagene e produce anche un effetto apoptotico sugli osteoblasti in pazienti che la utilizzano a forti dosaggi (16).
In caso di osteoporosi secondaria si suggeriscono vari provvedimenti terapeutici, quali una efficace terapia ferro-chelante, una stabilizzazione del compenso metabolico e quindi una terapia sostitutiva ormonale con estrogeni transdermici nelle donne e gonadotropina corionica nei maschi, terapia con vitamina D, calcio, bisfosfonati per la loro capacità di inibire il riassorbimento osseo.
Conclusioni
Il caso clinico presentato mostra l’ampio spettro delle complicanze di natura endocrina associate all’emocromatosi, prima tra tutte il diabete.
Innanzitutto per la valutazione del compenso glicemico, sono stati presi in considerazione sia l’emoglobina glicata sia i profili glicemici, prestando particolare attenzione a questi ultimi. Nei pazienti con emocromatosi, infatti, i valori di emoglobina glicosilata tendono ad essere sottostimati in quanto l’aumentato turnover dei globuli rossi associato alla salassoterapia riduce il tempo di esposizione alla glicosilazione (1). Dal punto di vista fisiopatologico, un ruolo centrale nella genesi del diabete è certamente svolto dal deficit secretivo delle cellule beta che rende necessaria la terapia insulinica. Non meno importante è l’insulino resistenza, dovuta all’accumulo di ferro, che si riscontra a livello dei principali tessuti bersaglio (quali fegato e muscolo) e che giustifica, come nel nostro caso, l’utilizzo di terapie insulino-sensibilizzanti, come metformina e pioglitazone. Nel caso della nostra paziente un importante ostacolo al raggiungimento di un adeguato compenso glicemico è stata l’insulino resistenza a livello del sottocute che ha reso non efficace l’insulina somministrata per via sottocutanea. Ciò ha richiesto l’impianto off-label di microinfusore insulinico per l’infusione endovenosa attuata mediante la predisposizione di port-a-cath per accesso venoso. Questa metodica, seppur non scevra da complicanze, ha permesso il raggiungimento di un discreto compenso glicemico con un positivo impatto sulla qualità di vita della paziente.
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